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Tag: medio oriente

Doomsday clock – La strategia USA fallisce su tre fronti – Guerrilla Radio

Per la rubrica Doomsday clock intervistiamo Roberto Iannuzzi, autore nel 2014 di Geopolitica del collasso e nel 2017 di Se Washington perde il controllo – crisi dell’unipolarismo americano nonché curatore del sito e della newsletter di politica internazionale Intelligence for the people. Una panoramica sulla crisi
geopolitica che spazia dal teatro mediorientale a quello europeo, fino al confronto strategico nel Mar Cinese, dove la strategia USA sembra arrancare tra nuovi attori globali emergenti e vecchi partner locali che cercano il modo di perseguire i propri interessi all’ombra del potere imperiale.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

I procuratori dell’Aja chiedono il mandato d’arresto internazionale per Netanhyau e Gallant – ft. Romana Rubeo

I procuratori dell’Aja chiedono il mandato d’arresto internazionale per Netanhyau e Gallant e poi ancora: Il Presidente dell’Iran Ebrahim Raisi e il Ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian sono morti in un incidente aereo, la notizia è ormai confermata dalla Tv di Stato iraniana. Cosa succede ora a Teheran? Come cambiano gli equilibri interni? Quali reazioni dobbiamo aspettarci dal resto del mondo? A trovare i resti dell’elicottero un drone che la Turchia aveva fornito in aiuto alla Repubblica Islamica dell’Iran per aiutare nel ritrovamento e negli eventuali soccorsi. Le due autorità si erano recate in una regione occidentale dell’Iran, al confine con l’Azerbaijian per l’inaugurazione di una diga. Ne parliamo con Romana Rubeo. Buona visione!

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LA BOLLA – Offensiva di Kharkiv: gli ucraini hanno definitivamente perso l’est del paese?

Edizione speciale de La Bolla con Clara Statello, Gabriele Germani, Alberto Fazolo e il Marru per la consueta panoramica domenicale sui fronti caldi.

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Il regime feudale saudita prova a salvarsi abbonando agli USA lo sterminio dei palestinesi

Dopo settimane e settimane di pipponi pieni di speranza sulle magnifiche sorti e progressive del nuovo ordine multipolare, l’implosione dell’imperialismo – e, già che ci siamo, pure del lato più feroce e distopico del capitalismo che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni – oggi, invece, è una giornata di lutto; nonostante tutto il nostro wishful thinking e gli sforzi disumani messi in campo dalle diplomazie russe e cinesi, alla fine sembra proprio avesse ragione Matteo Renzi: nei regimi monarchici assolutisti del Golfo spira un vento di rinascimento. E quando un sicario del volto più feroce del capitalismo monopolista finanziario come Renzi parla di rinascimento, per noi e per il 99% può significare una cosa sola: enormi, giganteschi, smisurati cazzi volanti che si insinuano dal buco del culo, risalgono su su lungo tutto l’intestino fino all’esofago e ci sventrano in due.
A conclusione della sessione speciale del World Economic Forum che si è tenuta a Riad nei giorni scorsi, infatti, il segretario di stato USA Anthony Blinken e quello Saudita Faisal bin Farhan hanno annunciato all’unisono che i negoziati per un accordo di sicurezza tra i due paesi sarebbero quasi completati e anche se in cosa consisterebbe questo accordo nel dettaglio nessuno ancora lo sa, i pilastri principali sembrano essere piuttosto chiari e non lasciano presagire nulla di buono: in soldoni, riporta la testata della sinistra antimperialista libanese Al Akhbar, si tratterebbe di un obbligo di difesa del regime assolutista dei Saud da parte di Washington, sulla falsariga di quelli in essere con Corea del Sud e Giappone; un primo passo per arrivare in futuro, magari, a un vero e proprio vincolo di mutuo soccorso come quello in vigore tra i paesi che aderiscono alla NATO, ma non solo. L’accordo prevederebbe, infatti, anche la rinuncia da parte saudita di proseguire sulla strada della cooperazione tecnologica con i nemici degli USA e dell’imperialismo, a partire – ovviamente – dalla Cina. I più schierati, come la testata filo iraniana Al Mayadeen, cercano a tutti i costi di vedere il bicchiere mezzo pieno e sottolineano come si tratti in realtà di un “piano B, che esclude Israele”, ma pur con tutta la buona volontà e con tutti i distinguo dal trionfalismo becero della propaganda suprematista al servizio dell’impero, a questo giro a noi sembra ci sia veramente molto poco da festeggiare. Ma prima di provare a capire per bene perché, vi ricordo di mettere un like a questo video perché, che si vinca o che si perda, ora e sempre algoritmo merda e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche (soprattutto oggi, che non abbiamo molto altro da festeggiare).
Prima che il 7 ottobre scorso l’operazione diluvio di al aqsa riaprisse la partita, molti analisti occidentali davano per quasi fatta l’adesione definitiva della monarchia assoluta saudita agli accordi di Abramo, il piano architettato dall’amministrazione criptofascista di parrucchino The Donald e, dopo alcuni tentennamenti, fatto proprio dal compagno Rimbambiden che cercava di garantirsi l’egemonia imperialista sul Medio Oriente permettendo, allo stesso tempo, agli USA di disimpegnarsi dalla gestione diretta della sicurezza dell’area: l’idea era quella di consolidare l’alleanza strategica tra l’avamposto sionista dell’imperialismo USA e le fazioni più retrograde e reazionarie dell’area, incarnate dai regimi assolutisti premoderni delle petromonarchie del Golfo, in modo da creare un blocco sufficientemente potente da poter contrastare la lotta sovranista e popolare per la decolonizzazione del Medio Oriente – guidata dall’Iran e dall’asse della resistenza – senza dover necessariamente continuare a ricorrere direttamente a Washington. Grazie alla rivoluzione avviata dal compagno Obama che, a costo di devastare completamente gli Stati Uniti manco fossero la Cina dei primi anni ‘80, ha regalato al suo paese l’autosufficienza energetica a suon di fracking, l’interesse concreto diretto degli USA per le ricchezze del sottosuolo mediorientale, ovviamente, è diminuito sensibilmente; quello che ancora non è diminuito – anzi, semmai è aumentato – è l’obiettivo di impedire che altre aree del mondo escano dalla sfera d’influenza dell’imperialismo e vadano a rafforzare le fila di chi cerca spazi di autonomia strategica e contribuisce alla creazione di un nuovo ordine multipolare, soprattutto se, appunto, si tratta di aree che per la ricchezza di materie prime indispensabili per continuare ad alimentare la crescita (in particolare cinese) hanno un valore strategico così rilevante.
Il piano USA, però, era stato ostacolato a più riprese da una lunga serie di avversità: la debacle di USA e alleati che, tramite i loro proxies fondamentalisti, avevano causato la guerra mondiale per procura in Siria, aveva sollevato più di qualche dubbio sulla reale capacità della superpotenza militare a stelle e strisce di garantire la sicurezza agli alleati dell’area, un dubbio che era diventato sempre più concreto mano a mano che si manifestava l’incapacità di arrestare la lotta di liberazione dello Yemen guidata da Ansar Allah. Cosa che, nel tempo, aveva spinto Riad a cercare una qualche forma di distensione, perlomeno temporanea, con l’Iran; una distensione che poi si era evoluta in una vera e propria riapertura ufficiale dei rapporti diplomatici grazie all’intermediazione della Cina che, nel frattempo, è diventata di gran lunga il primo partner commerciale dell’Arabia Saudita, della quale assorbe il grosso del petrolio che agli USA non serve più. Ma non solo; con lo scoppio della fase 2 della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’imperialismo ha dato un’ulteriore prova di debolezza: ha intaccato ancora di più il mito dell’invincibilità della macchina bellica USA e ha spinto i sauditi a intensificare le relazioni con i partner impegnati nella costruzione di un nuovo ordine multipolare, fino addirittura ad aderire ufficialmente ai BRICS+.

