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Tag: missili

Mentre gli USA si spolpano per sostenere lo sterminio dei palestinesi, la Cina si riprende Taiwan

Mentre gli USA si avviano a impantanarsi definitivamente (un’altra volta) in Medio Oriente fornendo a Israele quel poco che gli rimane, in termini di sistemi d’arma, dopo aver preso una quantità di schiaffi inenarrabili per quasi 3 anni dalla Russia sul fronte ucraino, la Cina mostra i muscoli e dimostra in modo plateale che in questo contesto è in grado di vincere la più importante delle battaglie della Guerra del Pacifico quando e come vuole. Mentre Netanyahu incassava l’ennesimo sostegno USA allo sterminio incondizionato dei bambini palestinesi garantendosi la fornitura di uno dei soli 7 esemplari esistenti del prestigioso sistema di difesa antiaerea THAAD (con tanto di 100 militari specializzati USA al seguito), Pechino, infatti, nell’arco di pochissime ore metteva in campo una delle più grandi esercitazioni di sempre e dimostrava come – anche proprio grazie all’impegno dell’alleato padrone di Washington e della sua industria bellica su altri due fronti – è in grado di isolare la provincia di Taiwan dal resto del mondo e costringerla a una rapida resa: “È la prima volta che la Cina lancia un’esercitazione che mira a bloccare i porti e tutte le aree di accesso chiave a Taiwan” ha scritto in un editoriale il giornalista cinese Shichun Wang; “In questo modo possiamo abbordare, ispezionare e sequestrare le navi che inviano armi statunitensi a Taiwan e impedire ad altri Paesi di inviare navi petrolifere e di gas naturale sull’isola”. “Il successo o il fallimento di un blocco cinese” ha continuato “dipende interamente dalla capacità di Washington e dei suoi alleati di intervenire tempestivamente in supporto dell’isola”, ma con questa esercitazione abbiamo dimostrato che “l’iniziativa ora spetta alle nostre forze armate, e che nessun sostegno dall’estero sarà veramente possibile”. Come abbiamo sottolineato innumerevoli volte, gli USA fanno fatica a tenere botta anche solo su un unico fronte; con due fronti aperti la faccenda si complica a dismisura; con tre la debacle, se non si può dire totalmente assicurata, poco ci manca. Il problema è che, ormai, a dettare l’agenda non è più l’Occidente collettivo solo soletto, che deve dosare le energie per capire dove e come attaccare: come sottolinea Wang per il caso di Taiwan “l’iniziativa ora spetta alle nostre forze armate”, così come spetta alle forze armate della federazione russa e, dal 7 ottobre del 2023 (anche se in misura e con modalità diverse) all’asse della resistenza nel Medio Oriente. Senza dimenticare che, nel frattempo, la Corea del Nord ha ulteriormente alzato l’asticella demolendo le vie di comunicazione che ancora la collegavano fisicamente ai cugini del sud; come, d’altronde, in Africa l’asse dei paesi ribelli del Sahel, con il Burkina Faso che ha recentemente annunciato la nazionalizzazione delle miniere d’oro, cosa che -evidentemente – non è piaciuta alla sinistra imperiale.
Per celebrare il 37esimo anniversario della morte del leggendario leader antimperialista Thomas Sankara, Il Manifesto martedì ha pubblicato questo lungo articolo a firma Gaetano Mazzola (che fino a ieri non avevo mai sentito nominare e, sinceramente, avrei preferito continuare così): l’articolo di Mazzola sembra quasi una caricatura dell’astrattismo dirittumanista che rende l’aperisinistra occidentale universalmente odiata in tutto il Sud globale; l’autore non riesca a farsi una ragione del fatto che il leader patriottico Ibrahim Traoré prediliga il rapporto con Vladimir Putin a quello con Elly Schlein e Anna Baerbock. In questa fase di declino imperiale, il suprematismo culturale della sinistra ZTL si rivela (ancora una volta) l’alleato più fedele del neocolonialismo di matrice atlantica; fortunatamente, fuori dalle terrazze dei Parioli non conta una seganiente. Ma prima di addentrarci in questa radiografia aggiornata dell’impasse strategica dell’imperialismo a guida USA, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permettere anche a noi di prendere l’iniziativa sul quarto fronte del conflitto (quello contro la propaganda mainstream e la dittatura degli algoritmi al servizio dell’impero) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghino le invincibili forze armate statunitensi per battere in ritirata da uno degli innumerevoli teatri di guerra che hanno contribuito ad incendiare, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a impedire che i pennivendoli a libro paga delle oligarchie atlantiste facciano passare questa gigantesca debacle come l’ennesimo, inevitabile trionfo della superiorità dell’uomo bianco.

Il sistema d’arma THAAD

Come ampiamente prevedibile, il trito e ritrito teatrino del tira e molla tra lo sbirro cattivo sionista e quello buono democratico si è concluso con un bel bastimento di nuove, avanzatissime armi USA a sostegno dello sterminio indiscriminato di bambini palestinesi; da Gaza, intanto, arrivavano le prime raccapriccianti immagini dell’attacco dei fascio-sionisti alla tendopoli di fortuna allestita all’esterno dell’ospedale dei martiri di Al Aqsa di Deir al-Balah, nel bel mezzo della Striscia, dove da mesi si accalcano centinaia di feriti in condizioni infernali e che, dopo l’attacco, s’è trasformato in un inferno vero e proprio, con un incendio che ha bruciato vive in diretta streaming diverse persone, bambini compresi. Pochi giorni prima Israele, dopo aver minacciato esplicitamente il capo dell’ONU Guterres, aveva aperto il fuoco sulle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite di stanza in Libano – concentrandosi, in particolare, su quelli italiani; e cosa fa il Paese leader del mondo libero e democratico per tornare ad imporre il rispetto (almeno di facciata) del diritto internazionale e di quello umanitario? Spedisce a Tel Aviv il più avanzato dei suoi sistemi di difesa antiaerea, il THAAD, con tanto di 100 uomini in divisa necessari per usarlo come si deve: l’obiettivo è permettere a Israele di provare a ristabilire un minimo di deterrenza nei confronti dell’Iran dopo il catastrofico fallimento dell’Iron Dome durante la pioggia di missili che sono arrivati da Teheran il primo ottobre scorso, una reazione che, appunto, è stata al centro dell’ennesimo teatrino. Inizialmente, infatti, il timore sollevato ad arte dalla propaganda sionista e dai media al suo servizio (cioè tutti) era che Israele potesse reagire attaccando le infrastrutture nucleari iraniane; peccato, però, che sia più facile da dire che da fare: le infrastrutture nucleari iraniane infatti, com’è ovvio, sono ben fortificate e, in gran parte, sottoterra, parecchio sotto. Per colpirle servirebbe una potenza di fuoco notevole, vale a dire una quantità consistente di bombe anti-bunker, fondamentalmente lanciate dagli F-35. E non è detto che basti: il problema è che le installazioni nucleari iraniane, altrettanto ovviamente, sono abbastanza lontane dal confine – perché la minaccia israeliana non è che è nata esattamente ieri e gli iraniani, magari, non appartengono esattamente a una civiltà superiore come quella occidentale decantata da Rampini, ma c’è la remota ipotesi che non siano comunque nemmeno completamente rincoglioniti; il problema di raggiungere l’interno del Paese con numerosi F-35, però, consiste nel fatto che (nonostante non abbiano gli USA che glieli forniscono) gli iraniani sono dotati di difese antiaeree piuttosto massicce che anche se non sono prodotto della superiore tecnologia immaginaria occidentale, quando non sono prodotte in casa arrivano dalla Russia – che così, a occhio, negli ultimi tre anni ha dato prova qualche competenza in materia di averla. Insomma: l’ipotesi degli attacchi alle installazioni nucleari era – piuttosto probabilmente – una puttanata da dare in pasto alla propaganda che sostiene il genocidio, per poi far passare il fatto di accontentarsi di obiettivi strategicamente meno significativi come un atto di moderazione e un’apertura al dialogo tale da giustificare l’invio di un premio sotto forma di una nuova ondata di armi USA.
Il THAAD, effettivamente, è una delle cose più preziose che gli USA potessero inviare, anche perché in 20 anni sono stati in grado di produrne appena 7; lo sforzo, quindi, è ammirevole: sarà anche sufficiente a cambiare le carte in tavola? Come tutte le armi che in questi tre anni sono state propagandate come risolutive in un conflitto che, invece, ha continuato ad andare di male in peggio come quello in Ucraina, ovviamente no. Il sistema THAAD dovrebbe servire a intercettare i missili balistici a medio raggio (che l’Iran possiede in discrete quantità) e che il primo ottobre hanno letteralmente umiliato la difesa antiaerea israeliana; ha la fama di essere un sistema sostanzialmente infallibile: secondo i test, infatti, andrebbe a segno il 100% delle volte. Peccato che, più che di test realistici, si tratti di banali operazioni di marketing: le condizioni nelle quali avvengono non hanno assolutamente niente a che vedere con quelle concrete che si riscontrerebbero sul campo; questo a prescindere, diciamo. Nel caso degli iraniani, poi, nel tempo – visto che il THAAD, comunque, ha una ventina d’anni d’età – hanno sviluppato una discreta serie di escamotage: il primo è che alcuni missili balistici sviluppati dall’Iran (come il Shahab-3 o il Khorramshahr) hanno la capacità di trasportare quelle che vengono definite decoy, cioè esche; in sostanza, i missili, durante il loro tragitto, rilasciano alcune testate che funzionano da falsi obiettivi in grado di confondere il THAAD. Questo significa che per intercettare uno di questi missili balistici sarebbe necessario l’impiego di numerosi intercettori. Inoltre il THAAD, fondamentalmente, è progettato per intercettare missili che seguono traiettorie piuttosto prevedibili, ma alcuni missili balistici iraniani (come il Ghadr-110 o l’Emad) hanno capacità di manovra nella fase terminale di volo e quindi, una volta rientrati in atmosfera, sono in grado di variare la traiettoria in modo imprevedibile; inoltre, alcuni missili balistici iraniani (come il Sejjil-2) sono a propellente solido, il che (in soldoni) si traduce nel fatto che hanno tempi di lancio molto più rapidi e riducono così l’efficacia dei sistemi di allerta rapida e rendono il lavoro di sistemi come il THAAD enormemente più complicati, soprattutto qualora si trattasse di un attacco coordinato con più lanci simultanei. Insomma: facendo la tara di tutte le complicazioni concrete, per beccare il missile balistico giusto al momento giusto probabilmente sono da preventivare almeno 3 o 4 intercettori; il problema è che il THAAD ne ha a disposizione solo 48 per volta e, quando hai finito la prima mandata, sei fottuto: nell’arco di quasi 25 anni, infatti, Lockheed Martin è stata in grado di produrre, in tutto, appena 800 intercettori e ora ne produce meno di 40 l’anno. Insomma: ragionando proprio a spanne, se anche tutta la produzione fosse riservata esclusivamente a Israele lo metterebbe in condizione di intercettare 10-15 missili balistici l’anno; peccato che, tra tutte le tipologie, si stima ne abbiano in magazzino tra i 250 e i 500 e che siano in grado di produrne ogni anno tra i 50 e i 100.
Insomma: i conti non tornano e anche quando si cerca maldestramente di farli tornare in qualche modo con un po’ di propaganda su tutti gli altri livelli di contraerea in possesso di Israele, ecco che arriva la ciliegina dei missili ipersonici; l’Iran infatti, com’è noto, si è dotato anche di missili ipersonici come il Fattah, in grado di raggiungere una velocità 15 volte superiore quella del suono, ma che (soprattutto) vola a bassa quota ed è altamente manovrabile. Insomma: è sostanzialmente non intercettabile – o almeno, anche solo per provarci, probabilmente richiederebbe l’impiego di un’intera batteria di intercettori. A onor del vero, comunque, bisogna sottolineare che in realtà non sappiamo quanti di questi missili ipersonici siano stati ad oggi prodotti e, ancor meno, quanti l’Iran sia in grado di produrne con continuità; il punto è che per difendere adeguatamente la minuscola Israele in caso di un’escalation che, secondo molti analisti, appare piuttosto probabile, o anche solo per cercare di ricostruire una qualche deterrenza mentre la Russia continua ad avanzare (lenta, ma inesorabile) nell’Ucraina orientale, gli USA si dovrebbero letteralmente svenare anche perché, rispetto all’Ucraina (nonostante il sostegno degli stati vassalli dell’impero sia ovviamente incondizionato) perlomeno c’è qualche timidezza in più – ammesso e non concesso che si tratti di timidezza e non di totale impotenza: ed ecco, così, che tirando la coperta corta tutta da una parte, un’altra, a 8 mila chilometri di distanza, rimane completamente scoperta.
Per esercitare un minimo di deterrenza nei confronti della Cina continentale, l’altrettanto piccola Taiwan avrebbe bisogno di essere armata fino ai denti; ma prima ancora che il Medio Oriente tornasse sulle pagine della cronaca bellica, la guerra in Ucraina aveva già imposto di rimandare le consegne – a partire dai Patriot, accordati nel lontano 2021, ma dei quali non c’è ancora traccia all’orizzonte: figurarsi adesso quali sono le prospettive con l’escalation in Medio Oriente in pieno corso. E per dare una rappresentazione plastica di come questa totale incapacità di assistere adeguatamente la provincia di Taiwan abbia cambiato la bilancia di potere nell’area, lunedì scorso la Cina ha messo in campo un’esercitazione che così, a occhio, lascia pochi dubbi: nell’arco di poche ore, Taiwan s’è ritrovata circondata da 17 navi da guerra (compresa una portaerei) e altrettante imbarcazioni della guardia costiera – che, detta così, sembra una cosa innocua, ma nel caso cinese non lo è affatto; si tratta, spesso, di imbarcazioni che hanno una stazza superiore alle nostre fregate e dotate di sistemi d’arma consistenti. Ma quello che ha reso questa esercitazione particolarmente significativa è stato l’elevatissimo impiego di forze aeree: oltre 150 tra aerei e droni di ogni genere; a scatenare l’operazione era stato, giusto 4 giorni prima, il primo discorso che il neo presidente Lai Ching-Te ha tenuto in occasione della festa nazionale. Nonostante le oggettive difficoltà di Taiwan derivate dal mancato sostegno concreto del protettore statunitense in altre faccende affaccendato, Lai ci ha tenuto comunque a fare lo sbruffone e a ribadire la sua linea indipendentista. La risposta della Cina indica, come sottolineavamo nell’incipit di questo video, che l’iniziativa ora spetta all’esercito di liberazione popolare, che ha tutti gli strumenti per impedire il soccorso da parte di forze straniere (indispensabile per pensare di poter contrastare la potenza cinese); come avrebbe affermato l’esperto dell’Accademia di scienze militari dell’esercito popolare di liberazione Wang Wenjuan al Global Times, più i separatisti continuano a riempirsi la bocca con l’indipendenza di Taiwan, sempre maggiori saranno le contromisure messe in campo dalla Cina, che è determinata a “dissipare l’illusione tra le forze separatiste che la terraferma si asterrebbe dall’intraprendere azioni militari in caso l’accelerazione verso l’indipendentismo dovesse continuare”.
Insomma: quella che fino a pochissimi anni fa era considerata l’unica e invincibile superpotenza del pianeta, giorno dopo giorno deve fare i conti con le conseguenze materiali irreversibili del suo lento declino, a meno che non si accontenti del fatto che evidentemente – nonostante il sostegno incondizionato al primo genocidio in live streaming della storia dell’umanità – il suo sistema imperiale continua ad esercitare un certo fascino negli scappati di casa della sinistra imperiale delle colonie europee; per diffondere la consapevolezza di questo inesorabile declino e valutare in modo realistico le opportunità che offre a chi quotidianamente si batte per spezzare le catene arrugginite del dominio imperiale, abbiamo bisogno di un media indipendente (ma di parte) e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Gaetano Mazzola

