I super-materiali inventati dai russi che cambiano la guerra e mettono in ginocchio l’Europa
A partire dall’estate, dopo aver dovuto constatare il catastrofico fallimento di ogni altro sistema d’arma che – secondo gli annunci – avrebbe dovuto cambiare radicalmente le sorti del conflitto, il tormentone è diventato quello degli Storm Shadow britannici e degli ATACMS statunitensi e dell’autorizzazione a utilizzarli per attaccare direttamente il suolo russo, fino a quando, alle 3 e 45 della notte tra il 18 e il 19 novembre, le forze armate ucraine finalmente non sono passate all’attacco: l’obiettivo sarebbe stato questo fantomatico arsenale 67 della GRAU, la divisione del Ministero della Difesa della Federazione russa responsabile degli armamenti missilistici e dell’artiglieria situata nei pressi della città di Karachev, nella regione di Bryansk, una quarantina di chilometri a est dall’omonimo capoluogo di regione, e a oltre 100 chilometri dal confine con l’Ucraina. Stando alle fonti russe, si sarebbe trattato in tutto di 6 missili che, ovviamente, hanno immediatamente attivato il sistema di difesa aerea s-400 che ne avrebbe abbattuti 5; il sesto, invece, sarebbe andato a segno, ma sempre secondo le fonti russe si tratterebbe – in realtà – solo di frammenti caduti dopo essere stato intercettato, che avrebbero scatenato un incendio che però, sempre secondo i russi, non avrebbe causato “né vittime, né danni”. La questione è particolarmente delicata perché, come ormai è ben noto, l’utilizzo di questi sistemi d’arma implica la presenza di personale statunitense sul suolo ucraino; insomma: armi USA utilizzate da personale USA per attaccare dall’Ucraina direttamente il territorio russo, tant’è che (ancora ad oggi) cosa Washington abbia esattamente autorizzato, per fare cosa e come, è sostanzialmente avvolto nell’ambiguità e nel mistero. L’unica cosa che abbiamo è questa imbarazzata risposta del portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale John Kirby quando, durante il rituale incontro con la stampa di lunedì scorso, un reporter di Polskie Radio gli ha chiesto come valuta l’impatto degli ATACMS sul conflitto e se la valutazione USA sui rischi di escalation è cambiata: “In questo momento, loro… sono in grado di utilizzare gli ATACMS per… difendersi…. sai…. su… sulla base di un bisogno immediato. E proprio adesso…. sai….. comprensibilmente…. questo…. questo è quello che sta accadendo… in…. nei dintorni di Kursk… l’oblast di Kursk. Lascerei che siano gli ucraini a parlare del… dell’uso degli ATACMS, delle loro procedure di targeting, e per cosa li usano e quanto bene stiano facendo…. ma….. ma non è cambiato niente riguardo….. il …. il…. cioè…. ovviamente, abbiamo cambiato le linee guida. Gli abbiamo dato indicazioni che potevano usarli…. per…. sai…. per…. per colpire questi specifici tipi di obiettivi. Ma qual era l’altra domanda?”. Ho visto bambini di 6 anni alla prima interrogazione più sciolti e a loro agio, diciamo.