Jamal Ahmad Khashoggi

Inoltre, c’è anche un aspetto sovrastrutturale che ha spinto Riad sempre più verso est; e la sovrastruttura, quando hai a che fare con un paese premoderno che, quindi, assomiglia davvero alla caricatura che fanno gli analfoliberali alla Rampini di paesi complessi come la Cina o la Russia – dove, secondo loro, c’è uno che si sveglia la mattina e prende decisioni a caso a seconda dell’umore – conta parecchio. L’aspetto in questione è la reazione di Biden all’assassinio (con tanto di spezzettamento in pieno stile pulp) del povero Jamal Khashoggi, che ha visto sleepy Joe impegnato nel tentativo di fare contenta la sua base di ipocriti fintoprogressisti e bombaroli dirittumanisti accusando apertamente gli alleati sauditi e raffreddando platealmente i rapporti; ciononostante, l’ombra dell’accordo di Abramo e, quindi, di un ritorno all’ovile del sostegno al progetto neocoloniale dell’impero continuava a incombere: d’altronde, il regime saudita è un regime premoderno e antistorico che può sperare in una sua sopravvivenza nella sua forma attuale soltanto ancorandosi a un progetto più complessivo di repressione generalizzata delle istanze popolari nel Medio Oriente. Inoltre le oligarchie saudite, come quelle dei fratelli coltelli emiratini, anche se ora si stanno un po’ divertendo a giocare con un po’ di investimenti produttivi per differenziare l’economia ed emanciparla gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili, sono totalmente integrate nel grande schema Ponzi della speculazione finanziaria globale e, quindi, vedono nella sopravvivenza dell’imperialismo finanziario un loro interesse vitale.
C’è anche un altro aspetto, poi, da tenere in considerazione, che è di nuovo frutto della guerra per procura in Ucraina, ma che spinge in direzione opposta e, cioè, il fatto che la graduale scomparsa del petrolio russo dall’Europa come conseguenza delle sanzioni apriva un’opportunità straordinaria per Riad per emanciparsi dalla dipendenza da Pechino come principale acquirente, variabile di non poco conto soprattutto dal momento che mentre Pechino la transizione ecologica la sta facendo davvero, l’Europa la fa solo a chiacchiere e, fra pochino, manco più con quelle. Poi, però, è arrivato il 7 ottobre e, soprattutto, il genocidio dei palestinesi del quale, ovviamente, a Bin Salman e alla sua cricca di oligarchi non gliene può fregare di meno; ai popoli del Medio Oriente, però, sì e quindi, per non regalare l’egemonia su tutta l’area all’Iran e all’asse della resistenza, Riad ha dovuto far finta di essere indignata. Certo, non che abbia mosso mezzo dito per contrastare la pulizia etnica, ma, per lo meno, ha dovuto rimandare ogni possibile trattativa con Israele a sterminio completato.
Ed ecco che, finalmente, siamo arrivati a oggi: Stati Uniti e Arabia Saudita si avvicinano al patto di difesa inteso a rimodellare il Medio Oriente titolava ieri entusiasta Bloomberg; “Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita” commenta l’articolo “si stanno avvicinando a un patto storico che offrirebbe garanzie di sicurezza al regno e traccerebbe un possibile percorso verso legami diplomatici con Israele”. “L’accordo” concede Bloomberg “deve affrontare numerosi ostacoli, ma equivarrebbe a una nuova versione del piano che è stato affondato quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele ha innescato il conflitto a Gaza. I negoziati tra Washington e Riad infatti hanno subito un’accelerazione nelle ultime settimane, e molti funzionari sono ottimisti sul fatto che potrebbero raggiungere un accordo entro poche settimane”; “Un simile accordo” continua l’articolo “rimodellerebbe potenzialmente il Medio Oriente e oltre a rafforzare la sicurezza di Israele e dell’Arabia Saudita, rafforzerebbe la posizione degli Stati Uniti nella regione a scapito dell’Iran e persino della Cina”. Secondo Bloomberg l’accordo garantirebbe ai sauditi l’accesso a sistemi d’arma USA prima preclusi, in cambio del quale il principe Bin Salman sarebbe disposto a limitare l’ingresso di tecnologia cinese a patto che gli USA aiutino il regno a sviluppare tecnologia nei campi dell’intelligenza artificiale, del quantum computing e dell’energia nucleare, un aut aut che ha già portato a un successo USA negli Emirati dove g42, l’azienda leader dell’intelligenza artificiale, ha accettato di porre fine alla cooperazione con la Cina in cambio di un investimento da parte di Microsoft; “Una volta raggiunto l’accordo” continua Bloomberg, l’ipotesi è che venga presentato a Netanyahu che, a quel punto, potrà decidere “se aderire, e quindi stabilire per la prima volta legami diplomatici con l’Arabia Saudita, e approfittare di maggiori investimenti e di maggiore integrazione economica regionale, o essere messo da parte”.
“Le condizioni poste a Netanyahu però non sarebbero roba da poco” e cioè “porre fine alla guerra di Gaza e accettare un percorso verso uno Stato palestinese”: “Si tratta di un atto strategico tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che ha lo scopo di proteggere e consolidare la posizione dell’America in Medio Oriente in un momento in cui il regno stava diversificando le sue opzioni di politica estera e allontanandosi da Washington” ha affermato Firas Maksad del Middle East Institute; le condizioni che i sauditi imporrebbero a Netanyahu sono sicuramente complicate per Israele, soprattutto se considerato che fino a pochi mesi fa “se non fossero stati attaccati con il diluvio di al aqsa” come sottolinea Al Akhbar “erano quasi riusciti a farla franca con un accordo simile del tutto gratuitamente” e, cioè, senza nessuna richiesta aggiuntiva. A ben vedere, però, il problema del cessate il fuoco, molto banalmente, non fa che rimandare l’estensione dell’accordo a Israele a quando avrà completato la sua opera di sterminio e di pulizia etnica e quello di “accettare un percorso verso uno stato palestinese” non sarebbe altro che una riproposizione ancora più farsesca della gigantesca presa per il culo che è stata Oslo, con in più la Palestina ormai sostanzialmente ridotta a due grandi campi profughi che non hanno nessunissima possibilità concreta di formare uno Stato minimamente autonomo; in sostanza, sottolinea Al Akhbar, USA e Israele sembrano considerare il regno una sorta di “moglie che cerca di migliorare le sue condizioni di vita nella sua casa coniugale, ma non ha alternative al marito anche se non le dà ciò che chiede, il che potrebbe significare che l’Arabia Saudita alla fine potrebbe scegliere di accettare la normalizzazione accontentandosi delle garanzie americane, ma senza ottenere alcuna concessione da parte del nemico israeliano”.
Alla fine, il sanguinario regime distopico sionista e quello feudale saudita sembrano essere uniti da un’esigenza comune che sovrasta tutte le altre: che gli USA non abbandonino l’area, per garantire con la sua superpotenza militare che i loro regimi contrari agli interessi del 99% non vengano travolti dalle lotte popolari e anticoloniali – che è l’unico aspetto a cui, a questo giro, ci possiamo attaccare per vedere comunque le difficoltà che gli USA incontrano per perpetrare il loro sistema imperialistico nonostante il declino; dall’Ucraina al Medio Oriente, il loro impero, per rimanere in piedi, non si può affidare interamente ai proxies, ma richiede il loro impegno diretto. E l’impegno diretto su tutti i fronti caldi della guerra dell’imperialismo contro il resto del mondo è un compito che, comunque, va oltre le loro possibilità. Per chi, proprio a causa della ferocia imperialista, è costretto a fare lo slalom tra le bombe o a rischiare di essere fucilato mentre è in fila nella speranza di ricevere un tozzo di pane, potrebbe non essere una consolazione sufficiente; la grande battaglia di liberazione globale per mettere fine all’imperialismo e costruire un nuovo ordine multipolare più equo e democratico è un’esigenza storica inaggirabile. Pensare che sia un percorso lineare che porta verso il sol dell’avvenire sarebbe puerile: la battaglia è appena cominciata e, forse, l’unica nota veramente positiva di oggi è che sappiamo che a combatterla ormai siamo in parecchi.
A partire dalle migliaia di manifestanti che nelle università americane, nonostante una morsa repressiva che se fosse avvenuta in Russia, in Cina o in Iran sarebbe bastata agli analfoliberali per chiedere di raderle al suolo, continuano a occupare strade e piazze in nome di un sogno concreto che non ci faremo rovinare dai capricci di un principe multimiliardario. Prepariamoci a una lunga battaglia e armiamoci adeguatamente per vincerla, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Veto USA sull’adesione della Palestina all’ONU: una “logica da gangster”, dice l’ambasciatore cinese

