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¡Desaparecinema! ep. 17 – Dalla propaganda nazista al film maledetto di Jerry Lewis

Oggi parliamo del cinema che ha raccontato la Shoah e il nazismo. Shoah significa letteralmente “tempesta devastante” come si legge nella Bibbia, ed è preferito ad Olocausto, che fa riferimento al concetto di “sacrificio”. Ma la descrizione per immagini e suoni della Shoah – in quanto momento massimo dell’orrore e dell’abiezione di cui è capace l’uomo, così come altri genocidi invece poco raccontati – la ripresa filmica della Shoah, dicevo, necessita di una riflessione importante prima di essere attuata perché si rischia facilmente di cadere nella retorica, nel ricatto, nella morbosità, nella amoralità. Può il cinema rappresentare quel dolore? Può riportarlo fedelmente? Può riuscire a non cadere nella più bieca retorica? In che modo può restituirgli la sua tragica sacralità, invece che sfruttarlo a fini di spettacolarizzazione e propaganda? (quest’ultima è la domandina che dovreste tenervi in un angolo del cervello per tutta questa puntata). Questi timori sono portati all’estremo – fin quasi a sfiorare l’iconoclastia – dal cinema francese della Nouvelle Vague e raggiunsero l’apice col documentario di dieci ore Shoah (del 1985) di Claude Lanzmann, amico di Sartre e Simone de Beauvoir, fiero ebreo anticolonialista: una pellicola oggetto di migliaia di recensioni, studi, libri e seminari nelle università di tutto il mondo che ha ottenuto le più alte onorificenze ed è stata premiata in numerosi festival; una pellicola che sembra anticipare di quasi 40 anni La zona di interesse, il film dell’anno scorso di Jonathan Glazer in cui si racconta la storia del comandante di Auschwitz che vive con la sua famiglia poco fuori il campo di concentramento (campo che non vediamo mai: che è appunto, letteralmente, fuori campo). Anche in Shoah dello sterminio non si vede nulla: ogni immagine diretta, anche documentaria, viene bandita; il film è composto, infatti, per intero da interviste a sopravvissuti e a qualche ex-nazista. Per Lanzmann, insomma, l’Olocausto è irrappresentabile: come ricorda Claudio Bisoni dell’Università di Bologna “Il regista affermò che qualora si trovasse per le mani filmati inediti dei campi di sterminio ripresi dai nazisti, li brucerebbe, li distruggerebbe senza neppure guardarli”.
Ma il cinema sulla Shoah è anche cinema inevitabilmente politico, cinema che racconta storie e, allo stesso, tempo racconta la Storia. La Storia è composta di fatti e la prima battaglia culturale è stare di guardia ai fatti, diceva Annah Arendt, filosofa statunitense autrice de La banalità del male. E allora iniziamo ripulendo i fatti dalla crosta che si è formata col tempo per scarsa memoria, ideologia, propaganda o interessi economici e di potere; lo facciamo aiutandoci, anche stavolta, con un libro formidabile e, al contempo, poco conosciuto (soprattutto in Italia): L’industria dell’Olocausto (del 2000) di Norman Finkelstein, storico, politologo e attivista statunitense di origini ebraiche. A causa di esso, nel 2008 gli è stato proibito per dieci anni l’ingresso in patria. Il libro è scritto col contributo di Noam Chosmky (che, tra l’altro, è uno dei protagonisti del nostro film inchiesta sull’Unione europea e l’euro –PIIGS) ed ha avuto eccellenti recensioni, fra gli altri, anche da parte di Raul Hilberg (storico statunitense considerato uno dei più eminenti studiosi della Shoah). Ovviamente Finkelstein è stato tacciato di antisemitismo (e come te sbaji…); peccato che i genitori fossero due sopravvissuti al massacro del ghetto di Varsavia, ai campi di concentramento e di sterminio di Majdanek e Auschwitz e a due campi