La transizione energetica è una delle grandi sfide del nostro tempo. Abbandonare le fonti fossili non è solo una questione ambientale, ma – soprattutto per noi che non ne abbiamo – potenzialmente anche un’opportunità storica per perseguire finalmente una qualche forma di sovranità energetica, democratizzare l’accesso all’energia e ridistribuire le risorse. Ma cosa succede quando questa transizione, invece che dai bisogni concreti del 99%, è trainata dalla fame di profitti dell’1?
Per capirlo, non c’è punto di vista migliore che la periferia della periferia, come la Sardegna: una vera e propria colonia militare della NATO con i tre poligoni di tiro più grandi d’Europa che, con più di 800 progetti di mega impianti eolici e fotovoltaici, oggi si candida a diventare l’Eldorado degli aspiranti nuovi speculatori dell’energia pulita. Il popolo sardo è impegnato da anni in una battaglia per chiedere una transizione senza speculazione e nell’interesse dei sardi e contro un modello che esporta energia, ma importa povertà e subalternità: tutto è iniziato con il Decreto Draghi del 2021, che ha di fatto aperto la corsa all’oro dei nuovi affaristi. Sai che novità, quando ci mettono le mani multinazionali, banche d’affari e San Mario Pio da Goldman Sachs anche la migliore delle idee va in malora…
Ovviamente, seguendo i media mainstream non capiamo nulla di quello che sta avvenendo nell’isola e del perché i sardi siano sul piede di guerra e abbiano raccolto ben 210mila firme su un milione e mezzo di abitanti per una legge di iniziativa popolare per fermare il saccheggio; per fare un po’ di chiarezza Multipopolare Sardegna, in collaborazione con associazioni e movimenti, ha organizzato Energia Multipopolare, un panel con otto ospiti d’eccezione per affrontare a tutto tondo questo tema così delicato.
In questo primo video l’ottoliner Cristiano Sabino colloca storicamente la questione e ci racconta come la Sardegna è stata un laboratorio di modernizzazione imposta dall’alto; una storia che inizia nel lontano 1820, quando viene emanato l’Editto delle chiudende col quale si autorizzavano i ricchi a recintare le terre comuni da cui il popolo ricavava da vivere: Lo facciamo per la modernità e il progresso si diceva allora. Esattamente la stessa retorica descritta da Marx a proposito del fenomeno analogo, ma più noto, delle enclosures inglesi di qualche secolo prima, che sta alla base dell’accumulazione primitiva del capitalismo, cioè di quella grande rapina originaria su cui si fonda il capitalismo.
Anche l’abolizione del feudalesimo non ha portato esattamente prosperità e ricchezza ai sardi: le stesse élites che hanno schiacciato nel sangue la rivoluzione antifeudale e antimonarchica di fine Settecento, infatti, hanno pensato bene di abolire il feudalesimo tra il 1835-1838, facendo però pagare il prezzo del riscatto dei feudi, venduti anche a decine di volte il loro valore, ai contadini e ai pastori; anche in questo caso l’operazione veniva accompagnata da tante belle parole sul progresso e sulla modernità. Dal 1856 poi lo Stato dà licenza di abbattere le foreste di alto fusto della Sardegna “per dare alla Sardegna una rete ferroviaria”, si diceva: peccato che il grosso del legname finirà nella cantieristica navale civile e militare del nord Italia, lasciando i sardi sempre a bocca asciutta.
E poi lo sfruttamento minerario, la carta bianca ai caseari laziali, la militarizzazione dell’isola e la montagna di denari pubblici nelle tasche di industriali senza scrupolo che hanno saccheggiato l’isola per decenni, sempre in nome della modernità e del progresso; senza questo contesto non si capisce perché i sardi si oppongono così strenuamente ad un progetto di conversione energetica che li vede ancora una volta assoggettati e passivi e che Sabino, in numerosi articoli e interventi, ha definito quarta colonizzazione. L’obiettivo non è, ovviamente, quello di fare un tuffo nel passato rifiutando in blocco la transizione energetica, ma di riportare al centro del dibattito politico gli interessi di popolazioni storicamente assoggettate e marginalizzate che oggi, dopo secoli di sfruttamento e calunnie, rivendicano la necessità di affrontare la modernità e il cambiamento senza essere sotto tutela.
