“Il mio cinema, senz’altro, deriva da Brecht. Brecht mi ha insegnato come dire le cose. Chaplin come metterle in scena”. Questo diceva di sé Augusto Tretti, classe 1924 – regista geniale, corrosivo e ostinatamente controcorrente, ignorato dalla critica ma adorato da Fellini, Flaiano e Moravia – autore di soli tre film tra gli anni 60 e 80, di cui un documentario, e decine di cortometraggi molti dei quali sbriciolatisi causa umidità nella sua cantina accanto al vino, e dunque perduti per sempre. Come è perduto il ricordo dei suoi film e della sua vita straordinaria dedicata secondo dopo secondo, per decenni, a tentare disperatamente di fare cinema, lontano da Roma e nella solitudine della propria libertà incapace di compromessi. A parte uno, di compromesso: quando dovette accettare “un’offerta che non poteva rifiutare” da parte di un produttore che gli disse che lui un film in cui un attore avesse sempre la testa fuori dall’inquadratura – come Tretti avrebbe voluto – non glielo avrebbe finanziato. Tretti abbozzò, ma non del tutto. Abbiamo detto: un genio “non amato dalla critica”. Perciò alla critica cinematografica degli anni ’60 e ’70 oggi assegniamo, coram populo, il premio E COME TE SBAJI , già vinto dall’Unità e dal festival di Cannes delle scorse puntate. Augusto Tretti fu considerato, in vita, il Jacques Tati italiano. E chi non sa chi è Jacques Tati è Michele Serra. O Scurati.
Volete sapere subito chi era Augusto Tretti? Ecco a voi. E con questo la puntata potrebbe finire qui, perché quanto dice la donna, Maria Boto, che nel film interpreta altre cinque parti – il signor Liborio, la guardia, il generale, il professore del razzo, e addirittura il leone della M.G.M – quanto dice Maria Boto è esattamente quello che accadde a Tretti coi produttori milanesi del film, La legge della tromba. Alla prossima, dunque. E invece andiamo avanti, perché da dire su Tretti ce n’è molto. Dicevamo: su Tretti ci sarebbe da fare tre puntate, ognuna per ognuno dei suoi lungometraggi, ma appunto siamo poveri come la merda e ne farò solo una. (“E se poi non mi fanno fare il libro di Desaparecinema?”)
A proposito delle inquadrature del suo primo lungometraggio, La legge della tromba, del 1962, Tretti ha anche detto: “Il film ha qualche inquadratura storta, anzi ce n’erano molte di storte. Questo perché avevo un operatore strano: bizzarro il regista, bizzarro l’operatore… Io inquadravo dritto, poi andavo in proiezione e mi trovavo l’inquadratura inclinata”. Anche dopo questa dichiarazione la puntata potrebbe finire qui. Ok, non fa più ridere, lo so. Dicevo che la puntata potrebbe finire anche qui perché la dichiarazione di Tretti ci insegna che il cinema non è solo quello di Stanley Kubrick. Anzi, ci insegna addirittura che se il cinema fosse solo quello di Stanley Kubrick, o Spielberg, o Nolan, il cinema sarebbe morto e sepolto. Non ci sarebbe per esempio il cinema di Jacques Tati, o di Bunuel.
Augusto Tretti, durante la Resistenza, è stato un partigiano. Negli anni precedenti, antimilitarista e antifascista della prima ora, era costretto a partecipare alle adunate fasciste del sabato in cui tutti venivano addestrati alla guerra. I suoi racconti, come si legge in una bella intervista di Lorisa Andreoli e Stefano Wiel su Rapportoconfidenziale.org, sembrano descrivere quello che avverrà tra poco ai giovani europei costretti alla guerra contro la Russia dai ridicoli, ignoranti e pericolosissimi capipopolo europeisti: Ma la vera e propria cultura politica Tretti se l’era fatta più avanti, attratto dagli operai e dai contadini. “Questi ultimi, del resto, ce li avevo in casa” dice ancora nell’intervista, “dato che la mia famiglia aveva un po’ di campi, due o tre mezzadri, e passavo molto tempo insieme a loro. In special modo frequentavo assiduamente un contadino, molto più grande di me, che era un antifascista già al tempo perseguitato e a lui facevo un sacco di domande. Facevo lo stesso con ogni muratore, imbianchino o piastrellista che passava da casa mia. (…) È da queste persone che ho saputo dell’esistenza dell’ideologia socialista e del movimento operaio, questi sono stati i miei primi e veri Maestri, non i professori del liceo.” Questa attenzione ai subalterni Tretti la mise anche nella scelta dei suoi attori: tutti non professionisti, anzi spesso gente del popolo, a partire da Maria Boto, cuoca di casa Tretti. Così ne parla lo stesso Tretti intervistato nell’ottimo documentario di Maurizio Zaccaro.