Una notizia della settimana scorsa che è passata piuttosto inosservata è il veto degli Stati Uniti ad una risoluzione del consiglio di sicurezza che raccomandava all’assemblea di riconoscere la Palestina come stato membro delle Nazioni Unite. In teoria il riconoscimento della Palestina come Stato sarebbe a fondamento della soluzione dei due Stati, quella soluzione che, a livello internazionale, tutti dicono di sostenere e tutti dicono che è a fondamento del processo di pace in Medio Oriente. E a dirlo sono pure gli Stati Uniti, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la catastrofe umanitaria di Gaza… Ne parliamo in questo video!

Medio Oriente verso la guerra? Gli equilibri tra Cina, Arabia Saudita e Iran con @AntonelloSacchetti

Première d’eccezione del nostro grande amico Davide Martinotti – Dazibao che affronta le spinose tematiche geopolitiche attuali assieme ad Antonello Sacchetti, blogger e giornalista appassionato di Iran. Buona visione

L’Europa lascia cadere l’ultimo tabù e dichiara apertamente guerra alla Russia

“E’ tempo di adottare misure radicali e mettere l’Unione Europea sul piede di guerra”; la lettera di invito di Charles Michel ai leader del vecchio continente per il Consiglio Europeo iniziato ieri a Bruxelles non poteva essere più esplicita: “A due anni dall’inizio della guerra” aveva anticipato con un editoriale pubblicato dalla crème de la crème della propaganda guerrafondaia europea “è ormai chiaro che la Russia non si fermerà in Ucraina. Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare a una modalità di economia di guerra”.