L’Iran asfalta l’Iron Dome e colpisce duro Israele

Una vera promessa – parte 2: questo il nome che Teheran ha deciso di dare all’incredibile operazione militare di ieri. La parte uno, come tutti ricorderete, era andata in scena nell’aprile scorso: un’azione meramente dimostrativa e, ci spiegò Giuliano nel  dettaglio allora, anche di intelligence; con l’impiego massiccio di sistemi d’arma a bassissimo costo e la decisione di comunicare in modo chiaro e in largo anticipo l’operazione, allora l’Iran – senza rischiare di dare a Tel Aviv la scusa per l’escalation che stavano aspettando – aveva costretto il regime fasciosionista e la sacra alleanza dei sostenitori dello sterminio che stava compiendo (dagli USA ai regimi reazionari arabi) a spendere una quantità spropositata di quattrini e a mostrare i dettagli di tutti i sistemi di difesa a disposizione. Che, evidentemente, sono meno efficaci di quanto le corporation dell’apparato militare industriale vorrebbe farci credere. Allora Teheran ha avuto la prova provata di una cosa: il tanto celebrato Iron Dome e anche gli altri fantasmagorici sistemi di difesa israeliani, finanziati con decine di miliardi di soldi dei contribuenti USA, sono in buona parte fuffa e, d’altronde, non dovrebbe nemmeno  stupirci: la tanto decantata schiacciante superiorità tecnologica dell’apparato militare industriale dell’Occidente collettivo ha già abbondantemente dimostrato tutta la sua inconsistenza in 2 anni e mezzo di guerra per procura in Ucraina. Nonostante l’incrollabile fiducia di giornalisti come Di Feo e di tutta la propaganda a libro paga della lobby dell’industria bellica, ogni volta che veniva annunciato un potentissimo ritrovato della tecnologia occidentale che avrebbe definitivamente cambiato le sorti del conflitto con la Russia, il responso del campo, nel giro di poche settimane, si rivelava sempre immancabilmente una grandissima delusione.
Dopo due anni e mezzo di pessima pubblicità per tutta la supposta superiorità tecnologica dell’occidente collettivo, però, nelle ultime settimane Israele era riuscito a ribaltare un po’ la narrazione: gli assassinii mirati dei principali leader della resistenza in mezzo Medio Oriente, più lo spettacolare attacco terroristico via cercapersone e walkie talkie in Libano (come l’aveva descritto con entusiasmo la propaganda filo-sionista occidentale) avevano permesso loro di  tornare ad esultare per la presunta incommensurabile  superiorità tecnica della civiltà occidentale. A questo aggiungici poi la reazione dell’asse della resistenza, tiepida di fronte ai letali assassinii mirati, silente di fronte all’aggressione su larga scala del Libano e, addirittura, di fronte all’assassinio di un leader assoluto dell’asse come Hassan Nasrallah: “L’asse della resistenza è piegato” acclamavano entusiasti i media sponsor dello sterminio; “Israele e l’Occidente sono superiori e quando fanno sul serio nessuno è in grado di contrastarli”. Fino addirittura a pensare che, visto che abbiamo fatto 30, è arrivato il momento di fare 31 e cogliere l’occasione dell’invasione del Libano e della decapitazione di Hezbollah per mettere definitivamente fine a questo fantomatico asse della resistenza e costruire da capo una nuova architettura di sicurezza per tutto il Medio Oriente, che veda un asse di ferro tra Israele e quelli che definiscono i paesi arabi moderati (e, cioè, moderatamente complici del regime coloniale) e isoli definitivamente il regime satanista degli ayatollah. Ecco: la giornata di ieri, per la propaganda imperialistica, ha rappresentato un vero e proprio shock perché, proprio sul più bello, tutto d’un tratto ha rivelato che tutta questa nuova narrazione (che curava dalle ferite causate dall’umiliazione ucraina) era una puttanata galattica: invece di inviare droni a poche migliaia d’euro avvisando ore e ore prima, basta mandare semplici missili balistici (che l’asse della resistenza possiede in quantità sconfinate) e il castello di carte salta per aria.
E l’unica cosa che rimane è la negazione della realtà, che è esattamente la strategia che stamattina hanno adottato tutti i giornali italiani: mentre la rete, ieri, era invasa di meme che schernivano le prodigiose virtù del costosissimo Iron Dome e degli altri sistemi di difesa missilistica israeliani, quello che fa veramente ridere sono i titoli dei nostri giornali stamattina; Lanciati centinaia di missili balistici su Tel Aviv, titola Il Giornale, ma le difese li abbattono. L’Iron Dome protegge i cieli”; Secondo fallimento degli ayatollah, rilancia Libero: Teheran lancia più di duecento razzi su Israele. Tutti intercettati. L’unico morto è un palestinese e così via, tutti i giornali, da La Verità al Manifesto. Unica eccezione (come spesso accade) a questa delirante manifestazione del suprematismo occidentale più sfrontato, Il Fatto Quotidiano che, candidamente, ammette La rappresaglia dell’Iran buca lo scudo di Israele. Per una valutazione accurata delle conseguenze dell’attacco di ieri vi rimando all’intervista che pubblicheremo stasera alle 18 e 30 con Hanieh Tarkian. Nel frattempo, però, permetteteci un po’ di autocelebrazione: quando, ad aprile, l’Iran portò a termine la parte uno dell’operazione True promise, al contrario di tutta la propaganda analfoliberale e analfosovranista, la nostra tesi fu che si era trattato di un’operazione di altissimo livello e un totale successo; le timidezze dell’asse della resistenza delle ultime settimane ci avevano fatto temere di essere caduti anche noi vittime del wishful thinking che permea l’opera di grandi intellettuali del nostro tempo, come Iacopo Jacoboni o Maurizio sambuca Molinari. Teheran, ieri, ci ha dimostrato che non è così: e quindi rivediamoci quel vecchio pippone.

Gli USA appaltano l’escalation nucleare ai vassalli europei e preparano la guerra contro l’Iran

Carissimi Ottoliner, come saprete tutti benissimo la minaccia di escalation che ci ha tenuto sulle spine per tutta la scorsa settimana è stata sventata: il via libera di Washington all’utilizzo dei missili a lungo raggio USA per colpire dentro al cuore della Russia alla fine non è arrivato; purtroppo, però, non si tratta di un capitolo chiuso, ma di un semplice rinvio. Un teatrino che abbiamo già visto enne mila volte e che c’avrebbe anche abbondantemente rotto i coglioni. Ve lo ricordate il tira e molla sui carri armati? Mandagli prima gli Abrams te; no, prima i Leopard te. E poi gli F-16 mandaglieli te. No, te. Il tutto immancabilmente accompagnato da decine e decine di articoli che ci raccontavano la leggenda metropolitana dell’Occidente pieno zeppo di armi capaci di mettere fine alla guerra in un battibaleno, se solo non fosse stato per le opinioni pubbliche manipolate dalla potentissima macchina propagandistica del Cremlino. Poi alla fine, come ampiamente previsto, arrivavano i carri armati sia dell’uno che dell’altro; e pure gli F-16 e tutto quello che l’Occidente ha davvero a disposizione, ma sul campo non cambiava una seganiente. E tutte le volte il solito identico copione: qualche giorno di silenzio stampa per assestare un po’ il colpo, durante il quale la guerra scompariva dalle prime pagine della propaganda, e poi riborda, una nuova arma immaginaria e un nuovo teatrino; una sceneggiata che ormai gli italiani hanno capito alla perfezione: e così, oggi, è favorevole all’invio di nuove armi in Ucraina meno di un italiano su tre. Se ci levi quelli che campano di incarichi pubblici (che hanno bisogno della benedizione di Washington e di Bruxelles), i giornalisti del gruppo GEDI e i loro parenti, la percentuale scende a uno su dieci; alla fine ne rimarranno solo due e si chiameranno Iacopo Jacoboni e il suo ex direttore Maurizio Sambuca Molinari, che si rimette un po’ in sesto e ci riprova: Ucraina, le autocrazie armano Mosca titolava il suo esilarante editoriale di domenica su La Repubblichina. Si sentiva un po’ scalzato: negli ultimi giorni, il primo gradino del podio di leader incontrastato del suprematismo metafisico gli era stato strappato da Federico bretella Rampini e dal suo Grazie, Occidente. Si doveva rimettere in pari, anche perché l’ordine di scuderia – almeno da qui a novembre – è chiaro: Ignorate i disfattisti titola il Wall Street Journal; La strategia americana sta funzionando. Certo, “Kiev è ancora lontana dalla vittoria” ammettono, “ma gli Stati Uniti stanno raggiungendo il loro obiettivo primario: contenere il potere russo”. D’altronde, nella vita, si sa: chi s’accontenta gode. Ma mentre i pennivendoli di tutto l’Occidente collettivo si inventano tesi strampalate per accontentarsi e per godere, purtroppo c’è chi si prepara in silenzio ad affrontare quello che ci stanno preparando, che non credo ci farà godere molto: Servizi per la modellazione degli effetti delle armi nucleari sui sistemi agricoli; così si intitola l’annuncio pubblicato dallo ERDC, la divisione ingegneristica delle forze armate USA; i candidati dovranno sviluppare un modello per valutare l’impatto dell’utilizzo di armi nucleari distruttive per l’ambiente e la produzione agricola nei paesi dell’ex blocco sovietico, ma tranquilli eh? “Gli Stati Uniti stanno raggiungendo il loro obiettivo”. Ma prima di addentrarci nei meandri di questa escalation rinviata, vi ricordo di mettere un like a questo video e permetterci così di combattere (anche oggi) la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali prima che chiudano quello che sta proprio sulla piattaforma che più amavate, com’è è successo di nuovo anche domenica con il canale Youtube di RED, Revolutionary Educational Documentaries, un piccolo canale di approfondimento chiuso, con tanto di annuncio in pompa magna in conferenza stampa, da Blinken stesso.

