¡Desaparecinema! ep. 17 – Dalla propaganda nazista al film maledetto di Jerry Lewis
Oggi parliamo del cinema che ha raccontato la Shoah e il nazismo. Shoah significa letteralmente “tempesta devastante” come si legge nella Bibbia, ed è preferito ad Olocausto, che fa riferimento al concetto di “sacrificio”. Ma la descrizione per immagini e suoni della Shoah – in quanto momento massimo dell’orrore e dell’abiezione di cui è capace l’uomo, così come altri genocidi invece poco raccontati – la ripresa filmica della Shoah, dicevo, necessita di una riflessione importante prima di essere attuata perché si rischia facilmente di cadere nella retorica, nel ricatto, nella morbosità, nella amoralità. Può il cinema rappresentare quel dolore? Può riportarlo fedelmente? Può riuscire a non cadere nella più bieca retorica? In che modo può restituirgli la sua tragica sacralità, invece che sfruttarlo a fini di spettacolarizzazione e propaganda? (quest’ultima è la domandina che dovreste tenervi in un angolo del cervello per tutta questa puntata). Questi timori sono portati all’estremo – fin quasi a sfiorare l’iconoclastia – dal cinema francese della Nouvelle Vague e raggiunsero l’apice col documentario di dieci ore Shoah (del 1985) di Claude Lanzmann, amico di Sartre e Simone de Beauvoir, fiero ebreo anticolonialista: una pellicola oggetto di migliaia di recensioni, studi, libri e seminari nelle università di tutto il mondo che ha ottenuto le più alte onorificenze ed è stata premiata in numerosi festival; una pellicola che sembra anticipare di quasi 40 anni La zona di interesse, il film dell’anno scorso di Jonathan Glazer in cui si racconta la storia del comandante di Auschwitz che vive con la sua famiglia poco fuori il campo di concentramento (campo che non vediamo mai: che è appunto, letteralmente, fuori campo). Anche in Shoah dello sterminio non si vede nulla: ogni immagine diretta, anche documentaria, viene bandita; il film è composto, infatti, per intero da interviste a sopravvissuti e a qualche ex-nazista. Per Lanzmann, insomma, l’Olocausto è irrappresentabile: come ricorda Claudio Bisoni dell’Università di Bologna “Il regista affermò che qualora si trovasse per le mani filmati inediti dei campi di sterminio ripresi dai nazisti, li brucerebbe, li distruggerebbe senza neppure guardarli”.
Ma il cinema sulla Shoah è anche cinema inevitabilmente politico, cinema che racconta storie e, allo stesso, tempo racconta la Storia. La Storia è composta di fatti e la prima battaglia culturale è stare di guardia ai fatti, diceva Annah Arendt, filosofa statunitense autrice de La banalità del male. E allora iniziamo ripulendo i fatti dalla crosta che si è formata col tempo per scarsa memoria, ideologia, propaganda o interessi economici e di potere; lo facciamo aiutandoci, anche stavolta, con un libro formidabile e, al contempo, poco conosciuto (soprattutto in Italia): L’industria dell’Olocausto (del 2000) di Norman Finkelstein, storico, politologo e attivista statunitense di origini ebraiche. A causa di esso, nel 2008 gli è stato proibito per dieci anni l’ingresso in patria. Il libro è scritto col contributo di Noam Chosmky (che, tra l’altro, è uno dei protagonisti del nostro film inchiesta sull’Unione europea e l’euro –PIIGS) ed ha avuto eccellenti recensioni, fra gli altri, anche da parte di Raul Hilberg (storico statunitense considerato uno dei più eminenti studiosi della Shoah). Ovviamente Finkelstein è stato tacciato di antisemitismo (e come te sbaji…); peccato che i genitori fossero due sopravvissuti al massacro del ghetto di Varsavia, ai campi di concentramento e di sterminio di Majdanek e Auschwitz e a due campi di lavoro schiavistico. Le loro famiglie in Polonia furono, invece, interamente sterminate. Ma, d’altronde, qualche giorno fa all’ONU, davanti a una platea di delegati che (giustamente) si sono alzati e se ne sono andati, Nethanyau ha detto – praticamente di fronte a uno specchio in cui era riflessa la sua stessa immagine – che l’ONU è una palude antisemita. E a proposito (ancora) di fatti, immagino conosciate Ilan Pappé, storico, politologo ed ex politico israeliano; anche lui nel 2008, come Finkelstein, ha dovuto lasciare il suo Paese dopo essere stato condannato dalla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano: un ministro dell’Istruzione aveva chiesto il suo licenziamento, la sua fotografia era apparsa su un giornale al centro di un bersaglio e aveva ricevuto diverse minacce di morte. In un’intervista del 2004 Pappé aveva dichiarato: “L’obiettivo [dei sionisti] è sempre stato, e rimane tuttora, quello di avere la maggior parte possibile della Palestina con il minor numero possibile di palestinesi”. Il primo ottobre è uscito per l’editore Fazi l’ultimo, interessantissimo libro di Pappé, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina dal 1882; il titolo parla da solo: la storia del conflitto arabo-israeliano non è iniziata il 7 ottobre 2023 come la propaganda israelo-atlantista cerca di far credere ai gonzi piddini, e neppure nel 1967, quando Israele ha occupato la Cisgiordania, o nel 1948, quando è stato proclamato lo Stato ebraico. È iniziata nel 1882, quando i primi coloni sionisti sono arrivati in quella che era la Palestina ottomana. Anche il titoli dei capitoli parlano chiaro e diretto; uno di questi recita: Perché il movimento sionista avviò la pulizia etnica negli anni 20? Per inquadrare il senso di questa puntata e a sottolineare quanto ho affermato nella puntata precedente, e cioè che non esiste l’obiettività nel cinema né esiste il cinema non politico, tanto meno esiste nella storia (ebbene sì!), secondo Pappé ogni narrazione è intrinsecamente politica e, consapevolmente o meno, serve a fini politici: “Tutti gli storici sono necessariamente esseri umani soggettivi che si sforzano di raccontare la propria versione del passato” afferma.
Infine, soprattutto, chiariamo una cosa; una cosa ovvia, ma che non sono per nulla sicuro sia evidente a tutti: criticare il tradimento o l’uso strumentale che si fa di una tragedia, di un’ideologia, di un accadimento storico, è il modo più trasparente e onesto per dimostrare che a quella tragedia, a quell’ideologia, a quel fatto storico ci si tiene. Oggi, per esempio, non c’è nessuno più comunista di chi ha il coraggio – pochi, purtroppo – di smascherare il tradimento del comunismo storico italiano (mentre molti ex comunisti o sessantottini sono oggi in posizioni di potere filo-neoliberiste); nessuno è più attento alla lotta di classe, alla giustizia sociale, ai diritti dei lavoratori, alla pace, alla sanità e alla scuola pubbliche di chi disapprova fortemente il traditore per eccellenza, il PD e truffaldine liste civetta varie, principali responsabili della distruzione dello stato sociale e, in alcuni casi, anche certe formazioni e politici sedicenti di sinistra radicale ma che, per esempio, votano per le armi all’Ucraina. Nell’introduzione al suo libro, Finkelstein scrive che l’Olocausto, che paragona (giustamente) a un vero e proprio cataclisma naturale, “ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di vittima, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano”. Forse è questo che intende il rabbino Arnold Jacob Wolf, un caro amico di Obama, quando dice A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato. Se è vero, venduto a chi? E con quale obiettivo?