Pierre Schill

Dalle dichiarazioni sull’invio di truppe NATO in Ucraina di Macron in poi, l’escalation verbale non ha fatto che procedere inesorabile e i vecchi tabù stanno rapidamente crollando uno dopo l’altro; giovedì Le Monde ha pubblicato un editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill (che non si capisce bene se c’è o ci fa): “La Francia” ha annunciato “ha la capacità di impegnare una divisione, ovvero circa 20.000 uomini, nell’arco di 30 giorni” e potrebbe “comandare un corpo fino a 60 mila uomini in coalizione, combinando una divisione francese e capacità nazionali all’estremità superiore dello spettro militare con una o più divisioni alleate”. Due ore dopo, su TF1 il colonello Vincent Arabaratier era già intento a spiegare nei dettagli dove andrebbero impiegate; le opzioni, sostiene, sarebbero sostanzialmente due: la prima che, con ogni probabilità, a breve ci verrà presentata come il male minore, prevede di posizionarle al confine con la Bielorussia per liberare truppe ucraine che potrebbero, così, raggiungere la linea di contatto sul fronte. La seconda, invece, più spregiudicata, prevede di posizionarle direttamente sulla sponda occidentale del fiume Dnepr: “Ma colonnello” gli chiede la giornalista, “il solo fatto di ammassare delle truppe lungo il Dnepr, anche se chiariamo che non spareremo mai per primi, non potrebbe essere considerata dalla Russia come una provocazione?”; “Assolutamente no” risponde il colonnello. Eh già, quando mai… “Si tratta solo di forzare la Russia a discutere, garantendo però l’equilibrio sul campo”; “I nostri soldati” ribadisce poi il colonnello a sostegno delle dichiarazioni del suo superiore a Le Monde “possono essere impiegati rapidamente, ed è uno dei vantaggi principali delle nostre forze armate rispetto ad altre, a partire dalla Germania. E non è solo una questione di qualità dei nostri soldati, ma anche perché il presidente ha i potere di dispiegare le forze immediatamente, cosa che invece non può fare il cancelliere Scholz, che deve riferire al parlamento e raccogliere il consenso del parlamento”, particolare non da poco – direi – dal momento che, ovviamente, in entrambi i casi l’invio di truppe rappresenterebbe un vero attentato alla volontà popolare: secondo un sondaggio di Elab, infatti, il 79% dei francesi si sarebbe detto contrario all’invio di truppe da combattimento in Ucraina e il 57% riterrebbe che il presidente Emmanuel Macron abbia fatto un errore madornale anche solo a esternare questa ipotesi.
Discorso diverso, invece, per le élite di svendipatria al governo in tutti i vari protettorati di Washington del vecchio continente: in soccorso a Macron, ad esempio, è arrivato subito Ben Wallace, l’ex ministro della difesa britannico del governo Johnson, quello responsabile del naufragio dei primi negoziati subito nella primavera del 2022; imitando la formula di Macron, ha affermato che l’invio di truppe britanniche in Ucraina “non può essere escluso” e, nel frattempo, ha invitato i leader di tutte le forze politiche a unirsi al suo appello per far crescere la spesa militare oltre il 3% del PIL, e di farlo subito. “Non si investe quando mancano 5 minuti a mezzanotte” ha affermato; “devi cominciare a farlo subito”. “Putin” ha sottolineato “si deve rendere conto subito che questa volta facciamo sul serio” perché, ha concluso, “credo sia la persona più vicina ad Adolf Hitler che abbiamo avuto in questa generazione”. Gli ha fatto eco l’ex capo dell’MI6, un novello dottor Stranamore di fatto e di nome: si chiama Richard Dearlove, Riccardo Stranamore, e su Politico ha tuonato “Se fermassi qualcuno per strada qui nel Regno Unito e gli chiedessi se pensa che la Gran Bretagna sia in guerra, ti guarderebbero come se fossi pazzo. Ma noi siamo in guerra, siamo impegnati in una guerra grigia con la Russia, e io non faccio altro che provare a ricordarlo alla gente”.
Per gli altri leader, invece, stringi stringi il problema è esclusivamente di public relation; in soldoni, si tratta solo di capire modi e tempi per comunicare a una popolazione che, di questo suicidio, non ne vuole più sapere, quello che ormai in molti ritengono sostanzialmente inevitabile: la grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo per impedire che si metta finalmente termine a 5 secoli di dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta è appena all’inizio. Nella complicata gestione contemporaneamente di 3 fronti, per liberare energie da impiegare per il fronte principale del Pacifico gli USA hanno delegato ai servitori obbedienti del vecchio continente il fronte occidentale della Russia e, da bravi cagnolini obbedienti, non c’è valutazione razionale possibile che possa condurli a desistere dal portare avanti la loro missione: un tempo era fino all’ultimo ucraino; ora, però, gli ucraini sono finiti e tocca a noi. Siamo davvero disposti a far trucidare i nostri figli per permettere a questi svendipatria di assolvere ai loro doveri? Prima di continuare questo racconto, però, come sempre vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e anche ad attivare le notifiche ed iscrivervi a tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese.
“È questa primavera, quest’estate, prima dell’autunno che si deciderà la guerra in Ucraina”: a sottolineare l’urgenza della situazione, la settimana scorsa, era stato il compagno Josep Borrell; “I prossimi mesi saranno decisivi” aveva affermato, e “qualunque cosa debba essere fatta, deve essere fatta rapidamente”. E’ il mandato che ha ricevuto dal suo superiore diretto, il segretario di stato USA Antony Blinken, che era andato a omaggiare mercoledì scorso: ormai, in piena campagna elettorale, è ormai palese che – almeno da qua a novembre – gli USA non saranno più in grado di assistere l’Ucraina non dico tanto per invertire le sorti del conflitto (che è sempre stata, e continua ad essere, una chimera buona solo per gli allocchi analfoliberali), ma manco per evitare il collasso definitivo e la vittoria a tutto campo di Mosca.
A metterci una toppa dovranno essere le nostre élite contro il volere dei loro cittadini, una missione particolarmente ardua: decenni di dipendenza dall’apparato militare industriale USA non si invertono in pochi mesi, soprattutto dopo due anni di guerra economica a tutto campo degli USA contro l’Europa che hanno polverizzato tutte le risorse; e, infatti, il nocciolo principale ora sembra essere proprio quello. Michel parla di “economia di guerra”, ma chi sarà a finanziarla – e come – rimane un mistero; finanziarla a debito, dopo 30 anni che non fai altro che dire che ogni forma di debito, qualsiasi sia la finalità, è un peccato mortale, potrebbe non essere così banale: se ripeti continuamente una formuletta magica per decenni, inevitabilmente va a finire che poi la gente ci crede e quando, di punto in bianco, devi confessare che era tutta una messinscena per permettere alle oligarchie di fottere la gente comune, potresti incontrare qualche resistenza – soprattutto se, di lì a poco, devi pure tornare a chiedere di votarti. E’ esattamente il nodo che potrebbe impantanare le farneticazioni di Michel sull’economia di guerra ancora prima di partire: l’idea di Michel, infatti, è di emettere debito comune europeo per finanziare il riarmo, ma i frugali che, da decenni, basano il loro consenso sulla religione dell’austerity, di perdere voti per fare un favore a Washington non sembrano avercene particolarmente voglia.