Maurizio Molinari

Il primo atto del lungo ed estenuante cerimoniale che accompagna immancabilmente ogni nuova escalation s’è concluso sostanzialmente con un nulla di fatto, ma anche se il via libero definitivo dalla Casa Bianca per l’utilizzo dei suoi ATACMS per colpire direttamente il territorio russo per ora non è arrivato, la macchina s’è messa definitivamente in moto: secondo il Financial Times infatti, anche a questo giro Biden avrebbe chiesto ai vassalli europei di fare il primo passo e di assumersi tutti i rischi; si accoderanno più avanti, se e quando saranno sicuri che la risposta di Mosca sarà, anche a questo giro, tutto sommato modesta. D’altronde, per continuare a rimandare la disfatta definitiva dell’Ucraina, l’impiego dei missili a lungo raggio per colpire direttamente il suolo russo è tra le pochissime carte che rimangono prima dell’ingresso vero e proprio di truppe NATO in guerra – o meglio, diciamo che ne sono l’antipasto; a cosa servano lo ha spiegato bene Zelensky stesso in una lunga intervista di ieri alla CNN, dove ha chiarito un po’ di aspetti che, probabilmente, non sono stati particolarmente apprezzati dai NAFO più sfegatati: forse pure troppo, nella solita logica – anche comprensibile – di piangere il più forte possibile quando c’è da chiedere armi nuove per poi inventarsi, per qualche giorno, successi mirabolanti quando arrivano e poi ricominciare sempre tutto da capo. Zelensky, in pratica, ha dato ai suprematisti che seguono le cose militari la stessa quantità di sberle a quattro mani che pochi giorni fa SanMarioPio da Goldman Sachs ha dato a quelli che seguono le faccende economiche: in entrambi i casi, si è trattato di un risveglio piuttosto traumatico; Zelensky ricorda come, negli otto mesi che il congresso USA ha impiegato per approvare il nuovo pacchetto di aiuti, “Abbiamo dato fondo a tutto quello che avevamo a disposizione, sia in termini di riserve, che di equipaggiamento”. Ed ecco, così, che quando finalmente le nuove armi sono arrivate, erano messi così male che invece di riuscire ad equipaggiare adeguatamente quattordici brigate (come avevano previsto e richiesto), sono stati a malapena in grado di equipaggiarne quattro: “Non importa quante brigate riusciamo a impiegare in un settore, se metà di queste brigate non sono equipaggiate” ha sottolineato; “Non facciamo che perdere una marea di uomini, perché ad esempio mancano i veicoli corazzati”. E oltre ai mezzi corazzati, ovviamente, a mancare è anche l’artiglieria: “Per fare un confronto” dichiara Zelensky, probabilmente anche calcando un po’ la mano, quando “i russi hanno dodici munizioni, non ne abbiamo una. Uno a dodici, questo è il rapporto”. Ora, mentre loro davano fondo a tutto, i russi per otto mesi hanno avuto (e ancora hanno) mano libera nell’utilizzo della loro aviazione, dalla quale lanciano “ogni mese quattromila bombe guidate” che “hanno distrutto tutta la nostra rete elettrica: l’80%”. Le basi di partenza di questi aerei, continua Zelensky, nel tempo sono state allontanate dal confine: da 100/150 chilometri, a 300 chilometri e passa e ora “per colpirli abbiamo bisogno di nuovi permessi”; “Abbiamo bisogno di utilizzare queste armi a lunga gittata per attaccare i jet nelle basi militari” conclude.
Quindi sicuramente sarebbe un passo avanti molto utile per Kiev, ma come tutti gli altri passetti avanti, pensare possa rappresentare un svolta, così, a occhio, sembra una discreta cazzata; lo sottolineava ieri, con inusitata lucidità, anche Carlo Nicolato su Libero: “L’eventuale utilizzo di tali missili, sia quelli britannici che quelli americani” scriveva “non avrebbero un impatto significativo sulla guerra”. Il motivo principale, come sempre, è che alla fine “si parlerebbe comunque di forniture decisamente limitate, del tutto insufficienti per ribaltare le sorti del conflitto, soprattutto” sottolinea giustamente “dal momento che in questi due anni Mosca ha preso tutte e contromisure necessarie per ridurre significativamente l’efficacia degli Himars ed eventualmente degli stessi ATACMS lanciati da terra”; ciononostante, la reazione di Putin è stata piuttosto drastica: perché? Il primo punto ovviamente ha a che vedere con gli equilibri interni alla Russia: nonostante, tutto sommato, la tanto celebrata offensiva del Kursk alla Russia gli abbia fatto come il cazzo alle vecchie, cionondimeno ha rafforzato le critiche alla supposta moderazione di Putin, che viene accusato di non fare abbastanza per far rispettare le linee rosse; contro l’ipotesi di altri attacchi in territorio russo, battere i pugni sul tavolo è il minimo sindacale per non far esplodere quella sacca consistente di malcontento. E poi c’è un aspetto un po’ più delicato: come è emerso già mesi fa dalle intercettazioni tra personale militare tedesco (trapelate non si sa bene come), i sistemi d’arma che l’Ucraina va elemosinando per essere utilizzati hanno bisogno di uomini NATO sul campo; il loro utilizzo, quindi, sottintende la partecipazione diretta al conflitto di personale degli eserciti degli Stati che hanno fornito quegli armamenti e quindi, in soldoni, del loro ingresso in guerra. Ora, uomini dei paesi NATO che partecipano al conflitto sotto mentite spoglie di varia natura ce ne sono da sempre, ma fino ad oggi tutti hanno sostanzialmente preferito fare finta di niente, nascondendosi dietro a un po’ di sana ambiguità e plausible deniability che però, a questo punto, diventerebbe difficile da sostenere; e di fronte all’evidenza, non reagire indebolirebbe la credibilità (e quindi anche la deterrenza) russa, senza contare che – visto che se l’intenzione è quella di continuare il pantano anche dopo le elezioni di novembre, prima o poi qualcuno a dare manforte agli ucraini che, se non sono letteralmente finiti, poco ci manca, ci dovrà andare – questo sarebbe un pericoloso passo intermedio che avvicina anche quella soluzione. Ora, la necessità oggettiva di Putin di rispondere adeguatamente a questa eventuale ulteriore escalation, sia per motivi interni che per motivi strategici pone un problemino non da poco, perché il problema è anche (ovviamente) che non è che di questi missili a lunga gittata in Occidente ci siano i magazzini che scoppiano: quindi, se ne dai pochini fai incazzare Putin per niente; se ne dai tanti (diciamo un numero sufficiente per incidere almeno un po’ sull’andamento del conflitto) non solo fai incazzare Putin ancora di più, ma poi significa anche che hai svuotato i magazzini e, per difenderti, t’è rimasto poco o niente. La strada quindi è, come al solito, piuttosto strettina: d’altronde – e non smetteremo mai di ripeterlo – sono inconvenienti che succedono quando per 40 anni ti convinci che puoi dominare il resto del mondo a suon di dollari e di piccole guerre asimmetriche e poi, tutto d’un tratto, ti ritrovi a combattere una guerra vera; e per imporre una svolta dell’economia in direzione di una vera e propria economia di guerra, anche volendo, ti mancano proprio gli strumenti concreti.
Il quadro, poi, si complica ancora di più quando realizzi che Putin, per reagire, non deve necessariamente colpirti direttamente – che può essere un livello di scontro che anche lui per ora ancora non prende in considerazione; il problema è che siccome non sei un paesino che difende i suoi confini, ma un impero globale la cui sopravvivenza è legata necessariamente a un dominio che si estende su tutti i continenti, di fronti aperti ne hai più d’uno: e, in particolare, ce n’è uno dove un intervento più deciso da parte di Mosca potrebbe trasformarsi rapidamente in una debacle totale. Quel fronte, ovviamente, è il Medio Oriente; ed ecco così che, come per magia, il primo genocidio in diretta streaming della storia passa subito nel dimenticatoio e si torna a prendere di mira l’Iran; il La l’ha dato Blinken quando è passato a prendere con la sua Torpedo blu il collega britannico la scorsa settimana per portarlo in gita a Kiev: “La Russia sta condividendo tecnologie richieste dall’Iran” ha affermato durante la conferenza stampa, “inclusa quella nucleare e spaziale, per generare ancora più insicurezza nel mondo”. Nel frattempo, la scorsa settimana i tre paesi europei coinvolti nei negoziati con Teheran sul nucleare (prima che Donald Trump ne uscisse unilateralmente) hanno dichiarato che le riserve di uranio arricchito dell’Iran “sono cresciute significativamente, e ciò non può essere giustificato da un programma per scopi civili”; Mosca sparge tra le dittature il virus tecnologico della distruzione di massa titola il suo sproloquio quotidiano su La Repubblichina Di Feo. Secondo Di Feo, ovviamente, Mosca è alla canna del gas, al punto che è costretta, in cambio di armi “molto poco sofisticate”, a condividere le sue tecnologie più preziose: Di Feo riconosce, infatti, che in tema di missili a lungo raggio e di tecnologia nucleare la Russia abbia “un primato che custodisce gelosamente”, ma da quando s’è ritrovata a combattere con le pale e i chip delle lavatrici, per tutto il resto s’è dovuta arrangiare con i “droni low cost e i missili balistici imprecisi” che gli potevano fornire quei tre beduini che gli erano rimasti amici, mentre tutto il mondo civilizzato si tatuava Zelensky col lupetto color cachi sul bicipite; ed ecco, così, che “come per i virus, oggi siamo davanti a uno spillover di tecnologie di morte, e nelle fabbriche di Teheran si è a un passo dal rendere operativo un missile che vola e compie manovre a ottomila chilometri orari”, una tecnologia che “i laboratori iraniani non potrebbero mai sviluppare senza l’aiuto dei tecnici russi, che da due anni perfezionano i loro ipersonici Kinzhal e Zircon nei bombardamenti delle città ucraine”. Ma ancora “Più dei missili” allerta Di Feo, “a far paura è la condivisione dei progetti nucleari, che verrebbero messi a disposizione non solo degli Ayatollah ma anche di Kim Jong Un”: “Entrambi i Paesi” insiste “possono bruciare le tappe grazie ai consigli di Mosca e ottenere nel giro di pochi anni arsenali mostruosi in grado di destabilizzare non solo il Medio e l’Estremo Oriente ma l’intero pianeta”; “Una minaccia senza precedenti” conclude “con una proliferazione di testate in mano a Nazioni che disprezzano le convenzioni internazionali”.
Assurdo: il nucleare in mano a nazioni che disprezzano le convenzioni internazionali! Proprio ora che Israele il suo di arsenale, invece, l’aveva convertito a uso civile per creare energia gratis per i bambini di Gaza; siamo braccati dagli incivili con – come scrive Sambuca Molinari – “le autocrazie che armano Mosca”. Anche se io avevo capito il contrario, ma va bene; è La Repubblichina: scriviamo un po’ cosa cazzo ci pare. Sambuca Molinari, forte della consulenza di uno specialista di rango come il suo vice Di Feo, credo faccia un po’ di casino: definisce gli Ababil missili a corto raggio “che consentono di colpire obiettivi con estrema precisione”; a quanto mi ricordo, però, gli Ababil sono droni che l’Iran usa da sempre, e non mi pare siano particolarmente avanzati. Forse Sambuca Molinari si riferisce, invece, ai missili balistici Fath-360 che, in effetti, sì Teheran sembra abbia fornito a Mosca; Sambuca ricorda come Borrell abbia definito questa fornitura addirittura “una minaccia diretta alla sicurezza europea” anche se non si capisce in che mondo, visto che hanno una gittata di poco superiore ai 100 chilometri, ma poco importa: visto che a Mosca direttamente non c’è verso di fargli danni, ora tocca concentrarsi su Teheran, e ogni vaccata è un’occasione imperdibile per assestare un colpo a questo asse delle autocrazie. Per questo nuovo scontro di civiltà, Sambuca individua anche un nuovo paladino, uno che non le manda a dire e che, finalmente, ha avuto il coraggio di denunciare apertamente il pericolo della “collaborazione militare fra le autocrazie, accomunate dalle volontà di indebolire le nostre democrazie”; quel paladino si chiama Lindsay Graham, quel Lindsay Graham:

What did Trump do to get the weapons flowing? He created a loan system. They’re sitting on 10 to $12 trillion of critical minerals in Ukraine. They could be the richest country in all of Europe. I don’t want to give that money and those assets to Putin to share with China. If we help Ukraine now, they can become the best business partner we ever dreamed of. That 10 to $12 trillion of critical mineral assets could be used by Ukraine and the West, not given to Putin and China. This is a very big deal. How Ukraine ends. Let’s help them win a war we can’t afford to lose. Let’s find a solution to this war. But they’re sitting on a gold mine to give Putin 10 or $12 trillion, or critical minerals that he will share with China is ridiculous.


Cosa ha fatto Trump per far circolare le armi? Ha creato un sistema di prestito. In Ucraina si trovano da 10 a 12 trilioni di dollari di minerali critici. Potrebbero essere il paese più ricco d’Europa. Non voglio dare quei soldi e quei beni a Putin perché li condivida con la Cina. Se aiutiamo l’Ucraina adesso, potrà diventare il miglior partner commerciale che abbiamo mai sognato. Quei 10-12 trilioni di dollari di risorse minerarie critiche potrebbero essere utilizzati dall’Ucraina e dall’Occidente, non dati a Putin e alla Cina. Questo è un grosso problema. Come finisce l’Ucraina. Aiutiamoli a vincere una guerra che non possiamo permetterci di perdere. Troviamo una soluzione a questa guerra. Ma essere seduti su una miniera d’oro per dare a Putin 10 o 12 trilioni di dollari, o minerali fondamentali che condividerà con la Cina, è ridicolo.