Cambiano le latitudini, ma i meccanismi della colonizzazione restano invariati. Al di là di quello che tecnocrati e teorizzatori della fine della politica vogliono farci bere, è chiaro che la modernizzazione non è mai un processo neutrale; come abbiamo visto, troppo spesso è stata imposta dall’alto sacrificando i diritti delle comunità in nome di un progresso che ha favorito pochi e schiacciato la maggioranza assoluta, vale a dire il 99%. La storia della Sardegna è un esempio paradigmatico di queste dinamiche, ma le resistenze popolari che la attraversano sono anche un faro che ci sprona a non rassegnarci e a riorganizzare la riscossa multi popolare. Il capitalismo, con la sua logica di profitto e sopraffazione – specialmente quando mostra il suo volto coloniale – non può essere il motore di un vero cambiamento; le comunità sarde lo sanno bene e, come in passato, stanno alzando la voce per rivendicare autodeterminazione e sovranità, come stanno facendo anche altri popoli del pianeta. Non si tratta di rifiutare il futuro, ma di costruirlo insieme, partendo dai bisogni reali delle persone e dei territori.
La strada da percorrere è quella della democrazia energetica: un modello che metta al centro le comunità, l’autodeterminazione, la giustizia sociale e ambientale. Un modello che rompa con le logiche del passato e apra la strada a un futuro davvero sostenibile per il 99%.
Historia magistra vitae. Ma evidentemente non per tutti. Le lotte “politiche” devono tenere in debito conto l’insegnamento di un passato remoto e di un passato più recente, perché le rivendicazioni di un popolo possano avere una pur minima speranza di successo. E allora, a proposito di speculazioni ( in generale ) dovremo capire che la Sardegna è caratterizzata, purtroppo, da una modernizzazione priva di profonde radici e di efficaci anticorpi. Abbiamo permesso per troppi anni che le classi dirigenti locali siano rimaste subalterne e miopi anteponendo tornaconto secondario all’interesse generale. In definitiva siamo stati vittime e attori nello stesso tempo di un processo storico drammatico e , per certi aspetti, affascinante
È nostro compito allora affrontare la questione energetica con una visuale più aperta, più critica e meno ideologica, evitando, naturalmente, di inchinarsi ai poteri forti che man mano arrivano nella nostra isola per saccheggiarla e per violentarla. Per fare questo, però, occorre aggredire il problema con meno provincialismo e con più raziocinio. Rabbrividisco quando sento ripetere che l’unica soluzione è quella di dichiarare l’indipendenza della Nazione Sarda. Alla fine del secolo scorso e all’inizio di questo la frantumazione degli stati in una miriade di comunita’ ha aumentato in modo esponenziale la conflittualità con la catastrofica situazione che oggi ci troviamo sotto gli occhi. Io personalmente mi sento sardo, ma nello stesso tempo mi sento anche italiano, oltre che cittadino del mondo. Mi sento sardo perché il mio corredo di idee, di esperienze, di immagini e di suoni si e’ formato in questa terra. Ma con la velocità con cui tutto oggi avviene personalmente riesco a trovare sicurezza solo quando ho certezza e consapevolezza da dove provengo. Detto questo, però, credo che essere indigeno non sia di per sé una garanzia di qualità. Si tratta di fare uno sforzo per capire che la vera identità si costruisce intrecciando diversi fili, come quando si costruisce una corda. E una corda tanto più si rafforza quanto più si riesce a moltiplicare la resistenza dei fili che la compongono e la connettono ad altre storie. E tanto più si indebolisce quanto più si riducono o si recidono le connessioni verso l’esterno. Così Emilio Lussu nel 1947 alla Camera dei Deputati: ” Noi sentiamo che la Sardegna, con questa sua esperienza autonoma, non si allontani dall vita dello Stato o dall’ Unità Nazionale, ma vi si avvicina e vi entra e vi partecipa per la prima volta, perché per la prima volta ha coscienza che questo nostro Stato è finalmente anche il suo Stato “. È tempo di smetterla di nasconderci il viso con la maschera di un superato vittimismo, che a volte glorifica le mutilazioni e gli ematomi non assorbiti e non saputi che un passato di aggressione e sudditanza vi ha impresso.
Il futuro della Sardegna non è da costruire assieme, ma solo tra Sardi! Tre secoli di Spagna non ci hanno devastati manco per l’uno per cento di quanto ci ha devastato, e ci sta devastando l’italia, il peggiore, in assoluto, dei conquistatori dell’isola! Il nostro futuro sostenibile passa per una sola e obbligatoria strada da percorrere: L’INDIPENDENZA DELLA NAZIONE SARDA! Non siamo italiani, non siamo MAI stati italiani, e MAI lo saremo!