Perché ho parlato di Jacques Tati? Per esempio per i dialoghi: mai registrati in presa diretta, cioè direttamente sul set, sono spesso suoni indistinti invece che parole; e così vale per gli effetti sonori, che invece che essere realistici sono bambineschi, e realizzati dallo stesso Tretti insieme alla sorella. _ Il tutto restituisce ai film una continua sensazione di grande presa per il SATIRA contro il potere (militare, carcerario, politico). Satira preziosissima, oggi che è completamente scomparsa dalla Tv e dal cinema; oggi che la guerra – agli occhi dei gonzi piddini – è stata sdoganata come unico metodo di risoluzione dei problemi internazionali, come presunta lotta per la libertà contro il nemico russo; oggi che secondo la Von der Layen “La forza è la via della pace” cioè, come diceva Orwell, “la pace è guerra”, mentre invece è una grande satiPRESA PER IL CULO del popolo per meri interessi economici privati; oggi che “S – Il figlio del secolo idiota”, cioè il sedicente scrittore e sedicente antifascista Scurati, tenta su La Repubblica disperatamente di recuperare l’eroico spirito guerriero smarrito dagli europei. Anche qui il paragone con Kubrick ci sta tutto, per marcarne la differenza ma non la mancanza di efficacia. Ma come abbiamo detto c’è anche Brecht dentro il cinema di Tretti, cioè un cinema che mette in scena non come sono le cose vere, ma come sono veramente le cose. Lo ridico a modo mio, come l’ho già detto mille volte nelle precedenti puntate: Tretti non mette in scena la verità, mette in scena il vero, due cose opposte. Per la verità c’è “Report”, per il vero, che è ciò che conta e può fare la rivoluzione, c’è il cinema. Per questo, come vedremo, Tretti era tanto amato da Fellini. Così scrive Stefano Andreoli sempre per “Rapporto Confidenziale”: “La legge della tromba utilizza meccanismi alla Brecht (compreso il famoso effetto di “straniamento”) per mostrare nuda e cruda la morale della società capitalistica, per la quale l’unica cosa che conta sono i soldi, e per smontare i meccanismi di un certo cinema, sia quello più strettamente di evasione che quello dei cinegiornali”. Dopo aver terminato con difficoltà ciclopiche il suo primo film, La legge della tromba – che racconta di Celestino, sfortunato rapinatore per necessità, che con quattro amici finisce a lavorare per una fabbrica di trombe del signor Liborio (dove si fatica come in Tempi moderni di Charlie Chaplin) si innamora di Marta, torna disoccupato e alla fine ritrova lavoro come sperimentatore di razzi interplanetari – Tretti dicevamo, tentò la strada della distribuzione, ma nessuno volle il film. E i critici cui lo mostrò lo bocciarono senza riserve: nessuno si accorse del potenziale. Finché, in seguito a un disperato lampo di genio, Tretti lo fece vedere a Moravia, che se ne innamorò defininendolo “Di una comicità irresistibile”. A quel punto, grazie all’autorevolezza del giudizio dell’autore de “Gli indifferenti” e “La ciociara”, la valanga sì innescò. Videro il film Antonioni, Ennio Flaiano, Gassman, Fellini e Cesare Zavattini. Fellini, come ricorda Enrico Giacovelli nel libro “C’era una volta la commedia all’italiana”, disse: “Dò un consiglio a tutti i miei amici produttori: acchiappate Tretti, fategli firmare subito un contratto e lasciategli girare tutto quello che gli passa per la testa. Soprattutto non tentate di fargli riacquistare la ragione: Tretti è il matto di cui ha bisogno il cinema italiano”.
Mentre Flaiano disse, in un articolo sull’Espresso, parlando senza saperlo del futuro Sorrentino: “La ricerca della bellezza, dell’effetto, che rovina tanti nuovi autori e li spinge continuamente a cercare salvezza nel kitsch del giorno, (nel criptokitsch), cioè nelle immagini dettate dalla moda, dal vento che tira, dalle esperienze riuscite degli altri, dalla loro presunzione di registi che «vedono bene», è in Tretti una ricerca della cosa essenziale, adrammatica, messa in vitro e osservata alla macchina da presa, che diventa una specie di microscopio”. Osservatela negli horror italiani tutti degli ultimi 30 anni, eccetto quelli di Bianchini, questa cosa che ha detto Flaiano: sempre e solo alla ricerca dell’effetto splatter o del movimento di macchina figo, e ZERO storie, ZERO personaggi interessanti.