Ora, intendiamoci: io non credo assolutamente che la guerra per procura in Ucraina abbia a che vedere con queste risorse; credo che la guerra per procura in Ucraina abbia a che vedere con qualcosa di molto più grosso e strutturale e, cioè, il panico che si è scatenato nell’Occidente collettivo da quando hanno realizzato che ci sono Paesi che non hanno più nessuna intenzione di obbedire alle regole dell’ordine internazionale che le ex potenze coloniali hanno costruito a immagine e somiglianza dei loro interessi, e che questi paesi sono attrezzati per imporre a tutto il pianeta la fine del dominio dell’uomo bianco e un nuovo ordine multipolare. Le affermazioni di Graham sono un tentativo disperato di convincere principalmente la sua audience di suprematisti bianchi che però, realisticamente, pensa che contro la Russia vincere militarmente sia piuttosto inverosimile; la cosa interessante è che uno spregiudicato affarista guerrafondaio profondamente razzista come Graham diventi il riferimento di uno come Sambuca Molinari, che infarcisce sempre le sue riflessioni di una quantità inverosimile di vaccate sui valori democratici e la minaccia totalitaria, un po’ come quando il pluri-criminale ultra-reazionario Dick Cheney dichiara il suo sostegno a Kamala Harris. Insomma: il re è nudo e i sondaggi lo dimostrano; “Nell’ultimo anno” scrive Ilvo Diamanti su La Repubblichina a commento del suo ultimo sondaggio, “il consenso verso gli aiuti militari all’Ucraina continua a scendere in modo continuo. E, negli ultimi mesi, si assiste a una vera caduta, quasi un crollo”. Secondo il sondaggio, la percentuale di persone che si dichiara favorevole al sostegno militare all’Ucraina è crollata sotto il 30%: “Un anno fa” ricorda Diamanti “raggiungeva il 47. E oltre il 60 i primi mesi dell’invasione”. Purtroppo, però, c’è un’eccezione: quei pochi che ancora oggi dichiarano che alle elezioni voterebbero un partito di centro-sinistra; ovviamente, su tutti svettano gli elettori di +Europa e Azione, che potremmo proprio definire i talebani del suprematismo occidentale, ma anche tra le fila del PD la voglia di guerra è ancora consistente e – cosa che tra chi non ha perso completamente ogni forma di lucidità non dovrebbe sorprendere troppo – ancora più che tra le fila del PD, tra quelle di Alleanza Verdi Sinistra. Ben il 48% degli elettori di AVS si dichiarano infatti favorevoli all’invio di aiuti militari in Ucraina: tutta colpa della propaganda putiniana, ovviamente, che è onnipotente e onnipresente; sta proprio dappertutto, anche dove non te lo aspetteresti. Dall’Argentina alla Moldavia, titolava domenica La Stampa, la rete della propaganda russa nel mirino di Washington: secondo l’inviato da Washington de La Stampa infatti, in Argentina “i russi stanno tentando di dirottare la politica del governo e creare frizioni con i paesi limitrofi”. Ma te senti cosa viene fuori, alle volte… E io che ero rimasto che in Argentina, con il sostegno degli USA, avevano fatto un golpe giudiziario per mandare a casa i peronisti; e che avevano fatto vincere le elezioni a un caso umano che, come prima uscita pubblica, s’era fatto una foto con Netanyahu e Zelensky e le bandiere ucraina e israeliana e poi aveva fatto uscire il paese dei BRICS: accidenti a questa maledetta propaganda putiniana, che ci riempie di fake news!
Contro il mondo alla rovescia dei pennivendoli di fine impero alla canna del gas, ci serve come il pane un vero e proprio media che dia voce al 99% e, già che c’è, magari che rispetti un minimo l’intelligenza di chi lo guarda. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Gennaro Sangiuliano

LA BOLLA – Il piano per la vittoria ucraina o per la terza guerra mondiale?

Il piano per l’Ucraina di Zelensky sarà un piano per la pace… anzi no, sarà un piano per la vittoria… anzi no, sarà una strategia per la guerra… Insomma: qualunque sia la definizione che ne dà la stampa internazionale, sarà un piano per convincere la Casa Bianca a dare il via libera a Kiev per l’utilizzo di missili a lunga gittata sul territorio russo. Sarà consegnato entro fine mese, durante il viaggio di Zelensky negli USA e, a quanto pare, dovrebbe delineare una svolta nella guerra contro la Russia. Washington è divisa tra i falchi del dipartimento di Stato guidati da Antony Blinken e le colombe del Pentagono, che intravedono il reale pericolo della situazione. Mosca ha compiuto alcuni dei passi formali che precedono un’escalation bellica come reazione al superamento di una linea rossa. Tra le tante opzioni è inclusa quella nucleare, in rappresaglia ad attacchi con missili occidentali contro obiettivi strategici russi. Biden potrebbe autorizzare gli Storm Shadow/SCALP inglesi e francesi, ma non gli ATACMS perché, probabilmente, è disposto a tollerare una guerra con armi tattiche circoscritta (secondo lui) in Europa. Allo stesso tempo, Zelensky tenta di affossare il piano di pace di Cina e Brasile e minimizza le timide proposte di Berlino per un cessate il fuoco, mentre propone un’abbastanza improbabile conferenza di pace in Ucraina con la Russia. Insomma: ancora una volta, per raggiungere un accordo, l’Occidente intende giocare la carta dei missili anziché quella della diplomazia e dei negoziati. Faranno un deserto e lo chiameranno pace? Di tutte queste meravigliose sorti e progressive dell’umanità parleremo stasera a La Bolla con Stefano Orsi, Francesco Dall’Aglio e Clara Statello.

Elena Basile – Missili nucleari NATO di nuovo operativi? Solo il Sud globale è per la pace

Elezioni europee, conferenza di “pace” a Ginevra, G7, le dichiarazioni di Stoltenberg sulla necessità della NATO di aumentare il proprio arsenale atomico immediatamente “operativo”. In questo tragico quadro, solo il Sud globale dimostra razionalità e propensione alla pace e alla diplomazia. Di tutto questo e molto altro abbiamo parlato con la sempre lucidissima ambasciatrice Elena Basile, sempre più probabile ospite di Fest8lina dal 4 al 7 luglio a Putignano (PI).

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Gli USA a un passo da armare i sottomarini nel Pacifico con missili da crociera con testate nucleari

Rassegna stramba del martedì: il meglio del peggio delle notizie nazionali ed internazionali a cura di Giuliano Marrucci e Matteo Bernabè. Vi aspettiamo, come sempre, alle 08.30 sui canali social di Ottolina Tv.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Russia e Iran asfaltano il mito dell’invincibilità dell’impero e impongono l’ordine multipolare

Carissimi ottoliner, anche oggi – prima di passare alle cose serie – un po’ di Cabarellum e vaudeville vario dal mondo incantato delle bimbe di Bandera: ieri, infatti, vi avevamo mostrato uno screenshot che dimostra come Parabellum stia rassicurando la sua fanbase sulla sua ferma intenzione di respingere al mittente le accuse di Ottolina Tv andandolo a dire all’avvocato, dopo averlo già detto alla mamma Youtube. In 25 anni di Report, è l’atteggiamento standard che ho sempre riscontrato in chi era stato colto in castagna: invece che rispondere nel merito, annunciare una querela; ovviamente sanno benissimo che la querela non va da nessuna parte, ma per chi in cuor suo, comunque, li ha già assolti a prescindere, rappresenta una rassicurazione sempre molto efficace e se lo fanno multinazionali multimiliardarie dalle quali dipende una fetta importante della nostra vita, perché mai non dovrebbe farlo anche Parabellum che, come sottolinea lui, è addirittura CEO di un think tank? Amministratore delegato: una carica prestigiosa, mica cazzi; peccato si riferisca a un’azienda che, secondo le visure camerali, non vanta poi tantissimi dipendenti. Anzi, ne vanta 0. E’ un po’ come se quello che ti fa il cappuccino la mattina, invece che come barista, si presentasse come CEO del Bar da Luigi e Ivana, o come quando qualcuno mi definisce il direttore di Ottolina Tv, a me, che non sono in grado nemmeno di dirigere quelle due carognette dei mi’ figlioli.
Il fatto ingiurioso che avrebbe spinto un paladino del mondo libero come Parabellum a pensare di rivolgersi a un avvocato, è questa copertina – oppure questo meme (non ho capito bene, sinceramente): Parabellum sostiene, infatti, che anche quando ha avuto da ridire, ad esempio, con Lilin, non ha fatto nessun meme perché – sottolinea – “Si attacca la tesi, non il relatore”; evidentemente, come per la definizione di chi è l’aggressore e chi l’aggredito nella guerra per procura in Ucraina, crescendo (e fatturando) ha cambiato idea. Questa, infatti, è la copertina di un suo vecchio video e questo, in basso a sinistra, è Alessandro Orsini con la faccia sovrapposta a quella di Efiliate, il mostro di 300 che tradisce Sparta per passare col nemico; e questa, invece, è un’altra copertina di una live del suo sponsor principale, il raffinatissimo intellettuale e grandissimo giornalista d’inchiesta Ivan Grieco, che s’è fatto tutta una live con questa parrucca perculando sempre Orsini. Ho come il sospetto che qui c’è chi rischia di avere la bocca e le dita più veloci dei neuroni; e con questo concludiamo l’appuntamento quotidiano con l’incredibile mondo delle bimbe di Bandera e torniamo a occuparci di cose un pochino più serie.