di lavoro schiavistico. Le loro famiglie in Polonia furono, invece, interamente sterminate. Ma, d’altronde, qualche giorno fa all’ONU, davanti a una platea di delegati che (giustamente) si sono alzati e se ne sono andati, Nethanyau ha detto – praticamente di fronte a uno specchio in cui era riflessa la sua stessa immagine – che l’ONU è una palude antisemita. E a proposito (ancora) di fatti, immagino conosciate Ilan Pappé, storico, politologo ed ex politico israeliano; anche lui nel 2008, come Finkelstein, ha dovuto lasciare il suo Paese dopo essere stato condannato dalla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano: un ministro dell’Istruzione aveva chiesto il suo licenziamento, la sua fotografia era apparsa su un giornale al centro di un bersaglio e aveva ricevuto diverse minacce di morte. In un’intervista del 2004 Pappé aveva dichiarato: “L’obiettivo [dei sionisti] è sempre stato, e rimane tuttora, quello di avere la maggior parte possibile della Palestina con il minor numero possibile di palestinesi”. Il primo ottobre è uscito per l’editore Fazi l’ultimo, interessantissimo libro di Pappé, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina dal 1882; il titolo parla da solo: la storia del conflitto arabo-israeliano non è iniziata il 7 ottobre 2023 come la propaganda israelo-atlantista cerca di far credere ai gonzi piddini, e neppure nel 1967, quando Israele ha occupato la Cisgiordania, o nel 1948, quando è stato proclamato lo Stato ebraico. È iniziata nel 1882, quando i primi coloni sionisti sono arrivati in quella che era la Palestina ottomana. Anche il titoli dei capitoli parlano chiaro e diretto; uno di questi recita: Perché il movimento sionista avviò la pulizia etnica negli anni 20? Per inquadrare il senso di questa puntata e a sottolineare quanto ho affermato nella puntata precedente, e cioè che non esiste l’obiettività nel cinema né esiste il cinema non politico, tanto meno esiste nella storia (ebbene sì!), secondo Pappé ogni narrazione è intrinsecamente politica e, consapevolmente o meno, serve a fini politici: “Tutti gli storici sono necessariamente esseri umani soggettivi che si sforzano di raccontare la propria versione del passato” afferma.
Infine, soprattutto, chiariamo una cosa; una cosa ovvia, ma che non sono per nulla sicuro sia evidente a tutti: criticare il tradimento o l’uso strumentale che si fa di una tragedia, di un’ideologia, di un accadimento storico, è il modo più trasparente e onesto per dimostrare che a quella tragedia, a quell’ideologia, a quel fatto storico ci si tiene. Oggi, per esempio, non c’è nessuno più comunista di chi ha il coraggio – pochi, purtroppo – di smascherare il tradimento del comunismo storico italiano (mentre molti ex comunisti o sessantottini sono oggi in posizioni di potere filo-neoliberiste); nessuno è più attento alla lotta di classe, alla giustizia sociale, ai diritti dei lavoratori, alla pace, alla sanità e alla scuola pubbliche di chi disapprova fortemente il traditore per eccellenza, il PD e truffaldine liste civetta varie, principali responsabili della distruzione dello stato sociale e, in alcuni casi, anche certe formazioni e politici sedicenti di sinistra radicale ma che, per esempio, votano per le armi all’Ucraina. Nell’introduzione al suo libro, Finkelstein scrive che l’Olocausto, che paragona (giustamente) a un vero e proprio cataclisma naturale, “ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di vittima, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano”. Forse è questo che intende il rabbino Arnold Jacob Wolf, un caro amico di Obama, quando dice A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato. Se è vero, venduto a chi? E con quale obiettivo?