Insomma, come scrive ancora “Rapporto Confidenziale”: “La legge della tromba è l’operetta morale di una morale anarchica, contadina e rurale nell’accezione più alta del termine, in quell’accezione tanto amata da Pasolini che vedeva nell’imporsi della società dei consumi la degenerazione delle culture antiche delle nostre campagne”. Ma c’è un altro libro, completamente dedicato a Tretti, che vi consiglio: “Il caso Tretti”, di Domenico Monetti e Luca Pallanch, per Rubettino. Dal quale ho preso diversi spunti.
La legge del tromba, la cui produzione durò anni, alla fine fu distribuito da Goffredo Lombardo della Titanus (ricordate? Lo stesso che ebbe il coraggio di distribuire in Italia Brian di Nazareth, censurato per dodici anni). Dopo aver visto il film infatti – e dopo che Tretti aveva subito decine di rifiuti da parte dei distributori – Lombardo aveva detto: “Questo film lo piglio io. Lo distribuisco a Milano e se non lo vogliono compro la sala”. In cambio di soldi per la distribuzione del film, Lombardo gli disse: “Non ti dò soldi ma ti faccio il contratto per il tuo prossimo film. Hai in mente un’altra pazzia?”. Tretti ce l’aveva: era Il potere. Lombardo gli disse poi: “Ti faccio un contratto in carta bianca. Ma va’ via da Roma se no ti rovini. E fai quello che vuoi”. Mentre Antonioni aveva idee diverse. In una lettera al direttore di produzione Gaspare Palumbo del 1970, dice: “Per me l’unico guaio con Tretti è che non abita a Roma, il cinema è qui che si fa. È un umorista nato. Ho conosciuto tanti uomini di cinema ma uno come Augusto non l’ho mai incontrato. Devo pensare al francese Jacques Tati. Noi ce l’abbiamo in casa, Tati – ma più sanguigno di Tati, quindi più popolare – e non lo adoperiamo. È il colmo”.
Tutti erano innamorati di Tretti, eccetto la critica. Tra questi un produttore come Lombardo – che per esempio aveva appena prodotto quel capolavoro di Rocco e i suoi fratelli di Visconti – al punto che il contratto che fece a Tretti fu quasi unico nella storia del cinema, per la libertà che concedeva al regista. Vi si diceva che la Titanus lo incaricava di girare “un film tutt’affatto speciale e secondo i suoi criteri artistici”. Tutto qui. Lombardo non voleva conoscere né il titolo né il soggetto. Si fidava completamente. Gli offriva 40.000.000 di lire per produrlo (il corrispettivo di un milione di euro di oggi, non molti) da spendere in totale libertà. Altri 20.000.000 da spendere con il benestare della Titanus. Praticamente Lombardo stava premiando la capacità di Tretti di fare film a basso costo ma efficaci. Il contrario del cinema italiano degli ultimi 20 anni: film costosissimi senza alcuna qualità, e spessissimo neppure funzionanti al botteghino. Era il 1961. Sembrava fatta: Tretti era entrato nel magico mondo del cinema romano, cioè – all’epoca – del cinema mondiale. Ma la maledizione dell’outsider ancora gravava su di lui.
La Titanus di Goffredo Lombardo era la più antica casa cinematografica italiana, fondata a Napoli nel 1904. In quegli anni due fatti concorsero a generare le montagne russe sulle quali salirà Tretti firmando il contratto. Da una parte la Titanus decise di iniziare a puntare su film a basso costo, per esempio Poveri ma belli, del 1957 di Dino Risi. Dall’altro di stipulare un accordo con la Metro Goldwyn Mayer per produrre film destinati anche agli Stati Uniti. Ma nel 1962 il flop di Sodoma e Gomorra, di Robert Aldritch, costrinse Lombardo a dichiarare fallimento. La cosa si ripercosse ovviamente anche sul film di Tretti, che rimase bloccato.