Stephen Bryen

Secondo l’ex vice sottosegretario alla difesa USA Stephen Bryen, ormai in Ucraina “la Russia domina lo spazio aereo” e le difese aeree ucraine sono letteralmente scomparse e, secondo Bloomberg, questo ormai alimenta “la paura che l’esercito ucraino sia vicino al punto di rottura”; al che uno dice eh vabbeh, grazialcazzo, le forze armate russe mica sono un avversario qualsiasi. Prima di essere folgorato sulla via di Damasco che porta dritto all’interno dei salotti buoni della propaganda analfoliberale, pure Parabellum lo diceva che “mettercisi contro dal punto di vista militare è stupido”; il problema, però, è che l’insormontabile scoglio russo è solo la punta dell’iceberg: da ormai 4 mesi gli USA si sono ritrovati impantanati in un conflitto nel Mar Rosso che, inizialmente, la propaganda aveva provato a spacciare come una sorta di passeggiata di piacere. Contro quegli scappati di casa di Ansar Allah, il problema sembrava sostanzialmente quello di mantenere un po’ il contegno e non infierire in modo troppo violento contro un nemico così platealmente inferiore; dopo 4 mesi di bombardamenti illegali e un imponente impegno di forze e di risorse che, probabilmente, gli USA avrebbero preferito concentrare sul Pacifico – dove si continuano a scaldare i motori per il vero grande conflitto sistemico che l’impero dovrà affrontare per tentare di rinviare il suo inesorabile declino – gli USA hanno dovuto fare anche qui un discreto bagno di realtà, fino ad arrivare a dichiarare, per bocca dell’inviato speciale per lo Yemen Tim Lenderking, che “siamo consapevoli che non c’è una soluzione militare, e siamo a favore di una soluzione diplomatica”. “Gli Stati Uniti” scrive il giornalista libanese Kalil Nasrallah su The Cradle “hanno segretamente offerto una straordinaria serie di concessioni ad Ansar Allah per fermare le sue operazioni navali a sostegno di Gaza”, ma, purtroppo, “senza alcun risultato”.
Nel frattempo, gli USA subivano un attacco nella loro principale base al confine tra Siria e Giordania, che rappresentava un’altra pietra miliare nella strada che porta al declino: per la prima volta diventava chiaro che la loro contraerea non era più in grado di garantire la sicurezza delle installazioni militari dell’impero nel Medio Oriente, uno snodo storico: nel caso di un’evoluzione del genocidio in corso verso una guerra regionale, gli Stati Uniti, infatti, si troverebbero nell’impossibilità di dispiegare in sicurezza le loro forze di terra nell’area.
E, infine, ecco che arriva la spettacolare operazione militare iraniana di sabato scorso. Per capirne l’impatto reale basta vedere il panico che ha sollevato in tutte le redazioni impegnate nel sostegno allo sterminio dei bambini palestinesi che, come sempre di fronte a una realtà che non rientra nell’idea della insindacabile superiorità dell’uomo bianco rispetto al resto della popolazione mondiale, fanno presto: ribaltano la realtà e chi s’è visto s’è visto. Israele e Occidente respingono l’Iran titolava ieri Il Giornanale: “L’abbattimento del 99 per cento degli ordigni” esulta Gian Micalessinofobia “è anche la più significativa vittoria conseguita dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in sei mesi di guerra”; beh, immaginiamoci le altre, allora… Come scriveva giovedì scorso Chaim Levinson su Haaretz, “Dobbiamo cominciare a dire chiaramente quello che non potrebbe essere detto: Israele è stato sconfitto. Una sconfitta totale”: “Gli obiettivi della guerra non verranno raggiunti” sottolinea Levinson, “gli ostaggi non verranno restituiti, la sicurezza non verrà ripristinata e l’ostracismo internazionale di Israele non finirà”.
Ora, ovviamente, fare un bilancio di un conflitto è sempre piuttosto complicato e il tutto è sempre fortemente influenzato dai vari bias cognitivi e dal wishful thinking di ognuno; la buona notizia, però, è che per il livello che interessa a noi qui, adesso, questa sostanziale impossibilità di determinare – oltre ogni ragionevole dubbio – chi vince e chi perde, non conta: il punto, infatti, è che all’impero non basta non perdere il singolo conflitto – e nemmeno vincerlo. Per stare in piedi, l’impero ha bisogno che i suoi vassalli siano convinti del fatto che, alla fine, molto banalmente non può perdere: l’idea dell’invincibilità dell’impero è il più importante e irrinunciabile dei suoi asset, a maggior ragione quando è in declino; l’impero in ascesa, o nell’era del suo massimo splendore, sui suoi vassalli è in grado di esercitare la sua egemonia, che significa che, in cambio della rinuncia alla tua sovranità, puoi comunque partecipare alla redistribuzione di una parte dei dividendi di questo ordine. Insomma: non conti una sega, non puoi decidere, ma comunque, alla fine – almeno da alcuni punti di vista – ci guadagni. L’ordine fondato sull’impero in declino, invece, tutti questi dividendi da distribuire ai vassalli per tenerli buoni e convincerli che quell’ordine è nel loro stesso interesse, non li genera più: l’impero in declino, i suoi vassalli li deruba senza dare niente in cambio e l’unica cosa che impedisce ai vassalli di ribellarsi è proprio il monopolio della forza bruta e l’idea dell’invincibilità dell’impero. Non a caso gli USA, su questo, hanno voluto eliminare ogni dubbio: le 1000 basi sparse per il pianeta e una spesa militare che, da sola, eguaglia sostanzialmente la spesa militare del resto del mondo messo assieme, servono proprio a questo, un segno chiaro e inequivocabile della propria supremazia, ma i segni, ormai, potrebbero non essere più sufficienti. Tutti gli esempi che abbiamo elencato rapidamente sopra rappresentano una mazzata gigantesca al mito dell’invincibilità e, a ben vedere, non potrebbe essere altrimenti: la gigantesca macchina bellica statunitense che è di gran lunga, ancora oggi, la più imponente dell’intera storia dell’umanità, sconta infatti due criticità strutturali che cominciano ad avere un peso insostenibile.
La prima è che buona parte di quello sterminato budget serve molto più a ingrassare le casse delle oligarchie del comparto militare industriale (e le tasche di quella che il nostro amico David Colantoni definisce la classe militare) che non a potenziare davvero la macchina bellica USA: l’esempio eclatante sono la quantità smisurata di quattrini che vanno sempre in nuovi armamenti che promettono magie e, alla fine, sul campo si rivelano più o meno avere la stessa funzionalità dei vecchi – ma con costi di ordini di grandezza superiori – che, spesso, sottraggono risorse a cose che non fanno tanta notizia, ma che sono davvero indispensabili, come le munizioni. La seconda è quello che definiamo il vantaggio asimmetrico della resistenza antimperialista che è, ad esempio, quello che ha portato gli USA a subire una disastrosa sconfitta in Vietnam e che, comunque, anche nelle guerre successive gli ha impedito di ottenere vittorie stabili e durature anche dopo aver temporaneamente annientato un nemico infinitamente più debole. Ma prima di proseguire in questo viaggio dentro la fine del mito dell’invincibilità dell’impero, ricordatevi di mettere mi piace a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra asimmetrica contro la dittatura degli algoritmi e, già che ci siete, anche quella di logoramento contro la propaganda suprematista iscrivendovi a tutti i nostri canali e attivando le notifiche; perché se l’impero, nonostante tutto, ancora oggi continua a infinocchiare qualcuno con il mito dell’invincibilità è solo a causa della gigantesca macchina propagandistica che affianca quella militare, ma che, come quella militare, dovrà fare i conti sempre di più con il vantaggio asimmetrico dell’antimperialismo e, cioè, voi, la gente comune e onesta che s’è rotta i coglioni di sorbirsi le loro cazzate.
Tra i tanti meriti dell’operazione militare effettuata dall’Iran sabato scorso, sicuramente una menzione speciale va a come abbia, per l’ennesima volta, esposto chiaramente a tutti la ferocia di cui è capace il suprematismo colonialista dell’uomo bianco quando qualcuno si azzarda davvero a metterlo in discussione armi alla mano: i giornali di ieri erano un tripudio di sostegno incondizionato allo sterminio dei sottouomini, con una proliferazione degli ormai onnipresenti SS, i sostenitori di stronzate, da fare impallidire i regimi più sanguinari della storia umana. Secondo Il Foglio “Si è svelato il vero Iran”: “Israele” scrivono gli amici del genocidio grazie ai soldi delle tue tasse “fa la stabilità del Medio Oriente contro l’Iran, mina vagante”, con a fianco una imperdibile chicca delle sempre imbarazzante Cecilia Sala che sostiene, addirittura, che “Allo stadio e in fabbrica gli iraniani dicono: non siamo chi ci governa” e chiedono info per prendere la tessera di Italia Viva; d’altronde, rilancia Micalessinofobia su Il Giornanale, “Per Netanyahu” si è trattato di “una vittoria totale”. “Forza Israele” rilancia ancora Il Foglio: “La nuova guerra per la libertà che combatte Israele riguarda tutti noi”.
Ma il vero colpo di classe è che, contemporaneamente, la stessa identica propaganda suprematista fa un salto mortale e prova a coprire anche l’interpretazione diametralmente opposta e, così, basta scorrere una pagina e, da un terribile attacco alla stabilità della regione (che ai bambini sterminati da Israele tanto stabile forse non appare), l’operazione iraniana ecco che, per magia, diventa una cos’e niente architettata da degli scappati di casa che non riuscirebbero a fare paura manco a una scolaresca. Il trait d’union tra queste due versioni apparentemente inconciliabili è uno solo: l’impero è invincibile e, come la metti la metti, non c’è resistenza che possa ottenere risultati significativi; tocca solo capire se ignorarla perché, alla fine, è innocua o raderla al suolo perché si è azzardata ad alzare la testa. Decidere razionalmente di compiere un’azione, portarla a termine e raccoglierne i risultati è una prerogativa della superiore civiltà dell’uomo bianco; gli altri sono attori irrazionali che a volte scalciano, a volte sconigliano, ma che mai e poi mai possono avere e perseguire un’agenda politica autonoma e razionale: ma siamo proprio sicuri sia davvero andata così?