Come ricorderete, nel marzo scorso erano trapelate delle intercettazioni di una discussione tra ufficiali tedeschi riguardo la possibilità di autorizzare l’impiego dei missili da crociera Taurus in Ucraina per colpire obiettivi strategici, a partire dal ponte di Kerch in Crimea: gli ufficiali sottolineavano come l’autorizzazione all’impiego avrebbe comportato un coinvolgimento diretto di personale tedesco, data la complessità del sistema d’arma e la mancanza di membri delle forze armate ucraine adeguatamente addestrate per il suo utilizzo; da allora è passato del tempo e, sicuramente, anche l’addestramento è andato avanti, ma per risolvere questo problema un po’ più d’addestramento potrebbe non essere sufficiente. Il punto è che questi sistemi d’arma sono davvero efficaci se e solo se sei in grado di usarli per colpire in modo estremamente accurato determinati obiettivi strategici; non è che lanci centinaia di Taurus o di Storm Shadow o di ATACMS per radere tutto al suolo, anche perché ce ne sono pochini e costano una quantità di quattrini impressionante: servono esclusivamente per colpire alcuni selezionatissimi punti strategici vitali che non potrebbero essere colpiti altrimenti. Per farlo, ti servono dati di intelligence ultra-accurati che ottieni solo mettendo insieme informazioni satellitari, sorveglianza elettronica, dati forniti da droni di ricognizione etc… Insomma: non è esattamente come regalare un tir di Javelin: per usarli in modo appropriato ed efficace devi avere l’accesso incondizionato a una serie infinita di strumenti e modalità operative altamente classificati ed essere puntigliosamente formato per gestirle. Che non sono esattamente cose che chi ti fornisce i sistemi d’arma condividono con gioia, diciamo, e non solo perché ci sono evidentemente esigenze di riservatezza (anche di carattere meramente industriale), ma anche perché – secondo una vecchia, semplice, ma ferrea regola di ogni forma di intelligence – più un’informazione è delicata e meno persone devono potervi accedere, anche semplicemente per limitare al massimo le possibilità che alla fine, in un modo o nell’altro, finisca in mani sbagliate. E non è ancora finita, perché anche nel caso tu decida di rischiartela e di condividere tutto il condivisibile, il personale sul campo, molto probabilmente, potrebbe non avere tutte le risorse necessarie per gestire in autonomia tutti gli aspetti operativi e continuerebbe comunque, in buona parte, a dipendere da un supporto remoto; su tutti questi aspetti, come confermano in modo piuttosto plateale i balbettamenti di John Kirby in conferenza stampa, si è scelta la strada dell’ambiguità: la famosa ambiguità strategica, tanto cara al sempre pimpantissimo Manuelino Macaron e che, oltre al livello di coinvolgimento diretto dei Paesi NATO per l’utilizzo di sistemi d’arma avanzati come gli Storm Shadow e gli ATACMS, riguarda anche l’ipotesi del ricorso a truppe di terra in Ucraina. “Non dobbiamo escludere alcuna opzione” ha ribadito in più occasioni invitando gli alleati occidentali a “non stabilire ed esprimere linee rosse” a priori, che è sempre un modo anche per cercare di capire fino a che punto Putin è disposto a spingersi.
A questo giro, la prima risposta (più o meno immediata) è stata l’aggiornamento della dottrina nucleare russa e, in particolare, del documento noto come Foundations of State Policy in the Field of Nuclear Deterrence (Fondamenti della politica statale nel campo della deterrenza nucleare), approvato e pubblicato per la prima volta nel giugno 2020: la nuova dottrina introduce il ricorso all’uso di armi nucleari in risposta a un’aggressione anche da parte di uno Stato non nucleare a condizione che tale aggressione sia stata sostenuta o facilitata da una potenza che, invece, nucleare lo è; inoltre, estende la deterrenza nucleare, oltre ai singoli Stati, anche alle coalizioni militari (come, appunto, la NATO) che, in soldoni, significa che un attacco da parte di un membro di una coalizione – diciamo la Polonia, giusto per fare un esempio a caso – sarà considerato un’aggressione da parte dell’intera coalizione e quindi, di nuovo, giustificare (potenzialmente) il ricorso a una risposta nucleare. E, per concludere, la nuova dottrina contempla il ricorso alle armi nucleari anche come risposta ad attacchi che nucleari non sono, ma che comunque, grazie all’utilizzo di sistemi d’arma avanzati (come un uso massiccio di sciami di droni o i missili ipersonici), rappresentano una minaccia concreta alla sovranità russa. Gli alleati della NATO, comunque, non si sono lasciati intimidire ed ecco che, il giorno dopo, è arrivata la notizia di un secondo attacco su suolo russo, questa volta con i britannici Storm Shadow e nel cuore dell’oblast di Kursk: secondo le fonti ufficiali ucraine, l’attacco avrebbe colpito un centro di comando sotterraneo utilizzato dalle forze russe causando perdite significative tra il personale militare. La versione russa, ovviamente, è completamente diversa: i missili sarebbero stati tutti intercettati e gli unici danni – che riguarderebbero, comunque, esclusivamente edifici residenziali e strutture civili – sarebbero stati causati dai detriti risultanti. Il premier britannico Keir Starmer ha evitato accuratamente di rilasciare dichiarazioni a proposito, ma, al posto suo, la dichiarazione l’hanno rilasciata i russi, coi fatti: il giorno dopo, infatti, dal cosmodromo di Kapustin Yar è partito qualcosa di non meglio identificato che, nell’arco di 5 minuti, ha percorso la bellezza di 800 chilometri e poi ha rilasciato 6 testate che, a loro volta, hanno rilasciato altre 5 – 6 testate cadauna causando, in tutto, una trentina di esplosioni (apparentemente limitate) nei paraggi dello Yuzmash di Dnipropetrovsk, uno dei più grandi e significativi complessi industriali dell’intera Ucraina specializzato della produzione di razzi, missili, componenti aerospaziali e attrezzature industriali pesanti; un vero e proprio oggetto volante non identificato che ha sconvolto mezzo pianeta fino a che il quadro non si è cominciato a chiarire.
L’oggetto non identificato è una nuova tipologia di missile che (come ormai saprete sicuramente tutti) si chiama Oreshnik: sarebbe una variante dell’RS-26, il missile intercontinentale sviluppato dalla Federazione Russa all’inizio del secolo e che, sebbene avesse completato i test di volo intorno al 2015, sarebbe poi stato messo da parte e che, ad oggi, non risulta essere ufficialmente integrato nelle forze strategiche russe; la classificazione dell’RS-26 come missile intercontinentale – e non, invece, come missile a raggio intermedio – è una vecchia querelle dai risvolti piuttosto significativi. A differenza dei missili intercontinentali, infatti, fino al 2019 i missili a raggio intermedio (e, cioè, con gittata tra i 500 e i 5.500 km) erano vietati dallo storico trattato INF siglato nel 1987 da Gorbaciov e Reagan; il problema di questi missili era che, schierati da uno dei due lati della cortina di ferro, avrebbero potuto colpire il nemico con testate nucleari nell’arco di meno di 10 minuti, aumentando a dismisura il rischio di decisioni affrettate o veri e propri errori che avrebbero potuto scatenare una guerra nucleare. Il trattato portò alla distruzione, nell’arco di pochi anni, di oltre 2.500 missili sia statunitensi che sovietici: una vera e propria pietra miliare nella storia del controllo degli armamenti. L’RS-26 rappresentava potenzialmente una violazione di questi trattati, anche se non secondo i russi: la gittata ufficiale dell’RS-26, infatti, era di 5.800 chilometri, che lo rendeva – appunto – un missile intercontinentale, ma con il sospetto (non del tutto campato in aria) che potesse essere facilmente impiegato anche per distanze inferiori, come sarebbe stato confermato anche dai test effettuati dagli stessi russi che, a quanto pare, ricoprivano spesso distanze decisamente inferiori. Mosca, comunque, ha sempre sostenuto che fosse stato progettato e testato per operazioni intercontinentali e quindi fosse conforme al trattato INF, ma la voglia di menare le mani dell’isolazionista pacifista Donald Trump era tale che nel 2019 decise di cogliere la palla al balzo: accusò Mosca di violare lo spirito del trattato e lo buttò nel cesso. Il problema, ovviamente, era tutto un altro: il fatto è che l’INF vincolava Mosca e Washington, ma non Pechino che, nel frattempo, aveva sviluppato un vasto arsenale di missili balistici e da crociera di medio raggio; d’altronde, la scelta del ritiro unilaterale era perfettamente in linea con un’altra decisione adottata oltre 15 anni prima di ritirarsi unilateralmente da un’altra pietra miliare della storia del controllo degli armamenti.
E’ il trattato ABM: siglato nel 1972, sempre da USA e Unione Sovietica, doveva servire a limitare lo sviluppo e il dispiegamento di sistema di difesa antimissile balistico; secondo l’accordo, ogni Paese poteva schierare un solo sistema ABM in un’area designata. L’idea era che la capacità di sviluppare sistemi di difesa avrebbe incentivato la corsa al riarmo, rendendo il pianeta nel suo complesso molto più insicuro; la scelta di uscire unilateralmente fu presa nel 2001 dal criminale di guerra George W. Bush con la scusa che Washington era minacciata sia da Pyongyang che da Teheran (oltre che dagli alieni e dall’ideologia del gender, ovviamente). Inizialmente gli alleati europei espressero tutte le loro perplessità, ma poi, da bravi amministratori coloniali, finirono con appoggiare la scelta; da allora, nell’arco di pochi anni, gli USA hanno sviluppato una nuova serie di sistemi antimissile che ultimamente – dall’Ucraina a Israele, passando per il Pacifico – sono diventati argomento di dibattito quotidiano: dall’Aegis al Thaad. Il che, ovviamente, a sua volta ha spinto la Russia a sviluppare nuovi sistemi d’arma, a partire dal missile balistico intercontinentale Sarmat e da quello ipersonico Avangard, progettati proprio per eludere i sistemi ABM. Il primo schieramento di missili che in passato sarebbero stati proibiti dal trattato INF è avvenuto nell’aprile scorso, quando nell’ambito dell’esercitazione Salaknib 24 le forze armate USA hanno schierato nelle Filippine il lanciatore Typhon, progettato per lanciare missili a medio raggio come i Tomahawk e gli SM-6, gli stessi che nel vertice NATO dello scorso 10 luglio Washington e Berlino hanno annunciato che, a partire dal 2026, verranno dispiegati in Germania: l’Oreshnik, più che una risposta agli ATACMS e agli Storm Shadow, è una risposta a questo annuncio, anche se la tempistica e le modalità di utilizzo, ovviamente, sono direttamente legati a cosa sta succedendo sul campo e nelle cancellerie nei confronti della guerra per procura in Ucraina. L’Oreshnik, sottolinea il buon Bernhard su Moon of Alabama, “utilizza combustibile solido, e viene lanciato da unità mobili”, il che significa che “Può essere sparato con breve preavviso da posizioni mimetizzate” e, una volta lanciato, “può raggiungere qualsiasi obiettivo in Europa in meno di 20 minuti”. “Al rientro nell’atmosfera” continua Bernhard “le testate del missile raggiungono velocità ipersoniche di 3-4 chilometri al secondo” e trattato ABM o non trattato ABM, molto banalmente, “Non esiste un sistema di difesa aerea al mondo in grado di fermarle”; insomma, commenta Bernhard: “L’Europa adesso contro le nuove armi russe che possono raggiungere ogni suo centro politico e industriale con un potere devastante e con pochi minuti di preavviso è totalmente indifesa”.