Il potere rappresenta le dinamiche di acquisizione del potere in diversi periodi storici, dalla preistoria al consumismo italiano contemporaneo, passando per l’Impero Romano, la conquista occidentale a scapito degli indiani nativi e il ventennio fascista. Le varie scene sono commentate da tre bestie, il leone, la tigre e il leopardo, che rappresentano rispettivamente il potere militare, il potere commerciale e il potere agrario. Secondo le parole dello stesso Tretti intervistato da “Cineforum”, il film è una grottesca cavalcata attraverso le varie epoche della storia, per dimostrare che il potere, con abiti e mezzi diversi, è sempre lo stesso, l’oppressione e lo sfruttamento, cioè, di una classe sulle altre. Per dare l’idea della continuità della violenza di classe contro coloro che vogliono opporsi a un determinato assetto sociale, Tretti riporta alla memoria dello spettatore, per un attimo, i volti di Matteotti, di Gramsci, di Rosa Luxemburg, di Malcom X e di Lumumba. Mentre quando affronta il fascismo, Tretti decide di mettere in scena Mussolini come un burattino. “Perché Mussolini è stato in effetti un burattino, uno strumento cioè nelle mani del potere che l’ha usato finché faceva comodo, per buttarlo poi via come un oggetto divenuto inutile, nel momento in cui si rende necessario controllare la situazione con altri mezzi. Mussolini dunque è rappresentato da una maschera sormontata da un gancio di ferro, per evidenziare appunto l’aspetto di marionetta del dittatore”. Non sai quanto hai ragione, Augusto, soprattutto oggi che i semicolti piddini, elettori e dirigenti, intellettuali e ballerine, sbraitano contro il fascismo e Mussolini, e ci scrivono anche libri che diventano serie Netflix, e poi si piegano a pecora gioiosi e festanti davanti a quegli stessi poteri economici oligarghici che, un secolo dopo, gli chiedono di nuovo di andare in guerra. Soprattutto oggi che accade questo schifo. Il fascismo dell’antifascismo, direbbe Pasolini. Non sai quanto hai ragione, Augusto, sui burattini oggi considerati eroi. Si potrebbe parlare de Il potere per ore, ma credo che la carica corrosiva del film sia pienamente rappresentata da questo brano del film (…). Come poteva Tretti essere amato dall’intellighenzia? Ancora oggi le vere politiche di destra le fa la sinistra neoliberista piddina e scarti vari. Soprattutto, oggi.
Dopo Il potere, terminato dopo lunghi anni di fatica grazie a due produttori milanesi, Tretti ha realizzato solo un altro lungometraggio, un documentario dal titolo Alcool, nel 1980. Cioè dopo altri dieci anni da Il potere. Tretti morirà 33 anni dopo senza più riuscire a fare altro di significativo. D’altronde, nel 1988 lo stesso Lombardo che lo apprezzava tanto, in seguito alla proposta di Tretti di produrlo ancora, fu costretto a scrivergli una lettera di questo tenore: “Come al solito, le tue idee sono piene di spunti intelligenti e di trovate, e sono il frutto di un acuto senso critico della realtà. Purtroppo oggi, in questa morta gora di produzione filmistica qualsiasi iniziativa, specialmente se intelligente, è destinata a non coprire i costi di produzione. Se prima era difficile oggi è, direi, quasi impossibile tranne che non si facciano dei film con Verdone, Nuti, Benigni, Troisi”.
Scrive il sito Quinlan: “Come accaduto per altri registi inadatti al sistema, allergici ai salotti e alle terrazze, anche Tretti verrà riposto in un angolino, pronto all’elogio pubblico quanto al boicottaggio sistematico privato. Il suo è un cinema scomodo, ma non per il pubblico, ed è ora di affermare una verità troppo spesso taciuta: Tretti va visto, non discusso e analizzato. I suoi film non hanno bisogno di presentazioni o spiegazioni, perché possiedono un aspetto del popolare che troppo spesso viene trattato con disprezzo: la chiarezza. L’eloquio dei suoi film è nitido, impossibile da confondere o fraintendere”. Perciò, come abbiamo sempre detto, e in sintonia con lo spirito di questa rubrica: andateveli a vedere La legge della tromba e Il potere. Muovete i ditini e digitate. Come fa notare sempre Quinlan, Tretti non era avanguardia, era il resto a essere retroguardia. Il suo non era neppure cinema per intellettuali, era cinema per il popolo fatto col popolo. Al netto di tutte le cagate che abbiamo detto fin qui, che – come vi dicevo per esempio a proposito dei film di Lynch, dovete dimenticarle subito dopo averle ascoltate – quello di Tretti era semplicemente cinema. I suoi erano film. Non film d’avanguardia, non film d’autore, non film da festival. Film. Non trovo un modo più efficace per dirlo. Film. Il 17 giugno del 2013, la rivista Screen Anarchy scriveva: “È scomparso in silenzio. Purtroppo è così che tutti ricordano la recente dipartita di Augusto Tretti. È morto il 7 giugno e, nonostante siano passati 10 giorni dalla sua scomparsa, sembra che in Italia nessuno se ne sia accorto. Forse è dovuto al fatto che si è chiuso a lungo nella sua casa sul lago di Garda. La vita cinematografica di Tretti si è conclusa prematuramente nel 1985, quando ha diretto Mediatori e Carrozze grazie all’amico Ermanno Olmi, un cortometraggio uscito in TV cinque anni dopo il suo terzo e ultimo film, Alcool. A quanto pare nessuno si è interessato al suo corpus di opere, un impressionante trio prodotto nell’arco di 20 anni, acclamato da molti registi e da pochi critici”.
Graze! grazie! grazie! per aver dedicato una puntata a questo genio…. erano mesi che meditavo di scriverti per chiedertelo.
Mi è tornato in mente grazie alle vostre segnalazioni