¡Desaparecinema! ep. 16 – Il cinema “fuorilegge” di Davide Manuli

Dopo le maratone di mezz’ora delle ultime puntate, oggi un po’ di relax perché voglio concentrarmi su un unico regista (come ai vecchi tempi, ricordate? Luigi Magni, Emidio Greco ecc…). Se prima o poi riuscissi a guardare lucidamente nel profondo della mia mente potrei scoprire che ho deciso di tenere questa rubrica solo per poi un giorno avere un minimo di pubblico per farvi scoprire questo autore. Inoltre, l’idea del titolo di questa rubrica mi venne proprio quando insieme all’autore cui è dedicata questa puntata, quindici anni fa, provammo a ideare un festival che portasse alla luce il vero cinema indipendente, quello cui il cinema d’autore europeo mainstream – ormai diventato una mera categoria merceologica – allaccia gli scarponi da sci. Questo ha detto il nostro autore a proposito del suo esordio: “Il primo film secondo me deve essere un film dove si prende a pugni il mondo, sennò non ha senso girare”, il puro istinto cassavetiano e pasoliniano: urgenza, povertà di mezzi e ricchezza di contenuti. Questo ho cercato di fare anni fa. In questa nuova versione da Director’s Cu” il film è stato allungato per togliergli. finalmente. lo statuto di fuorilegge. Perciò, proprio perché da un po’ di tempo i film dell’autore sono reperibili, parliamo del cinema di Davide Manuli.

¡Desaparecinema! ep. 15 – La guerra fredda culturale in USA e in Europa (parte 2)

Premessa importante a questa seconda parte dedicata al soft power statunitense: il cinema dei grandi registi rimane grande cinema anche se quei registi lo hanno fatto per imporre ideologie e propaganda. Rimane cinema quello di John Ford che, come vedremo, era contiguo alla CIA; rimane cinema quello di Chaplin, comunista convinto; rimane cinema quello di Stanley Kubrick, a cui di fascismo e antifascismo non importava nulla. La dico meglio: non smette di essere cinema con la C maiuscola il cinema di parte, altrimenti dovremmo buttare nel cesso (come per esempio ha fatto certa ignorante sinistra italiana con Stanley Kramer o Howard Philips Lovecraft) Luigi Magni e Gian Maria Volonté, Fernando Solanas e Sergej Ejzenstein, Clint Eastwood e David Wark Griffith (quest’ultimo è il padre del cinema narrativo, del montaggio e del lungometraggio con Nascita di una nazione del 1915: un film profondamente razzista). L’imparzialità non è necessariamente un valore nel cinema, anzi! Sempre che non si tratti di cinema sfacciatamente propagandistico, didascalico, agiografico, manicheista, retorico e, soprattutto, partitico invece che politico, tipo Ennio Doris – C’è anche domani e declinazioni titolistiche varie. D’altro canto è sempre importante sapere che cinema stiamo guardando e come è stato finanziato: è l’unico modo per essere liberi di non farci fregare; è sempre importante sapere quale operazione politico-culturale c’è dietro perché La cinematografia è l’arma più forte dicevano, giustamente, i fascisti. Forse oggi è superata dai social e dalla Tv, ma rimane ancora un’arma potente. Come Dom Cobb, il protagonista di Inception di Nolan: è capace di farti credere il contrario di ciò in cui credi, di farti odiare il tuo amico e di convincerti pure che sia una tua idea: per esempio, è capace di farti credere che l’eroe del mondo occidentale sia chi è in grado di vincere secondo le regole del neoliberismo, della competizione a discapito degli altri, dell’auto-schiavismo (come ne La ricerca della felicità di Gabriele Muccino con Will Smith) invece che chi, questo paradigma, decide di ribaltarlo. Oppure è capace di farti credere che a odiare i comunisti fossero solo il partito repubblicano e il senatore McCarthy. E, invece, “Ci sono oggi in America molti comunisti. Sono dappertutto. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle macellerie, negli incroci, nel mondo degli affari. E ognuno di essi porta in sé, in germe, la morte della nostra società”: questo era il democratico Truman, lo stesso che dopo che la guerra contro il nazismo era stata vinta in Europa, aveva deciso che fosse necessario sterminare più di 250.000 innocenti a Hiroshima e Nagasaki solo per mostrare i muscoli a Stalin; sotto la sua presidenza, nel 1951, J. Edgar Hoover, il direttore dell’FBI, poteva ritenere possibile, in caso di guerra, la deportazione in campi di concentramento di mezzo milione di cittadini statunitensi sospettati di contiguità col comunismo. L’anno dopo la fine della presidenza Truman, il 19 agosto del 1954 – 70 anni fa secchi – il partito Comunista americano veniva messo fuori legge.

¡Desaparecinema! ep. 14 – La guerra fredda culturale in USA e in Europa (parte 1)

Vista la complessità e l’importanza dell’argomento – il soft power statunitense come non l’ho ancora mai affrontato prima – questa volta la puntata sarà divisa in due parti. Perciò iniziamo senza indugi.
Secondo molti dizionari il termine complottista sta anche a significare, ovviamente, “organizzatore di complotti”. E cos’è un complotto? Secondo la Treccani è un’ “intesa segreta tra poche persone, volta a rovesciare un potere”. Bene: oggi parliamo del complotto dei complotti perché è formato non da poche persone, ma da decine di migliaia – alcune delle quali neppure si rendevano conto di esserne complici (forse). Perché è stato ed è tuttora volto a imporre il potere dei poteri, quello imperialista statunitense sull’Europa e sul mondo, ma soprattutto perché, come il migliore dei complotti possibili, soddisfa in pieno questa ovvia massima di Richard Crossman, un politico laburista del secolo scorso e quindi figura centrale di un ramo segreto del Ministero degli Esteri britannico dedicato alla disinformazione durante la Guerra Fredda: “Il modo migliore per fare buona propaganda è non far mai apparire che si sta facendo propaganda”.

¡Desaparecinema! ep. 13 – Hal 9000, Mater, Alpha60 nella valle dell’inquietudine

Per la prima volta nella storia, qualche settimana fa è stata approvata con 499 voti a favore la legislazione europea sull’IA, l’AI ACT, che entrerà in vigore tra due anni. Il regolamento “è volto a promuovere lo sviluppo e l’adozione di sistemi di IA sicuri e affidabili nel mercato unico dell’Ue da parte di soggetti pubblici e privati, garantendo, al contempo, il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini. Il regolamento sull’IA si applica unicamente ai settori che rientrano nel diritto dell’UE e prevede esenzioni, ad esempio per i sistemi utilizzati esclusivamente per scopi militari e di difesa , nonché a fini di ricerca”. Secondo Amnesty International, la legge – come c’era da aspettarsi – dà quindi priorità all’interesse dell’industria e delle forze dell’ordine rispetto alla protezione delle persone e dei loro diritti umani”.
Bene. Adesso sedetevi comodi con una birra in mano, o una lattina di olio macchina se siete androidi, perché anche questa volta andiamo un po’ lunghi, vista l’importanza epocale dell’argomento. Uncanny Valley (“zona perturbante”, o “la valle dell’inquietudine”) è un termine coniato nel 1970 da uno studioso giapponese di robotica, Masahiro Mori: maggiore è la verosimiglianza di un’Intelligenza Artificiale all’aspetto umano e maggiore è la sensazione di positiva familiarità provata; ma quando il realismo del robot si fa estremo, ciò desta repulsione e inquietudine. Ciò vale, per esempio, anche per i clown . Esiste anche un film, dal titolo Uncanny, del 2015, che parla di un robot umanoide, Adam, un po’ troppo simile a un essere umano per prenderci un caffè senza che ci tremi la tazzina. Sempre nel 2015 esce Humandroid in cui, forse in modo un po’ sconclusionato, col pretesto dell’IA si tenta di parlare… di tutto: dalla famiglia a Dio, dal governo alla morte. Sullo stesso tema è uscito, sempre negli stessi mesi del 2015, Ex Machina, di Alex Garland, il regista di Civil War: Nathan è il CEO di un’azienda di motori di ricerca; ingaggia Caleb perché giudichi se un robot umanoide di nome Ava dotato di intelligenza artificiale che ha costruito sia veramente capace di pensare e di essere cosciente. Ma Ava ha un progetto tutto suo per la propria vita: infatti un commentatore dell’intelligenza artificiale, Azeem, ha osservato che “si tratta di una storia pessimistica su quanto sarà difficile controllare con successo un’intelligenza artificiale”, che poi è esattamente ciò che accade nel primo film della storia del cinema su un’Intelligenza Artificiale, Der Golem, del 1920. Nella tradizione ebraica, per risvegliare il Golem bisognava sussurrargli la parola “verità”, per fermarlo “morto” (tipo quando oggi diciamo “Alexa” o “Ehi Google”); a un certo punto, però, il Golem non risponde più agli ordini, ma – come vedremo – non è questo il vero pericolo di un’IA. Semmai è il contrario: che risponda esattamente agli ordini; dipende di chi.

¡Desaparecinema! ep. 12 – Il mockumentary vs. il cinema delle élites

Il 20 luglio di 55 anni fa, nel 1969, gli Stati Uniti sbarcarono sulla Luna. Nel 1995, in un newsgroup apparve una notizia bomba: verso la fine degli anni ’60 Stanley Kubrick fu costretto a partecipare alla realizzazione delle false riprese dell’allunaggio, organizzato dalla NASA, sulla base di un ricatto: se non si fosse prestato sarebbe stato rivelato il forte coinvolgimento del fratello minore di Kubrick, Raul, nel Partito Comunista Americano; una cosa intollerabile per Kubrick, soprattutto dopo l’uscita del Dottor Stranamore nel 1964 – tacciato di anti-americanismo – e di Spartacus, del 1960, scritto da uno sceneggiatore comunista. Sette anni dopo, nel 2002, sull’autorevole televisione franco-tedesca ARTE fu trasmesso un documentario che raccontava come le riprese televisive dell’allunaggio dell’Apollo 11 fossero state falsificate e registrate in studio dalla CIA con l’aiuto del regista Stanley Kubrick, utilizzando il set di 2001: Odissea nello spazio (uscito l’anno prima dell’allunaggio, nel 1968). Il presidente Nixon, per sicurezza, volle che Kubrick producesse in anticipo delle immagini in studio nel caso, per motivi tecnici, non fosse stato possibile inviarle dalla Luna in diretta. L’autore del documentario, Operation lune, è William Karèl, un regista francese molto conosciuto tra gli addetti ai lavori, autore di rigorosi documentari storici e politici su De Gaulle, JF Kennedy, Primo Levi, Mitterand e sulle guerre segrete della CIA. Lo scoop del suo film è corroborato anche da interviste alla moglie di Kubrick, Christiane Harlan, a Buzz Aldrin (il secondo uomo a camminare sulla Luna, caduto in depressione dopo il ritorno e sposatosi l’anno scorso a 93 anni), a Dave Bowmann (astronauta statunitense), al produttore hollywoodiano Jack Torrance e ad autorevoli esperti della NASA. Nel 2016 affrontò lo stesso argomento un altro straordinario documentario, Operazione Àvalanche di Matt Johnson, presentato in anteprima al Sundance Film Festival, il più importante festival di cinema indipendente americano, in cui è coinvolto Robert Redford: due agenti della CIA si infiltrano nella NASA per smascherare una potenziale talpa, ma rimangono invischiati in una cospirazione per falsificare l’allunaggio della missione Apollo 11, basata anche sulla nuova tecnologia di proiezione frontale usata da Kubrick in 2001: Odissea nello spazio: vedete gli occhi illuminati del leopardo? Sono dovuti alla proiezione frontale dello sfondo alle sue spalle che è, appunto, finto. Infine, nel 2019, un brevissimo cortometraggio francese realizzato solo con immagini di repertorio, Moon Shining, mostra Kubrick al lavoro con la NASA intento a preparare i modellini per il falso allunaggio. La didascalia che accompagna il video recita: “Dietro le quinte dello sbarco sulla Luna dell’Apollo 11 diretto da Stanley Kubrick. Documento classificato Top Secret da 50 anni… fino ad ora.” Ma il documento definitivo a sostegno di questa ipotesi è un video apparso nel dicembre del 2015 che mostra finalmente Kubrick in persona intervistato nel maggio del 1999, Shooting Stanley Kubrick; il regista del Bronx confessa a Patrick Murray: “Ho commesso una grande frode ed è il momento di rivelare tutti i dettagli…”. Come ho già anticipato un paio di puntate fa, io e due colleghi film-maker abbiamo realizzato per la RAI una docu-serie venduta in tutto il mondo e un libro su Stanley Kubrick, Stanley and Us. Quando ci siamo imbattuti in questi film che documentano il presunto coinvolgimento di Kubrick nell’allunaggio siamo rimasti a bocca aperta, perché le circa 50 persone che abbiamo intervistato tra collaboratori, attori, amici e parenti di Kubrick non hanno mai fatto cenno a questa incredibile ipotesi.

¡Desaparecinema! ep. 11 – Charlie Chaplin: il monello del cinema USA

Ho visto tutti i film di Chaplin. E quando dico tutti intendo tutti, a partire dalle sue prime comiche del 1914 quando, dopo 25 anni di estrema povertà, guadagnava 150$ a settimana (quasi 5.000 dollari di oggi) e apparì, solo in quell’anno, in 35 comiche; fino al suo ultimo film, La contessa di Hong Kong più di 50 anni dopo, quando guadagnava milioni. E li ho visti tutti almeno cinque volte – fino a una quarantina di volte per Tempi Moderni; ho letto quasi tutti i libri scritti su di lui, ho visto i documentari, ci ho fatto un esame all’università (prendendo 30 e lode) e da bambino creavo adesivi con la sua faccia che poi, da diciottenne, attaccavo sul parabrezza della mia Fiat 126. Quando insegnavo all’Accademia di Belle Arti l’ho usato per far capire ai miei allievi ventenni che una volta esisteva il cinema in bianco e nero ed era più bello di quello contemporaneo. Diversamente da Guerre Stellari, che da piccolo amavo e da grande mi appare per quel che è, cioè un film per bambini (come diceva infatti anche lo stesso George Lucas), Chaplin, ancora oggi, mi fa rotolare per terra dalle risate e piangere come un vitello, e venir voglia di spaccare tutto ed instaurare il socialismo.

¡Desaparecinema! ep. 10 – Kubrick e gli altri sulla guerra atomica

Come avrà sicuramente notato chi segue questa rubrica, ci piace prendere per il culo Ronald Reagan. Tranquilli: presto toccherà anche a Margareth Thatcher, non accalcatevi. L’attorucolo Reagan, uno dei più ridicoli, pericolosi e, in sostanza, peggiori presidenti degli Stati Uniti (dopo il quale abbiamo avuto praticamente solo delle copie, a destra e a sinistra) veniva considerato intelligente e simpatico, esattamente per lo stesso motivo per cui molti amavano Berlusconi (che però lui sì, purtroppo, era un uomo intelligente): Reagan raccontava in continuazione barzellette e si esprimeva con motti arguti anche in situazioni ufficiali; d’altronde una volta confessò al suo amico Richard Widmark che la presidenza degli Stati Uniti era il miglior ruolo che avesse mai recitato mentre, tra una battuta e l’altra – come da copione scritto ai piani alti – disintegrava la società mondiale assumendo il capitalismo assoluto a regola di governo. In realtà, dal punto di vista cognitivo, era così confuso che credeva che se qualcosa appariva sullo schermo, doveva essere vera. Come fa notare il Guardian in un vecchio articolo, questo forse spiega perché dicesse di essere stato un mitragliere di coda in un equipaggio di bombardieri durante la seconda guerra mondiale, nonostante fosse stato rifiutato per il servizio attivo a causa della sua scarsa vista. Io sono sicuro che lo abbia inventato dopo aver visto Guerre stellari e la scena in cui Luke Skywalker
spara col… mitragliere di coda del Millennium Falcon. Sapete perché ne sono sicuro? Perché l’Iniziativa di Difesa Strategica (la SDI) voluta da Reagan, un sistema di difesa missilistica proposto nel 1983 per proteggere gli Stati Uniti dall’attacco di missili balistici nucleari, fu soprannominata… programma Guerre Stellari. D’altronde ve lo ricordate? Lo abbiamo detto nella prima puntata di Desaparecinema: Guerre stellari ha anticipato l’intrattenimento reaganiano. [In tutta onestà va detto che Star Wars è anche il nome del programma di difesa appena avviato dalla Corea del Sud]. Comunque…
Ken Adam, lo scenografo de Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick (e di vari James Bond) disse una volta: “Quando Reagan divenne presidente degli Stati uniti nel 1981, durante il suo primo tour alla Casa Bianca chiese al capo dello staff di mostrargli la War Room, la Stanza della guerra”; “Ehm, ma non esiste nessuna War Room!” gli fu risposto. “Ma io l’ho vista in quel film, Il dottor Stranamore!”. Ken Adam dovette specificare che la War Room era completamente inventata perché non aveva alcun esempio cui fare riferimento. Com’è noto, con Reagan si inaugurò anche la consuetudine di far atterrare l’elicottero presidenziale nel prato della Casa Bianca, in modo che quando il presidente usciva ed era assediato dai giornalisti poteva dire che non sentiva le loro domande e quindi non poteva rispondere a causa del rumore delle pale: questo perché se avesse risposto a domande non concordate avrebbe fatto solo danni. La scenografia della War Room era così realistica e suggestiva che molti hanno cercato di copiarla,
per esempio la sala conferenze della FIFA. In effetti, però, perché no? La FIFA – come viene spiegato nella docuserie Netflix Fifa: Tutte le rivelazioni – è formata da un gruppo di persone tra le più corrotte al mondo.

¡Desaparecinema! ep. 9 – Oscar e Donatello: alfieri della propaganda

La conoscete tutti, immagino, quella simpatica e innocua storiella che rivela perché i premi cinematografici hollywoodiani si chiamino Oscar; il nome ufficiale del premio sarebbe Academy Award of Merit (premio di merito dell’accademia) e un giorno una bibliotecaria dell’Academy, vedendo la statuetta, esclamò “Ma sembra mio zio Oscar!”. Qualcun altro, invece, pensa che il nome derivi dal dio egizio dei morti e degli artigiani, una mummia con la testa di falco di nome Sokar (che, infatti, è l’anagramma di Oscar), mentre la forma deriverebbe dal dio Ptah, anche lui patrono degli artigiani nonché dio del sapere e della conoscenza.
Bene. Bravo. Ma cos’è questa Accademia? È l’ Academy of Motion Pictures Arts and Sciences. E perché si chiama così? Che c’entrano l’arte e la scienza – e, al limite, anche il cinema – con gli Oscar? Un indizio: molto poco. Infatti trovo più indovinata quest’altra affermazione di Frances Marion, una prolifica sceneggiatrice americana, anche lei vincitrice di Oscar (quindi non incolpabile di acrimonia, visto che oggi qualunque critica porti al sistema sei tacciato o di antisemitismo o di invidia sociale): “L’Oscar è un simbolo perfetto dell’industria cinematografica: un uomo con un corpo forte e atletico che stringe in mano una grossa spada scintillante e a cui è stata tagliata una bella fetta di testa, quella che contiene il cervello”. E adesso immaginate un italiano vincitore del David di Donatello sparare a zero su questo premio. Fatto?

Il regista italiano che non piace ai cinefili

Il cinema di cui parliamo oggi è quello di un autore cancellato dall’egemonia culturale, il cinema di un regista sconosciuto a volte anche agli addetti ai lavori, ma che secondo me ha scritto e diretto alcuni dei film più interessanti degli ultimi 50 anni: Emidio Greco, “di quei registi italiani che non piacciono ai cinefili”, come scrisse Alberto Crespi sull’Unità quando scomparve nel 2012. Emidio Greco, che ha fatto 8 film in 40 anni. Emidio Greco, che non era mio padre, ma solo un mio caro amico, scomparso nel 2012 a soli 74 anni e sul quale, nel 2001, diressi un documentario per la RAI: Ambiguità e disincanto.
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¡Desaparecinema! ep. 8 – Alien Cirus: come un napoletano fece il pacco a Hollywood.

Il 14 agosto uscirà in Italia il nuovo capitolo del franchise di Alien: Alien Romulus. È un midquel, cioè un sequel che però è ambientato durante il tempo del film originale, oppure un interquel, cioè ambientato tra il primo Alien e il secondo (cioè il primo sequel, cioè Aliens- Scontro finale)? Non l’ho capito, ma chissenefrega. In ogni caso, sulla carta e dal trailer si prospetta una bomba, anche perché – finalmente – la saga si riappropria di due elementi fondamentali che resero il primo Alien un capolavoro assoluto. Come? Gli effetti speciali di make up non digitali e l’uso attento del sonoro; cioè si riappropria del cinema con la C maiuscola, di salvare il cinema.