droni sulla Spianata delle moschee

Prima questione: l’operazione militare è stata una minaccia inquietante contro il resto del mondo o una pagliacciata? Ovviamente, piuttosto chiaramente, nessuna delle due; che non si sia trattato di una semplice pagliacciata lo dimostra un dato su tutti: l’Iran, in tutto, avrebbe speso alcune decine di milioni, Israele – e i vari amici sostenitori dello sterminio dei bambini palestinesi – oltre 1 miliardo. Se è stata una pagliacciata, per il mondo libero di sterminare non è stata a buon mercato. L’Iran avrebbe speso così poco per un motivo molto semplice: il meglio del suo arsenale non l’ha tirato in ballo. Il motivo è piuttosto semplice: la risposta iraniana all’attacco criminale di Israele contro il suo consolato a Damasco voleva essere misurata e proporzionale. L’obiettivo mi pare chiaro: si voleva evitare di offrire a Israele una scusa valida per replicare, a sua volta, con un’altra ritorsione sproporzionata che avvicinerebbe una regionalizzazione del conflitto che non vuole nessuno (a parte, appunto, i suprematisti sionisti in preda al peggiore dei deliri ideologici autodistruttivi). Per calibrare l’attacco, l’Iran – addirittura – avrebbe trattato direttamente con gli USA per capire qual era il limite possibile per infliggere a Israele un duro colpo strategico, ma permettere, comunque, agli USA e agli altri amici del genocidio di mantenere una certa distanza da Israele e non supportare acriticamente ogni tipo di reazione, fatto per cui alcuni analisti un po’ confusi hanno parlato, appunto, di una messa in scena teatrale che non fa altro che rafforzare l’occupazione sionista; una lettura molto superficiale che denota una scarsa capacità di lettura di cosa sia e come funzioni l’imperialismo.
Per quanto gli USA vogliano, in tutti i modi, evitare un’escalation regionale, la loro copertura di Israele in quanto avamposto dell’imperialismo USA nella regione non potrà mai venire meno, dal momento che una sconfitta di Israele significherebbe una vittoria del mondo multipolare e postcoloniale; quindi, anche nel caso Israele decidesse di trasformare il genocidio in una guerra regionale, per quanto contrario l’imperialismo USA non potrebbe che correre in loro soccorso facendo, così, naufragare definitivamente la strategia USA che comporta un disimpegno dal Medio Oriente per potersi concentrare sul Pacifico. In sostanza, le priorità USA hanno un ordine gerarchico preciso: primo, impedire agli attori del nuovo ordine multipolare di avanzare fino a trasformare alcune aree del pianeta in aree sotto la loro influenza e totalmente indipendenti dal progetto imperiale USA e, solo dopo, riuscire a mantenere questo equilibrio grazie ai propri proxy per potersi permettere di concentrarsi principalmente nel principale dei fronti della guerra contro il declino imperiale che è, ovviamente, il Pacifico. La strada che si trova, quindi, a percorrere l’Iran è oggettivamente stretta e va percorsa con cautela; chi, invece, ci vede un’autostrada da percorrere con l’acceleratore a paletta rischia di essere o un incompetente o un avventuriero, ma sulla pelle altrui: all’interno di questa strada strettissima, allora, il punto è stabilire se l’Iran abbia ottenuto qualcosa di veramente significativo oppure, come sostengono i detrattori, abbia semplicemente fatto una messa in scena per accontentare la sete di vendetta del suo popolo che, in quanto non occidentale, è ovviamente feroce e anche parecchio limitato.
Il primo obiettivo, ovviamente, è quello della deterrenza e come sottolinea giustamente su X la nostra amica Rania Khalek di BreakThrough News “Se Israele fosse stato colto di sorpresa e non avesse avuto a disposizione diversi giorni per mitigare l’impatto dell’attacco iraniano, il danno sarebbe stato enorme. Una vera guerra al contrario non verrebbe annunciata in anticipo in modo che Israele possa preparare una sorta di sinfonia delle difese aree dei suoi alleati. Biden” deduce Rania “comprende questo rischio, ed è il motivo per cui ha affermato che non sosterrà un eventuale contrattacco israeliano” soprattutto perché, appunto, ammesso e non concesso che gli arsenali svuotati dei sostenitori dello sterminio dei bambini palestinesi e la loro base industriale sia, alla prova dei fatti, in grado di sostenere questo livello di fuoco, a non poterlo sostenere – probabilmente – sarebbero ancora prima i portafogli. “L’equazione nella regione” conclude Rania “è cambiata, e l’Iran lo ha fatto magistralmente e responsabilmente senza innescare la grande guerra”.
Nello specifico dell’operazione militare iraniana, un altro aspetto molto interessante è quello sottolineato dal sempre ottimo Fadi Quran di Avaaz, sempre su X: ricordando una vecchia lezione a cui ha assistito alla Stanford University, Fadi sottolinea come “La portata dell’attacco iraniano, la diversità dei luoghi presi di mira e le armi utilizzate, hanno costretto Israele a scoprire la maggior parte delle tecnologie antimissilistiche di cui dispongono gli Stati Uniti e i suoi alleati nella regione. Gli iraniani” continua “non hanno usato armi che Israele non sapeva avessero, ma ne ha semplicemente usate molte. Gli iraniani invece ora probabilmente hanno una mappa quasi completa di come appare il sistema di difesa missilistico israeliano, così come di dove in Giordania e nel Golfo gli Stati Uniti hanno installazioni”; “questo” sottolinea ancora Quran, per Israele rappresenta “un costo strategico enorme: l’Iran adesso può decodificare tutte queste informazioni e ha gli strumenti per un futuro attacco enormemente più mortale”. “Chiunque sta sottolineando che si è trattato soltanto di un’operazione scenografica, non tiene in dovuta considerazione il fatto che raccogliere informazione sulle posizioni del nemico è estremamente prezioso, soprattutto se siamo di fronte a una lunga guerra di logoramento”; “Netanyahu e il governo israeliano” conclude “preferiscono una guerra rapida, calda e urgente in cui possano attirare l’America. Gli iraniani invece preferiscono una guerra di logoramento più lunga che privi Israele delle sue capacità di deterrenza e lo renda per gli arabi e gli Stati Uniti un alleato troppo costoso da sostenere”, soprattutto dal momento che questo continua ad essere solo uno dei tanti fronti e altrove non è che le cose vadano esattamente molto meglio.
Le difese aeree sono scomparse, titola Asia Times; la Russia domina lo spazio aereo dell’Ucraina: nell’articolo, il vice sottosegretario alla difesa USA Stephen Bryen ricorda come “La maggior parte dei sistemi di fascia alta precedentemente forniti dagli Stati Uniti e dall’Europa sono stati distrutti o hanno esaurito i missili intercettori”; “Ora” continua Bryen “gli Stati Uniti hanno annunciato che forniranno 138 milioni di dollari per mantenere e riparare i sistemi di difesa aerea HAWK precedentemente consegnati all’Ucraina”. Un sistema che, però, ormai non riscuote più molto successo: Taiwan ha recentemente deciso di liberarsene, sostituendoli con un sistema autoctono denominato Tien Kung e Israele ha dichiarato che quelli che gli rimangono sono ormai in pessime condizioni e non sono operativi, e che li sta sostituendo con i suoi Fionda di David. D’altronde l’HAWK è un sistema di difesa antiaerea semimobile che, nella sua versione originale, risale ormai agli anni ‘50; nel tempo sono stati implementate diverse migliorie, ma il grosso delle componenti sono “circuiti integrati di media scala che sono per lo più fuori produzione”: “è piuttosto improbabile” sottolinea Bryen “che una qualsiasi fonderia sia disposta a intervenire sulle sue linee per produrre una manciata di queste componenti, e quindi i computer, i componenti di guida, il sistema di controllo del fuoco, i radar e l’elettronica di bordo potrebbero avere i giorni contati”. E anche se riuscissero a risolvere questo collo di bottiglia, la reale efficacia, comunque, rimarrebbe opinabile: “Quanto sia efficace HAWK contro le minacce moderne” sottolinea infatti Bryen, “non è chiaro”; “Generalmente si ritiene che la capacità di uccisione di HAWK contro gli aerei sia superiore all’85% se lanciato in tandem (e, cioè, due missili per bersaglio)”, se il bersaglio è sufficientemente vicino, però. La gittata dei missili HAWK, infatti, non supera le 30 miglia; le bombe plananti – che vengono usate sempre di più dall’aviazione russa – partono da ben più lontano, ma ancora più dubbi ci sono sulla capacità del sistema HAWK di neutralizzare sciami di droni e missili balistici – per non parlare degli ipersonici. Insomma, “La conclusione” scrive Bryen, è che nonostante tutti i soldi e i quattrini di USA e alleati “ l’Ucraina non dispone più di difese aeree efficaci in grado di proteggere le infrastrutture critiche o fermare gli aerei russi sul campo di battaglia o nelle sue vicinanze, e senza difese aeree efficaci, la Russia domina lo spazio aereo dell’Ucraina”. E proprio grazie, in buona parte, al dominio dello spazio aereo, ribadisce Bloomberg, “Gli attacchi russi all’Ucraina alimentano la paura che l’esercito sia vicino al punto di rottura”: “Gli attacchi missilistici della Russia al sistema energetico ucraino, il bombardamento della sua seconda città più grande e l’avanzata sul fronte alimentano le preoccupazioni che lo sforzo militare di Kiev sia vicino al punto di rottura”, ricorda Bloomberg; “Una grave carenza di munizioni e manodopera lungo il fronte di 1.200 chilometri e le lacune nella difesa aerea mostrano che l’Ucraina è nel suo momento più fragile in oltre due anni di guerra” e “il rischio è un crollo delle difese ucraine, un evento che darebbe al Cremlino la possibilità di fare un grande passo avanti per la prima volta dalle fasi iniziali del conflitto”.
Nel condurre la sua guerra contro il resto del mondo per perpetuare un sistema globale fondato sul primato di una piccola tribù sul resto della popolazione mondiale, l’impero, quindi, si trova a combattere contemporaneamente da un lato con grandi potenze militari contro le quali sconta un importante deficit in termini di base industriale e, dall’altro, con attori in grado di sfruttare in vario modo i vantaggi asimmetrici (che così, a occhio, come minimo, è più che sufficiente per far venire qualche dubbio sul supposto strapotere dell’impero) e quando un servo comincia ad annusare che lo strapotere del suo padrone potrebbe non essere più così solido, inevitabilmente comincia a guardarsi intorno per capire se ci sono alcune alternative, soprattutto se è consapevole che, in un eventuale successo della rivolta degli schiavi, insieme al padrone ad essere decapitato sarebbe pure lui. Da questo punto di vista, la caduta dell’impero potrebbe anche essere accelerata dal collo di bottiglia in cui si è infilato a causa del suo continuo ricorso a dei proxy per portare avanti i suoi obiettivi strategici, come d’altronde è già successo in passato con l’islam radicale; idem ora col sionismo radicale, in particolare degli alleati più esplicitamente clericofascisti del governo Netanyahu: l’agenda politica dei Ben Gvir e degli Smotrich, infatti – come, d’altronde, quella dei banderisti più oltranzisti in Ucraina – sembra guidata, in buona parte, non solo da opportunismo e utilitarismo (che, con tutti i loro difetti, per lo meno sono atteggiamenti che spingono a confrontarsi sempre con la realtà materiale e i reali rapporti di forza esistenti), ma proprio da un fervore ideologico degno della peggiore feccia nazifascista alla quale, spesso, si ispirano esplicitamente.
Al contrario delle oligarchie USA che, per quanto deprecabili, hanno dimostrato di saper fare piuttosto bene il loro interesse e, quindi, di avere un’idea piuttosto precisa della realtà (altrimenti l’impero più vasto e potente della storia umana, di sicuro, non lo costruisci) questa feccia iperideologizzata vive in una realtà parallela e rischia di portare le oligarchie stesse a sbattere contro il muro – che sarebbe anche un ruolo oggettivamente positivo se non fosse che, nel farlo, hanno questo vizietto di sterminare una quantità spropositata di esseri umani e di portare l’intera umanità a un passo dall’autodistruzione definitiva anche senza nessuna utilità evidente; il problema, però, è che le oligarchie, per quanto possano anche realizzare lucidamente che i neonazisti di Azov – come i coloni millenaristi – facciano più danni della grandine, non possono sottrarsi dal sostenerli perché, comunque, la priorità strategica è impedire ai loro nemici (e, cioè, a qualsiasi paese che punti a indebolire l’unipolarismo USA per rafforzare la sua sovranità, accelerando la transizione verso un nuovo ordine multipolare) di ottenere qualche successo significativo. Ed ecco, così, come un genocidio e una pulizia etnica, anche se controproducenti per gli obiettivi strategici USA, alla fine si trasformano nella meno peggio delle opzioni.
In questo scenario inquietante la speranza, appunto, è che laddove vi siano dei margini di manovra, gli stati vassalli ne approfittino per prendere le distanze; purtroppo, però, al momento questa speranza appare spesso decisamente vana: nel caso di Israele, ad esempio, le forze europee effettivamente hanno fatto meno ostruzionismo degli USA per trovare una soluzione nell’ambito dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; ciononostante, però, per implementare le decisioni della Corte internazionale di giustizia, prima, e del consiglio di sicurezza, poi, non hanno mosso mezzo dito, mentre quando si è trattato di difendere lo stato genocida di Israele dalla legittima reazione iraniana – tutto sommato contenuta e fin troppo proporzionata – hanno ritrovato tutto lo smalto che sembravano aver perso e hanno messo in campo tutta la loro forza militare deterrente.
Da questo punto di vista, vorrei spezzare una lancia a favore del governo italiano, in particolare Antonio Tajani: tra i leader europei, infatti, così a occhio, è stato quello che ha espresso probabilmente la posizione più avanzata. Prima di tutto ha sottolineato il nesso diretto con l’attentato criminale all’ambasciata iraniana di Damasco, lasciando campo libero all’interpretazione di Teheran, prima, e di Mosca poi, che l’operazione militare iraniana sia stata del tutto legittima dal punto di vista del diritto internazionale. Ma poi è stato anche uno dei primissimi a esprimere pubblicamente e con parole chiare l’auspicio che Israele non risponda a questo attacco; probabilmente hanno pesato le forti relazioni commerciali che il nostro paese ha sempre intrattenuto con Teheran, dove eravamo in prima linea anche per le infrastrutture ferroviarie, un megabusiness al quale abbiamo rinunciato in ossequio alle politiche imperiali USA – un altro esempio eclatante delle ferite che gli sgarbi dell’arroganza imperiale hanno seminato a destra e manca e che, in una fase di declino, potrebbero riemergere in superficie con più forza e più rapidità di quanto sia oggi prevedibile.
Il dominio imperiale USA è il principale nemico dell’umanità; la storia, inevitabilmente, troverà il modo di presentare il conto. Scopo dell’informazione mainstream oggi è coprire, con ogni mezzo necessario, la realtà di questo processo storico devastante ed è per questo che abbiamo sempre più urgentemente bisogno di un vero e proprio media che, invece che fare da megafono alle follie della propaganda suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

Gli USA convincono Giappone e Filippine a immolarsi per la sua Grande Guerra contro la Cina

“Stati Uniti e Giappone pianificano il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni”; manco il tempo di fare un minibrindisino per la risoluzione che Cina e Russia, finalmente, sono riusciti a imporre agli amici del genocidio della Casa Bianca al Consiglio di sicurezza dell’ONU che ecco un altro fronte che si avvia inesorabilmente verso l’escalation, il fronte per eccellenza: “Biden e Kishida” annuncia il Financial Times “annunceranno una mossa per contrastare la Cina alla riunione della Casa Bianca del mese prossimo”. Quello che è in ballo è, appunto, il più importante aggiornamento del patto di sicurezza tra i padroni di Washington e il loro principale vassallo del Pacifico da quando, nel 1960, USA e Giappone firmarono il trattato di mutua difesa: un trattato edulcorato, almeno rispetto alle ambizioni dell’allora premier Nobusuke Kishi, il sanguinario amministratore della colonia della Manciuria ai tempi dell’impero, che venne salvato dagli USA in cambio della garanzia di trasformare il Giappone in un protettorato a stelle e strisce. La mobilitazione popolare lo costrinse alle dimissioni e il trattato venne rivisto al ribasso; e, così, il Giappone si rassegnò ad avere forze armate dedicate esclusivamente alla difesa e gli USA rinunciarono all’idea di avere il pieno controllo della catena di comando dell’alleato del Pacifico. Dopo 60 anni abbondanti di lavoro certosino, nel dicembre del 2022, intanto, è saltato in buona parte il primo tabù e il Giappone ha approvato una riforma radicale delle sue forze armate in chiave offensiva, che le dota – finalmente – di armi di attacco all’altezza della sfida cinese e che prevede di portare la spesa militare dall’1 al 2% di PIL.