In cima all’agenda, allora, torna l’idea della supertassa sui profitti che derivano dagli asset russi congelati per le sanzioni: peccato che, nella più ottimistica delle stime, potrebbe fruttare al massimo 10 miliardi l’anno, lo 0,05% del PIL; ne servirebbero almeno 10 volte tanti. L’unica soluzione allora, come sempre, rimane provare a richiamare all’ordine i capitali privati che in cambio, ovviamente, chiedono una cosa molto semplice: una garanzia a lungo termine che gli ordini continueranno ad arrivare copiosi per molti anni a venire. E l’unico modo per garantire davvero che gli ordini continueranno a venire a lungo è convincerli che, d’ora in poi, l’Europa sarà in guerra a tutto campo; dichiarare apertamente che l’Europa si sta attrezzando per mandarci tutti al macello, però, dal punto di vista dell’opinione pubblica non è esattamente una carta vincente e, quindi, riecco la favola della deterrenza: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra” cita Michel nel suo editoriale, ma ovviamente è una vaccata, sia perché non è che puoi accumulare arsenali all’infinito (a un certo punto, qualcosa con le armi che compri ce lo dovrai fare, e le armi non è che abbiano tanti utilizzi alternativi, diciamo), sia anche perché, se ti armi fino ai denti, quello che ti sta a un tiro di schioppo magari non è che si senta esattamente rassicurato. Soprattutto se, per giustificare proprio il fatto che ti stai armando fino ai denti, sei costretto a dire ai 4 venti che quello ti sta per invadere e che per te è una minaccia esistenziale e, allora, magari va a finire che la tua diventa una delle classiche profezie che si autoavverano (soprattutto se il tuo nemico, in quel momento, ha un vantaggio che – mano a mano che ti riarmi – potrebbe diminuire): ora, è anche vero che le nostre classi dirigenti sono formate da scappati di casa inadeguati a qualsiasi altra attività, ma – sinceramente – che siano così dementi da non capire questa banale sequenza logica mi sembra un po’ improbabile; cioè, Lia Squartapalle o Maurizio Gasparri magari sì, ma che siano messi tutti così non ci credo. E quindi non ne possiamo che dedurre che quando Michel parla di un’Europa sul piede di guerra non sia solo uno scivolone: l’Occidente collettivo sta premendo volontariamente e consapevolmente l’acceleratore verso la terza guerra mondiale e a noi tocca occuparci della Russia, tanto che sarà mai… “Putin porta avanti una narrazione fondata sulla paura” ha sottolineato il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, ma noi “Non dobbiamo lasciarci intimidire” perché, in realtà, “di fronte, non abbiamo una grande potenza”: “La Russia” sottolinea infatti “è una potenza media il cui PIL è molto inferiore a quello degli europei”; il problema quindi, molto banalmente, è superare le divisioni politiche che rimangono al nostro interno e, soprattutto, smetterla di fare i paciocconi e la Russia non avrà scampo, anche senza il supporto degli USA. Anzi: per noi è un’opportunità da cogliere al balzo, un incentivo a costruire finalmente l’unità politica del continente troppo a lungo rimandata.
E’ esattamente questa incrollabile fiducia sul proprio potenziale inespresso che permea tutto l’editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill su Le Monde: per Schill, infatti, il nostro problema è che veniamo da diversi anni di pace “punteggiati qua e là da limitati dispiegamenti di forze di spedizione in missioni di gestione delle crisi”; è il sogno che abbiamo coltivato dalla fine della guerra fredda, sottolinea Schill, “marginalizzare la guerra fino a metterla fuori legge, concentrare gli eserciti sulla gestione della crisi e mettere da parte della violenza” perché – si sa – fino a che a morire sono i popoli delle colonie, le guerre si chiamano gestione di crisi, e gli stermini sono umanitari e non violenti. Ora però, sottolinea Schill, “Contrariamente alle aspirazioni pacifiche dei paesi europei” dove per pace, ovviamente, si intende l’incapacità dei popoli inferiori aggrediti di opporre troppa resistenza, “i conflitti che si stanno diffondendo ai margini del nostro continente testimoniano il ritorno alla guerra come modalità di risoluzione dei conflitti”; il più grande rammarico di Schill è che “La fantasia di una guerra moderna combattuta interamente a distanza” – dove l’uomo bianco sta comodamente seduto al sicuro da una stanza di controllo e comando e, con la semplice pressione di un ditino, stermina interi villaggi – “si è dissipata” e “sono finiti i giorni in cui si poteva cambiare il corso con 300 soldati”.
Poco male, però: alla fine, si tratta – appunto – solo di cambiare atteggiamento; in particolare, la Francia “ha una serie di importanti vantaggi per quanto riguarda l’equilibrio di potere e le nuove forme di guerra. A causa della sua geografia e prosperità all’interno dell’Unione Europea” sottolinea “nessun avversario minaccia i suoi confini continentali” e “al di fuori della Francia continentale, le sfide alla sovranità dei territori francesi rimangono marginali”. Ciononostante, “La Francia ha la capacità di impiegare nell’arco di 30 giorni” nientepopodimeno che un’intera divisione, “ovvero circa 20 mila uomini” e senza contare che, poi, c’è sempre “la deterrenza nucleare” che “salvaguarda gli interessi vitali della Francia”; l’unica cosa che le manca, sostiene Schill, è un po’ di spavalderia in più: “Per difendersi dalle aggressioni e difendere i propri interessi” sottolinea Schill “l’esercito francese” non solo si deve preparare “agli scontri più duri”, ma lo deve dimostrare e far sapere al mondo intero. Non per rompere le uova nel paniere al simpatico Schill, ma ho come l’impressione che le caratteristiche elencate, per incutere timore sulla Russia potrebbero non essere esattamente sufficienti: i suoi 20 mila uomini non sembrano poter troppo intimorire gli oltre 600 mila che Putin ha dichiarato di aver mandato in Ucraina e le sue 290 testate nucleari potrebbero non essere esattamente sufficienti a disincentivare la Russia, che ne ha oltre 6000.
Anche sul fronte della potenza economica, la storiella trita e ritrita della Russia stazione di servizio con la bomba nucleare si è abbondantemente rivelata essere poco più di una leggenda metropolitana – e la spettacolare resilienza di fronte a due anni del più vasto regime di sanzioni di sempre dovrebbe avercelo abbondantemente dimostrato; d’altronde, in qualche misura, era prevedibile: a parità di potere d’acquisto, la Russia – come ha ricordato recentemente lo stesso Putin – è la quinta economia mondiale. Ora, su quanto pesi il calcolo del prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto ci sono molte scuole di pensiero diverse (e tutte hanno una parte di ragione, anche quelle che lo considerano un parametro poco significativo), a meno che un paese non abbia un surplus commerciale significativo: nel caso un paese esporti, nel complesso, molto più di quello che importa, il prodotto interno nominale in dollari significa poco o niente e, guarda caso, è esattamente il caso della Russia; una prova su tutte? Quando, nel 2014, scoppiò la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, nell’arco di pochi mesi il rublo precipitò: se prima, per comprare un dollaro, bastavano 37 rubli, ora ne servivano oltre 70; risultato? il PIL nominale in dollari passò dagli oltre 2.000 miliardi del 2014 a meno di 1.400 nel 2015, per poi diminuire ancora sotto soglia 1.300 nel 2016, dimezzato. Ora, immaginatevi se domani, dal giorno alla notte, si dimezzasse il PIL italiano: sarebbe una catastrofe; eppure, in Russia, praticamente manco se ne accorsero. Il loro PIL, a parità di potere d’acquisto, era rimasto inalterato e se sei un paese che esporta più di quello che importa, alla fine – tagliando tutto con l’accetta – è quello che misura la tua potenza economica: l’idea, quindi, che sul fronte europeo sia solo questione di superare le divisioni politiche e di riaggiustare un po’ il tiro dopo decenni di fantomatica utopia pacifista – ammesso e non concesso che sia così semplice – potrebbe rivelarsi un po’ troppo ottimistica.

Charles Michel

Questa deriva drammatica, comunque, potrebbe avere anche un paio di conseguenze positive: la prima è che, finalmente, i leader europei, per dare una parvenza di sovranismo alla scelta del riarmo per mandato e in conto di Washington, ammettono candidamente che – fino ad oggi – si sono fatti dettare la politica estera; prima è stato il turno di Michel che ha ammesso candidamente che, fino ad oggi, siamo sempre stati “in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti” e poi l’ha ribadito pure la nostra Giorgiona la madrecristiana. “Occorre smettere di essere ipocriti” ha dichiarato di fronte al senato: “Se chiedi a qualcuno di occuparsi della tua sicurezza, devi prendere in considerazione che quel qualcuno avrà grande voce in capitolo quando si tratterà di discutere di dinamiche internazionali”. La seconda, invece, è che ormai si fa avanti la consapevolezza che se vuoi fare contemporaneamente la guerra alla Cina e alla Russia, per lo meno in Medio Oriente una qualche soluzione la devi trovare; ed ecco, così, che anche la Giorgiona, dopo aver chiaramente ricordato che la colpa del genocidio in corso a Gaza è tutta di Hamas, che “Non possiamo dimenticare chi ha scatenato questo conflitto” e che i civili a Gaza sono prima di tutto “vittime di Hamas, che le utilizza come scudi umani”, “nell’interesse di Israele” ci ha tenuto a ribadire la contrarietà del nostro governo “a un’azione militare di terra a Rafah”: d’altronde, a parte le considerazioni geopolitiche, Giorgia è prima di tutto una madrecristiana e alle piccole creature ci tiene. Ed è per questo che ribadisce che l’Italia, su indicazione di Israele, non riprenderà a finanziare l’UNRWA, il che, però, “non vuol dire non occuparsi dei civili di Gaza, perché i medici dei nostri ospedali pediatrici hanno curato finora almeno 40 bambini palestinesi”, cioè uno ogni 400 bimbi trucidati.
E se, alla fine, si scoprisse che il motivo di tutte queste incomprensioni e valutazioni sballate è, semplicemente, che quei casi umani che guidano il nostro paese e l’Europa tutta hanno dei problemi irrisolvibili con la matematica più elementare? Viviamo nella peggiore delle distopie, con l’armageddon che si avvicina e le classi dirigenti – e la propaganda che le sostiene – che sembrano vivere in un universo parallelo; organizzare la resistenza non è più semplicemente un dovere morale: è puro spirito di sopravvivenza. Per farlo, abbiamo bisogno prima di subito di un vero e proprio media che smonti i deliri della propaganda suprematista pezzo dopo pezzo e dia voce alla pace e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lia Squartapalle

Petroliere in fiamme e basi senza difesa: è arrivata la fine del dominio USA in Medio Oriente?

Dopo 3 settimane di attacchi USA alle installazioni militari di Ansar Allah, “quei quattro beduini” – come li ha definiti in un commento qualche suprematista sulla nostra bacheca – sono talmente devastati che venerdì notte, nell’arco di poche ore, hanno prima colpito in pieno una petroliera del colosso del commercio di materie prima Trafigura e poi hanno preso di mira una nave da guerra della coalizione costringendola, per l’ennesima volta, a spendere qualche milione per intercettare un’arma che ne costa poche decine di migliaia; e il vero weekend di paura doveva ancora iniziare: domenica infatti, per la prima volta dall’inizio della fase terminale del genocidio di Gaza, a lasciarci le penne sono stati direttamente 3 soldati USA, con altri 34 che non se la passano esattamente benissimo, diciamo.

John Helmer

E la conta delle vittime è il problema minore: come scrive il leggendario giornalista ed analista statunitense trapiantato a Mosca John Helmer sul suo blog, l’attacco della fazione irachena dell’asse della resistenza alla Tower-22 giordana sta alla credibilità delle forze armate USA come l’operazione diluvio di Al-Aqsa sta a quella dell’intelligence israeliana : “L’attacco” scrive “dimostra che sia la postazione di Tower-22 che l’intero complesso militare di Al-Tanf, sia sul lato giordano che su quello siriano, sono vulnerabili alle armi che le forze statunitensi non sono riuscite a rilevare e neutralizzare. Come è altrettanto vulnerabile anche l’imponente base aerea statunitense di Muwaffaq Salti, 230 chilometri ad ovest in territorio giordano”. Helmer, inoltre, racconta che le sue fonti all’interno delle forze armate USA ci vedono anche lo zampino russo: le basi statunitensi dell’area, infatti, “generalmente” scrive Helmer “affidano la loro difesa a sistemi C-RAM” che sta per Counter rocket, artillery, and mortar e, sostanzialmente, descrive l’insieme di sistemi utilizzati per rilevare e/o distruggere razzi, artiglieria e colpi di mortaio in arrivo prima che colpiscano i loro bersagli a terra o, perlomeno, in grado di fornire un’allerta precoce, sistemi che – sottolinea Helmer – “sono stati inviati in Ucraina a partire dall’anno scorso, dove i russi hanno imparato ad aggirarli”. Fino ad adesso, in Medio Oriente gli USA hanno fatto un buon lavoro nell’abbattere i droni e oggi, sottolinea Helmer, sembra una coincidenza un po’ strana che facciano cilecca “nemmeno una settimana dopo gli incontri a Mosca con arabi, iraniani e yemeniti”; “i sistemi su cui USA e alleati facevano affidamento” conclude Helmer “sono stati sconfitti prima dai russi sulla terraferma in Ucraina, e ora che vengono impiegati per difendere le nostre navi nel Mar Rosso, rischiano di essere sconfitti anche lì. E le implicazioni sono enormi: anche il più piccolo paese marittimo, a costi molto contenuti, oggi è in grado di infliggere danni considerevoli agli attori tradizionalmente dominanti”. “Ad essere onesti” scrive Simplicius the thinker sul suo blog “è difficile immaginare come questa situazione potrebbe risolversi senza un ritiro totale degli Stati Uniti dal Medio Oriente o in alternativa nell’esplosione di una nuova grande guerra”.
Il tempo del dominio incontrastato dell’Occidente collettivo a guida USA in Medio Oriente sta andando incontro al suo epilogo?
“Era solo questione di tempo” commenta affranto l’Economist: “a partire dal 7 ottobre”, ricorda la testata britannica, “i gruppi sostenuti dall’Iran hanno lanciato droni e razzi contro gli avamposti americani in tutto il Medio Oriente in 160 occasioni. Quasi tutti hanno mancato il bersaglio o sono stati abbattuti. fino a domenica scorsa, quando uno è riuscito a passare, e ha ucciso 3 soldati americani e ne ha feriti altri 34”; secondo l’Economist si tratterebbe nientepopodimeno che del “primo attacco aereo mortale contro le forze di terra americane dalla Guerra di Corea” e rischia di costringere l’amministrazione Biden a fare una scelta avventata. “La retorica dell’amministrazione Biden, in Iran” ha scritto su X il famigerato senatore repubblicano Lindsey Graham “cade nel vuoto”; “potete eliminare tutti i rappresentanti iraniani che volete” continua, “ma questo non scoraggerà l’aggressione iraniana”. La soluzione è quella classica, la sola buona per tutte le stagioni che un redneck con una quantità di neuroni che si contano sulle dita di una mano può elaborare: “Colpite l’Iran adesso. Colpitelo forte” scrive Graham, con quel linguaggio tipico dello statista di indiscusso spessore; “Chiedo all’amministrazione Biden di colpire obiettivi significativi all’interno dell’Iran” insiste Graham “non solo come rappresaglia per l’uccisione delle nostre forze, ma come deterrente contro future aggressioni”. E Lindsey Graham non è certo l’unico assetato di sangue: anche dal cuore dell’establishment clintoniano arrivano segnali di insofferenza: “Dovremo riflettere di più su ciò che facciamo affinché gli iraniani capiscano che qui c’è un rischio, e non è un rischio che loro vogliono correre” avrebbe affermato l’ex inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente ai tempi dell’amministrazione Clinton Dennis Ross; “se il carattere della nostra risposta rimane lo stesso adottato fino ad ora” conclude “il messaggio è che possono continuare così e non gli costerà nulla”.
La tesi dei suprematisti di entrambi gli schieramenti politici è sostanzialmente sempre la stessa: gli USA, dall’alto della loro incontrastata superiorità tecnologica e militare, potrebbero facilmente chiudere la partita, ma sono troppo buoni per farlo. Potrebbe non essere così semplice: secondo Simplicius, l’ipotesi di un nuovo intervento sul campo, infatti – ammesso e non concesso abbia senso – “richiederebbe come minimo un anno abbondante di preparazione”; in Iraq infatti, ricorda, ci sono voluti oltre 6 mesi “solo per trasportare materiali e risorse nella regione, allestirli, ecc.” “ma l’Iran” continua “non permetterebbe tutto questo, perché ha sistemi balistici moderni molto più sofisticati di qualsiasi cosa avesse l’Iraq, il che significa che le grandi concentrazioni di truppe e le aree di sosta di armature e materiali potrebbero essere colpite e spazzate via molto prima dell’ora zero”. “L’unica cosa che potrebbero tentare, al limite” continua Simplicius “è una campagna aerea di lunga durata. Ma scalfire anche solo lontanamente le capacità dell’Iran richiederebbe una vasta campagna della durata di almeno 6-12 mesi e probabilmente molto di più. Un periodo durante il quale l’Iran chiuderebbe tutti i principali punti di strozzatura marittima ed economica della regione, mandando in crash l’economia globale”; “Se pensate che il fatto che alcune navi oggi vengano colpite nel Mar Rosso sia un male” conclude Simplicius “aspettate di vedere le forze iraniane regolari, invece che gli Houthi, colpire tutto ciò che vedete: non sarà carino”. Spinta dai mal di pancia sempre più diffusi nell’intero arco costituzionale USA – ma impossibilitata a perseguire una qualsiasi soluzione finale – l’amministrazione Biden quindi, con ogni probabilità, farà di nuovo quello a cui ci ha abituato da un paio di anni a questa parte: aumenterà un pochino il livello del conflitto causando un po’ di distruzione in più senza, sostanzialmente, ottenere una seganiente.

John Raine

“Gli Stati Uniti” ha dichiarato all’Economist l’ex diplomatico britannico John Raine, “cercheranno di trovare una risposta che sia proporzionata e non implichi un’escalation, ma che allo stesso tempo sia anche efficace come deterrente”; peccato però che” continua Raine “nelle attuali condizioni della regione e con l’attuale schiera di attori ostili attivi, si tratti di un compito estremamente arduo. E almeno su uno di questi criteri dovrà cedere”. Per uscire da questo collo di bottiglia ecco allora che i pochi consiglieri USA che non sono cascati dal seggiolone da bambini hanno ricominciato a porre in varie forme la domanda delle domande: ma perché mai gli USA non prendono atto della realtà e non se ne vanno finalmente dal Medio Oriente? “Dovremo chiederci” ha affermato, ad esempio, l’ex ufficiale dei Marines Gil Barndollar “se vale davvero ancora la pena la presenza delle truppe statunitensi in Iraq e Siria”. Giovedì scorso intanto, ricorda il sito Analisi difesa, “Il ministero degli esteri iracheno ha reso noto che è stato concordato con gli USA di formulare un calendario che specifichi la durata della presenza della coalizione internazionale contro l’ISIS in Iraq, sottolineando che l’accordo prevede l’inizio della graduale riduzione di tali forze”; a sua volta poi, continua Analisi difesa, “Il ritiro delle forze americane in Iraq renderebbe inoltre logisticamente impossibile sostenere le truppe schierate nelle basi situate nella Siria orientale”. Il ritiro totale delle truppe dalla Siria d’altronde – dove, ricordiamo, gli USA sono presenti come vera e propria forza di occupazione senza uno straccio di legittimità – era già stato ventilato dall’amministrazione Trump; all’epoca però, ricorda sempre Analisi difesa, “il Pentagono convinse la Casa Bianca a mantenere la presenza di truppe a sostegno delle milizie curde situate nei pressi di alcune basi russe con l’obiettivo di impedire a Damasco di riprendere il controllo dei pozzi petroliferi dell’est”. Ora che entriamo nel bel mezzo della contesa presidenziale, però, la questione torna a fare capolino; un bel rompicapo perché, nel frattempo, il ruolo della Russia nell’area sembra consolidarsi continuamente: l’ultima novità, ricorda ancora Analisi difesa, è “la recente decisione di Mosca di impiegare i propri aerei schierati in Siria alla fine del 2015 nella base di Hmeymin, per sorvolare l’area di confine con Israele nel Golan”, una scelta – continua Analisi difesa – “che sembra indicare la volontà di Mosca di porsi come garante di Damasco anche nei confronti di Israele, che nel frattempo continua a colpire in territorio siriano milizie e obiettivi legati all’Iran”. In questo contesto, sottolinea ancora Analisi difesa, “Il ritiro statunitense dalla Siria costituirebbe quindi una grande vittoria per la Russia, l’Iran e per il governo siriano di Bashar Assad”, un’alleanza che continua a consolidarsi e a espandersi: come riporta John Helmer, infatti, giusto la settimana scorsa “in tutta Mosca, delegazioni insolitamente numerose di funzionari del consiglio di sicurezza russo, guidate da Nikolai Petrushev e Ali-Akbar Aahmadian, rappresentante speciale presidenziale e segretario del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, si sono incontrate per discutere un ordine del giorno dettagliato che prevede un’ampia cooperazione in materia di sicurezza russo – iraniana e l’attuazione pratica degli accordi raggiunti al più alto livello”. Il negoziato avrebbe dato il via alla firma definitiva di un nuovo accordo ventennale tra Russia e Iran che, stando a quanto riportato da Simon Watkins su Oilprice, “rafforza esponenzialmente il legame tra i due paesi, a partire proprio dalla difesa e dalle politiche energetiche”; “Il nuovo accordo” sottolinea Watkins “dà alla Russia il primo diritto di estrazione nella sezione iraniana del Mar Caspio, compreso il giacimento potenzialmente enorme di Chalous” che, secondo le stime più recenti, ammonterebbe alla cifra spaventosa di 250 miliardi di metri cubi di gas: e come sempre, le politiche energetiche vanno a braccetto con la difesa, dove il nuovo accordo rafforzerebbe enormemente la collaborazione sul fronte della guerra elettronica al quale si va ad aggiungere la questione dei missili, con nuovi missili destinati ad essere inviati in Iran dalla Russia. “Il personale selezionato del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” scrive Watkins “sarà addestrato sugli ultimi aggiornamenti russi di diversi missili a corto e lungo raggio: dai Kinzhal, all’Iskander, prima che inizi il piano per fabbricarli su licenza in Iran, con l’obiettivo di far sì che il 30% di essi rimanga in Iran, mentre il resto venga rispedito in Russia”; “questo” sottolinea Watkins “significa che il nuovo accordo ventennale tra Iran e Russia cambierà il panorama del Medio Oriente, dell’Europa meridionale e dell’Asia poiché l’Iran avrà una portata militare molto estesa che gli darà molta più influenza. E questo significa che i paesi di quest’area cominceranno inevitabilmente a realizzare che continuare a fare affidamento sugli Stati Uniti per la loro protezione è un’opzione molto più precaria di quanto non fosse prima”.

