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La dedollarizzazione non può attendere – Se cinesi e sauditi usano il dollaro contro gli USA

I BRICS non riescono a mettersi d’accordo per affossare il dominio del dollaro e il monopolio USA sul sistema monetario e finanziario globale? Vorrà dire che la Cina ci penserà da sola e – indovinate un po’ – lo farà usando il dollaro: sembra paradossale, ma, secondo alcuni analisti, non lo è affatto. Prima il fatto: il 5 novembre scorso, infatti, il ministero delle finanze cinesi ha annunciato l’intenzione di emettere titoli del debito direttamente in Arabia Saudita e di emetterli denominati in dollari; “Altro che dedollarizzazione” scrive il blogger cingalese Indrajit Samarajiva: “questa è una ri- dollarizzazione”, ma con l’idea di “usare il dollaro per sovvertire gli USA”. “La Cina ha sostituito la Federal Reserve”, rilancia su Twitter il blogger indipendente cinese Eason Mao; il punto dirimente è che, come sottolinea Bloomberg, nonostante la Cina offrisse soltanto 2 miliardi di titoli, la domanda è stata per oltre 40 miliardi (20 volte tanto) e questo ha comportato che alla fine i titoli del debito cinese garantissero interessi che, rispetto a quelli garantiti dai titoli del debito USA, sono superiori di appena un punto base e, cioè, dello 0,01%. Questa cosa, molto banalmente, è senza precedenti e ha rischiato concretamente di far venire un infarto ai Federico Rampini di tutto il pianeta e a tutti gli analfoliberali che, da 30 anni, ogni 6 mesi si inventano un titolo random sulle cause immaginarie di un futuro probabile collasso dell’economia cinese. Ovviamente, infatti, quando emetti titoli in dollari, sostanzialmente, devi remunerare un doppio rischio; il primo è quello che viene già riconosciuto dai titoli di stato USA e, che a sua volta, può essere suddivisa in due parti: la prima è il rischio che gli USA stessi – e, cioè, il Paese che emette la valuta sovrana nella quale è stato denominato il titolo e che ha emesso quel titolo del debito specifico – molto banalmente, falliscano e, quindi, non sia più in grado di pagare né gli interessi, né il credito concesso. La seconda è il rischio che il dollaro si svaluti rispetto alla valuta sovrana di chi ha concesso il credito: questo, ovviamente, significa che quando ti vengono restituiti i soldi che avevi prestato, questi, convertiti nella tua valuta, valgano meno rispetto a quando avevi comprato i titoli; come – d’altronde – anche l’assegno che ricevi quando incassi gli interessi che, una volta convertito nella tua valuta, vale meno del previsto.
La prima componente viene tradizionalmente considerata sostanzialmente priva di rischio: che gli Stati Uniti falliscano appare piuttosto difficile e, fino a che non falliscono, avranno sempre la capacità di emettere tutti i dollari che vogliono; e la seconda idem. Ovviamente l’ipotesi che il dollaro si svaluti rispetto alla valuta sovrana di te che ti compri quel titolo è tutt’altro che peregrina e accade, in realtà, molto spesso; il punto, però, è che accade soltanto per le economie forti che, quindi, esportano negli USA più di quanto non importino e che, quindi, accumulano continuamente una marea di dollari, il che significa che quando hanno comprato i titoli li hanno comprati con i dollari che avevano già in cascina e non hanno dovuto convertire in dollari la loro valuta locale. Idem quando gli verrà restituito il prestito: continueranno a tenersi i dollari e il tasso di cambio con la valuta locale non interviene mai. Insomma: anche se non sono entità statunitensi, operano in buona parte con i dollari e, quindi, il rischio legato alle fluttuazioni del cambio non c’azzecca niente. Questi due aspetti hanno fatto sì che i titoli del debito USA vengano considerati sostanzialmente i beni sicuri per eccellenza: qualsiasi altro titolo del debito emesso in dollari, a parità di durata, deve quindi garantire una remunerazione superiore ai titoli di stato USA (il famoso spread); quando Apple e Amazon negli ultimi 2 anni hanno emesso obbligazioni con scadenze a 3 e 5 anni, hanno dovuto riconoscere uno spread intorno ai 30 punti base, cioè dello 0,3% e quando ad emetterli sono altri Stati, le cose di solito vanno anche assai peggio. Paesi come Brasile, Messico o Indonesia, di solito, scontano spread che vanno dai 150 ai 200 punti base; la Turchia paga spesso fino a 700 punti base di differenza e le economie emergenti più fragili arrivano a pagare anche fino a 1000 punti base e oltre: il 10%.
I paesi europei, ovviamente, di solito i titoli del debito li emettono in euro, ma ogni tanto qualche tranche in dollari salta fuori: l’Italia, storicamente, sconta spread tra i 50 e 100 punti base e anche la Germania che, grazie al suo possente settore manifatturiero e a un debito pubblico che rispetto al PIL è meno della metà di quello USA, fino a poco tempo fa veniva considerata l’economia affidabile per eccellenza, scontava comunque tra i 10 e i 20 punti base. E anche la Cina – che, in passato, ha emesso una discreta quantità di titoli del tesoro in dollari, ma sulla piazza di Hong Kong – storicamente ha sempre scontato tra i 50 e 100 punti base; adesso, con questo esperimento saudita, lo spread da scontare è di 1 punto base: ecco perché Eason Mao, in un eccesso di entusiasmo, arriva addirittura ad affermare che “la Cina ha sostituito la Federal Reserve”. Cosa potrebbe comportare, nel caso questa cosa venisse confermata, per emissioni ben più sostanziose dei miseri 2 miliardi messi sul tavolo a questo giro? Potenzialmente, dicono i nostri analisti, una piccola (e forse manco tanto) rivoluzione; partiamo proprio dal caso dell’Arabia Saudita: l’Arabia Saudita esporta ogni anno circa 250 miliardi di petrolio che le viene pagato ancora oggi, nonostante qualche piccolo esperimento, sostanzialmente tutto in dollari. L’Arabia Saudita, così, accumula una quantità enorme di dollari: se fosse una repubblica socialista e non una petromonarchia, li potrebbe convertire in valuta locale per far crescere l’economia reale locale, ma poi, quando fai crescere l’economia reale locale, fai crescere pure il peso del lavoro nella società e va a finire che i lavoratori chiedono salari e diritti e, ringalluzziti, addirittura arrivano a chiederti conto del perché nel 2024 c’è ancora una dinastia col potere assoluto; meglio tenerli in dollari e farli fruttare in qualche altro modo. E quei modi, oggi, sostanzialmente sono i titoli del debito USA che Washington usa per rafforzare il dominio neocoloniale a suon di spesa militare e – da qualche tempo a questa parte – a suon di sussidi pubblici per attirare gli investimenti e le azioni delle aziende quotate nei mercati finanziari USA che, in buona parte, servono per creare i monopoli globali del tecnofeudalesimo.
L’esperimento cinese consiste, invece, nel tentativo di dirottarli (almeno in parte) nelle sue casse: fino a poco tempo fa, convincere i sauditi era un po’ complicato perché il rapporto con gli USA li rendeva incredibilmente ricchi, senza rischi; ora, però, i rischi sono diventati parecchi. Il debito USA è sempre meno sostenibile e, quindi, i titoli di stato non sono più privi di rischi, come hanno certificato addirittura anche le agenzie di rating statunitensi stesse: la bolla dei mercati azionari non è mai stata così grande e aspettano solo che esploda. E poi gli USA hanno cominciato a usare il dollaro come una vera e propria arma e, quindi, basta che fai qualcosa che non gli torna e magari ti ritrovi centinaia di miliardi congelati dalla sera alla mattina; e i sauditi qualcosina che non torna ogni tanto la fanno, tipo quando tagliano a fette in un consolato un collaboratore del Washington Post, per fare un esempio. Fino a poco tempo fa, inoltre, questa cosa non sarebbe tornata tanto utile nemmeno alla Cina: la Cina, infatti, è notoriamente un altro di quei Paesi che esporta più di quanto non importi (per eccellenza) e siccome, fino a poco tempo fa, tutto veniva pagato in dollari, era la prima ad accumulare già di per se più dollari di quanti non gliene servissero, che infatti tornavano immediatamente negli USA. Ma nel 2023 c’è stato lo storico sorpasso: lo yuan ha addirittura superato il dollaro come valuta utilizzata negli scambi commerciali bilaterali della Cina con i partner commerciali e continua a crescere: ora, visto che la Cina ha impiegato tutti questi sforzi per dedollarizzare i suoi scambi commerciali, perché si rimette a farsi prestare dollari? Cosa ci fa? Sono scemi?