Shinzo Abe

E’ l’eredita lasciata – prima di venire barbaramente assassinato – dalla buonanima di Shinzo Abe, nipote del gerarca Nobusuke Kishi e leader del Nippon Kaigi, la potente organizzazione clericofascista fondata dal nonno e che da decenni influenza profondamente la politica giapponese. Nonostante il riarmo, però – come sottolineava a suo tempo l’ex direttore per l’Asia orientale nel Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden su Foreign Affair – il problema della catena di comando rimaneva: “Il Giappone” sottolineava, “per massimizzare l’efficacia di questa sua nuova postura, deve rafforzare la sua alleanza con gli USA”; ci è voluto un anno, ma ora, finalmente, ci siamo arrivati. E non è tutto, perché il Giappone sarà, a breve, più potente e aggressivo che mai e totalmente sotto controllo USA, ma è lontano.
Ed ecco allora la soluzione: facciamoci prestare le Filippine; dopo la parentesi multipolare e sovranista dell’amministrazione Duterte, con la presidenza Marcos le Filippine sono tornate alla loro vecchia condizione di portaerei dell’imperialismo USA nel cuore del Pacifico e hanno rimesso in moto l’EDCA, l’Enhanced Defense Cooperation Agreement – l’accordo di cooperazione rafforzata in materia di difesa che, sostanzialmente, permette alla marina militare a stelle e strisce di fare un po’ cosa cazzo gli pare. Siglato nel 2014 durante la presidenza filocolonialista di Aquino, prevedeva inizialmente 5 location dove far scorrazzare armi, navi e uomini USA a volontà e nessuna nella parte settentrionale dell’arcipelago, quella più utile per un’eventuale guerra con epicentro Taiwan; ora, fatto fuori Duterte, il piano torna in grande stile con 4 nuove location, tutte a un tiro di schioppo da Taipei e con anche un extra bonus: un nuovo porto nelle minuscole isole Batanes, a meno di 200 chilometri dalle coste di Taiwan. E visto che la flotta giapponese sarà, a breve, sostanzialmente eterodiretta da Washington, ecco che la relazione si allarga e diventa una bella threesome: a partire da novembre, infatti, Filippine e Giappone hanno avviato i negoziati per un accordo di accesso reciproco per le rispettive truppe: l’11 aprile prossimo i rispettivi leader sono entrambi attesi alla Casa Bianca per il primo trilaterale USA – Giappone – Filippine.
Nel frattempo, le provocazioni USA su Taiwan – con la vendita del sistema di telecomunicazioni militari Link 16 e la fuga di notizie sugli addestratori americani nell’isola di Kinmen, a 10 chilometri dalla repubblica popolare di Cina – continuano ad aumentare; ora rimane solo da convincere definitivamente i vassalli europei ad accollarsi la guerra di logoramento contro la Russia in Ucraina e dintorni e assicurarsi che il massacro dei bambini a Gaza non si trasformi in una dispendiosa guerra regionale, obiettivo talmente importante da obbligare gli USA, per la prima volta, addirittura a non mettere il veto in Consiglio di sicurezza, dopodiché, finalmente, gli USA si potranno concentrare a tempo pieno nella vera partita del secolo: la grande guerra del Pacifico contro il primo paese che ha osato superare la potenza economica del padrone del mondo. Prima di procedere con i dettagli di questo racconto inquietante, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola, ma vitale, battaglia contro gli algoritmi e anche di aiutarci a crescere iscrivendovi a tutti i nostri canali, compreso quello Youtube in inglese, e attivare le notifiche: non riusciremo a bloccare l’armageddon, ma almeno proveremo a dare un contributo affinché, mentre ci preparano la tomba, non ci prendano anche impunemente per il culo.
“La Cina ha continuato e intensificato i suoi tentativi di modificare unilateralmente lo status quo con la Forza” e nel contesto “più grave e complesso” scaturito da questa aggressività “dobbiamo rafforzare la collaborazione con le nazioni che la pensano allo stesso modo”: la bozza del Diplomatic Bluebook 2024, il documento che descrive le linee guida della politica internazionale del Giappone per l’anno venturo e che è stata anticipata alla stampa nei giorni scorsi, è una vera e propria bomba incendiaria, soprattutto perché anticipa lo spirito col quale il premier Kishida ha deciso di affrontare lo storico trilaterale dell’11 aprile organizzato da Rimbambiden e che, oltre a USA e Giappone, vedrà la presenza delle Filippine. Ma perché un’alleanza solida tra Filippine e Giappone è così fondamentale per la strategia USA? Ma come perché! Sembrano nate l’una per l’altra!
Per affrontare la Grande Guerra del Pacifico contro il Nemico Esistenziale del loro modello imperiale unipolare, gli USA – infatti – prima di tutto devono risolvere un problemino piuttosto impattante: in una lunga guerra convenzionale contro una potenza industriale delle dimensioni della Cina, alla lunga – dopo 40 anni di finanziarizzazione e di deindustrializzazione, infatti – sono inevitabilmente destinati a soccombere; gli USA, infatti, hanno smesso di produrre tante cose, ma – in particolare – hanno smesso di produrre navi. Cioè, continuano – ovviamente – a produrre navi da guerra, ma a un ritmo e a costi che vanno bene solo per tempi di pace; in caso di guerra, per affrontare le quantità richieste c’è solo un modo: convertire la produzione civile a militare. Cioè, non è che ti puoi inventare i porti, le banchine, la manovalanza, le linee produttive e tutta la filiera da zero; ci devi avere la produzione civile già sviluppata e convertirla alla produzione militare e, molto banalmente, quella produzione gli USA non ce l’hanno – non nel senso che non ne hanno abbastanza: proprio che non ce l’hanno del tutto. In tutto, in un anno, producono imbarcazioni per 73 mila tonnellate; la Cina per 26 milioni e, come abbiamo ricordato diverse volte, alla fine quello è l’unico parametro che conta davvero. Hai voglia te di convincerti delle vaccate dei suprematisti sui primati tecnologici e segate varie: una grande guerra del mare la vince chi produce più navi. Punto. Il resto e fuffa. E la Cina, da sola, produce metà delle navi prodotte nel mondo.
Fortunatamente per gli USA, però, l’altra metà è concentrata in due paesi amici: Giappone e Corea del sud, insieme, coprono sostanzialmente l’altra metà della produzione mondiale; al resto rimangono gli spiccioli. Quindi, il primo scoglio da superare è fare in modo che Corea del sud e Giappone siano senza se e senza ma nella partita. Facile, direte. Fino a un certo punto, perché una cosa è essere amici e volesse bene, un’altra è essere così amici che – non dico per vincere, ma anche solo per poterci sperare – dipendo interamente da te: siccome in ballo non c’è la coppa del dopolavoro ferroviario per un torneo di calcetto babbi contro figli, se io dipendo da te per vincere devo essere sicuro al 100% che fai tutto quello che dico io quando lo dico io e, tradotto in termini militari, significa che la catena di comando, alla fine, fa riferimento a me e soltanto a me – che, per la Corea del sud, in buona misura è già così.
Per il Giappone, paradossalmente, un po’ meno: nonostante il trattato tra i due paesi preveda il mutuo soccorso, le forze armate giapponesi, tutto sommato, sono sempre rimaste nella loro bolla, con una catena di comando a se; il primo punto, quindi, è superare questo ostacolo e rivedere il patto in modo che le forze armate giapponesi diventino, a tutti gli effetti, un braccio interamente gestito dalla testa a stelle e strisce e questo è quello che, appunto, si vuole ottenere con il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni a cui accennavamo all’inizio. Per il Giappone si tratta di una scelta epocale, che lo destina a un futuro e di incertezze; e il bello è che a prendere questa scelta sarà un primo ministro che ha una percentuale di consensi di poco superiore al 20% (le grandi magie del mondo libero e democratico…). Comunque, dal momento che l’altro 80% non s’è saputo organizzare adeguatamente, per quanto schifato anche dai parenti, Kishida sembra poter portare a casa questo risultato senza troppi problemi.

Fumio Kishida

Facciamo quindi conto che il problema della produzione delle navi e della catena di comando sia risolto; rimane, però, il problema della geografia perché con gli arcipelaghi meridionali – fino ad arrivare a Taiwan inclusa – un pezzo di accerchiamento alla Cina è fatto, ma rimane tutta la parte più a sud: ed ecco qua che entrano in ballo le Filippine. Che le Filippine rappresentino una pedina fondamentale per il dominio del Pacifico occidentale, gli USA lo sanno da sempre e, infatti, da sempre hanno fatto in modo di tenerle sotto controllo e nel 2014, durante la presidenza Aquino, l’avevano scritto nero su bianco: in 5 località sparse per le Filippine gli USA possono manovrare di tutto e di più, a loro piacimento. Poi però, appunto, era arrivato Duterte, che questa storia di essere una colonia USA non è che l’apprezzasse tanto, ma quell’epoca sembra tristemente tramontata; il nuovo presidente, all’inizio, aveva promesso di continuare sulla linea di avvicinamento a Cina, Russia e Sud Globale del predecessore – anche perché, altrimenti, non avrebbe mai vinto – ma dal giorno dopo il suo insediamento ha cambiato linea. Le malelingue dicono sia ricattabile: durante il regime del padre, infatti, si mormora che la sua famiglia abbia imboscato, col sostegno USA, in vari paradisi fiscali sparsi per il mondo una decina di miliardi; “Alcuni osservatori” riporta Asia Times “sospettano che Washington possa aver allentato il controllo sull’enorme ricchezza illecita dei Marcos, in cambio di un maggiore accesso alle basi militari e una più profonda cooperazione in materia di sicurezza”. Ed ecco così che, come per magia, dalle promesse elettorali si passa alla consegna chiavi in mano del paese agli americani per trasformarlo nella testa di ponte per la grande guerra contro la Cina, cosa che sembra Duterte non abbia gradito particolarmente: “Abbiamo un presidente tossicodipendente e figlio di puttana” avrebbe dichiarato col suo solito rispetto del politically correct al limite della pedanteria.
In sostanza, le Filippine con Marcos hanno concesso agli USA 4 nuove basi; siccome la costituzione, sostengono molti, in realtà lo vieterebbe, hanno trovato questo escamotage: uomini e attrezzature non potranno essere stabili, ma dovranno ruotare (come se, di solito, non ruotassero e come se ci fosse qualcuno a controllare): una controllatina l’hanno data gli analisti dell’ATMI, l’Asia Maritime Transparency Initiative, e hanno trovato un sacco di sorpresine. Tutte le basi presenterebbero un’attività frenetica per lo sviluppo delle infrastrutture: “A quanto pare” scrive Asia Times “le Filippine stanno rafforzando in modo proattivo la loro deterrenza contro l’espansione della Cina nel Mar Cinese Meridionale a ovest, mentre si preparano anche a potenziali imprevisti nella vicina Taiwan a nord” e dall’11 aprile, appunto, tutto questo potrebbe diventare pienamente accessibile anche agli amici giapponesi; “La cooperazione trilaterale” scrive diplomaticamente il Global Times “potrebbe diventare una routine fissa e normalizzata in futuro, prevedendo esercitazioni militari, esercitazioni di sbarco sulle isole, pattugliamenti marittimi congiunti con altri paesi, e sfruttando la posizione delle Filippine nell’ASEAN per cercare di influenzare gli altri paesi dell’organizzazione multilaterale regionale”.
Al grande appuntamento per la threesome dell’anno, comunque, le Filippine hanno tutta la volontà di presentarsi il più agghindate possibile: “Oltre a fare affidamento sugli aiuti militari statunitensi” ricorda infatti Asia Times “le Filippine mirano a procurarsi moderni aerei da combattimento, sottomarini e sistemi missilistici strategici nell’ambito di un programma di modernizzazione militare da” – udite udite – “36 miliardi di dollari”; 36 miliardi di dollari per un paese che ha un PIL che non arriva a 450. Per capire l’entità: negli ultimi 2 anni abbiamo spalancato gli occhi di fronte al programma tedesco di riarmo da 100 miliardi di euro; ecco, in proporzione, le Filippine è come se ne avessero annunciato uno da poco meno di 400 miliardi. Oltre ai caccia F16 dagli USA e Saab Gripen dalla Svezia, Manila sta trattando per comprarsi pure i sottomarini; e non uno, ma tre, perché “Tre” hanno affermato pubblicamente “è un numero magico: uno in funzione, uno in addestramento e uno in riparazione/manutenzione” e, il tutto, rivolto minacciosamente contro la Cina. Le Filippine, infatti, hanno da pochissimo approvato una nuova strategia di difesa nazionale denominata CADCComprehensive Archipelagic Defense Concept – che sta per concetto globale di difesa arcipelagica e che, in soldoni appunto, vuol dire concentrare il grosso delle risorse verso la Cina e verso Taiwan; pronti per raggiungere le isole più settentrionali ci dovrebbero essere anche i nuovi missili da crociera supersonici BrahMos acquistati dall’India e che hanno una gittata di circa 900 chilometri e, sempre a partire dalle isole settentrionali, il prossimo mese USA e Filippine dovrebbero dare il via a un’esercitazione denominata Balikatan che dovrebbe coinvolgere circa 12 mila soldati americani e vedere in veste di osservatori la presenza, appunto, del Giappone e anche dell’Australia.
Insomma: si stanno scaldando i motori in attesa di essere un po’ meno affaccendati in altre faccende; intendiamoci, non che manchino gli ostacoli: prima che l’Europa – ammesso e non concesso riesca mai a farcela – possa, in qualche modo, essere autosufficiente nell’assistere l’Ucraina oggi e, magari, gli altri paesi dell’est europeo domani nella lunga guerra di logoramento della Russia, ancora ce ne manca e svincolarsi, per gli USA – se mai sarà possibile – sicuramente non sarà immediato. Basti considerare che mentre si cercavano di risolvere tutti i colli di bottiglia del Pacifico, a un certo punto gli USA si son accorti di essere messi così male da chiedere nuove armi per rimpinzare gli arsenali allo stesso Giappone, in particolare le batterie di Patriot; il Giappone ha obbedito immediatamente e siccome, in realtà, non poteva inviare i suoi missili Patriot negli USA, ha addirittura cambiato la legge in fretta e furia per far contento il padrone di Washington – che quindi, da un lato, significa che sulla fedeltà ci possono essere pochi dubbi, dall’altro però, appunto, significa che fino a che a provvedere ad armare l’Ucraina non ci penserà qualcun altro, anche col supporto di Tokyo la grande alleanza del mondo libero di tenere testa, sul piano industriale, al colosso produttivo cinese nel Pacifico potrebbe non essere in grado.
Qualche altro problemino potrebbe arrivare dai fronti interni in Giappone e anche in Corea del sud, due paesi che, ovviamente, hanno nella Cina – di gran lunga – il primo partner commerciale (la Corea del sud addirittura, caso più unico che raro, vantando addirittura un piccolo surplus commerciale): un giro di affari enorme messo fortemente a rischio dalla guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca e sul quale la Cina tenta di fare leva. A partire già dal lontano 1999, i 3 paesi tengono regolarmente degli incontri trilaterali – o meglio, tenevano: nel 2019, infatti, questa abitudine è stata interrotta; ma il bello è che è stata interrotta non a causa della Cina, ma per tensioni tra Giappone e Corea del sud. Inutile, comunque, farsi troppe illusioni: i rapporti tra i due paesi sono spesso tesi e i due popoli non è che si stiano proprio simpaticissimi, diciamo; ciononostante, gli USA hanno ancora una leva sufficiente a superare le divisioni e quando, nell’agosto scorso, li ha richiamati entrambi all’ordine con un incontro trilaterale sempre alla Casa Bianca, con la coda tra le gambe i due hanno fatto buon viso a cattivo gioco e hanno obbedito senza troppi distinguo. Più che ai mal di pancia di paesi che, comunque, si riconoscono pienamente nel capitalismo globalizzato e finanziarizzato garantito da Washington, conviene allora forse guardare altrove per trovare le vere debolezze di questo piano USA, a partire da Ansar Allah, che continua a tenere alta la preoccupazione per un’estensione del conflitto in Medio Oriente che rovinerebbe alla base tutti i piani di Washington – che è uno dei motivi che, appunto, lunedì ha portato gli USA a compiere probabilmente la più grande rottura nei confronti del fedele alleato sionista di sempre: per la prima volta dall’inizio della fase terminale del piano di pulizia etnica di Israele nei confronti dei gazawi, gli USA non hanno posto il veto al Consiglio di sicurezza a una risoluzione presentata dall’Algeria e sostenuta da tutti gli altri 13 membri (Regno Unito incluso) che impone un cessate il fuoco immediato e che gli USA si sono limitati a non votare astenendosi; ne è seguito il più importante scontro tra leadership USA e israeliana di cui ho memoria, con Israele che ha cancellato la visita programmata a Washington e Kirby che si è dichiarato molto deluso.
Gli USA, da dettare la linea senza troppi intoppi all’intera comunità internazionale, sono ormai sempre di più costretti a scegliere quale guerra ritengono essenziale per i loro interessi; e non è detto che gli basti: è il vero, grande, epocale segnale non solo che il Mondo Nuovo avanza, ma che, al netto di tutto, è già avanzato e che non saranno i vecchi media a darci gli strumenti per capirci qualcosa e attrezzarci per prendere le contromisure. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media tutto nuovo e che sia indipendente, ma di parte: quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Navi Militari Europee nel Mar Rosso: Escalation o Armata Brancaleone?