Secondo Bernhard, l’Oreshnik è destinato a cambiare strutturalmente i rapporti di forza anche per un altro motivo; l’idea è che la strategia USA, fino ad oggi, sia stata quella di infilare la Russia tra l’incudine e il martello: o fare concessioni, oppure ricorrere al nucleare – basti vedere “la strategia della rana bollita adottata in Ucraina” come la definisce Bernhard. Gli USA, argomenta, non hanno fatto altro che “aumentare la temperatura lentamente, ampliando di volta in volta, gradualmente, la portata e la letalità delle armi fornite. Ogni volta, dalla consegna di carri armati, agli Himars, agli ATACMS, e ora all’autorizzazione di usarli per colpire direttamente territorio russo, si trattava di superare un’immaginaria linea rossa del Cremlino. E ogni passaggio veniva accompagnato da una quantità enorme di propaganda che sosteneva che la Russia stava esaminando una risposta nucleare” con la sicurezza però, da parte degli USA, “che la Russia alla fine si sarebbe astenuta da ricorrere al nucleare perché questo l’avrebbe resa un paria internazionale, e avrebbe causato la fine del sostegno da parte dei suoi alleati in Cina e oltre”; “Questa strategia” commenta Bernhard “alla lunga avrebbe anche potuto funzionare. Almeno fino a quando la Russia non avesse trovato una risposta asimmetrica da opporre a questo piano. Questa risposta ora è appunto l’Oreshnik, che gli consente potenzialmente di applicare l’equivalente di un attacco nucleare, senza tutte le conseguenze di ricorrere davvero al nucleare”. Ma a cosa si riferisce il nostro Bernhard? Il punto è che l’energia sprigionata da un impatto è data da una semplicissima forza matematica e, cioè, massa per velocità al quadrato: “Colpire i bersagli con una velocità di Mach 10” – e, cioè, oltre 12 mila chilometri orari – “permette anche a piccoli penetranti senza esplosivi di avere effetti devastanti”; lo sapevano bene gli uomini di Reagan, che giustificavano parte della corsa allo spazio proprio con l’idea di poter lanciare dai satelliti delle specie di freccette cinetiche in grado di colpire i bersagli a una velocità (appunto) di Mach 9 o 10, che avrebbero avuto “la resa di una piccola bomba nucleare tattica”. Il problema era che, una volta entrati in atmosfera, il grosso della superficie di questi oggetti si sarebbe dissolto nel niente a causa della combustione; e affinché alla fine del tragitto rimanesse comunque qualcosa di abbastanza significativo da causare i danni desiderati, l’oggetto di partenza, molto banalmente, doveva essere troppo grosso e pesante per essere posizionato nello spazio: “I penetratori utilizzati dall’Oreshnik” invece, sottolinea Bernhard, “sono enormemente più piccoli”.
Il trucco sta tutto nella ricerca che è stata fatta sui materiali compositi avanzati che non solo sono estremamente più resistenti alle alte temperature e riducono al minimo l’erosione, ma riescono anche a proteggere le parti elettroniche in modo che continuino a funzionare anche in situazioni estreme, consentendo al missile di continuare ad essere manovrabile: per una stazione di benzina con la bomba atomica – come hanno sempre definito i suprematisti occidentali la Russia arretrata e zoticona – non male; ciononostante, comunque, il ricorso agli ATACMS è continuato anche nei giorni successivi. Il ministro della difesa russo martedì ha rivelato altri due attacchi: uno il 25 novembre contro l’aeroporto di Kursk-Vostochny, durante il quale sarebbero stati abbattuti 7 missili (mentre uno avrebbe colpito il bersaglio) e un altro due giorni prima, il 23 novembre, quando 2 dei 5 ATACMS lanciati contro un s-400 in manutenzione a una quarantina di chilometri da Kursk avrebbero raggiunto il bersaglio, distruggendolo. Questo ultimo attacco, in particolare, ha accesso i facilissimi entusiasmi degli ultras NAFO: un ATAMCS che abbatte il leggendario s-400! “Putin è finito! Il Cremlino sta per crollare! Ci riprendiamo la Crimea e pure un pezzo di Russia, e lo regaliamo al compagno Khodorkovsky”; in realtà, però, sarebbe emerso che l’s-400 era in manutenzione. Insomma: un po’ come esaltarsi perché vinci un incontro di pugilato contro un mutilato con l’influenza. Secondo alcune stime, gli USA in tutto avrebbero fornito all’Ucraina non oltre 50 ATACMS; una quindicina se ne sono già andati: basteranno gli altri 35 a rallentare la riconquista russa dell’oblast di Kursk al punto che, quando Trump salirà alla Casa Bianca, la questione sia ancora aperta e la sua promessa di far tacere le armi nell’arco di pochi giorni non sia perseguibile? Vedremo. Quel che sembra chiaro è che, dal voler fiaccare la Russia, gli USA si sono ritrovati nell’arco di pochi anni a doversi concentrare sulle scaramucce interne: per rinviare il declino dell’impero mi sembra un po’ pochino. Per accelerarlo, invece, tra le altre cose di sicuro ci serve un media indipendente, ma di parte: quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Orio al Serio Stirpe
Lascia un commento