Forse no: con i dollari che si fanno prestare dai sauditi, infatti, ci possono fare due cose, che con Washington e Wall Street non c’entrano niente. La prima: ci possono pagare il petrolio saudita; in questo modo, praticamente, il dollaro rimane solo un’unità di conto, ma nessuno accumula ulteriormente dollari. Lo scambio vero è solo tra il petrolio saudita e i prodotti cinesi. Ma, potenzialmente, c’è anche un secondo livello che rende le cose ancora più interessanti: i cinesi, infatti, con i dollari dei sauditi possono comprare le materie prime che gli servono anche dalle altre economie emergenti. E cosa ci fanno queste economie emergenti con questi dollari? Ci ricomprano i titoli del debito USA e le azioni di Microsoft e di Nvidia? Non necessariamente: molti di questi Paesi, infatti, sono strangolati da una quantità enorme di debito emesso in dollari; tra l’altro, proprio con quello spread sui rendimenti (che dicevamo prima) che rende sostanzialmente impossibile pagare per intero gli interessi e, quindi, rinchiude i Paesi emergenti nella famosa trappola del debito. La Cina, allora, che quando esporta in questi Paesi si fa pagare ormai in yuan e, quindi, ha sempre meno dollari per pagarci le materie prima che ci compra, gli dà i dollari che gli hanno prestato a tassi identici a quelli dei titoli del tesoro USA i sauditi, e questi ci ripagano il debito che hanno in dollari; come scrive Eason Mao: “Noi prendiamo in prestito dollari USA dall’Arabia Saudita e poi li diamo a un Paese terzo. Il Paese terzo ripaga il debito degli Stati Uniti e ci dà risorse. Noi diamo all’Arabia Saudita prodotti ad alta tecnologia”. “L’Arabia Saudita vende dollari, la Cina ottiene risorse, i Paesi del terzo mondo ripagano i debiti degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita ottiene prodotti ad alta tecnologia e gli Stati Uniti ottengono dollari” (coi quali, per quanto ci riguarda, ci si possono anche pulire il culo); in questo modo, insiste Eason Mao, “Abbiamo trasformato il dollaro USA in un asset sottostante piuttosto che in una valuta vera e propria”: “Per eliminare l’egemonia del dollaro, non è necessario eliminare il dollaro statunitense. Possiamo anche limitarci a renderlo semplicemente un’unità di conto”. “Il motivo per cui ciò è oggi possibile” continua “è, prima di tutto, perché la Cina è la fabbrica del mondo. Solo la Cina può produrre prodotti industriali e prodotti ad alta tecnologia che altri non possono acquistare dagli Stati Uniti e dall’Europa. Inoltre, è perché la Cina ha abbondanti virtù marziali. Se un altro Paese si azzardasse a sostituirsi alla Federal Reserve, si troverebbe a stretto giro le portaerei USA sotto casa. Ma nel caso della Cina, hanno capito che gli conviene stare alla larga”.
Ovviamente l’emissione di titoli per 2 miliardi per avviare questo schema non è niente, ma visti i tentennamenti dei BRICS nel cominciare a mettere le basi per un nuovo sistema monetario e finanziario globale in grado di emanciparsi dalla dittatura del dollaro e dal monopolio di Washington e di Wall Street, potrebbero essere le prove generali per azzoppare definitivamente l’egemonia USA senza dover aspettare di avere sostituito il dollaro, un piano che deve aver intuito anche Javier Milei: quando è salito al potere pochi mesi fa, voleva dollarizzare l’intera economia argentina e rompere i rapporti con la Cina; ha addirittura annullato l’adesione ai BRICS che era già sta ufficializzata. Ma al G20 lo abbiamo visto andare in ginocchio da Xi Dada per dichiarare che aumenterà il volume degli scambi tra Argentina e Cina e gli investimenti cinesi e che nel 2025, per chiedere perdono, visiterà umilmente la bella Cina. Per dare il nostro piccolo contributo, noi, nel frattempo, per provare a costruire il primo media che dia voce al 99% accettiamo ogni forma di valuta: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

OttolinaTV

21 Novembre 2024

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