Mohammed Abdelsalam – Mikhail Bogdanov

Nel frattempo, giovedì sera a Mosca a incontrarsi erano stati il ministro degli esteri russo Mikhail Bogdanov e una delegazione di Ansar Allah capitanata da Mohammed Abdelsalam: “Particolare attenzione” recita il comunicato rilasciato alla fine dell’incontro dallo stesso Bogdanov “è stata prestata allo sviluppo dei tragici eventi nella zona del conflitto israelo – palestinese, così come all’aggravamento della situazione nel Mar Rosso. In questo contesto, sono stati fortemente condannati gli attacchi missilistici e bombe contro lo Yemen intrapresi dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, che sono in grado di destabilizzare la situazione su scala regionale”. “La dimostrazione di sostegno russo all’Asse della Resistenza contro Israele e gli Stati Uniti” commenta Helmer “non ha precedenti. Gli incontri del Ministero degli Esteri e del Consiglio di Sicurezza confermano che ora esiste una nuova definizione di terrorismo nella strategia di guerra russa, in cui vi è sostegno sia pubblico che segreto ad Hamas, agli Houthi e ad altri gruppi in Libano e Iraq che lottano per la liberazione nazionale contro Israele e Stati Uniti”.
La lunga era della finta pax americana è ormai un antico ricordo: forse è arrivato il momento che gli USA prendano atto di quanto rapidamente, drasticamente e irreversibilmente è venuta meno la loro capacità di determinare a proprio piacimento gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta e si concentrino magari un po’ di più su casa loro prima che, oltre a perdere l’Ucraina e il Medio Oriente, non si ritrovino a perdere pure il Texas. Ma sollazzarsi alla vista del vecchio che muore potrebbe non essere sufficiente: dobbiamo continuare anche a fare tutto il possibile perché finalmente nasca il nuovo e per combattere tutti i fenomeni morbosi che questa lunga e dolorosa fase di transizione genera necessariamente. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte della pace e degli interessi concreti del 99%, dallo Yemen alla periferia di Houston e, soprattutto, a casa nostra. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bill Clinton

Se l’Islam diventa Avanguardia dell’Antimperialismo – ft. Matteo Capasso

La situazione in Medio Oriente è sempre più complessa e intricata: abbiamo cercato di fare un po’ il punto su alcuni dei principali dossier con Matteo Capasso, editor della prestigiosa rivista Middle East Critique e, ovviamente, non potevamo non partire dallo Yemen. La semi escalation di USA e alleati non ha compattato solo lo Yemen; anche in Iraq si respira un aria diversa, in particolare a partire dall’attentato che nelle settimane scorse ha portato alla morte di uno dei principali leader delle milizie sciite del paese. Un attentato che, sotto la pressione di un’opinione pubblica sempre più radicalizzata, ha spinto il governo iracheno – che, sulla carta, non dovrebbe essere particolarmente ostile agli USA – ad alzare un po’ l’asticella e a chiedere formalmente che gli USA se ne vadano definitivamente dal territorio iracheno.
Contro questo asse della resistenza però non si schierano solo le potenze occidentali, ma tornano a galla anche attori regionali dalla natura piuttosto controversa come l’ISIS Khorasan, la filiale dell’ISIS basata in Afghanistan dove sta cercando in tutti i modi di sabotare il governo dei talebani e che ha deciso di inaugurare l’anno con l’attentato più sanguinoso della storia del regime degli ayatollah in Iran. Tra le potenze che, se non hanno direttamente sponsorizzato la nascita e l’ascesa dell’ISIS, sicuramente hanno beneficiato a più riprese della sua azione destabilizzatrice, ovviamente non ci sono soltanto gli occidentali ma anche le petromonarchie, che continuano ad avere un comportamento ambiguo: dietro la spinta dell’opinione pubblica del mondo arabo non possono non condannare Israele; dietro le quinte, però, in molti sospettano che continuino a vedere la minaccia più grande nell’Iran e, in generale, nell’asse della resistenza. L’asse della resistenza infatti, nonostante l’ideologia islamica, rappresenta in realtà al momento l’irruzione delle forze popolari nella politica del Medio Oriente, una tendenza che ovviamente è vista dai regimi dinastici feudali antimoderni del Golfo come il fumo negli occhi; da almeno 50 anni il Medio Oriente è al centro della strategia geopolitica dell’imperialismo USA. I cambiamenti ai quali stiamo assistendo sono epocali: ogni semplificazione rischia di portarci fuori strada; abbiamo bisogno di continuare a cercare di cogliere tutta la complessità senza ridurci a spettatori impassibili. Quando è in corso un genocidio sfacciato non c’è nessuna equidistanza possibile; al netto di tutte le contraddizioni possibili immaginabili, chi ambisce a restare umano sa da che parte stare e sa che gli servirebbe come il pane un vero e proprio media che, invece che alla propaganda suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu

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