Mar Rosso, l’Italia si schiera titolava lunedì il Corriere della serva: il riferimento, come ben saprete, è alla missione Aspides che in greco, non a caso, significa scudo e che è la missione militare targata Unione Europea che dovrebbe avere il compito di difendere le nostre navi mercantili nel Mar Rosso. Una missione che però, titolava ieri Il Giornanale, resta un annuncio: per il via libera infatti, come minimo, bisognerà attendere il 19 febbraio, quando si riunirà il consiglio esteri convocato da Bruxelles. Nel frattempo, in molti rimangono piuttosto titubanti: il ministro degli esteri spagnolo Josè Manuel Albares avrebbe annunciato l’intenzione del suo paese di non partecipare; idem l’Irlanda. L’Olanda, invece, c’aveva judo: partecipa già alla missione Prosperity Guardian a guida americana. Missioni difensive europee sono for pussies, missioni offensive angloamericane sono for real men– anche se i real men non sempre brillano proprio per lucidità strategica: “Gli attacchi aerei allo Yemen stanno funzionando?” ha chiesto un giornalista a Biden durante una conferenza stampa di qualche giorno fa; “Dipende da cosa cosa intendi per funzionare” ha risposto Biden. “Stanno stoppando gli Houti? No. Continueranno? Sì.”, che poi – a ben vedere – è il riassunto perfetto della strategia geopolitica USA da un po’ di tempo a questa parte. D’altronde, come commenta il mitico blog Moon of Alabama, “Quando il tuo unico arnese è un martello, ogni problema assomiglia a un chiodo”.

Gian Micalessin

Ma se i razzi USA e britannici non sembrano impattare poi molto sulle capacità offensive di Ansar Allah e, invece che riportare la calma, sembrano esclusivamente aumentare il bordello, anche la nostra Aspides rischia di non essere molto efficace nella difesa; risultato? Aspides ad oggi potrà contare su appena tre navi messe a disposizione dalla triplice italo – franco – tedesca: “l’Italia così” scrive Gian Micalessinofobia sempre sul Giornanale “si ritroverebbe a fare la parte del leone. La nostra marina militare, già presente nel Mar Rosso con la fregata Martinengo che partecipa alla missione anti – pirateria Atlanta, è pronta infatti a mandare un’altra unità dedicata”; un po’ pochino per coprire un’area che andrebbe dallo stretto di Bab-el-Mandeb – attualmente sotto fuoco yemenita – a quello di Hormuz, che separa l’Iran da Oman ed Emirati e che, sulla carta, pattugliato dovrebbe esserlo già da 4 anni: nel 2020, infatti, Parigi riuscì a strappare all’Europa l’ok alla missione Agenor, che doveva proteggere la navigazione commerciale dal rischio che arrivava dall’Iran e che però, come sottolinea lo stesso Micalessinofobia, è “rimasta un’inutile scatola vuota”. Siamo di fronte a un remake? Al momento sembra abbastanza probabile: tra i due stretti infatti, ricorda ancora Micalessinofobia, “ci sono oltre 2.300 chilometri di mare. Un’estensione impossibile da coprire con appena tre navi e qualche drone”.
Qualcosina in più di Agenor sembra l’abbia portato a casa un’altra operazione: si chiama Atalanta, è in corso ormai dal lontano 2008 e ha l’obiettivo di proteggere i mercantili della pirateria a largo della Somalia; quando inizialmente gli USA avevano annunciato l’avvio dell’operazione Prosperity Guardian, l’Unione Europea – per voce di Borrell – aveva inizialmente parlato di un nostro contributo proprio attraverso l’operazione Atalanta, ma il tutto era stato inizialmente bloccato dal veto spagnolo: poi Biden ha alzato il telefono, ha chiamato direttamente Sanchez e il divieto è venuto meno, ma l’iniziativa è rimasta dov’era. Una volta tanto, l’Europa ha avuto un sussulto di dignità e ha evitato di fare il portaborse in un’operazione dove la catena di comando era saldamente in mano agli USA e dove le regole di ingaggio, come abbiamo visto chiaramente, vanno decisamente al di là della difesa dei mercantili. Ma sull’utilità di quello che abbiamo già dispiegato per l’operazione Atalanta in questo nuovo contesto, ci sono più di qualche dubbio: “Gli Houti” infatti, spiega l’ex ufficiale della folgore e fondatore del Security Consulting Group Carlo Biffani intervistato da AGI, “non attaccano con barchini dotati di motori fuoribordo e fucili d’assalto e rappresentano ben altro tipo di minaccia”; in quel caso, continua Biffani, “bastò schierare navi da guerra che incrociavano a largo della Somalia, e posizionare a bordo dei cargo personale armato con dotazioni consistenti unicamente in fucili d’assalto. In questo caso invece si tratta di neutralizzare in tempo reale il lancio di missili contro obiettivi navali”. Per assolvere a questo ruolo, bisognerà ricorrere probabilmente a delle portaerei e sfruttare “la terza dimensione, ovvero quella dei cieli, con sistemi di ascolto e di controllo radar di ampissimo raggio”; per le regole d’ingaggio di questa missione, come sottolinea il Corriere, “mancano ancora i dettagli”. I media, comunque, sono concordi nel dare per scontato che sarà appunto meramente difensiva: “Sono categoricamente escluse azioni a terra” scrive Di Feo sulla Repubblichina, “neppure per eliminare le rampe da cui partono ordigni contro le forze occidentali” e questo, se confermato, è senz’altro una buona notizia.
Ma le buone notizie, come le bugie, hanno le gambe corte: come spiegava Stephen Bryen su Asia Times già una decina di giorni fa, infatti, se USA e UK – a un certo punto – da scortare i mercantili (come dovremmo cominciare a fare anche noi con l’operazione Aspides) sono passati a lanciare razzi sullo Yemen non è perché sono scemi o perché sono cattivi, o almeno non esclusivamente; il problema, spiega Bryen, è che “sono sorti seri dubbi sia da parte britannica che da parte statunitense sul fatto che fossero adeguatamente attrezzati per resistere ancora a lungo agli attacchi di sciami di droni e di missili Houthi”. Solo nella giornata del 10 gennaio scorso, ad esempio, “le forze statunitensi e britanniche hanno dovuto abbattere 21 droni e missili. E per stessa ammissione del segretario dalla difesa britannico Grant Shapps, questo non sarebbe sostenibile”; il problema, meramente tecnico ma fondamentale, è che le imbarcazioni militari di missili non è che ce n’abbiano all’infinito e quello che è più grave, sottolinea Bryen, “non possono essere rifornite in mare”. Con l’aumento del numero degli attacchi da parte di Ansar Allah, in realtà rimanevano quindi due sole opzioni: o smettere di scortare i mercantili – che non era pensabile – o provare ad attaccare le postazioni dalle quali gli attacchi partivano pur sapendo che i risultati sarebbero probabilmente stati molto limitati, tanto che ancora lunedì USA e UK hanno colpito di nuovo in almeno sei località diverse, ma Ansar Allah nel frattempo – sempre più superstar assoluta per tutta l’opinione pubblica del mondo arabo – è riuscita a continuare i suoi attacchi senza grossi problemi. Ieri, ad esempio, Ansar Allah ha comunicato di aver colpito l’americana Ocean Jazz che, sempre secondo gli yemeniti, sarebbe solitamente scortata dalla marina mercantile USA e che sarebbe solitamente adibita al trasporto di attrezzatura militare statunitense di grandi dimensioni. Le 3 navi europee in dotazione a Aspides potrebbero ritrovarsi di fronte a questo dilemma ancora prima perché, molto banalmente, sostanzialmente non sono dotate di sistemi per fronteggiare i missili balistici; sappiamo che possono abbattere i droni, ma che riescano ad abbattere un missile balistico è piuttosto difficile. L’unica soluzione realistica sembrerebbe quella di impiegare, appunto, aerei da ricognizione in grado di individuare tempestivamente l’eventuale lancio di missili per poi comunicarlo alla marina USA, che sarebbe l’unica in grado di abbatterli, ma fornire intelligence alla marina USA sul nemico che sta bombardando non sarebbe poi molto diverso da partecipare direttamente alla loro missione e, quindi, entrare in guerra contro lo Yemen.

Aereo da ricognizione MQ-1 Predator

In uno slancio di ingiustificato ottimismo proviamo comunque ad attaccarci a un’ultima possibilità e cioè che entrino in gioco anche la diplomazia e il dialogo: se l’Europa garantisse che Aspides non servirà per scortare anche navi israeliane o dirette in Israele, e che si limiterà a scortare cargo e petroliere diretti verso gli altri porti del Mediterraneo, potrebbe anche strappare ad Ansar Allah l’impegno a non minacciarle con missili balistici; difficile, però, che questo gentleman agreement possa avvenire se – appunto – Aspides prevederà, come sembra scontato, l’impiego di aerei da ricognizione che ovviamente sarebbero sospettati di lavorare per gli angloamericani. Insomma, sembra che la strada sia piuttosto stretta: da un lato una missione davvero puramente difensiva che ci esporrebbe a molti rischi e, dall’altro, l’adesione sostanziale alla missione offensiva USA, che a rischio ci metterebbe tutto il nostro traffico commerciale. L’unica soluzione concreta per tutelare i nostri interessi nell’area rimane quella di affrontare il problema alla radice, e cioè il genocidio al quale, fino ad ora, abbiamo assistito – nella migliore delle ipotesi – impassibili. Qualche piccolo spiraglietto si è aperto: dopo che i familiari degli ostaggi lunedì hanno fatto irruzione alla Knesset, Israele ha annunciato di aver ripreso a parlare con Hamas di una nuova pausa e di un nuovo scambio di prigionieri. Tutto sommato, potrebbero cominciare a sentire il bisogno anche i militari israeliani: sul campo, infatti, la resistenza palestinese nonostante tutto sembra tenere botta e le forze armate israeliane, dopo aver provato a sollevare un mezzo polverone, lunedì hanno dovuto ammettere di aver subito 24 perdite in un giorno solo.
Anche sul fronte della guerra ibrida contro l’Iran probabilmente si sperava di poter ottenere qualcosa in più, a partire dalla scaramuccia col Pakistan; fortunatamente invece, dopo lo scambio di razzi, le relazioni diplomatiche sono state subito riavviate e il ministro degli esteri iraniano Abdollahian è atteso per una visita ufficiale ad Islamabad il prossimo 29 gennaio; allo stesso tempo, l’Arabia Saudita ha fatto sapere che per Israele non è troppo tardi per tornare indietro e che, se si tornasse a discutere seriamente della soluzione dei due Stati, le petromonarchie potrebbero tornare a dialogare con Tel Aviv.
Insomma, la soluzione definitiva contro la lotta di liberazione palestinese sembra sempre più un miraggio delirante, come anche la marginalizzazione dell’Iran; nel mezzo ci stanno 30 mila vittime civili totalmente gratuite che rimarranno a eterna memoria di come l’Occidente collettivo, dopo 5 secoli di dominio globale, al momento del suo declino relativo abbia avuto ancora l’energia per mostrare il peggio di sé – e questo, diciamo, nella migliore delle ipotesi. Contro i colpi di coda dell’impero in declino e i deliri suprematisti della sua macchina propagandistica, abbiamo bisogno subito di un vero e proprio media che stia dalla parte dei popoli che lottano per la loro liberazione e del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani