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Tag: dedollarizzazione

Fine del dollaro: il summit BRICS+ di Kazan è stato un fallimento totale?

Dopo 3 giorni di ottimismo è arrivata, inesorabile, l’ora della delusione: il summit dei BRICS+ di Kazan ha rappresentato oggettivamente, da tanti punti di vista, un’occasione straordinaria per dimostrare in modo plateale che il mondo è molto più complesso e articolato della rappresentazione da bimbiminkia che ne fa la propaganda mainstream; e che l’era dove bastava che un analfoliberale qualsiasi puntasse il dito contro un avversario a caso sullo scacchiere globale per decretarne l’isolamento e la disfatta è ormai passata per sempre: Putin ha avuto l’occasione di dimostrare che la famosa comunità internazionale va ben oltre i confini del Golden Billion, il miliardo dorato delle ex potenze coloniali, e che alla barzelletta del rule-based international order – l’ordine globale fondato su regole che (te guarda un po’ il caso) beneficiano sempre e solo il blocco imperialista a guida USA e obbligano il resto del mondo a pagare il conto – non ci crede più nessuno. Purtroppo, però, le buone notizie finiscono qui: in mezzo a mille aspetti secondari da infarcire con un po’ di inconcludente retorica a costo zero, la vera grande partita in ballo, infatti, consisteva nel dare un’accelerazione consistente al processo di dedollarizzazione già in atto; per capire esattamente come questa accelerazione sarebbe dovuta avvenire, il ministero delle finanze e la Banca Centrale della Federazione russa avevano elaborato un lungo rapporto che elencava, punto per punto, la roadmap che avrebbe permesso di affiancare alle istituzioni incentrate sul dollaro (che monopolizzano oggi il sistema monetario e finanziario globale) nuove istituzioni multilaterali che avrebbero permesso di ufficializzare, in tempi anche piuttosto rapidi, la fine di quel monopolio stesso. Un rapporto che noi, dal profondo della nostra essenza moderata, compatibilista, gradualista e democristiana, avevamo descritto come un vero e proprio capolavoro di realismo politico. Evidentemente, però, gli altri membri dei BRICS+ non la pensano allo stesso modo; e, così, la risoluzione finale del summit di Kazan sul tema della dedollarizzazione e delle proposte avanzate dal report non fa mezzo passo avanti. Ma prima di cercare di capire insieme nel dettaglio perché e per come e che conseguenze potrebbe avere questa apparente battuta d’arresto, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per aiutarci (anche oggi) a combattere anche noi un altro monopolio: quello della propaganda mainstream e degli algoritmi al suo servizio e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non impieghino le petromonarchie del Golfo a tornare con la coda tra le gambe a inginocchiarsi a Washington, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a dare il nostro piccolo contributo verso l’unica vera via di uscita realistica da questa spirale di guerra e distruzione in cui siamo precipitati, una vera riscossa multipopolare.

Vladimir Putin

L’idea è sempre quella di continuare nel tentativo di riformare le istituzioni esistenti, soprattutto dal momento che – formalmente – hanno già fatto loro il multilateralismo; solo che poi sono state svuotate da rapporti di forza talmente iniqui da trasformarle spesso nel loro esatto opposto. Come, ad esempio, le Nazioni Unite, per le quali la dichiarazione sottolinea “l’urgente necessità di raggiungere una rappresentanza geografica equa e inclusiva nella composizione del personale del Segretariato delle Nazioni Unite” che non è una richiesta esotica, ma – appunto – esattamente quello che formalmente dovrebbe già essere attuato: garantire una rappresentanza geografica equa, infatti, è proprio uno dei principi fondamentali in base al quale andrebbe selezionato il personale del segretariato delle Nazioni Unite. Il segretariato dell’ONU rappresenta il cuore amministrativo e operativo dell’organizzazione ed è responsabile della gestione quotidiana e del coordinamento di tutte le attività: dalla diplomazia alle missioni umanitarie, dal peacekeeping allo sviluppo sostenibile; è composto da numerosi dipartimenti ed uffici, a partire dall’ufficio del Segretario generale dove siedono tutti i vari vice segretari generali e una serie di altri alti funzionari che sovrintendono aree specifiche, per passare al Dipartimento per gli affari politici e il consolidamento della pace, quello per le operazioni di peackeeping, quello degli affari economici e sociali, quello per gli affari umanitari, quello incaricato del supporto operativo a tutte le operazioni sul campo dell’ONU e, ancora, il dipartimento per la sicurezza, quello per il disarmo, quello per gli affari giuridici. In tutto, un centinaio di persone – tra sottosegretari generali e vice sottosegretari generali – che quasi per metà provengono o dagli Stati Uniti o dall’Europa occidentale, nonostante rappresentino appena il 10% della popolazione globale; i BRICS+, ancora una volta, non perorano la causa esclusivamente dei Paesi aderenti, ma – piuttosto – attraverso i Paesi aderenti, cercando di costruire una massa critica sufficiente per dare voce alle esigenze in generale del Sud globale: “Chiediamo di garantire una partecipazione maggiore e più significativa delle economie emergenti e dei Paesi meno sviluppati, in particolare in Africa, America Latina e nei Caraibi, nei processi e nelle strutture decisionali globali e di renderli più in sintonia con le realtà contemporanee”. Dei simpatici benefattori? Non esattamente; il punto è che una profonda riforma in senso multipolare delle istituzioni multilaterali già esistenti, avvantaggerebbe in generale tutti i Paesi (a parte la potenza egemone), a partire proprio dai Paesi più marginalizzati e, quindi, anche i BRICS+: perché mai essere egoista quando un po’ altruismo, alla fine del giro, comunque favorisce i tuoi interessi? I BRICS hanno – almeno teoricamente – una potenzialità dirompente proprio perché i loro interessi sono allineati con gli interessi della maggior parte del pianeta in questo nuovo contesto che, nel mondo reale, è già (almeno parzialmente) multipolare de facto; ed ecco, così, che le riforme richieste alle Nazioni Unite non si limitano alla provenienza geografica dei sottosegretari e dei vice sottosegretari: come sottolineato dal presidente etiope durante l’incontro ufficiale di ieri mattina, la riforma delle Nazioni Unite dovrebbe riguardare anche la composizione del Consiglio di sicurezza “al fine” – si legge nella dichiarazione finale – “di renderlo più democratico, rappresentativo, efficace ed efficiente e di aumentare la rappresentanza dei Paesi in via di sviluppo tra i membri del Consiglio in modo che possa rispondere adeguatamente alle sfide globali prevalenti e supportare le legittime aspirazioni dei Paesi emergenti e in via di sviluppo di Africa, Asia e America Latina”.
D’altronde, non sono certo rivendicazioni nuove: la dichiarazione stessa fa riferimento al Consenso di Ezulwini, un documento adottato dall’Unione africana (ormai poco meno di 20 anni fa) dove, appunto, si chiedeva espressamente un posto per un Paese africano al fianco dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza; averglielo concesso prima avrebbe potuto salvare centinaia di migliaia di vite. Un posto tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, infatti, garantisce il diritto di veto, un diritto di veto che, ad esempio, gli africani – con ogni probabilità – avrebbero esercitato nel caso della risoluzione che autorizzava un intervento a fine umanitario in Libia, che poi (ovviamente) le forze imperialiste hanno interpretato come gli pareva e hanno strumentalizzato per compiere la loro ennesima guerra di aggressione criminale che ha ridotto l’allora Paese più ricco del continente nero in un cumulo di macerie e di faide tribali. Un’altra istituzione multilaterale che contraddice platealmente i principi fondamentali del suo mandato e che i BRICS+ all’unanimità vogliono tentare di riformare in profondità è l’Organizzazione mondiale del commercio: la risoluzione adottata a Kazan, infatti, “accoglie con favore i risultati della 13esima conferenza ministeriale” che si è tenuta dal 26 febbraio al 2 marzo scorso ad Abu Dhabi; in quell’ambito – che, ricordiamo, è il massimo organo decisionale del WTO – i membri si erano impegnati a portare a termine la riforma del sistema delle controversie entro la fine del 2024. Chi segue questo canale ne ha già sentito parlare millemila volte perché si tratta dell’ennesimo, plateale esempio della prepotenza senza limiti dell’imperialismo USA e del suo uso del tutto illegittimo e strumentale di ogni istituzione multilaterale possibile immaginabile.
Un breve riassunto: quando due o più membri del WTO pensano che un altro membro abbia adottato qualche decisione contraria alle regole, lo vanno a dire alla mamma e all’avvocato; il primo step sono dei negoziati bilaterali che possono durare al massimo 60 giorni, durante i quali il WTO fa semplicemente da facilitatore e offre un minimo di supporto tecnico. Nel caso le consultazioni non portino a un accordo, una della parti può richiedere la creazione di un panel indipendente di esperti, che ha dai 6 ai 9 mesi per formulare un rapporto; a quel punto, se una delle parti coinvolte non è soddisfatta delle conclusioni del panel – e, ovviamente, almeno una delle due parti non lo è sostanzialmente mai – si può presentare un ricorso al famigerato organo d’appello che, a quel punto, ha 90 giorni per esprimersi e la sua decisione è vincolante: peccato che a un certo punto, però, gli USA abbiano deciso che l’organo di appello non dovesse più essere messo in condizioni di operare; per potersi esprimere, infatti, l’organo di appello ha bisogno di essere composto almeno da 3 giudici, ma dal 2017 gli USA hanno impedito che venissero nominati nuovi giudici. Dal 2019 i giudici in carica sono diventati meno di 3 e da 5 anni l’organo di appello, semplicemente, non c’è: il motivo per il quale, ovviamente, gli USA nel 2017 hanno deciso di impedire a tutto il sistema di funzionare è che l’appena eletto Donald Trump aveva deciso di dichiarare una guerra commerciale ed economica contro la Cina e non voleva arbitri in mezzo ai coglioni, per quanto storicamente molto vicini agli interessi USA; da allora, gli USA hanno introdotto una serie infinita di misure completamente contrarie alle regole del commercio internazionale, come sistematicamente certificato anche dai panel di esperti chiamati ad esprimersi, ma senza mai pagare dazio. Le prime sono state le tariffe sull’acciaio e l’alluminio introdotte nel 2018, che non sono state criticate soltanto dalla Cina, ma anche dall’Unione europea e dal Canada; in quel caso Trump il cazzaro aveva provato a tirare in ballo addirittura la sicurezza nazionale. Il panel di esperti, dopo una lunghissima indagine, ha detto che erano tutte fregnacce e le tariffe sono rimaste; anzi, solo in parte. L’amministrazione Biden, infatti, le ha ritirate per l’Unione europea e il Giappone, ma le ha tenute in piedi per la Cina, che è un altro esempio di cosa intendiamo quando diciamo che Trump, per quanto sia un pluricriminale guerrafondaio imperialista della peggior specie, paradossalmente potrebbe essere meglio di Biden o della Harris: litigando con tutti, compresi i supposti alleati, contribuirebbe infatti all’isolamento degli USA e quindi ad accelerare l’autodistruzione di questo vero e proprio cancro del pianeta. Visto che questo primo, plateale caso di violazione delle regole commerciali era passato liscio, allora, Trump c’ha preso gusto e, un pezzetto alla volta, ha introdotto dazi completamente ingiustificati su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi; la Cina, allora, un’altra volta si è rivolta a un panel di esperti che, ovviamente, le hanno dato ragione su tutta la linea, ma – altrettanto ovviamente – senza che questo comportasse assolutamente niente. La Cina a quel punto, sostanzialmente, pur sapendo benissimo che nell’ambito del WTO non era più possibile ottenere nemmeno la minima sembianza di giustizia, ha puntato a rivolgersi più che altro alle opinioni pubbliche occidentali nella speranza che violazioni così palesi avrebbero sollevato qualche critica; gli avevano detto che laddove c’è la libertà di stampa funziona così: ci sono le critiche, la pressione dell’opinione pubblica. Macché: ormai l’egemonia suprematista aveva già fatto il suo corso e anche se qualcuno provava a muovere delle critiche, non c’erano più orecchie pronte ad ascoltare; anzi, la narrazione comune è che ad adottare pratiche commerciali scorrette siano in realtà, paradossalmente, gli stessi cinesi, al punto che ormai anche in Europa è partita la gara a chi c’ha il dazio più grosso e, ovviamente, tutti giustificati dal fatto che è la Cina ad essere scorretta.
Di fronte a questa vera e propria ennesima barzelletta offerta dall’Occidente in declino, ovviamente la tentazione è quella di farsene un’altra di organizzazione del commercio, riservata soltanto ai Paesi che dimostrano un qualche senso del pudore; e invece no: i BRICS+ continuano imperterriti a insistere sulla via del dialogo, nella speranza che – prima o poi – qualche sano di mente in Occidente salti fuori e si possa evitare le nostre istituzioni di doverle tirar giù con i missili. D’altronde, come sottolinea la risoluzione adottata a Kazan, tutto sommato la diatriba del WTO è solo uno dei tanti aspetti, a tratti surreali, della guerra economica totale che l’Occidente ha deciso di dichiarare al resto del pianeta: i BRICS si dicono infatti “profondamente preoccupati per l’effetto dirompente che le misure coercitive unilaterali illecite, a partire dalle sanzioni unilaterali illegali, stanno avendo sull’economia mondiale, sul commercio internazionale e sul raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Tali misure” insistono “minano la Carta delle Nazioni Unite, il sistema commerciale multilaterale e gli accordi sullo sviluppo sostenibile e sull’ambiente. Hanno inoltre un impatto negativo sulla crescita economica, sull’energia, sulla salute e sulla sicurezza alimentare, esacerbando la povertà e le sfide ambientali”. Insomma: sono veri e propri atti di guerra che, magari, occupano un po’ meno spazio sulle pagine della propaganda suprematista dell’Occidente collettivo, ma spesso fanno altrettante vittime. Ed è probabilmente proprio perché i BRICS sono pienamente consapevoli della violenza concreta di queste misure e della spregiudicatezza con la quale ormai l’Occidente (e, in particolare, gli USA) vi ricorre in maniera sistematica che sembrano provare, in ogni modo, a convincerli di fare finalmente le riforme che è possibile fare rimanendo nell’ambito delle istituzioni neo-coloniali di Bretton Wood e del Washington Consensus (anche se ormai palesemente inadeguate alle esigenze): perché è piuttosto chiaro che le nostre classi dirigenti al traino di Washington sono ormai composte, sostanzialmente, da un mix di rincoglioniti e di pazzi criminali che, pur di continuare a negare il fatto che la realtà e la storia sono andati diversamente da quanto auspicavano, sono pronti non solo a commettere ogni sorta di atrocità nei confronti degli altri, ma, come un terzo reich qualsiasi, di condannarsi loro stessi all’autodistruzione. Da questo punto di vista, la risoluzione di Kazan restituisce un quadro piuttosto semplificato della dicotomia in ballo: non è tanto questione di Sud globale vs Nord, o di mondo multipolare vs unipolarismo a guida USA; sembra, molto più banalmente, la contrapposizione tra il raziocinio e un minimo di senso di realtà e il delirio da demenza senile.
Nella risoluzione i BRICS, poi, ovviamente tornano sulla riforma dell’FMI, (che tralasciamo perché l’abbiamo affrontata in dettaglio nei giorni scorsi), ma, insomma, il succo è sempre quello: da una parte ci sono quelli che le regole e i principi fondamentali li hanno scritti e che, fino a che dietro una facciata di imparzialità gli facevano comodo, erano pronti a difenderli con le armi, e che oggi (che il mondo è cambiato) pretendono di stravolgere tutto e che nessuno abbia da ridire; dall’altra quelli che, molto banalmente, hanno preso atto del fatto che il mondo è cambiato, che le regole del vecchio mondo non sono adeguate e ciononostante, per quieto vivere, si accontenterebbero anche di un compromesso al ribasso basato proprio su quelle vecchie regole e che provano a far capire al vecchio egemone che, se rifiuta anche quel compromesso, non hanno altra alternativa che farsene una ragione e costruire tra di loro un universo parallelo adeguato ai tempi correnti.
Peccato che poi mi sono svegliato… Carissimi Ottoliner, vi devo chiedere umilmente scusa: evidentemente il mio era un sogno; moderato, democristiano, gradualista, ma comunque un sogno. Negli ultimi giorni, infatti, mi sono sperticato in lodi di ogni tipo nei confronti del rapporto che ministero delle finanze e Banca Centrale della Federazione russa avevano presentato come base di lavoro da discutere a Kazan sul tema cruciale della riforma del sistema finanziario e monetario internazionale: un documento intriso di realismo dove, invece di annunciare chissà quali rivoluzioni improbabili, ci si limitava a disegnare le tappe fondamentali di una roadmap che mi era sembrata un vero e proprio capolavoro strategico; per un’analisi dettagliata del documento vi rimando a questo pippone e a questo. Ma, giusto per intenderci, la mia valutazione era che il documento – un po’ come aveva già fatto la Repubblica Popolare di Cina a suo tempo con il programma di riforma e apertura sotto la sapiente regia di un colosso del realismo politico come Deng Xiaoping – offriva una lunga serie di concessioni succulente non solo alle borghesie del Sud globale, ma addirittura anche ad alcune fazioni delle borghesie occidentali stesse e nel frattempo, però, poneva le basi affinché nel medio-lungo termine i rapporti di forza, strutturalmente, cambiassero in modo sostanziale; in quel caso, il processo da avviare per cambiare strutturalmente i rapporti di forza tra un ex colonia come la Cina e il centro dell’impero era lo sviluppo industriale che avrebbe portato all’indipendenza tecnologica e, per farlo, servivano i capitali, il know how e i mercati di sbocco dei Paesi sviluppati. Ora che, dopo 40 anni abbondanti di aperture e riforme, lo sviluppo industriale ha portato realmente a un buon livello di indipendenza tecnologica e che, dal punto di vista della produzione, i rapporti di forza non sono stati semplicemente modificati, ma ribaltati, col Nord globale che dipende dal Sud (a partire dalla Cina, unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta) sostanzialmente per tutto, il processo da avviare per modificare ulteriormente i rapporti di forza complessivi tra ex colonie e colonialisti è la dedollarizzazione, che dovrebbe portare all’indipendenza finanziaria del Sud globale e, attraverso l’indipendenza finanziaria, all’indipendenza strategica tout court. La buona notizia è che, come nel caso dello sviluppo industriale cinese, è in corso una chiara tendenza storica che punta in modo spontaneo alla dedollarizzazione; come hanno sottolineato ieri mattina a Kazan nel corso dell’assemblea plenaria di BRICS+ sia Dilma Roussef che Vladimir Putin, la scelta (più o meno obbligata) da parte degli USA di weaponizzare – e, cioè, di trasformare in una vera e propria arma – il dollaro, ne mina di per se alle fondamenta lo status di valuta di riserva globale: “Dilma Roussef ha affermato che il dollaro è stato trasformato in un’arma” ha dichiarato Putin “e questo è assolutamente vero, e lo vediamo chiaramente. Credo che si sia trattato di un gigantesco errore, dal momento che il dollaro è ancora lo strumento fondamentale della finanza globale, e il suo utilizzo come strumento politico mina la fiducia sul suo ruolo come valuta di riserva globale. Non siamo noi ad aver causato questo fenomeno, non siamo noi che rigettiamo l’uso del dollaro, o che combattiamo il dollaro, ma se molto banalmente sono loro a impedirci di utilizzarlo, cosa dovremmo fare? Necessariamente dobbiamo cercare altre alternative, che è esattamente quello che stiamo facendo”. Ma proprio come nel caso dello sviluppo industriale cinese, pensare che – di per se – questo movimento spontaneo sfoci spontaneamente in un cambio dei rapporti di forza a favore di un nuovo ordine globale più equo, pacifico e democratico potrebbe rivelarsi puro e semplice wishful thinking.
Nel caso dello sviluppo industriale cinese, alimentato dai capitali del centro imperiale e dei suoi vassalli, non è che questo ha portato automaticamente e spontaneamente a una sempre maggiore indipendenza tecnologica della Cina, anzi: di default, succede esattamente il contrario; basta vedere cosa è successo a molti altri Paesi che sono stati a lungo meta di delocalizzazioni da parte del capitale occidentale e che poi, dopo una prima fase di sviluppo (anche tumultuoso), si sono sistematicamente ritrovati imprigionati in quella che viene definita la middle-income trap, la trappola del reddito medio. Quello che è avvenuto in quei casi è che mentre gli investimenti esteri garantivano, appunto, una prima fase di industrializzazione e di sviluppo, nel frattempo non avveniva nessun trasferimento di know how, anzi: il grosso dei profitti, infatti, tornava verso il centro imperiale che li utilizzava (almeno in parte) per finanziare ricerca e sviluppo e, quindi, aumentare – invece che diminuire – il gap tecnologico tra centro e periferia; ed ecco, così, che la dipendenza tecnologica, invece che diminuire, aumentava. Se in Cina l’esito è stato diametralmente opposto non è stato certo grazie alle dinamiche spontanee del capitale, ma solo ed esclusivamente grazie a un’attenta pianificazione e all’utilizzo del monopolio della forza da parte dello Stato guidato dal Partito Comunista, che ha imposto una direzione opposta a quella naturale che avrebbe preso uno sviluppo capitalistico lasciato a se stesso; come chi ci segue sa benissimo, infatti, la Cina ha imposto una formula ben precisa per gli investimenti esteri nel suo Paese che ha previsto a lungo l’obbligo di creare joint venture tra aziende private straniere e aziende (perlopiù statali) cinesi, con le aziende cinesi che dovevano detenere perlomeno il 51% del capitale azionario: in questo modo, da un lato la maggioranza dei profitti rimaneva in casa per essere reinvestita, dall’altro si garantiva il passaggio totale del know how dal centro alla periferia. Fino a un ribaltamento totale dei rapporti di forza: la periferia, infatti, acquisiva tutto il know how del centro, ma grazie al reinvestimento dei capitali nell’economia reale (invece che nelle bolle speculative) e grazie al fatto che, nel frattempo, il centro – con la deindustrializzazione – si svuotava gradualmente di tutta una serie di competenze, ne aggiungeva continuamente altro sviluppato internamente, fino a superare il maestro – che è quello che sostanzialmente spiega com’è possibile che, un bel giorno, ci siamo svegliati con la Cina che è in grado di produrre auto a meno della metà di quanto non costi produrle nelle economie sviluppate.
Ma come ha fatto la Cina a convincere il grande capitale del centro a suicidarsi? Semplice: gli ha garantito la possibilità di fare una quantità di quattrini senza precedenti; per farlo, è arrivata addirittura a imporre alla sua classe lavoratrice una cura da cavallo di ultra-liberismo. A lungo, infatti, i salari cinesi sono stati tenuti a bada con una crescita sistematicamente di molto inferiore rispetto all’aumento della produttività e, se qualcuno aveva da ridire, ecco che scendeva in campo la capacità di esercitare il monopolio della forza che solo uno Stato autoritario può garantire. Insomma: nella lotta di classe che s’è inevitabilmente scatenata a seguito del piano di riforme e apertura, lo Stato, guidato saldamente dal Partito Comunista, si è apparentemente schierato a lungo dalla parte del capitale fino a che non è stato chiaro che il tutto seguiva una pianificazione precisa di lungo termine che, alla fine, sarebbe sfociata in una epocale vittoria della lunga lotta anti-coloniale di liberazione nazionale; se negli ultimi giorni ci siamo esaltati così tanto di fronte alla proposta di riforma del sistema monetario e finanziario internazionale elaborata dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale della Federazione russa è proprio perché, sostanzialmente, ci avevamo visto un’applicazione di quello stesso schema al processo di dedollarizzazione. Come abbiamo già discusso ampiamente, il rapporto sulla riforma del sistema monetario e finanziario globale elaborato dai russi è talmente moderato da evitare – addirittura – di parlare apertamente di riforme: miglioramenti, li definisce, ed è interamente, totalmente intriso di logica liberista. Il messaggio sostanzialmente è che la realtà economica del pianeta, in gran parte proprio a causa dell’ascesa cinese, è completamente cambiata e il sistema monetario e finanziario globale costruito sul vecchio mondo (e ancora in vigore) impedisce di cogliere le opportunità di valorizzazione del capitale; e quindi è inefficiente e, alla lunga, anche insostenibile. Noi, come BRICS, siamo in grado di garantire un’apertura alla libera circolazione dei capitali dei nostri Paesi membri, il che può rappresentare un’occasione straordinaria per il capitale internazionale – sia delle oligarchie gregarie del Sud globale che anche di un pezzo consistente di quelle del centro imperiale – per fare una montagna di quattrini e per farli in modo sostenibile; oggi, infatti, continuate a fare una marea di quattrini grazie ai mercati finanziari USA, ma è un’illusione: la bolla speculativa dei mercati finanziari USA è destinata, inesorabilmente, ad esplodere, e fino a che non costruiamo alternative concrete al monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie globali dollarocentriche, il flusso dei capitali internazionali è destinato comunque a continuare a seguire questo percorso, anche se (sempre più ovviamente) porta dritti a sbattere contro un muro.
Proprio come il piano di riforma e apertura di Deng, insomma, si trattava di un colossale ramoscello di ulivo offerto al grande capitale internazionale: “Noi aspiriamo alla cooperazione” ha sottolineato ancora ieri Putin, “ma allo stesso tempo dobbiamo comprendere che più a lungo ci ostiniamo a vivere sotto il tetto di qualcun altro, e sulle piattaforme di qualcun altro, più tempo impiegheremo per portare a termine la transizione verso un nuovo sistema economico finanziario più equo, e più turbolenze saremo costretti ad affrontare, comprese quelle a cui assistiamo oggi in Medio Oriente”. Nel nostro infinito ottimismo, questa impostazione a noi era sembrata – appunto – un raffinato compromesso dettato dalla realpolitik impossibile da non accogliere a braccia aperte; il problema che ci eravamo posti, semmai, era se anche i BRICS erano davvero in grado, una volta fatte tutte queste concessioni al liberismo e al capitalismo internazionale, di mantenere la barra dritta come è avvenuto in Cina: a differenza della Cina infatti, dove il monopolio del potere da parte di forze realmente rappresentative dell’interesse nazionale generale è stato raggiunto con enormi sacrifici in seguito al consolidamento di una grande guerra di liberazione nazionale e popolare, i BRICS – e, a maggior ragione, i BRICS nella loro configurazione allargata attuale – sono guidati da blocchi sociali dove a fare la parte del leone sono spesso borghesie compradore o, comunque, forme ibride di Stati nazionali soggetti al dominio delle oligarchie locali; se in Cina a tenere la barra dritta nel mare in tempesta dell’apertura ai mercati e alle logiche dell’accumulazione capitalistica c’ha pensato (a fatica) il Partito Comunista, nei BRICS+ chi ci penserà? Al Sisi? Le dinastie che guidano le petromonarchie? La stessa Russia di Putin, nonostante gli enormi passi avanti fatti, è un Paese dove l’influenza delle oligarchie non può certo essere minimizzata; per non parlare del Brasile di Lula, continuamente costretto a mediare con una potentissima classe di grandi latifondisti reazionari fino al midollo e legati a doppio filo al centro imperiale. Idem con patate per l’India di Modi: come dice il nostro amico Federico Drago, “Per passare al denghismo, serve aver avuto prima un Mao, e questi non ce l’hanno avuto”; ciononostante, fare leva sull’avidità del capitale per rompere il monopolio del dollaro è un compromesso accettabile che pone strutturalmente le basi per un nuovo sistema monetario e finanziario globale più equo e democratico. E, quindi, è di per se un fattore di emancipazione e di progresso che vale il rischio che comporta aprirsi maggiormente alla libera circolazione dei capitali.
Purtroppo, però, evidentemente non è bastato: nonostante si trattasse palesemente di offrire un ramoscello di ulivo al capitale occidentale (e non di minacciarlo con un Kinzhal), la proposta di mediazione avanzata dalla Federazione russa col sostegno della Cina – e, a quanto pare, anche del Brasile – non è stata colta; a parte gli interventi di Putin, di Xi e di Lula, alla plenaria di ieri (con, a mio avviso, una palese irritazione e insofferenza da parte del leader russo) gli altri rappresentanti dei BRICS+ non solo non si sono espressi in modo chiaro, ma non sembravano proprio aver colto nemmeno il proposito. Uno spaesamento che poi, inevitabilmente, s’è tradotto anche nella risoluzione finale, dove i vari aspetti del processo che dovrebbe portare alla dedollarizzazione sono appena accennati, come se si trattasse di insignificanti dichiarazioni d’intenti destinate a rimanere sulla carta; per una missione così mastodontica, decisamente troppo poco e decisamente troppo poco per rappresentare quel deterrente che auspicavamo giusto lunedì scorso, quando abbiamo deciso di intitolare il nostro lungo pippone a 6 mani Perché il vertice BRICS di Kazan è l’ultima speranza che abbiamo per evitare la terzaguerra mondiale. Il nocciolo è, appunto, quello sottolineato dal rapporto e anche da Putin durante la plenaria: se non riformiamo profondamente il sistema monetario e finanziario globale, le contraddizioni strutturali che la rapina sistematica del pianeta – operata dagli USA (via monopolio del dollaro) che hanno portato alla guerra mondiale a pezzi a cui stiamo assistendo da ormai quasi 3 anni – non possono che sfociare in una guerra mondiale vera e propria; purtroppo, anche a questo giro, non possiamo che constatare come Stati nazionali che non hanno vissuto una vera rivoluzione democratica e popolare che ha consegnato il monopolio del potere politico a un soggetto realmente rappresentativo degli interessi nazionali generali, ma sono rimasti ostaggio dell’egoismo ottuso delle proprie borghesie compradore, non abbiano proprio non tanto semplicemente la volontà, ma proprio gli strumenti, anche teorici, per evitare la discesa agli inferi. E che, per quanto utopistico e velleitario possa apparire, realisticamente solo una grande riscossa multipopolare può salvare il pianeta.
Per quanto marginale e ininfluente possa apparire (e oggettivamente è), noi non possiamo che continuare a provare a fare la nostra piccola, microscopica parte e, per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99% e di una comunità in grado di sostenerlo. Aiutaci a costruirli! Partecipa alle iniziative di Multipopolare in programma: vieni a conoscerci sabato prossimo a Pisa o a Bergamo e domenica a Novara; e, poi, aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Daniele Capezzone

“Il dollaro ha rotto il cazzo”: Putin e i BRICS a Kazan la toccano pianissimo

Trentadue Paesi, mille delegati e ventiquattro capi di Stato: quello che di sicuro va in scena oggi a Kazan, nel silenzio dei nostri media, è il funerale in grande stile del sogno distopico della fine della storia e dell’eterno trionfo dell’unipolarismo neo-liberale guidato da Washington; ma riusciranno anche a celebrare il battesimo di un nuovo ordine più equo, democratico e inclusivo? Come ampiamente previsto e annunciato, il 16esimo summit dei BRICS+ che ha inizio oggi nella splendida capitale multiculturale e multietnica del Tatarstan e che corona l’anno di presidenza russa della più importante istituzione multilaterale del Sud globale, è probabilmente – in assoluto – il più ambizioso e importante dalla sua nascita, nel 2009. La scelta scellerata di Washington di sdoganare definitivamente l’utilizzo del dominio del dollaro e del monopolio che esercita sulle istituzioni finanziarie globali come arma di distruzione di massa contro chiunque osi rifiutarsi di sottomettersi completamente all’agenda dell’impero, potrebbe aver impresso un’accelerazione senza precedenti al piano più ambizioso e complicato delle economie emergenti: creare un’alternativa concreta e tangibile al sistema finanziario e monetario internazionale vigente. Quello su cui i 9 capi di Stato dei Paesi membri (e gli altri 23 Paesi presenti a titolo di osservatori) saranno chiamati a confrontarsi in questi giorni non è banalmente una qualche fumosa dichiarazione di principio, ma una roadmap concreta e dettagliata per costruire, passo dopo passo, le infrastrutture materiali e immateriali necessarie a svuotare dall’interno la rendita di posizione monopolistica della quale hanno goduto fino ad oggi gli Stati Uniti, a vantaggio delle sue oligarchie – e, in posizione subordinata, di tutte le altre oligarchie del pianeta complici della grande rapina – e a scapito degli interessi nazionali di tutti gli altri Paesi del pianeta e della loro sovranità e indipendenza, compresi quelli che degli Stati Uniti si considerano (inspiegabilmente) amici e alleati quando, come hanno reso palese questi ultimi tre anni di guerre economiche e guerre vere per procura, non sono altro che sudditi e vassalli. Questa roadmap è descritta nei suoi lineamenti fondamentali da questo lungo rapporto pubblicato la settimana scorsa e curato dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale della Federazione russa, un documento che mira a “rafforzare il multilateralismo per uno sviluppo globale più equo e per la sicurezza”: una diagnosi lucida e impietosa delle distorsioni che il monopolio del dollaro e di Washington impongono all’intera economia globale, seguito da un elenco dettagliato delle cose che i BRICS si impegnano a fare concretamente per creare delle alternative tangibili sul piano dei pagamenti internazionali, della circolazione dei capitali, del finanziamento allo sviluppo e dei meccanismi che garantiscono la stabilità finanziaria globale; un documento che, insieme al summit, è destinato a rappresentare, negli anni a venire, una pietra miliare di questa turbolenta fase di cambiamenti “mai visti in un secolo”, come sottolinea sempre Xi Jinping.
E’ per questo che a partire da oggi, per i prossimi 3 giorni, noi di Ottolina Tv insieme al Contesto di Giacomo Gabellini, a Dazibao di Davide Martinotti, a Stefano Orsi e a Francesco Maringiò abbiamo deciso di dedicare a questo evento storico due ore di diretta al giorno trasmessa a reti unificate su tutti i nostri canali per provare a dare quella copertura che i media mainstream sono troppo occupati per dare (e – tutto sommato – vedendo il livello di competenza e di onestà intellettuale, forse è anche meglio così). Ma ora, prima di addentrarci nelle 50 pagine del rapporto che descrive il piano dei BRICS per mettere fine alla dittatura del dollaro, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi, che sono talmente al servizio dell’imperialismo finanziario USA che ieri c’hanno pure demonetizzato il video, nonostante – a questo giro – non si citasse mai né il Libano, né Gaza e non ci fosse nessunissima scena di violenza: ormai per poter ambire a trasformare la creazione di contenuti per le piattaforme social in un mestiere retribuito, bisogna obbligatoriamente ridursi a parlare dello stesso niente che trovate sulle pagine dei giornali o nei programmi di Fabio Fazio; per questo, a maggior ragione, se ancora non lo avete fatto, oltre a invitarvi a iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche, vi ricordiamo anche che il modo migliore per sostenerci e garantire la nostra indipendenza e la nostra capacità di sottrarci alla mannaia della censura rimane quello di seguirci direttamente dal nostro sito. A voi costa meno fatica di quanta non ne serva al dipartimento del tesoro USA per emettere un nuovo pacchetto di sanzioni contro un Paese a caso, ma per noi fa davvero la differenza e forse un pochino, nel suo piccolissimissimo, anche al disastrato mondo dell’informazione italiana in generale.

Vladimir Putin

BCBPI (Brics Cross-Border Payment Initiative), tradotto: iniziativa per i pagamenti transfrontalieri dei BRICS; è questo l’acronimo che descrive il sistema per le transazioni commerciali internazionali elaborato nell’arco degli ultimi 12 mesi dai Paesi BRICS sotto la presidenza annuale della Federazione russa e che verrà discusso, a partire da oggi, a Kazan nell’ambito del sedicesimo summit annuale della più importante organizzazione multilaterale del Sud globale. L’obiettivo, ovviamente, è quello di emanciparsi dal ricorso (più o meno obbligato) al dollaro come valuta di riferimento per i pagamenti internazionali, obiettivo reso sempre più urgente dal fatto che negli USA approfittare di questo “esorbitante privilegio” monopolistico per danneggiare economicamente qualsiasi avversario è diventato un vero e proprio sport nazionale, con almeno un terzo del pianeta al momento sottoposto a sanzioni unilaterali illegali e illegittime, a partire soprattutto dal 60% dei Paesi a reddito basso e medio-basso. Per emanciparsi da questo opprimente monopolio, uno degli aspetti più urgenti consiste nel costruire un’alternativa concreta allo SWIFT, il sistema di messaggistica che oggi gode di una posizione di monopolio nell’ambito delle transazioni interbancarie internazionali e che, essendo totalmente in mano alla finanza USA, viene utilizzato per minacciare e colpire i Paesi che non si adeguano ai dictat di Washington; ma la parte più complicata poi – ovviamente – è costruire un network di operatori sufficientemente ampio che questo sistema alternativo – e la possibilità di utilizzarlo per fare pagamenti transfrontalieri in diverse valute – lo renda operativo concretamente. Questo, sottolinea il rapporto, può avvenire in molti modi diversi, non necessariamente in contrapposizione tra loro: il primo è appunto, banalmente, creare un network internazionale di banche commerciali che sostengano la possibilità di effettuare i pagamenti transfrontalieri in diverse valute locali; il secondo è mettere in connessione tra loro direttamente le Banche Centrali, che farebbero da terminale a reti domestiche di banche commerciali. Ma l’opzione che viene più a lungo analizzata, in realtà, è un’altra: il ricorso a una piattaforma DLT, che sta per Distributed Ledger Techonology, e che è un modo un po’ più generico e astratto per definire – in soldoni – una blockchain.
Al centro della proposta dei BRICS ci sono le CBDC, le valute digitali che però – al contrario dell’utopia ultra-liberista del mondo delle criptovalute – sono emesse dalle Banche Centrali: quindi non uno strumento per togliere agli Stati nazionali quel poco di sovranità che ancora riescono ad esercitare attraverso le politiche monetarie a favore del capitale privato, ma – al contrario – uno strumento per permettere agli Stati sovrani di esercitarne di più, appunto, creando un’alternativa al monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie del Washington Consensus; una trasformazione decisamente ambiziosa che, per essere realmente implementata, nella migliore delle ipotesi impiegherà svariati anni, ma per la quale – sottolineano i BRICS – non siamo all’anno zero. Da alcuni anni, infatti, procedono le sperimentazioni di un progetto pilota che si chiama mBridge che, oltre alla Banca Centrale cinese, quella tailandese e l’autorità monetaria di Hong Kong, coinvolge anche la Banca Centrale degli Emirati Arabi Uniti che, con Dubai, si sta ritagliando un posto al sole come piazza finanziaria di primissimo ordine per tutto il Sud globale. Durante la sperimentazione (che va avanti ormai da 3 anni) sono state processate in tutto 164 transazioni per un valore complessivo di 22 milioni di dollari e, a fine 2023, il sistema ha raggiunto la fase di Minimum Viable Products, che significa che le funzioni di base sono state ottimizzate e che ora si tratta di allargarne la portata e il numero di soggetti coinvolti. Intanto nel 2023, per la prima volta, la Cina ha visto lo yuan superare il dollaro come valuta utilizzata per i suoi scambi commerciali transfrontalieri; Russia e Cina hanno dichiarato di aver condotto i loro commerci bilaterali utilizzando 90 volte su 100 valute locali, e progetti ufficiali per tentare di ampliare l’utilizzo delle valute locali sono stati avviati in Africa, in America Latina, ma – soprattutto – negli ASEAN, che è una delle aree economicamente più dinamiche del pianeta. E che il monopolio del dollaro come valuta per le transazioni commerciali internazionali non sia più quello di una volta è dimostrato palesemente da come la Federazione russa, dopo 10 anni di sanzioni e 3 di sanzioni on steroids, non sembra esattamente sull’orlo del collasso.
Ma rompere il monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie che regolano le transazioni monetarie internazionali è solo la cima dell’iceberg: la proposta che il ministero delle finanze e della Banca Centrale russa hanno messo sul tavolo, infatti, mira a intervenire anche nel settore degli investimenti che, tradotto, significa nei flussi di capitali che, fino ad oggi, hanno permesso all’imperialismo finanziario USA di sottrarre risorse gigantesche a tutto il resto del pianeta per alimentare la sua bolla speculativa, a discapito dell’economia reale. L’imperialismo finanziario USA si fonda sulle istituzioni del Washington Consensus, che sono state create e delineate nei loro aspetti fondamentali quando ancora gran parte del Sud globale era colonizzato: si tratta quindi, a tutti gli effetti, di istituzioni coloniali il cui obiettivo è, appunto, perpetrare il rapporto di subordinazione tra Nord e Sud globale anche dopo che i Paesi in questione hanno conquistato formalmente l’indipendenza; basti pensare che gli Stati Uniti sono l’unico Paese che ha potere di veto in entrambe le istituzioni principali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) e che, come ricorda Ben Norton, “esiste un accordo tacito per cui ogni presidente della Banca Mondiale è un cittadino statunitense e ogni direttore generale del FMI è europeo. Finora, questo schema è continuato, anche se l’economia globale è cambiata in modo molto significativo”. Stessa questione per le quote che determinano il peso specifico dei singoli Paesi all’interno dell’FMI: a parità di potere d’acquisto, infatti, le economie dei BRICS hanno da tempo superato quelle dei Paesi del G7; ciononostante, nell’ambito dell’FMI i Paesi BRICS hanno appena il 13,5% delle quote con diritto di voto; i G7 il 41,3%, uno squilibrio talmente evidente che anche i Paesi sviluppati hanno fatto finta di essere pronti ad accettare qualche cambiamento. Peccato che, per due volte di fila, si sia risolto in un clamoroso buco nell’acqua: nel 2020, dopo mesi di dibattito, si decise che era meglio rinviare la revisione delle quote; 3 anni dopo, nel 2023, le quote vennero effettivamente riviste, ma solo per essere aumentate in generale, senza toccare minimamente i pesi relativi.
Riformare l’FMI e dare più voce in capitolo ai Paesi emergenti, invece, è una questione vitale e, per capire quanto, bisogna fare un bel passo indietro. 1944, Bretton Woods; come tutti saprete benissimo, sul tavolo c’erano due proposte: da un lato quella che faceva capo al buon vecchio John Maynard Keynes e, cioè – come ricorda lo stesso sito del Fondo Monetario Internazionale – l’istituzione di “una banca globale, denominata International Clearing Union o ICU, che avrebbe emesso la propria valuta, denominata bancor, basata sul valore di 30 materie prime rappresentative, tra cui l’oro, convertibili con valute nazionali a tassi fissi”. L’altra, invece, era di prendere il dollaro, fissare una quantità di oro che ne definisse il valore (che, nello specifico, venne stabilita in 35 dollari per oncia) e nominare ufficialmente il dollaro, invece che una valuta internazionale creata ad hoc, valuta di riserva globale: questo significa che ogni altra valuta viene scambiata a un tasso fisso con il dollaro. La differenza è gigantesca: nel sistema proposto da Keynes, infatti, erano previsti incentivi specifici che spingevano i Paesi che avevano un surplus commerciale – e che, quindi, esportavano più di quanto non importassero – a introdurre correttivi per ri-bilanciare la bilancia dei pagamenti e quindi, gradualmente, diminuire il gap tra Paesi più e meno sviluppati industrialmente. Nell’altro caso, invece, i Paesi economicamente più forti avevano tutto l’interesse ad accumulare quante più riserve in dollari possibili; e quindi l’incentivo era, quello stesso gap, ad aumentarlo sempre di più: per dirla in altri termini, da un lato si introduceva uno strumento di governance globale che mettesse un argine alle distorsioni intrinseche all’accumulazione capitalistica (che spinge a dare sempre di più a chi ha già di più e sempre di meno a chi ha già di meno) mentre, dall’altro, queste stesse distorsioni venivano accelerate e amplificate. Insomma: lo strumento perfetto per perpetuare le gerarchie tra Paesi colonizzatori e Paesi colonizzati anche dopo la fine ufficiale del colonialismo e la prova provata che l’essere umano, stringi stringi, non capisce un cazzo; l’incentivo a fare a chi c’ha il surplus commerciale più grosso, infatti, era stata la causa principale che nei trent’anni precedenti aveva portato non a una guerra mondiale, ma addirittura a due, anche se – tutto sommato – possono essere considerati due capitoli di una sola, separata da un bell’intermezzo che aveva permesso l’affermarsi del nazifascismo come prodotto d’eccellenza dei “veri valori fondamentali dell’Europa e dell’Occidente”. Ciononostante l’ipotesi di Keynes venne scartata con sufficienza e la dittatura del dollaro divenne la colonna portante del sistema finanziario globale.
Eppure, visti con gli occhi di oggi, potremmo senza dubbio ricordare gli anni successivi a Bretton Woods come i bei tempi andati: anche allora, infatti, gli USA si erano dotati di uno strumento di dominio globale che imponeva al resto del mondo di finanziare il deficit statunitense, ma – perlomeno – l’entità di questo debito che si andava accumulando e che gravava sulle spalle dell’intero pianeta era limitata dall’ancoraggio del dollaro all’oro, che limitava la libertà di stampare dollari a piacere; limite che, come chi segue Ottolina sa fin troppo bene, è definitivamente saltato, a partire dal 1971, con la fine della convertibilità del dollaro in oro introdotta dall’amministrazione Nixon, l’atto fondativo del sistema superimperialistico in cui siamo immersi oggi. Da allora, non solo gli USA fanno pagare il loro deficit al resto del mondo, ma questo stesso deficit non ha sostanzialmente limiti e viene finanziato con il rastrellamento di tutti i capitali che servirebbero al resto del mondo per svilupparsi da parte degli USA – che assumono, così, il ruolo di rapinatore a mano armata dell’intera economia globale. Ora, se le potenze emergenti volessero ricalcare le orme della superpotenza USA, ovviamente dovrebbero aspirare a imporre le loro valute come nuove valute di riserva globale corrispondenti ai nuovi rapporti di forza economici e produttivi che si sono andati delineando; in particolare la Cina, ovviamente, che si è affermata come la vera unica superpotenza manifatturiera globale (esattamente come gli Stati Uniti alla vigilia di Bretton Woods), che è quello che sembrano auspicare anche tanti appartenenti all’area cosiddetta del dissenso: la sostituzione del dollaro con lo yuan. Fortunatamente, però, la Cina e gli altri Paesi BRICS sembrano essere molto più ispirati dalle intuizioni del buon vecchio Keynes che non dalla volontà di potenza fine a se stessa dell’impero USA; ed ecco, così, che invece di scatenare una guerra per chi sarà la prossima potenza egemone che, come gli USA negli ultimi 80 anni, riuscirà a far pagare le sue bollette al resto del pianeta, si sono messi in testa proprio di riformare dalle fondamenta l’architettura finanziaria globale proprio per permettere una nuova governance globale, in grado di mitigare le distorsioni intrinseche dell’accumulazione capitalistica e garantire un futuro (più o meno) pacifico e di sviluppo per tutti. E, con una bella dose di realismo politico, propongono di farlo a partire da quello che già c’è.
Di fronte alle palesi distorsioni di un sistema fondato sull’unipolarismo valutario del dollaro, infatti, lo stesso Fondo Monetario Internazionale, nonostante sia diretta emanazione dell’imperialismo USA, ha provato a introdurre dei correttivi che vanno proprio nella direzione auspicata dal buon vecchio Keynes: si chiamano diritti speciali di prelievo e sono, appunto, un tipo di valuta di riserva internazionale creata e gestita proprio dall’FMI; il valore dei diritti speciali di prelievo si fonda su un paniere di valute che, al momento, include il dollaro, l’euro, la sterlina, lo yen giapponese e, dal 2016, anche lo yuan cinese. A emetterla è, appunto, l’FMI stesso che poi l’assegna ai vari Paesi membri a seconda della quota di partecipazione al fondo stesso; i singoli Paesi, così, hanno una valuta universalmente riconosciuta e stabile diversa dal dollaro per rimpinguare le proprie riserve. C’è solo un piccolissimissimo problema: rappresentando i diritti speciali di prelievo – in qualche misura – quello che gli USA avevano già scongiurato con ogni mezzo necessario a Bretton Woods, e comandando gli USA a bacchetta nell’FMI, sono stati introdotti scientemente tutti i paletti necessari per impedire che diventasse qualcosa di veramente significativo. Primo punto: quattro delle cinque valute del paniere sono valute di ex potenze coloniali, con gli USA che sono gli unici veramente sovrani e gli altri che fanno da vassalli e adottano politiche monetarie sempre in linea con la FED e gli interessi USA, come – ad esempio – è avvenuto a partire dal 2022, quando all’unisono hanno scelto tutti di aumentare rapidamente i tassi di interesse con la scusa di combattere l’inflazione, anche se il grosso dell’inflazione (come abbiamo dimostrato n-mila volte) era dovuta a fattori che con le politiche monetarie non c’incastravano niente; a partire dalla greedflation e, cioè, l’inflazione imposta dalle aziende che hanno posizioni di mercato oligopolistiche (se non addirittura proprio monopolistiche), il che significa che il prezzo lo fissano loro e non c’è concorrenza in grado di fargli cambiare idea. Se le Banche Centrali che emettono i quattro quinti delle valute del paniere decidono all’unisono di aumentare i tassi di interesse, questo significa che le valute di tutti gli altri Paesi si indeboliscono e, quindi, rimborsare un eventuale debito denominato in diritti speciali di prelievo diventa più costoso, Ovviamente, siccome siamo in un mondo libero e democratico, ogni Paese, in realtà, ha sempre la possibilità di scegliere – e, in questo caso, può scegliere molto liberamente di aumentare anche lui i tassi di interesse per contrastare l’indebolimento della sua valuta; peccato che questo comporti causare una recessione o, comunque, una botta decisiva alla crescita economica, ovviamente imposta da altri. E questo è solo il primo dei problemi. Il secondo è che i diritti speciali di prelievo non vengono utilizzati nell’economia reale: non ci puoi comprare il petrolio o le banane o i microchip; per comprarci qualcosa, li devi convertire in una valuta. Ma nessuno obbliga nessuno ad accettare diritti speciali di prelievo in cambio della sua valuta: si può fare soltanto a seguito di accordi bilaterali consensuali, i famosi VTA (Voluntary Trading Arrangements); ergo, rischi di avere, tra le tue riserve, valuta che poi non puoi usare per fare quello che ti serve quando ti serve.
Il messaggio dei BRICS, allora, è molto chiaro: se volete che la nostra ascesa economica avvenga comunque all’interno di queste istituzioni, dovete darci il potere di voto che ci spetta e la possibilità di utilizzare il potere di voto che ci spetta per risolvere tutti i problemi che oggi affliggono i diritti speciali di prelievo per trasformali, finalmente, in una valuta di riserva internazionale realmente utile; altrimenti, vorrà dire che ce ne facciamo un’altra da noi. L’eventuale “mancato riequilibrio delle azioni con diritto di voto causerebbe un danno significativo e irreparabile alla credibilità del FMI come istituzione” si legge nel rapporto, e costringerebbe i Paesi emergenti a “sviluppare una struttura alternativa la cui funzionalità le consentirebbe di svolgere il compito originariamente previsto dal FMI” a partire, appunto, dai diritti speciali di prelievo per i quali “bisogna aumentare la convertibilità nelle diverse valute, andando oltre il meccanismo dei Voluntary Trading Arrangements”, promuoverne “l’utilizzo nel commercio internazionale, per fissare il prezzo delle commodities, e come unità di conto” ed “emettere più asset finanziari denominati in diritti speciali di prelievo come veicoli per gli investimenti”. Intanto si sono portati avanti aumentando a dismisura le riserve direttamente in oro che, così, è passato da poco più di 1.600 dollari l’oncia di inizio 2022 agli oltre 2.700 dollari l’oncia attuali, cosa che farà sicuramente molto felici – ad esempio – gli amici del Burkina Faso che, recentemente, hanno annunciato l’intenzione di nazionalizzare le loro miniere d’oro. Ma non solo: i due principali Paesi produttori di oro al mondo, infatti, sono – pensate un po’ – Cina e Russia, entrambi con una produzione all’incirca doppia rispetto a quella degli Stati Uniti e 60 volte superiore a quella della Svezia, che il principale produttore europeo di oro. Aumentare le riserve in oro, quindi, per i BRICS è un ottima opportunità e un ottimo affare, ma è un pannicello caldo: l’oro infatti, per fare un esempio, rappresenta appena il 4 – 5% al massimo delle riserve estere cinesi; il 65 – 70% è composto da valuta estera e il 20 – 25% da titoli di Stato esteri – e tra questi, ovviamente, a fare (di gran lunga) la parte del leone sono i dollari e i titoli del tesoro USA. L’obiettivo, quindi, è aumentare la quota di valuta estera e di titoli del tesoro in valuta locale emessi da Paesi emergenti; peccato sia più semplice da dire che da fare: nonostante la crescente solidità economica dei Paesi emergenti, infatti, il mercato internazionale dei titoli di Stato emessi in valute locali è ancora sostanzialmente inesistente anche per un colosso come la Cina, nonostante garantisca rendimenti reali tre volte superiori a quelli garantiti dai titoli del tesoro USA.
Il problema è che stabilità e livello di internazionalizzazione di una valuta e capacità di allocare sul mercato titoli di Stato emessi nella propria valuta locale sono, ovviamente, due aspetti intimamente legati tra loro: un’ampia diffusione di titoli di Stato emessi in valuta locale è un elemento essenziale per rendere stabile la propria valuta, e avere una valuta stabile è essenziale per riuscire a vendere titoli di Stato in quella valuta senza pagare una cifra spropositata di interessi; la sfida dei BRICS consiste – appunto – nell’unire le forze per riuscire a spezzare questa spirale perversa. Ad oggi infatti – sottolinea il rapporto – i Paesi emergenti, nonostante abbiano triplicato lo scambio commerciale tra loro, quando si tratta di investire continuano a portare il grosso dei loro capitali verso le economie più sviluppate e in particolare, ovviamente, verso i mercati finanziari USA e verso i titoli di Stato USA (nonostante abbiano spesso un rendimento inferiore all’inflazione): questo, da un lato, nell’immediato impedisce a quegli stessi capitali di cogliere le opportunità migliori che ci sono nel mercato (magari proprio dietro casa loro) e, dall’altro, impedisce appunto di cominciare a mettere le basi affinché gradualmente, in prospettiva, questo vero e proprio furto di risorse da parte delle economie più sviluppate a danno dei Paesi emergenti un bel giorno termini o, almeno, si affievolisca. Gli elementi che ostacolano l’emancipazione da questa spirale perversa sono numerosi e i BRICS si propongono di affrontarli tutti: uno, molto banale (ma decisamente importante), è che ad oggi anche quando un Paese emergente vuole investire in un altro Paese emergente, in realtà passa sempre da uno dei principali hub finanziari globali – e cioè, fondamentalmente, da Londra o da New York. Raggiungere un altro Paese emergente quindi, sottolinea il rapporto, è un lungo viaggio in due tappe, spesso costose, al quale naturalmente si preferisce ancora troppo spesso il semplice viaggio diretto: una volta che sono arrivato a Londra e New York, chi me lo fa fare di partire per un altro viaggio? La compravendita di titoli finanziari di ogni genere, infatti, avviene in quelli che vengono definiti Central Securities Depositories, come sono i nostri Euroclear e Clearstream, rispettivamente in Belgio e Lussemburgo; la proposta è quello di crearne uno ad hoc dei BRICS, denominato BRICS Clear System. Ovviamente, strappare quote di mercato a istituzioni più consolidate non è una passeggiata, ma c’è un incentivo che potrebbe accelerare il processo: a differenza dei Clear System che oggi dominano la compravendita dei titoli finanziari su scala globale e che, sempre più spesso, abbiamo visto essere utilizzati dagli USA e dai loro vassalli per congelare arbitrariamente i fondi dei Paesi che si azzardano a non obbedire ai loro dictat, il BRICS Clear System opererebbe sulla base di un regolamento condiviso che potrebbe essere cambiato esclusivamente con un voto di tutti all’unanimità; quello che è potenzialmente ancora più importante è che questo BRICS Clear System non si dovrebbe limitare a funzionare da piazza alternativa per lo scambio di prodotti già esistenti, ma dovrebbe promuoverne altri, a partire da hub finanziari su tutti e 3 i continenti coperti da membri dei BRICS che siano in grado di raccogliere capitali da altri Paesi BRICS – e, più in generale, da Paesi emergenti – per impiegarli nello sviluppo di infrastrutture strategiche e per finanziare i campioni nazionali che oggi, come abbiamo spiegato qualche tempo fa, sono costretti a pagare interessi più alti rispetto ai competitor occidentali, anche se sono aziende enormemente più efficienti, solide e produttive.
Un altro aspetto che influisce è il monopolio delle agenzie di rating statunitensi, ma “Un’approfondita ricerca in questo campo” sottolinea il rapporto “mostra che esiste una costante distorsione del rating che favorisce i Paesi sviluppati e sfavorisce i mercati emergenti, a partire dalla valutazione proprio dei titoli di stato sovrani”; questo bias neocoloniale contro i Paesi emergenti nel loro complesso, a cascata poi influenza anche le singole aziende di quei Paesi perché, appunto, anche in caso di aziende con “fondamentali finanziari solidi”, “i rating sovrani del Paese dove operano influenzano anche il loro rating come aziende”, al punto che “un abbassamento del rating del credito delle obbligazioni sovrane” comporta automaticamente “un declassamento di tutti gli altri strumenti del debito di quel Paese” e comporta, quindi, un costo del denaro per le aziende che ne compromette la competitività – cosa che, ad esempio, noi italiani conosciamo benissimo rispetto alla Germania, che ha utilizzato pro domo sua questo stesso identico principio per farci concorrenza sleale e cannibalizzare il nostro sistema produttivo per 30 anni. La proposta dei BRICS, quindi, è rafforzare il coordinamento tra le agenzie di rating già presenti nei Paesi aderenti – dalla cinese Dagong alla russa ACRA, passando per l’indiana Care Ratings – standardizzando i parametri e adeguandoli alle specificità delle economie emergenti più deboli finanziariamente, ma decisamente più promettenti per quanto riguarda la capacità di creare ricchezza attraverso l’economia reale. Creare enti di valutazione del credito alternativi a quelli del Nord globale è essenziale, in particolare, per favorire la crescita di investimenti tra Paesi BRICS in un settore in particolare, che nell’area del dissenso sta creando un po’ di confusione: la transizione ecologica, che i BRICS definiscono – udite udite – addirittura esistenziale: “Il tema del cambiamento climatico” sottolinea il rapporto “ha assunto il posto che spetta di diritto in cima all’agenda internazionale”; e il problema non è tanto che non esiste nessun cambiamento climatico di radice antropica, quanto – appunto, ad esempio – che “le esigenze dei Paesi in via di sviluppo saranno tra le 10 e le 20 volte superiori ai flussi finanziari disponibili” e che questo è, in buona parte, da attribuire alle “carenze causate dall’attuale stato del sistema monetario e finanziario mondiale”. Insomma: incredibile ma vero, anche per la Federazione russa e gli altri BRICS il problema non sono gli ecologisti e i gretini, ma la grande finanza internazionale a guida USA, compresa quella legata al business delle fonti fossili che, da decenni, foraggia a suon di centinaia e centinaia di milioni la peggior propaganda antiscientifica e negazionista.
Per favorire l’arrivo di capitali in grado di accelerare la transizione nei Paesi in via di sviluppo, i BRICS si pongono, prima di tutto, l’obiettivo di rompere il sostanziale monopolio che una singola società di rating s’è conquistata nel mercato della valutazione dell’impatto ambientale, sociale e di governance degli investimenti e, quindi, dirottare un po’ dove gli pare la gigantesca mole di capitali che oggi cercano di darsi una piccola spruzzatina di verde: si chiama MSCI e, da sola, copre il 60% del mercato. E, ovviamente, ha come principali azionisti BlackRock, Vanguard e State Street; ne avevamo parlato, in passato, in questo video qua, dove ricordavamo alcuni degli esempi più eclatanti di valutazioni di sostenibilità dati alla cazzo di cane: da JP Morgan, che è la più grande banca privata e la più grande finanziatrice del fossile al mondo, ad addirittura Mc Donald’s. Insomma: l’unico criterio che MSCI sembra adottare davvero è quello che siano grandi gruppi fortemente partecipati dai suoi azionisti di riferimento; attraverso la creazione di agenzie di valutazione indipendenti dell’impatto ambientale, sociale e di governance dei singoli strumenti finanziari, i BRICS si propongono di creare uno strumento più trasparente, basato su una definizione condivisa dei parametri e degli obiettivi e che sia utile per combattere il greenwashing e far arrivare i capitali laddove servono sul serio, tenendo conto anche delle specificità dei percorsi di ogni singolo Paese e, quindi, restituendo un’idea realistica e pragmatica degli obiettivi di sostenibilità che i singoli Paesi possono davvero perseguire senza cadere in rovina per fare contenti gli elettori di Annalena Baerbock e dei suoi amici eco-imperialisti.
Vista la portata della sfida della transizione ecologica, però, avere enti di valutazione indipendenti più trasparenti e razionali di sicuro non basta; serve anche mobilitare investimenti pubblici in grado, poi, di sfruttare la finanza privata come moltiplicatore: ed ecco qui che entra in gioco un altro tassello fondamentale della proposta dei BRICS, la New Development Bank, la banca di sviluppo multilaterale dei BRICS. La proposta sul tavolo è prima di tutto, banalmente, di aumentare considerevolmente la sua dotazione finanziaria e, per aumentarla, la proposta è quella di dotarla di quello che viene definito DIA, il BRICS Digital Investment Asset, cioè un asset digitale supportato, a sua volta, da asset fisici messi a disposizione dai singoli Paesi BRICS. Insomma: riassumendo il tutto, emanciparsi da un’architettura finanziaria costruita e consolidata nell’arco di decenni è un’operazione titanica; e chi fa annunci roboanti è un ciarlatano alla ricerca di seguaci in modalità setta e di like. Ciononostante, la parte economicamente più dinamica del pianeta – nonostante le millemila diversità – sembra essersi definitivamente coalizzata perlomeno su un aspetto, che è centrale: l’unipolarismo USA e la dittatura del dollaro non sono solo sistemi di dominio iniqui e ingiusti, ma sono anche – molto banalmente – arretrati e disfunzionali, storicamente inadeguati rispetto a un mondo che è già enormemente cambiato. E quando a chiedere il conto non è l’opinione di qualche avanguardia più o meno illuminata, ma la storia, te ti puoi inventare tutti i voli pindarici e i castelli in aria che ti pare, ma alla fine soccombi, che è il motivo per il quale, ormai, la propaganda suprematista – sia quella analfoliberale che quella analfosovranista – se vista con un po’ di distacco, non fa manco più incazzare: fa semplicemente ridere. Per orientarci nel nuovo mondo che cambia abbiamo bisogno di un media indipendente, ma di parte, che dia voce al 99%, compreso quello che vive nel Sud globale. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Summit BRICS: la Russia pubblica la ricetta per la dedollarizzazione

video a cura di Davide Martinotti

In vista del summit dei BRICS di questa settimana sono stati resi pubblici i piani del multilaterale per trasformare il sistema monetario e finanziario internazionale. Il documento, titolato – per l’appunto –Miglioramento del sistema monetario e finanziario internazionale, è stato pubblicato dal ministero delle finanze della federazione russa. Nel documento viene presentata la BRICS Cross-Border Payment Initiative (BCBPI), un’iniziativa per la promozione dell’uso delle valute locali al posto del dollaro.

Link al documento BRICS: https://yakovpartners.ru/upload/ibloc…

Crollo NVIDIA: l’intelligenza artificiale tra speculazione e monopolio – ft. Alessandro Volpi

Oggi il nostro Gabriele intervista Alessandro Volpi attorno alla caduta del titolo NVIDIA: dopo settimane e mesi di salita impetuosa, da record, il titolo legato al settore dell’intelligenza artificiale sembra in brusca frenata; le cifre andate perse fanno anche capire il livello di finanziarizzazione raggiunto dal settore. Sullo sfondo incombe il rialzo dei tassi che dopo i dati sull’inflazione australiana sembra inevitabile, con i suoi effetti depressivi sulla crescita. Il capitalismo USA sembra dunque muoversi per salvare il primato del dollaro e ricreare un proprio settore produttivo in grado di tenere testa ai paesi emergenti. Buona visione!

#NVIDIA #finanza #economia #dollaro #dedolarizzazione #tassi #USA #IA #intelligenzaartificiale #chip

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

La guerra commerciale degli USA contro la Cina accelera la fine della dittatura del dollaro

Rimbambiden ormai ha lanciato la rincorsa alle boutade trumpiane sui dazi stellari su qualsiasi cosa prodotta in Cina, a partire ovviamente dall’auto elettrica dove i produttori occidentali sono indietro di decenni rispetto a Pechino. Ma potrebbe essere una mossa avventata: costretta a rinunciare al mercato USA, infatti, la Cina sarebbe incentivata ad accelerare il processo di dedollarizzazione e, visto il suo peso nel commercio globale, questo comporterebbe necessariamente un crollo dell’egemonia globale del dollaro stesso. L’attivismo di Macron che ha recentemente rafforzato la sua narrazione sulla creazione di una sorta di autonomia strategica finanziaria europea invocando la nascita di campioni bancari continentali grazie a processi di fusione e acquisizione, potrebbe essere quindi spinta anche dalla consapevolezza dell’imminente crollo dell’egemonia del dollaro. Ne abbiamo parlato con Alessandro Volpi, il cicerone preferito di Ottolina Tv quando si tratta di seguire il denaro e cercare di capire cosa aspettarci dalla grande rivoluzione dell’architettura finanziaria globale. Buona visione!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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LA TERZA GUERRA MONDIALE PUO’ ATTENDERE: perché il bilaterale tra Xi e Biden è un’ottima notizia

L’armageddon può attendere.
Al di là di tutte le considerazioni e tutti i distinguo possibili immaginabili, il motivo per cui di fronte alle strette di mano e ai sorrisi che Sleepy Joe e Xi Dada si sono scambiati copiosamente la scorsa settimana, non possiamo che dirci un pochino sollevati sta tutto qui. Checché ne dicano tutti i dispensatori di analisi che straboccano del senno di poi, non era scontato. Ma proprio manco per niente: a partire dai colpi di coda della presidenza Trump, le relazioni bilaterali tra i due paesi hanno gradualmente raggiunto il punto più basso da quando, nel 1972, Richard Nixon e Kissinger avevano deciso di rivoluzionare l’intera politica internazionale giocandosi la carta cinese contro l’eterno avversario sovietico, e quando nel febbraio del 2022 è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, noi – sinceramente – abbiamo immediatamente pensato al peggio. L’idea, forse un po’ paranoica, era che il fronte ucraino servisse principalmente per appaltare al vassallo europeo una sorta di manovra di distrazione della Russia sul fronte occidentale per potersi concentrare sull’Indo – pacifico e dare una botta mortale all’ascesa cinese approfittando di qualche casus belli creato ad arte attorno alla questione Taiwan.
“L’Ucraina potrebbe essere solo il primo capitolo di una nuova grande guerra totale a partire da Taiwan” scrivevamo già nel marzo del 2022 “e l’escalation potrebbe essere più rapida del previsto” e in effetti, per qualche mese, i segnali non hanno fatto che andare tutti in quella direzione: l’Europa, andando palesemente contro ogni suo interesse, si impegnava sempre di più in una guerra che si confermava sempre più chiaramente andare in direzione di un lungo pantano; gli USA schiacciavano al massimo sul pedale della retorica del disaccoppiamento economico del Nord globale dalla Cina e ingaggiavano una guerra tecnologica a suon di chip di ultima generazione contro l’industria cinese e, ad agosto, l’incredibile provocazione della visita a sorpresa a Taiwan – contro ogni protocollo diplomatico possibile immaginabile – dell’allora speaker della camera democratica Nancy Pelosi (già tristemente nota per essersi arricchita a dismisura investendo nelle azioni di aziende che, da politica, avrebbe dovuto controllare) aveva clamorosamente rischiato di far precipitare tutta la situazione. Ne erano seguiti giorni infuocati di dimostrazione di forza a suon di missili e di incursioni navali ed aeree come mai si era registrato da parte cinese, alla quale era seguita l’interruzione repentina di tutte le linee di comunicazioni militari ad alto livello tra Cina ed USA. Le previsioni più catastrofiste sembravano avverarsi, ora dopo ora, sotto i nostri occhi increduli ; interrotta ogni forma di dialogo e immersi in un nebbia fitta di diffidenza reciproca, da lì in poi nessuno era più in grado di garantire che una qualsiasi incomprensione sulle manovre continue intorno all’isola non sarebbe potuta degenerare rapidamente in uno scontro frontale.
Fortunatamente non accadde niente del genere e anzi, da entrambi i lati – piuttosto rapidamente – si cominciarono a provare a rimettere le basi per riportare il tutto sotto controllo, fino ad arrivare al G20 di Bali e al bilaterale a latere tra Xi e Biden: un faccia a faccia, universalmente definito come storico, che inaugurava una stagione che veniva definita “new detente”, nuova distensione. Che è durata pochissimo: per farla saltare è bastato aspettare due mesi dopo che nei cieli del Montana venisse avvistato un gigantesco e innocuo pallone gonfiabile bianco.

Il pallone gonfiabile cinese

I cinesi hanno provato a spiegare, come poi è stato confermato, che non si trattava di altro che di uno strumento per la raccolta di dati scientifici e meteorologici sfuggito al controllo a causa del vento, ma contro la sete di sangue della propaganda sinofoba e guerrafondaia la spiegazione più logica è un’arma spuntata. E così risiamo punto e a capo. Ecco, io a quel punto, se fossi stato la Cina, avrei mollato: se siete così invasati da trasformare una puttanata del genere in un casus belli vuol dire che non c’è niente da fare. Se proprio volete la guerra, che guerra sia.
Fortunatamente per il resto dell’umanità, però, io mi limito a sproloquiare su un canale Youtube, e a guidare la Cina – invece – ci sono gli eredi di un impero millenario che, al contrario di qualche governatore zoticone dell’impero fondato sulle armi semiautomatiche in vendita al tabacchino, riesce a mantenere la calma anche in queste circostanze e ragiona sui tempi lunghi della storia che, poco dopo, torna a fare capolino. Nell’arco di pochi mesi, dopo questa figura barbina di fronte all’intero pianeta, il termine disaccoppiamento comincia a diventare tabù: che l’economia USA e quella cinese non possono fare a meno l’una dell’altra diventa il nuovo mantra, ripetuto prima da Sullivan, poi dalla Yellen, poi da Blinken. Intendiamoci: le parole non costano nulla e i fatti continuano ad andare in un’altra direzione ma, alla fine, nella diplomazia anche il tono conta, eccome. Ed ecco così che si ricomincia a parlare di un eventuale nuovo faccia a faccia che riprenda il filo del discorso iniziato a Bali e naufragato per un pallone gonfiabile. Manco al campino del parroco quando andavo alle medie… Ma d’altronde la Cina la distensione la deve trovare con chi c’è, anche se quello che c’è si chiama Rimbambiden e, tra una gaffe e l’altra, ormai è abbastanza evidente che tiene in pugno la politica estera USA un po’ come io tengo in pugno l’opinione pubblica italiana.
L’occasione giusta, appunto, viene identificata nella riunione annuale dell’APEC organizzata per metà novembre a San Francisco; le due diplomazie lavorano giorno e notte per risolvere ogni tipo di ostacolo e, per avere la conferma definitiva, si dovranno aspettare gli ultimissimi giorni: andrà, non andrà, ci sarà un incontro bilaterale ad hoc, oppure no, si concluderà con una dichiarazione congiunta… fino all’ultimo minuto niente è scontato. Ecco perché, oggi, mi fanno un po’ ridere quelli che minimizzano: la sanno lunga, però solo dopo. In realtà mai come oggi, almeno da 60 anni a questa parte, l’umanità intera sta camminando su una fune sospesa a 50 metri d’altezza dal suolo; basteranno queste strette di mano e questi sorrisi a farci mantenere in equilibrio almeno per un altro po’?
Il messaggio che arriva da San Francisco, stringi stringi, è uno: per quanto, effettivamente, tutto sembri ineluttabilmente crollarci sotto i piedi e sfuggirci di mano, per il momento le due principali potenze globali di annichilirsi l’un l’altra a suon di testate atomiche non sembrano averne intenzione. Per gli inguaribili ottimisti – che sono ancora convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, dove le magnifiche sorti e progressive della grande civiltà dell’uomo bianco ha relegato la tentazione della mutua distruzione reciproca ai libri di storia – probabilmente è poca cosa, ma per noi che siamo pessimisti cosmici e che ancora facciamo fatica a vedere quali alternative all’armageddon dovrebbe avere l’imperialismo occidentale a guida USA a sua disposizione non solo per impedire, ma anche solo per ostacolare efficacemente il suo inesorabile declino, in realtà è tipo – non voglio dire – un miracolo, ma quasi.
Ma non di sole profezie millenariste si vive e allora, intanto, cominciamo da qualcosa di completamente diverso: la cosa più bella di questo bilaterale infatti, è stata la location perché la tenuta dove Xi e Biden si sono confrontati in modo “franco e diretto” – come hanno sottolineato i comunicati – per la bellezza di 4 ore, non è un luogo qualsiasi ma è nientepopodimeno che la tenuta di famiglia al centro di uno dei prodotti più iconici in assoluto dell’industria culturale USA: Dynasty. E non è tutto, perché c’è un aspetto che non tutti conoscono di Dynasty: durante i lavori per la realizzazione di tutte e 8 le stagioni della telenovela, un personaggio di primissimo piano negli USA ha continuato ininterrottamente a stalkerizzare la produzione elemosinando – con ogni mezzo possibile – una parte qualsiasi, venendo sistematicamente rimbalzato. Quel personaggio di primissimo piano è nientepopodimeno che Donald Trump. Un caso? Io non kreto. E con questo retroscena dall’incontro bilaterale, sostanzialmente è tutto. Poi sì – per carità – dice che hanno parlato di Fentanyl, di ostacolare la deriva che potrebbe portarci a breve al paradosso che a decidere se scoppierà la guerra mondiale o meno sia direttamente l’intelligenza artificiale, di clima; d’altronde, in qualche modo, queste 4 ore andavano riempite ma, tutto sommato, è solo fuffa. Il punto è che, a parte la promessa reciproca di non distruggersi a vicenda, i due leader non hanno niente da dirsi; le traiettorie e gli interessi strategici dei due paesi, semplicemente, non sono compatibili: da un lato l’ordine unipolare fondato sulla concentrazione dei capitali in mano alle oligarchie finanziarie, dall’altro un nuovo ordine multipolare fondato sullo sviluppo delle forze produttive e sulle relazioni commerciali tra stati sovrani. Un dualismo semplicemente irrisolvibile, a meno di una rivoluzione all’interno di uno dei due poli; e allora è proprio da questo punto di vista che dobbiamo provare a leggere tutto quello che è successo negli ultimi giorni.
Come tutti sapete, infatti, il tête-à-tête tra Sleepy Joe e Xi Dada non è stato altro che uno dei tanti incontri che si sono svolti in occasione della riunione annuale dell’APEC, l’Asia-Pacific Economic Cooperation, un organo multilaterale del quale – nella nostra provincia profonda dell’impero – a malapena conosciamo l’esistenza, figurarsi l’importanza e il ruolo. D’altronde con i suoi 21 membri che rappresentano il 38% della popolazione, il 50% del commercio globale e il 62% del PIL globale, è soltanto l’organismo di cooperazione economica più grande del pianeta. Che ce frega a noi?
In cima all’agenda dei lavori dell’APEC – a questo giro – c’era una questione piuttosto delicata: si chiama IPEF, che sta per Indo-Pacific Economic Framework; lanciato dallo stesso Rimbambiden nel maggio scorso, sarebbe dovuto servire agli USA per controbilanciare l’aumento dell’influenza economica cinese nell’area. Un buco nell’acqua: “Il fallimento degli Stati Uniti nell’accordo commerciale Indo – pacifico apre le porte alla Cina” scrive Bloomberg, e l’Economist rilancia “I fallimenti di Joe Biden sul fronte commerciale avvantaggiano la Cina”.

Un pallone gonfiato americano

Facciamo un piccolo passo indietro; per contrastare la crescente influenza commerciale del dragone in Asia, nel 2005 l’amministrazione Bush Junior avvia una serie di negoziati con 14 partner locali: l’obiettivo è raggiungere un quadro regolatorio onnicomprensivo per favorire il libero scambio e l’integrazione economica tra le due sponde del pacifico tenendo fuori la Cina. Si chiama TPP, Trans-Pacific Partnership (partenariato trans-pacifico) ed è il classico strumento della globalizzazione neoliberista a guida USA e fondata sul dollaro e, sebbene sia stato avviato da Bush Jr, diventerà il cavallo di battaglia del Pivot to Asia dell’amministrazione Obama; attraverso l’accordo si dovrebbe facilitare ulteriormente la delocalizzazione e la deindustrializzazione degli USA e, in cambio, le oligarchie locali avrebbero l’opportunità di estrarre plusvalore dalle loro economie per incassare dollari ed andarli a reinvestire nelle bolle speculative a stelle e strisce, e a pagare il conto sarebbero i lavoratori che, però, si oppongono con ogni mezzo necessario – compresa l’elezione di un pazzo furioso. In mezzo a mille proteste, infatti, i negoziati procedono a rilento e la scadenza iniziale del 2012 viene rimandata per ben 4 volte. La firma, finalmente, arriva nel febbraio del 2016: durerà come un gatto in tangenziale; l’opposizione al vecchio paradigma liberoscambista, pochi mesi dopo, porterà alla vittoria alle presidenziali di Donald Trump che, poco dopo, ritirerà l’adesione degli USA al TPP.
Le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, come meccanismo fondamentale per far avanzare le ambizioni egemoniche USA, non convincono più nessuno; nel frattempo la Cina continua, con passo lento ma inesorabile, a rafforzare i suoi legami commerciali e a lavorare a una sempre maggiore integrazione e interdipendenza economica dell’area. E’ un modello completamente diverso che, invece di essere fondato sulle delocalizzazioni, è fondato sulla liberazione delle forze produttive della regione attraverso gli investimenti e l’integrazione delle catene produttive: non ruba lavoro a qualcuno per darlo a qualcuno con meno diritti e pagato meno, ma crea le condizioni perché entrambi, cooperando, siano in grado di creare più ricchezza. Per la crescita dell’economia – in generale – è un modello molto più ragionevole, anche se per le élite economiche un po’ meno; in questo modello, infatti, per fare soldi non basta investirli in azioni al Nasdaq o in prodotti finanziari garantiti da BlackRock e Vanguard, ma tocca lavorare. Ma con l’America ripiegata su se stessa, rimane l’unica opzione a disposizione; quindi l’integrazione economica regionale trainata dalla Cina e fondata sulla liberazione delle forze produttive prosegue, mentre una fetta consistente delle élite continua a sperare che un giorno si possa tornare a depredare l’economia reale per fare quattrini al casinò a stelle e strisce, che è esattamente quello che gli promette Biden nel maggio del 2022 con l’avvio dei negoziati per l’Indo-Pacific Economic Framework e che, però, si ritrova di fronte agli stessi identici ostacoli del passato. I lavoratori USA di pagare di tasca loro i piani egemonici delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce non ce n’hanno voglia e – con le elezioni presidenziali alle porte e Trump che torna a minacciare lo scricchiolante ordine liberale – meglio rimandare tutto. “Una terribile battuta d’arresto per la leadership americana” ha commentato John Murphy, vicepresidente della Camera di Commercio degli Stati Uniti; “In privato” riporta Bloomberg “un dirigente aziendale ha paragonato il caos attorno alle discussioni commerciali dell’IPEF al ritiro disordinato degli USA dall’Afghanistan”. “Lascia la porta aperta alla Cina” avrebbe commentato. “Nella competizione tra America e Cina per l’influenza sul commercio asiatico” commenta l’Economist “solo una parte sta facendo progressi. I governi asiatici non riponevano grosse speranze sull’IPEF, ma ormai è evidente che se mai un accordo arriverà anche quelle basse aspettative saranno tradite”. E Xi Dada passa all’incasso: a latere delle riunione dell’APEC Xi ha incontrato faccia a faccia la leadership filippina che, delusa dalle trattative sull’IPEF, da spina nel fianco cinese eterodiretta da Washington si è riscoperta pacifista. “I problemi rimangono” ha sottolineato il presidente Marcos “ma abbiamo concordato su alcuni meccanismi per ridurre le tensioni nel Mare Cinese Meridionale. Nessuno vuole una guerra”. Ancora più significativo il bilaterale tra Cina e Giappone, sfociato in un testa e testa tra Xi e Kishida di oltre un’ora, al termine del quale gli analisti hanno parlato di un ritorno allo spirito del “rapporto strategico di reciproco vantaggio” del 2008, considerato l’apice dell’era d’oro delle relazioni sino – giapponesi, poi nel tempo gravemente deteriorate. Ma il vero trionfo di Xi è stata – come l’ha definita Santevecchi sul corriere della serva – la “conquista degli imprenditori”: il riferimento, ovviamente, è alla cena che ha visto Xi sedersi al fianco di 400 tra i principali imprenditori e dirigenti d’azienda USA e durante la quale Xi “ha incassato applausi scroscianti”. Per strapparli non ha dovuto fare altro che ribadire che “la Cina non combatterà una guerra con nessuno, né fredda, né calda. La Cina non cerca egemonia, né espansionismo”. “La grande settimana di Xi” titola a 6 colonne Bloomberg “si conclude con una serie di vittorie nei confronti di Stati Uniti, Taiwan ed economia”: a Taiwan infatti – che fa parte della lunga serie di paesi delusi dalla ritirata USA dai negoziati sull’IPEF – le opposizioni che tifano per un riavvicinamento a Pechino e che fino a ieri marciavano divise, avrebbero trovato uno storico accordo che le rende le favorite in vista delle prossime elezioni presidenziali.
Di tutto questo e di molto altro parleremo oggi, lunedì 21 novembre alle 13 e 30, durante la nuova puntata di MondoCina in collaborazione con i nostri soci di Dazibao e dintorni che tra l’altro – sempre per analizzare questa settimana storica – ha fatto un altro dei suoi imperdibili video che vi consiglio assolutamente di andare subito a vedere sul suo canale. Perché, d’altronde, se c’è una cosa che questa settimana conferma è che il mondo nuovo avanza e che non ce lo possiamo far raccontare dai vecchi media. Per raccontarlo senza fette di prosciutto sugli occhi abbiamo bisogno di un vero e proprio nuovo media che dia voce al sud globale e al 99%.
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E chi non aderisce è er bretella Rampini

Interviste Ottoline, Pino Arlacchi: declino USA, nuovo ordine multipolare e il suicidio dell’Europa

La qualità umana e intellettuale del personale politico del partito unico della guerra e degli affari che da almeno tre decenni nell’Occidente collettivo porta avanti l’agenda della controrivoluzione neoliberista guidata da Washington è di una mediocrità disarmante. E le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Mozzata. Tra queste, un posto d’onore spetta senza nessun dubbio a Giuseppe Arlacchi, meglio noto come Pino: un rarissimo esempio di civil servant senza macchia, in grado nell’arco di oltre quarant’anni di rappresentare fin nel cuore delle massime istituzioni dell’ordine liberale in declino il punto di vista del 99%. Non dovrebbe sorprendere: Arlacchi infatti è il degno erede del migliore dei maestri, il nostro caro e intramontabile Giovanni Arrighi. Fu infatti proprio Arrighi a volerlo al suo fianco appena ventiseienne all’Università della Calabria, da dove insieme lanciarono una delle esperienze più entusiasmanti di indagine sociologica a tutto tondo della storia dell’accademia italiana. È la ricerca che nel 1980 portò alla pubblicazione di “Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo”. Un testo monumentale che riuscì a portare le lande desolate del meridione più arretrato all’attenzione della grande accademia internazionale, a partire dal leggendario Eric Hobsbawm, che ne promosse la traduzione presso la prestigiosa Cambridge University Press. Non era una divagazione esotica. Sulla falsa riga dell’insegnamento di Arrighi, piuttosto, era il risultato di un approccio sistemico al capitalismo che superava la vulgata propagandistica secondo la quale la persistenza di aree arretrate sarebbe da attribuire appunto all’incompleto sviluppo capitalistico, ma al contrario, vedeva nel rapporto dialettico tra capitalismo avanzato e sottosviluppo il motore stesso del capitalismo reale Un approccio che Arlacchi avrebbe continuato a sviluppare in mille direzioni diverse negli oltre 40 anni successivi, mettendolo sempre nella condizione di svelare la falsità congenita della narrazione liberaloide e suprematista. È per questo che quando ho incrociato Pino pochi giorni fa a Samarcanda, mi è subito sembrato il luogo più naturale dove incontrarlo. Si stava svolgendo il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona. Un raro tentativo da parte dell’Italia migliore di continuare a tessere reti e relazioni con il nuovo mondo che avanza, mentre il resto del paese marcia deciso a suon di suprematismo misto a subordinazione verso l’autodistruzione. La chiacchierata che ne è scaturita, è probabilmente la migliore intervista che come Ottolina abbiamo mai portato a casa e che abbiamo ritagliato in fretta e furia per tenervi compagnia oggi.
Un’intervista dove Arlacchi ripercorre con una lucidità disarmante gli snodi cruciali del percorso analitico che come OttolinaTV proviamo a portare avanti da sempre: dal declino dell’impero militare USA, alle contraddizioni dell’impero finanziario fondato sugli interessi egoistici di una ristretta oligarchia totalitaria per passare all’ascesa di un nuovo ordine multipolare fondato sugli interessi comuni di stati sovrani che hanno adottato sistemi economici di carattere sviluppista e finire con il suicidio volontario degli alleati/vassalli degli USA. Buona visione.

Pino Arlacchi: “Il sistema americano è basato su due grandi gambe il militarismo e la finanza. Il militare si è rivelato un clamoroso fallimento. Hanno perso quasi tutte le guerre che hanno fatto negli ultimi quarant’anni, quindi non fanno più paura a nessuno. Queste cifre sul complesso militare industriale si fanno paura in termini che chiunque pensa a che cosa si potrebbe fare in alternativa con quelle cifre. Ma poi sul piano militare, dove? Che hanno vinto è anche politico, militare. È stato un fallimento totale. Dal Vietnam in poi, in Iraq hanno fatto una guerra contro Saddam Hussein. Perderemmo armi di distruzione di massa che non aveva. E per installare un governo filo iraniano in Afghanistan ci sono i talebani più forti di vent’anni fa in Siria, hanno scatenato una guerra civile contro Assad e Assad è più forte di prima.

In Libia hanno mandato in totale rovina un Paese con la complicità degli europei, dall’altra Libia, un Paese che all’Italia importa molto. E ora c’è un po di stabilità in Libia, ma il Paese è distrutto e tutti si chiedono per quale ragione hanno buttato giù Gheddafi. Quindi il potere finanziario resta la loro principale risorsa. Loro controllano i mercati finanziari in un modo eccezionale, ma dobbiamo tener conto che nel mondo grande c’è già una potenza non finanziaria, ma una potenza dell’economia reale, una potenza industriale commerciale alternativa agli Stati Uniti, più forte degli Stati Uniti in termini di potere di acquisto che è la Cina. E io direi, oltre che la Cina, l’intera Asia, l’intero Estremo Oriente è più o meno il modello economico e la Cina non è un’eccezione. Il cosiddetto Developmental state, cioè uno Stato che è il regista dei mercati e il regista dell’economia, che stabilisce le direzioni dell’economia, che fa gli investimenti che le singole imprese non possono fare e che usa i risparmi della popolazione per finanziare lo sviluppo. Questo sistema è sempre più forte dal punto di vista economico. E quindi il problema di come mantenere questo dominio sul mondo anche sul piano finanziario è il principale problema che loro hanno. Perché molta di questa ricchezza va a finire. Indebitamento: c’è un limite alla quantità di dollari che si possono stampare? È solo questione di tempo, perché il simbolo del loro potere, e cioè il dollaro, comincia a scricchiolare. Tutti dicono sì, però il dollaro, chissà quanti decenni ancora può durare, è sempre la moneta e la valuta di riferimento di tutti gli scambi e così via. È vero. Il dubbio può durare ancora un po’. Però quando la sterlina, che era il predecessore del dollaro come moneta di riferimento, ha cominciato a declinare con l’Impero Inglese la sostituzione dalla sterlina al dollaro è stata rapidissima, non più neanche dieci anni. Ora i cinesi non vogliono fare questo. La strategia dei cinesi non è quella di sostituire il renminbi al dollaro. Lo hanno detto in cento modi: se lo avessero voluto l’avrebbero fatto perché bastava farsi pagare tutte le loro importazioni, esportazioni in renminbi e il gioco era fatto. Non lo fanno perché non hanno intenzione di fare questo, in quanto impelagarsi adesso nel sistema finanziario internazionale che è governato da Wall Street e degli americani per loro significa autodistruggersi. Loro preferiscono un sistema a più voci, più valute. La Banca Centrale Cinese ha fatto una proposta già dieci anni fa cinque valute con un paniere di valute che sostituisce il dollaro, in cui c’è anche la loro valuta. La posizione, la loro diffidenza nei confronti della finanza è totale. La chiusura del mercato finanziario cinese alla finanza internazionale fa parte di una strategia precisa la finanza in Cina deve essere mantenuta al servizio dell’economia e non viceversa. Mentre negli Stati Uniti e in Europa è la finanza a governare l’economia, perfino le grandi imprese industriali si sono finanziarizzazione. Una fabbrica di automobili, la Fiat, i guadagni non li fa sulle automobili, li fa sui prestiti. È una finanziaria che ha stravolto le cose, non porta sviluppo, non porta occupazione, non porta crescita delle risorse neanche tecnologiche. Perché sono soldi che si accumulano sui soldi senza in realtà avere nessun effetto reale, mentre sono tassi di profitto molto alti perché dominano il sistema finanziario. Profitti del 10/20% sono la norma del sistema industriale di grandi imprese. Così vi è un profitto del 2% o del 3% è già una grande cosa. E chiaro che con queste differenze nei tassi di profitto, tutta l’attenzione dei mercati e degli investitori si sposta dal lato finanziario, ma è già avvenuto della storia del mondo.
Questa è la quinta fase di sostituzione ai vertici dell’Occidente, della potenza dominante. Ed è nata sempre così, dice Braudel, che quando c’è la fine del dominio della finanza è il segno che l’autunno è arrivato. L’Olanda è partita come una potenza manifatturiera commerciale e poi è diventata una potenza finanziaria per poi cedere il passo all’Inghilterra, che è partita con l’officina del mondo nell’800 e si è poi trasformata in un centro finanziario mondiale. Agli Stati Uniti sta accadendo la stessa cosa. Partiti come potenza industriale fino grossomodo agli anni ’70, finché non è partita l’ondata neoliberista e neo finanziaria, gli Stati Uniti stanno percorrendo lo stesso percorso. Ora c’è la Cina che parte da sé, che segue questa progressione storica. Per inciso, comunque, siamo stati noi italiani i primi. Tra iI ‘300 e iI ‘500, le città-stato italiane erano così. Erano le potenze commerciali trasformatisi poi con la Firenze dei Medici e con la Genova dei finanzieri, i genovesi di potenza finanziaria. Abbiamo iniziato noi questo ciclo che che a quanto pare è ferreo. Siccome c’è una dimensione spaziale in questo ciclo, non è detto che con il dominio globale del pianeta degli Stati Uniti questa ascesa della Cina segua il modello americano. Il più grande errore che si può fare quando si affronta il problema della Cina è di pensare che loro seguano il modello americano. Sono in un certo senso l’opposto. Non è vero e quindi non è affatto detto che ci sarà un mondo a guida cinese. È molto più probabile già nei fatti. Un mondo multipolare in cui la Cina è uno dei grandi player di un mondo diventato più giusto e più e più democratico.”

Marrucci: “E con questo torniamo un po’ all’inizio del discorso. Quindi non è soltanto la corsa a sostituire il vecchio egemone con un nuovo egemone, ma è anche la possibilità, per lo meno lo spiraglio che si apre di un ordine più democratico. Insomma, dove non ci sia un unico egemone. E però, appunto, quello che dicevamo all’inizio, questo percorso qua che appunto noi dipinge noi per primi, come Ottolina dipinge sempre come una grande speranza, una cosa da sostenere in tutti i modi. Poi si arriva che scoppiano tre guerre. Per ora siamo a due.”

Arlacchi: “Un paradosso, ma la storia va avanti anche quando va avanti con paradossi. Quindi gli Stati Uniti sanno di declinare. Sanno che sono nel declino: quello che cercano di fare è di rallentare questo declino. Il problema è che un declino cruento o no, perché la tentazione dell’élite americana di usare lo strumento militare è molto grande. L’altro strumento che è costretto a finanziare con le sanzioni lo stanno usando abusando al massimo. E anche lì sono arrivati praticamente al limite. Ma il punto interrogativo è lo strumento militare, in questo caso un’élite davvero alla frutta può anche tentare di usarlo in modo ancora più forte che in passato, anche se appena ho detto prima che hanno sempre perso militarmente. Ma ora sono convinti di no e ripetono sempre la stessa politica, la stessa strategia fallimentare e a meno che non si affermi negli Stati Uniti una linea di politica estera più pacifica, più loro la chiamano isolazionista, isolazionisti che vivono in Trump. Pensano che i guai dell’America sono cominciati ogni volta che ha cercato di andare fuori in cerca di nemici. E che l’America dovrebbe concentrarsi sulla sua grande forza di una potenza continentale e non immischiarsi in guerre e in alleanze militari esterne. Perché la politica americana dalla seconda guerra mondiale in poi è stata quella di creare alleanze militari con la Nato. Ma ci sono anche altre che obbligano i contraenti del contratto a sostenersi l’un l’altro nel caso di attacco. Questo significa che nel caso della Georgia, quando la Georgia attaccò la Russia, questo significa che gli Stati Uniti avrebbero dovuto intervenire a difesa della Georgia per perdere contro la Russia, rischiando la guerra nucleare. Quindi la politica cinese non è questa. Loro non fanno alleanze militari? Assolutamente no. Fanno una forte alleanza di fatto con la Russia che loro non vogliono trasformare in un’alleanza militare. Proprio per questa ragione, per mantenere una flessibilità dei rapporti in un mondo multipolare che giova a tutti, consente nei Brics di avere posizioni molto diverse. l’India Posizioni diverse dalla Cina sono anzi dei competitori piuttosto accesi del continente, ma non vuol dire che ci sia una guerra all’interno. Significa soltanto che c’è una articolazione di rapporti, che significa che ogni Paese va per la sua strada. E non è affatto detto che qualunque scontro conflitto debba trasformarsi in una guerra. Anche perché nei Brics il sistema economico è lo stesso. Se guardiamo la struttura economica: Cina, India, Russia, Sudafrica e Brasile condividono lo stesso sistema.
C’è uno Stato che dirige, che pianifica, che governa l’economia e la porta a crescere in maniera straordinaria.”

Marrucci: “E questo certo è perché il problema è che il capitalismo finanziario usato, non l’obiettivo, non è la crescita. L’obiettivo è la.”

Arlacchi: “Concentrazione della ricchezza nel famoso 1% esatto. Questo è un fattore di instabilità, è un fattore di disagio sociale immenso che penso proprio che comincerà a manifestarsi presto.”

Marrucci: “Infatti poi c’è il punto dell’instabilità. Appunto parlavi di spinte negli Stati Uniti, a cambiare in qualche modo paradigma. Ma è una cosa fattibile. Cioè esistono rapporti di forza concreti dentro la società, per cui quella in cui si trova gli Stati Uniti non sono un vicolo cieco e hanno una possibilità di uscita più o meno turbolenta quanto ti pare, però comunque pacifico.”

Arlacchi: “Dipende da quanto si approfondirà la crisi. Fino a che punto arriverà la crisi, Quindi può succedere di tutto perché loro stanno camminando molto velocemente lungo la china. Sono nella fase terminale del loro dominio. Quindi tutto dipende da quanto la velocità di questa e questa discesa.”

Marrucci: “E per quello l’ultima cosa per quello che riguarda noi alleati che più che alleati ormai mi sembra si possa dire vassalli contro i propri interessi con una pura agenda imposta da fuori. Qual è la nostra soglia di sopportazione e perché è così alta?”

Arlacchi: “Bella domanda questa. Noi avevamo l’Europa e l’Europa, era l’idea di fondo per la creazione di un nuovo Occidente non americano. Questa idea ha avuto una grande popolarità negli anni 70 e 80 e poi è stata messa da parte. Noi abbiamo creato l’euro per questa ragione l’euro, con tutti i disastri che ha fatto per la popolazione dei paesi dell’Europa del Sud, essendo nient’altro che un marchio svalutato, però era stato creato proprio per essere un’alternativa al dollaro.Per un po ha funzionato finché è arrivato ad avere il 30% degli scambi internazionali. Poi però gli americani hanno tirato il freno a mano, tirato il freno e hanno detto agli europei Guardate che sei d’accordo, ma non vuoi. Dovevate essere complementari al dollaro, non alternativi al dollaro.E poi l’intera architettura dell’Unione europea. Io sono stato in Parlamento europeo e so di che cosa parlo. Non può funzionare, non può funzionare perché le sue basi sono un tentativo di creare gli Stati Uniti d’Europa. Questa è l’idea l’Europa che diventa un sistema federale, un governo federale come gli Stati Uniti. Questa idea non funziona, non può funzionare. Uno. Non siamo più nei tempi delle grandi federazioni. Due l’Europa è fatta di Stati che hanno, ma lavoro possono benissimo condividere spazi comuni, coordinarsi e così via, senza avere bisogno di un governo comune. Tanto è vero che gran parte delle politiche europee nei diversi Paesi sono le stesse. Non c’è bisogno di creare questo potere sovranazionale, questa burocrazia che poi può compiere degli errori terribili che è condizionabile molto di più che i governi dei singoli Paesi. Quindi proprio bisogna ripensare le basi del discorso dell’Europa. “

Marrucci: “Cioè, paradossalmente, per ritrovare un pochino di autonomia strategica europea bisognerebbe investire sulla sovranità degli Stati che non su una struttura sovranazionale.”

Arlacchi: “Noi abbiamo creato istituzioni assurde dal punto di vista europeo. La Corte europea dei diritti dell’uomo è l’esempio più scandaloso. Le sentenze di questa Corte non valgono la carta su cui sono scritte paesi europei hanno un sistema di garanzie dei diritti dei cittadini molto forte, che sono i più avanzati del mondo. Che bisogno c’era di creare che l’ha creata? Soros? È stato Soros che ha creato questa istituzione che è paradossale il 40% dei suoi membri non ha soldi, non sono giudici, non sono neanche avvocati. Sono ex attivisti di Soros che sono stati presentati dai vari paesi dell’Europa orientale dove lui è forte e sono arrivati alla Corte che fa delle sentenze abnormi molto spesso contro l’Italia.

Sempre contro la Russia e contro i più deboli del sistema. Quindi il vantaggio qual è stato? Nel mondo contiamo molto di meno di quanto contavano i singoli Stati europei. Questo ha detto Prodi interessa i singoli europei. Nel mentre il Medio Oriente sullo Scacchiere contavano quel poco che contavano molto di più 20 o 30 anni fa. E quanto contano adesso? Quindi nessun risultato politico, nessun risultato economico.”
Questa intervista è il primo di una serie di contenuti che vi proporremo nei prossimi giorni a partire dal lavoro che abbiamo svolto durante il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona che si è tenuto a Samarcanda gli scorsi 2 e 3 Novembre. È stata in assoluto la prima trasferta di OttolinaTV. Siamo convinti sia stata una scelta azzeccata e che speriamo soddisfi anche le vostre aspettative su quale dovrebbe essere il lavoro che deve svolgere un media che si propone di dare voce al 99% in questa complicata fase di transizione dell’ordine globale dall’unipolarismo USA al fantomatico nuovo ordine multipolare. Il forum infatti non era un meeting di forze antimperialiste. Il focus non era il multipolarismo per come vorremmo che fosse. Era il multipolarismo per come sarà, anzi, per come in buona parte già è a prescindere dalla nostra volontà. È il nuovo mondo che avanza, con tutte le sue opportunità, ma anche con tutte le sue contraddizioni. Per osservarlo e provare a capirlo, la vecchia propaganda suprematista dell’occidente collettivo serve a poco.
Serve un vero e proprio nuovo media, in grado di dare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)
E chi non aderisce è Maurizio Sambuca Molinari.

Come gli USA hanno distrutto l’Europa e sono tornati a crescere

“PIL USA al 4,9%, balzo di quasi tre punti nel terzo trimestre”.
Per tutti noi che tifiamo fare per accelerare il declino, quello della settimana scorsa è stato un vero e proprio black friday; i segnali che, nel terzo trimestre, l’economia americana stava marciando a passo spedito non mancavano, ma i dati consolidati vanno ben oltre ogni aspettativa. Ovviamente il 4,9% che viene citato è la crescita del terzo trimestre annualizzata, e cioè moltiplicata per 4. Gli USA non cresceranno del 5% nel 2023, e nemmeno del 4 e nemmeno del 3 ma, purtroppo, è inutile girarci tanto attorno: è un risultato impressionante, anche perché non è l’unico. Come ricordava venerdì Il Sole 24 Ore, infatti, a trainare la crescita sarebbero stati i consumi e, ciò nonostante, l’inflazione è rimasta sotto controllo: quella core, depurata cioè dalle voci più volatili come energia e alimentari, si sarebbe fermata al 2,4% mentre i consumi di beni sarebbero cresciuti addirittura del 4,8%. Gli americani spendono e spandono, ma l’inflazione resta sotto controllo; per Biden e la Bidenomics è un successo straordinario che però, stranamente, non è stato esaltato chissà quanto dalla propaganda nostrana.

Federico Rampini con Giorgio Napolitano

Anzi: Il Sole 24 Ore venerdì era uno dei pochi a parlarne e anche sul Foglio che, negli ultimi mesi, ci ha abituati ad assistere a una sfida continua a ogni senso del pudore propagandando fantomatici successi dell’occidente globale, anche quando la situazione non poteva oggettivamente andare peggio di così. Manco un trafiletto. Addirittura Rampini s’è trattenuto: come avevamo commentato in passato, ancora fa fatica a capire i dati economici. E’ ancora convinto che gli USA crescano come la Cina che comunque, va detto, è già un passo avanti; qualche settimana fa diceva che crescevano il doppio ma, a parte questo, il punto è che Rampini ovviamente brinda con entusiasmo alle performance dell’economia americana sì, ma anche lui in realtà senza troppo entusiasmo. “La nuova patologia dell’America” intitola infatti il suo corsivo “sempre più ricca, sempre più depressa e impaurita1.
C’è qualquadra che non cosa: perché tutti i pennivendoli italiani che, fino a ieri, facevano a gara a inventarsi successi che erano solo nelle loro fantasie perverse, ora che oggettivamente c’è un risultato concreto da festeggiare tirano inspiegabilmente il freno a mano?
Per onestà intellettuale è necessario fare una premessa: i dati che arrivano dall’economia USA sono decisamente migliori di quanto non ci aspettavamo e, per dirla tutta, anche di quanto non speravamo: +1,3% in soli 3 mesi, nonostante ancora a luglio la Fed avesse optato per un altro aumento dei tassi di interesse di 25 punti base e, dopo oltre un anno di rialzi che non si vedevano dai tempi del killer dell’economia Paul Volcker, sono oggettivamente tanta roba. E non è l’unico risultato. Anzi, anche sul fronte dell’inflazione sembra che tutto sia andato meglio delle previsioni: 2,4% per quella core contro poco meno del 4% nel trimestre precedente, e questo nonostante la crescita sia stata trainata dai consumi ma – soprattutto – nonostante le tensioni geopolitiche non abbiano fatto che peggiorare. Come abbiamo raccontato millemila volte – infatti – negli anni, se gli USA hanno potuto stampare moneta senza tregua senza che in casa scoppiasse mai una spirale inflattiva devastante, in buona parte era dovuto a due fattori: uno, i salari medi venivano tenuti bassi grazie alle ondate di immigrati sostanzialmente senza diritti da sfruttare a volontà e due, il costo delle merci era contenuto grazie alla globalizzazione neoliberista e quindi alla delocalizzazione della produzione in paesi più convenienti in giro per il mondo, a partire dalla Cina. Ora però i repubblicani hanno dichiarato guerra all’immigrazione e gli USA tutti – tra decoupling, make America great again e tensioni geopolitiche varie – l’hanno dichiarata alla globalizzazione. Quello che ti aspetti, come minimo, è che fino a che l’economia continua a crescere, e sopratutto se continua a crescere trainata dai consumi, anche l’inflazione continui ad aumentare; e invece rispetto ai tre mesi precedenti è diminuita di quasi due punti. Misteri della macroeconomia alla vigilia della nuova grande guerra. Biden ovviamente – e una volta tanto non senza ragioni – gongola: “Non ho mai creduto” ha commentato trionfante “che una recessione fosse necessaria per riportare sotto controllo l’inflazione, ed oggi ci troviamo di fronte a un’economia che continua a crescere, mentre l’inflazione scende”.
“La Bidenomics funziona” commenta Il Sole24 Ore che però, en passant, ricorda come stranamente i famosi mercati non è che abbiano reagito a questi dati trionfalistici con chissà quale entusiasmo. Anzi: il nasdaq ha chiuso la giornata di venerdì, quando sono usciti i dati, con un bel -1,7%, dopo che il giorno prima aveva lasciato sul campo un altro bel 2,4% e anche lo Standard & Poor 500 ha perso 1,2 punti percentuali. Sulla CNBC a invitare alla cautela ci pensa Jeffrey Roach, capo economista di LPL Financial Research: “Gli investitori” avrebbe affermato “non dovrebbero sorprendersi del fatto che i consumatori abbiano speso negli ultimi mesi dell’estate. La vera domanda è se il trend potrà continuare nei prossimi trimestri, e noi crediamo di no”2. Gli fa eco Michael Arone, capo investimenti strategici di State Street: “Guardando al futuro” avrebbe affermato “i consumatori non spenderanno allo stesso ritmo, il governo non spenderà allo stesso ritmo e anche le imprese prevediamo che rallenteranno la loro spesa. E questo” conclude “suggerisce che questo potrebbe essere il picco del PIL, almeno per i prossimi trimestri”.
Ma perché ostentare tutta questa cautela di fronte a dati così positivi proprio mentre è in corso una guerra di propaganda senza esclusione di colpi a chi c’ha il PIL più grosso? La lista dei motivi, in realtà, è abbastanza lunga. Partiamo dal fattore che più ha contribuito alla crescita: l’aumento dei consumi perché c’è un problemino (non tanto ino). Lo sottolinea in modo sintetico sempre Jeffrey Roach su Twitter: “I consumatori” scrive “stanno spendendo più di quanto non guadagnino. I consumatori” continua “hanno aumentato la loro spesa per 4 mesi di fila, mentre i redditi nello stesso periodo sono diminuiti”3. Come hanno fatto? Semplice, come sempre: hanno smesso di risparmiare e si sono indebitati. Come già segnalato a suo tempo dalla Fed, alla fine del secondo trimestre il livello dei debiti complessivi relativi alle carte di credito ha superato, per la prima volta nella storia degli USA, la soglia simbolica dei mille miliardi4 e poi sono continuate a crescere. E oggi il 51% – ripeto, il 51% – dei consumatori (la maggioranza assoluta) secondo un sondaggio condotto da JD Power afferma di non poter saldare l’intero debito e continua così a maturare interessi ogni mese che, nel frattempo, ha abbondantemente superato quota 100 miliardi5. Mercoledì scorso l’ufficio per la protezione finanziaria dei consumatori USA ha pubblicato un report che riporta questo grafico piuttosto inquietante:

ricostruisce il livello di indebitamento pro capite sui conti delle carte di credito. Se per passare da una media di poco superiore ai 4200 dollari ad oltre 5200 dollari – prima della pandemia – i consumatori statunitensi hanno impiegato oltre 6 anni, dopo la tregua della pandemia – resa possibile dai vari sussidi statali che hanno permesso di mettersi in pari con i debiti – per tornare ai vecchi livelli è bastato meno di un anno. Questo, molto banalmente, significa che il livello dei consumi negli USA che oggi permettono questa crescita sono, appunto, resi possibili esclusivamente da un sempre maggiore indebitamento; la differenza rispetto al passato, a questo giro, è che dopo due anni di corsa al rialzo dei tassi d’interesse da parte della FED gli interessi che si devono pagare su questi debiti fuori controllo sono più che raddoppiati e i risultati si vedono. Questa è la curva che descrive l’andamento del numero delle insolvenze:

il valore assoluto, che si sta rapidamente avvicinando al 3%, ancora non è particolarmente preoccupante ed è decisamente inferiore a quello registrato mano a mano che si avvicinava la grande recessione del 2008, ma la rapidità della crescita è impressionante e potrebbe essere solo l’antipasto. A breve, infatti, i cittadini statunitensi dovranno ricominciare a pagare i debiti studenteschi il cui rimborso era stato congelato durante la fase pandemica; una montagna di quattrini che è cresciuta a dismisura negli ultimi anni: nel 2008 pesavano per appena il 4% del PIL statunitense, ora sono sopra il 7%.
Ma i debiti dei consumatori non sono l’unica cosa che preoccupa. A spingere la crescita di questi mesi, infatti, è stata anche un’altra voce fondamentale: gli investimenti privati, che sono cresciuti addirittura dell’8,4%. E’ tutto merito dell’IRA, l’Inflation Reduction Act, che garantisce a chi investe generosissimi crediti d’imposta; un po’ come il nostro superbonus, significa che quello che oggi investi come privato domani ricadrà sui conti dello Stato, che non incasserà tasse per una percentuale consistente di quanto hai investito. Proprio come per il superbonus per l’Italia, anche l’IRA per gli USA ha garantito e sta garantendo una crescita importante ma, proprio come per il superbonus, quando domani arriverà il conto da pagare il bilancio potrebbe risultare un po’ meno entusiasmante del previsto. Ovviamente tra l’Italia sotto commissariamento e un paese sovrano come gli USA c’è una bella differenza: quando arriverà il conto da pagare, gli USA – infatti – che hanno ancora una banca centrale che serve le politiche del governo, in linea teorica non dovranno fare altro che stampare moneta e monetizzare il debito. Il punto, però, è che questo giochino non può andare avanti all’infinito e gli USA sembrano ormai aver superato da un po’ la soglia massima. Per capirlo, basta guardare questo grafico:

riporta la differenza tra gli attivi e i passivi finanziari USA in tutto il mondo. E’ la rappresentazione più esplicita possibile del declino USA: se ancora nel 2014 gli USA erano sotto di 5 mila miliardi ora sono sotto di 18, mille e cinquecento miliardi in più anche solo rispetto a 3 mesi fa. I debiti USA nei confronti del resto del mondo sono quadruplicati nell’arco di meno di 10 anni, rendendolo il paese più indebitato della storia dell’umanità. Cosa abbia reso tutto questo possibile ve lo abbiamo raccontato millemila volte: è il famoso “esorbitante privilegio” del dollaro, come lo definiva l’ex presidente francese Giscard d’Estaign, e che consiste nel fatto che io, centro dell’impero che stampo la valuta di riserva globale, posso fare i debiti che mi pare, tanto tu che per guadagnare i tuoi dollari ti devi spezzare la schiena e produrre cose concrete da esportare, alla fine poi sei costretto a comprarti il mio debito.
Negli ultimi 10 anni l’esplosione inarrestabile del debito USA e della sua necessità di rivogarlo in giro per il mondo ha causato non pochi mal di pancia, tanto che, ormai, la parola dedollarizzazione è all’ordine del giorno in qualsiasi assise che metta assieme più di un paese del sud globale, compresi quelli che fino a ieri erano considerati i maggiori sostenitori e complici della dittatura globale del dollaro, a partire dall’Arabia Saudita. Con questa nuova botta di crescita, tutta finanziata attraverso una quantità mostruosa di nuovo debito, i conflitti tra gli interessi del sud globale e il centro dell’impero non potranno che moltiplicarsi, e la spirale sembra non fare altro che auto-alimentarsi a dismisura perché più gli USA si indebitano, più ovviamente – per attirare la mole gigantesca di capitali di cui hanno bisogno – devono offrire interessi sempre crescenti, che hanno già raggiunto una dimensione tale da non poter essere ripagati e quindi si vanno a sommare al debito, che quindi richiede interessi ancora superiori, e quindi ancora più soldi che non si riescono a pagare e che si vanno di nuovo ad aggiungere al debito, e così via, all’infinito. Ma non solo: indebitandosi sempre di più ed essendo, così, sempre di più obbligati ad aumentare gli interessi per attirare i capitali, gli USA continuano anche a rafforzare la loro moneta che, dall’inizio dell’estate, è tornata a rafforzarsi contro ogni altra valuta, a partire dalle più forti: se a inizio estate per comprare un euro servivano infatti 1,12 dollari, ora ne bastano 1,05. Se a inizio estate per comprare una sterlina servivano 1,31 dollari, ora ne bastano 1,21. E se per comprare un dollaro a inizio estate servivano 140 yen, ora ne servono più di 150; prima del febbraio del 2022 ne bastavano 115. E così oltre alla crescita, che si basa sull’esplosione del debito, ecco che si spiega anche quel dato anomalo sull’inflazione USA che è rimasta sotto controllo.
E graziarcazzo: importano tutto e la loro valuta s’è rafforzata di poco meno del 10% nei confronti di quelle dei paesi dai quali importano, quindi sia a pagargli la crescita che a pagargli il contenimento dell’inflazione sono sempre gli altri. Quanto a lungo potrà andare avanti?
Beh, dipende. Se fanno affidamento sugli stati sovrani del sud globale probabilmente non moltissimo: nonostante gli interessi più che appetitosi, nell’arco di un anno – dall’agosto 2022 all’agosto 2023 – la Cina, ad esempio, si è sbarazzata di ben 133 miliardi di dollari di titoli di Stato USA, poco meno del 15%; l’Arabia Saudita s’è sbarazzata di 10 miliardi, circa l’8%. Anche la Svizzera ha cominciato a nicchiare: nell’arco di un anno ha diminuito il suo portafoglio di titoli USA appena di 7 miliardi, e cioè di poco più del 2%. Ma, a guardare più nel dettaglio, si nota che fino a giugno aveva in realtà continuato a comprarne di nuovi e poi, nell’arco di due mesi, ne ha rivenduti o non rinnovati per poco meno di 20 miliardi, cioè oltre il 6%. Chi caspita è allora che se li compra?
Ma è chiaro! Noi, e con noi non intendo tanto l’Italia che, da questo punto di vista, conta abbastanza pochino; con noi intendo in generale noi vassalli, e più sono vassalli più ne hanno comprati: la Corea del Sud, ad esempio, gli è andata un bel pezzo in culo ed è ferma alla quota di un anno fa; la Germania ha comprato nuovi titoli per circa 8 miliardi, ma la Gran Bretagna, ad esempio, ne ha comprati per oltre 50 miliardi – 30 miliardi solo nel mese di luglio; il Canada addirittura per 67 miliardi, segnando un bel 30% tondo tondo. Ma il caso più divertente è quello del Giappone, che è in assoluto il primo creditore degli USA al mondo: nell’estate del 2022 aveva cominciato a sbarazzarsi di un po’ di titoli USA. Parecchi: 130 miliardi nell’arco di appena un paio di mesi. Poi qualcuno gli deve aver fatto presente che se volevano le migliori armi USA per difendersi dal pericolo cinese forse era meglio se ci ripensavano, e da allora ha ricominciato a comprare al ritmo di una decina di miliardi al mese. Cioè, non so se è chiaro: mentre gli USA e i Rampini di tutto il mondo brindano per i successi della Bidenomics, i vassalli sono in recessione e con i soldi che hanno, invece di investirli per tornare a crescere, ci comprano il debito americano che gli americani usano per scaricare su di noi la loro inflazione, per portare avanti la loro agenda geopolitica contro i nostri interessi e anche per corrompere le aziende e spingerle a non investire più da noi e andare a investire negli USA quando – tra infrastrutture che crollano e mancanza di competenze – gli USA, in realtà, sono uno dei peggiori paesi al mondo per produrre.

Piccola galleria di svendipatria

Quindi quando chiediamo fino a quando potrà durare il giochino, la risposta è semplice: fino a quando noi popoli dei paesi vassalli degli USA accetteremo di farci governare da una classe dirigente di svendipatria che ci sta letteralmente togliendo i quattrini di tasca per finanziare l’impero USA, e non smetteremo di ascoltare la propaganda che ha deciso di ribattezzare questa vera e propria rapina “difesa della democrazia” e “valori condivisi”. Qui, di valore, c’è solo il frutto del nostro lavoro e una manica di parassiti ha deciso di regalarlo a qualcun altro.
Io – sarà perché sono pigro e già di per se il fatto di dover lavorare per campare non è una cosa che mi abbia mai esaltato più di tanto – ma molto sinceramente mi sarei anche abbondantemente rotto i coglioni. Per carità, non è che voglio decidere per voi: se a voi vi sta bene andare faticare per arricchire uno stato che, coi vostri soldi, ci compra le bombe anti-bunker con le quali sterminano i bambini a Gaza, siete liberissimi di farlo. Per tutti gli altri sarebbe il caso, come minimo, di dotarci di un media che abbia il pudore di non chiamare questa barzelletta “condivisione di valori”, ma appunto, una rapina.

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E chi non aderisce è Federico Rampini

1 https://www.corriere.it/oriente-occidente-federico-rampini/23_ottobre_26/nuova-patologia-america-ricca-depressa-f10b7a3e-7418-11ee-9f65-66f00d5f7a1b.shtml

2 https://www.cnbc.com/2023/10/26/us-gdp-grew-at-a-4point9percent-annual-pace-in-the-third-quarter-better-than-expected.html

3https://twitter.com/JeffreyJRoach/status/1717896854913114199

4https://edition.cnn.com/2023/08/08/economy/us-household-credit-card-debt/index.html

5https://www.jdpower.com/business/press-releases/2023-us-credit-card-satisfaction-study

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

G20: l’umiliazione dell’unilateralismo e il mondo parallelo dei pennivendoli

Il giornale: G20, ecco la via delle spezie. La regia USA fa fuori Pechino.

La Stampa: un rotta dall’India a Venezia, gli USA danno scacco alla Cina.

Repubblica: Biden e Modi isolano Xi, ecco il nuovo corridoio India – medio Oriente contro la via della seta.

I mezzi di produzione del consenso del partito unico della guerra e degli affari, non hanno dubbi: dopo gli incredibili successi della controffensiva Ucraina, e il definitivo crollo dell’economia cinese, al G20 il nord globale è tornato in grande stile a dettare l’agenda globale. Indiani e sauditi hanno ritrovato il lume della ragione, hanno scaricato le velleità del fantomatico nuovo ordine multipolare, e sono tornati ai vecchi costumi: elemosinare una qualche forma di riconoscimento dall’Occidente globale. I rapporti commerciali con la Cina ormai sono roba da boomer e l’aria fresca di rinascimento che spirava dalle petromonarchie ai tempi di Renzi è tornata a soffiare più forte e ora irradia tutta la sua energia fino al subcontinente indiano.

L’Italia è pronta a raccoglierne i frutti: basta Cina, il futuro parla sanscrito, e se usciamo dalla via della seta non è perché ce lo ha imposto Washington, ma perché guardiamo lontano, laddove lo sguardo di voi complottisti sul libro paga di Putin e Xi, non riuscite manco ad avventurarvi.

Ma siamo proprio proprio proprio sicuri che questa narrazione sia anche solo lontanamente realistica?

“C’è un’immagine che più di tutte testimonia quanto accaduto durante il g20 di Delhi”, scrive Stefano Piazza su La Verità, “il presidente americano joe biden sorridente, stringe la mano al principe ereditario saudita mohammed bin salman insieme al padrone di casa Modi”.

Non ha tutti i torti.

Quella effettivamente è un’immagine decisamente potente. Peccato che simboleggi in modo plateale esattamente il contrario di quello che la propaganda suprematista sta cercando affannosamente di di farci credere. È la prova provata che ormai l’ameriCane abbaia, ma quando poi prova a mordere si accorge che gli mancano i denti, e allora si mette a scodinzolare. Se c’è un Paese che negli ultimi due anni ha dimostrato in modo evidente che il bastone a stelle e strisce non fa più poi così tanto male, infatti, è proprio la petromonarchia saudita. Cinque anni fa, Biden aveva inaugurato la sua campagna elettorale definendo il principe ereditario Bin Salman addirittura un pariah. Ma negli anni successivi, i sauditi non hanno fatto assolutamente niente per compiacere il vecchio alleato, anzi…

Quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, nonostante tutti i corteggiamenti, i sauditi hanno evitato sistematicamente di emettere una qualunque parola di condanna.

Quando la Russia ha chiesto all’OPEC+ di tagliare la produzione per tenere alto il prezzo del greggio, i sauditi hanno subito appoggiato l’iniziativa. Biden ha provato a dissuaderli, chiamandoli direttamente al telefono. Non gli hanno manco risposto ed era solo l’antipasto. Grazie alla mediazione cinese, pur di affrancarsi dalle strumentalizzazioni USA, pochi mesi dopo i sauditi sono tornati addirittura ad aprire i canali diplomatici con l’arcinemico iraniano, mettendo così le basi per la fine della pluridecennale guerra per procura in medio Oriente che è sempre stato in assoluto il pilastro fondamentale della politica estera USA per tutta l’area ed oltre. Dopodichè i sauditi hanno finalmente preso atto del totale fallimento dell’intervento USA in Siria, e hanno accolto a braccia aperte il ritorno di Assad nella Lega Araba. Subito dopo hanno inferto un colpo micidiale ad un altro degli assi portanti dell’imperialismo USA: la dittatura globale del dollaro, nata e cresciuta grazie proprio all’adozione incondizionata dei sauditi della valuta a stelle e strisce come unica valuta internazionale, utilizzabile per la compravendita del petrolio. Per scolpire sulla pietra il fatto che questi epocali cambi di posizionamento non fossero solo capricci estemporanei, i sauditi hanno prima aderito alla Shanghai Cooperation Organization, e poi addirittura ai BRICS, addirittura fianco a fianco agli iraniani.

Fino a pochi anni fa, gli USA hanno raso al suolo interi paesi e sterminato centinaia di migliaia di civili a suon di bombe umanitarie per molto, molto meno. Dopo un anno e mezzo di schiaffi a due mani in Ucraina, eccoli invece qua, a stringere mani e a ostentare sorrisoni.

Che uno dice: chissà cos’hanno ottenuto in cambio. Una luccicante cippa di cazzo, ecco cos’hanno ottenuto. Meno di quello che avevano ottenuto a Bali.

La partita ovviamente era quella di strappare di nuovo un’accusa nei confronti della Russia per la guerra in Ucraina.

All’orizzonte”, scriveva Il Giornale Sabato, “il rischio concreto che per la prima volta nella storia di questo forum, nato nel 1999, non si riesca a trovare l’intesa per un comunicato condiviso da tutti i partecipanti”. Per qualche ora, questo è stato il tormentone; sono tutti uniti come un sol uomo nel condannare la Russia, ripeteva fino all’auto convincimento la propaganda, a parte Russia e Cina.

Il più spregiudicato nel raccattare l’ennesima figura di merda, come sempre, è l’infaticabile Mastrolilli su Repubblica: “approfittare delle assenze di Xi e Putin per isolarli allo scopo di contrastare, insieme, la sfida geopolitica epocale lanciata dalle autocrazie alle democrazie”

Gli articoli di Mastrolilli ormai assomigliano sempre di più ai testi prodotti dalle pagine tipo “generatore automatico di post di Fusaro”, o di previsioni di Fassino, che andavano di moda qualche anno fa. Ci infili dentro autocrazia, democrazia, Putin e Xi isolati, mescoli bene, ed ecco pronto l’articolo.

“Putin e Xi”, insiste Mastrolilli, “si sono coalizzati nel rifiutare il linguaggio di Bali. Europei e americani però”, notate bene, “non sono disposti a cedere, e il G20 rischia di chiudersi per la prima volta senza una dichiarazione finale”.

Ci prendessero mai, proprio almeno per la legge dei grandi numeri.

Alla fine infatti, come sapete, il comunicato congiunto in realtà è arrivato in tempi record. Al contrario delle previsioni di Mastrolilli, europei e americani non hanno dovuto semplicemente cedere, si sono proprio nascosti sotto al tavolo: nel comunicato finale non c’è nessun accenno alle responsabilità russe.

In realtà, c’era da aspettarselo; al contrario di Bali, a questo giro Modi di far fare a Zelensky il solito intervento da rock star non ne ha voluto sapere.

Zelensky, persona non grata. Come gli anatemi e i doppi standard del nord globale in declino.

I gattini obbedienti delle oligarchie Occidentali allora si sono messi all’affannosa ricerca di altri specchi sui quali arrampicarsi e l’attenzione non poteva che ricadere sull’unico aspetto che effettivamente suggeriva alcune difficoltà: la misteriosa assenza di Zio Xi.

E via giù di speculazioni acrobatiche. La prima l’avevano suggerita i giapponesi di Asian Nikkei, testata di grande spessore che noi seguiamo da decenni quotidianamente per le analisi economiche, ma che diciamo, ovviamente, non è esattamente del tutto imparziale quando si tratta di Cina.

Un lungo editoriale apparso giovedì scorso, suggeriva che la scelta di Xi di non presentarsi per la prima volta al G20 fosse dovuta a una guerra intestina al partito che vedrebbe i dirigenti più anziani sul piede di guerra contro il Presidente per le difficoltà economiche che il Paese starebbe attraversando. Ma, come ha sottolineato sabato mattina il nostro amico Fabio Massimo Parenti in diretta su La7, in quell’editoriale c’è qualcosa che non torna. L’articolo parla infatti di alcune fonti interne al partito, che ovviamente non è possibile verificare. Rimane però un dubbio: ma davvero ai massimi livelli del partito ci sono dirigenti così smaccatamente antipatriottici da andare a lavare i panni sporchi di casa direttamente nel lavello dell’arcinemico giapponese?

Per carità, tutto può essere. Ma diciamo che una cosa così palesemente antiintuitiva, per essere creduta, avrebbe per lo meno bisogno di qualche prova più tangibile, diciamo.

Macchè!

I nostri media se la sono bevuta tutta d’un sorso senza battere ciglio e il famoso “contesto mancante” a questo giro non li ha dissuasi.

Che strano…

Ma non è stata certo l’unica speculazione. Il fatto di per se, offriva un’occasione più che ghiotta per rilanciare il tormentone che ci aveva già sfrucugliato gli zebedei quando tutta la stampa era alla ricerca di narrazioni fantasy di ogni genere pur di sminuire la portata delle decisioni prese due settimane fa dai BRICS: l’insanabile divergenza tra i diversi paesi del sud globale, a partire da India e Cina.

Ci provano senza sosta da decenni. Prima erano le divergenze tra Cina e Vietnam, poi tra Cina e Russia, poi tra India e Cina. Intendiamoci, le divergenze ci sono eccome e lo ricordiamo sempre: è abbastanza inevitabile quando si ha a che fare con Paesi sovrani. Ognuno è guidato fondamentalmente dal suo interesse, e gli interessi diversi spesso e volentieri entrano in conflitto. Quando non succede è semplicemente perché uno impone i suoi interessi su tutti gli altri, come accade ad esempio nell’ambito del G7, dove Washington detta la linea e gli altri possono accompagnare solo, rimettendoci di tasca loro. Quello che, proprio a chi è abituato a fare da zerbino, non vuole entrare nella capoccia, è che la necessità storica di un nuovo ordine multipolare in realtà si fonda proprio su questo: Paesi sovrani con loro interessi nazionali spesso divergenti, intenti a costruire strutture multilaterali all’interno delle quali trovare dei compromessi attraverso il confronto e il dialogo tra pari. Rimane comunque il fatto che Xi al G20 non ci è andato e non è una cosa che può essere derubricata con due battutine.

Purtroppo però qui entriamo nell’ambito delle pure speculazioni. In questi giorni la redazione allargata di OttolinaTV su questo punto s’è sbizzarrita. Alla fine le interpretazioni un po’ più solide emerse sono sostanzialmente due:

La prima effettivamente ha a che vedere con i rapporti con l’India. Come scriveva giovedì scorso il Global Times, il nord globale guidato da Washington “ha cercato di provocare conflitti tra Cina e India usando la presidenza indiana per inasprire la competizione tra il dragone e l’elefante”.

“Gli Stati Uniti e l’Occidente”, continua l’articolo, “hanno mostrato un atteggiamento compiaciuto nei confronti di alcune divergenze geopolitiche, comprese quelle tra Cina e India. Vogliono vedere divisioni più profonde e persino scontri”. Ma proprio come la Cina, anche “Nuova Delhi ha ripetutamente affermato che il forum non è un luogo di competizione geopolitica” e quindi da questo punto di vista l’assenza di Xi sarebbe stata funzionale a impedire agli occidentali di strumentalizzare queste divergenze, e permettere al G20 di ottenere qualche piccolo progresso sul piano che dovrebbe essere di sua competenza: la cooperazione economica, in particolare a favore dei Paesi più disastrati. Da questo punto di vista il piano effettivamente sembra essere riuscito: il comunicato finale sottolinea esplicitamente che il G20 non è il luogo dove affrontare e risolvere le tensioni geopolitiche.

Ma non solo…

Per quanto simbolici, i paesi del sud globale al g20 hanno portato a casa impegni ufficiali verso una riforma della banca mondiale a favore dei Paesi più arretrati e anche l’annuncio dell’ingresso ufficiale nel summit dell’unione africana. Tutti obiettivi che Delhi e Pechino condividono da sempre.

La seconda motivazione invece ha a che vedere col rapporto tra Cina e USA. Durante il G20 di Bali, la stretta di mano tra Biden e Xi aveva fatto parlare dell’avvio di una nuova distensione tra le due superpotenze. Nei mesi successivi però, a partire da quella gigantesca buffonata dell’incidente del pallone spia cinese e della cancellazione del viaggio di Blinken a Pechino che ne era seguita, le cose non hanno fatto che complicarsi. Da allora gli USA hanno provato ad aggiustare un po’ il tiro, gettando acqua sul fuoco della retorica del decoupling. Ma mentre i toni si facevano a tratti meno aggressivi, i fatti continuavano ad andare ostinati in tutt’altra direzione, a partire dalla guerra sui chip, per finire col recente divieto USA a investire in Cina in tutto quello che è frontiera tecnologica, dall’intelligenza artificiale al quantum computing. La Cina quindi, pur continuando a sfruttare ogni possibilità di dialogo, ha continuato a denunciare la discrepanza tra parole e fatti

da questo punto di vista, quindi, l’assenza di Xi a Delhi sarebbe un segnale diretto a Biden: caro Joe, co ste strette di mano a una certa c’avresti pure rotto li cojoni. Basta manfrine fino a che alle parole non farete seguire qualche fatto concreto. Volendo, con anche un avvertimento in più: per parlare con il resto del sud globale, non abbiamo più bisogno necessariamente di una piattaforma come quella del G20: Shanghai Cooperation Organization e BRICS+++ ormai sono alternative più che dignitose. A voi la scelta ora: se continuare ad avere un luogo dove discutere con il sud globale, oppure condannare il G20 all’irrilevanza.

Finite le nostre speculazioni, torniamo a quelle degli altri.

Come con la controffensiva ucraina, che andando come sta andando, costringe gli hooligan della propaganda a trasformare in vittorie epiche la conquista di qualsiasi gruppetto di case di campagna al prezzo di decine se non centinaia di vite umane e centinaia di milioni di attrezzatura militare, idem al G20, visti gli scarsi risultati, i propagandieri si sono sforzati in modo veramente ammirevole per provare ad arraparsi di fronte a un vero e proprio monumento alla fuffa.

“Ecco il nuovo corridoio india-medio oriente contro la via della seta”, titolava su repubblichina il solito Daniele Raineri, tra un articolo su qualche mirabolante vittoria ucraina e l’altro. Il progetto è così alternativo alla via della seta cinese, che approda nel pireo, che è dei cinesi. Di nuovo in sostanza ci sarebbe l’estensione della rete ferroviaria in Arabia.

A chiacchiere! A fatti, per ora, l’unico tratto ferroviario di una certa rilevanza in Arabia è quello lungo i 450 km che sperano Mecca e Medina. Un’opera monumentale, costruita dai cinesi.

E i cinesi infatti se la ridono.

Intanto, perché non capiscono bene in che modo questo fantomatico progetto andrebbe contro ai loro interessi. Come ha sottolineato il Global Times: “Per i paesi del Medio Oriente che parteciperanno all’iniziativa ferroviaria guidata dagli Stati Uniti, non vi è alcuna preoccupazione che i loro legami con la Cina si indeboliscano proprio a causa dell’accordo”.

Anzi: “la Cina ha sempre affermato che non esistono iniziative diverse che si contrastano o si sostituiscono a vicenda. Il mondo ha bisogno di più ponti da costruire anziché da abbattere, di più connettività anziché di disaccoppiamento o di costruzione di recinzioni, e di vantaggi reciproci anziché di isolamento ed esclusione”

Piuttosto, sottolineano i cinesi, il punto è che questi proclami andrebbero presi un po’ con le pinze.

“Non è la prima volta che gli Stati Uniti sono coinvolti in uno scenario “tante chiacchiere, pochi fatti””, ricorda sarcasticamente l’articolo, che insiste: “Durante l’amministrazione Obama, l’allora segretario di stato americano Hillary Clinton annunciò che gli Stati Uniti avrebbero sponsorizzato una “Nuova Via della Seta” che sarebbe uscita dall’Afghanistan per collegare meglio il paese con i suoi vicini e aumentare il suo potenziale economico, ma l’iniziativa non si è mai concretizzata”.

“Da un punto di vista tecnico”, continua perculando l’articolo, “la decisione degli Stati Uniti di concentrarsi sulle infrastrutture di trasporto, un’area in cui mancano competenze, nel tentativo di salvare la loro influenza in declino nella regione, suggerisce che il piano tanto pubblicizzato difficilmente raggiungerà i risultati desiderati”.

Ma non c’è livello di fuffa che possa distogliere i pennivendoli di provincia italiani dal prestarsi a qualsiasi operazione di marketing imposta dal padrone a stelle e strisce

magari, aggiungendoci anche del loro. Perché in ballo al G20 c’era un’altra questione spinosa, l’addio dell’Italia alla via della seta, ancor prima di aver fatto alcunché per entrarci davvero, al di là delle chiacchiere.

Ma non temete, come scrive Libero, infatti, “Giorgia sa di avere un’altra chance. si chiama India”.

“Il commercio tra India e Italia”, avrebbe dichiarato con entusiasmo la Meloni, “ha raggiunto il record di 15 miliardi di euro. Ma siamo convinti di poter fare di più”. D’altronde, che ce fai con la Cina quando c’è l’India. Un Paese, che, come scrive il corriere della serva “per popolazione ed economia ha superato la cina”.

Non è uno scherzo, è una citazione testuale. Secondo il Corriere, l’India ha superato economicamente la Cina. Deve essere successo dopo che, come scriveva Rampini, l’altro giorno, gli usa hanno cominciato a crescere il doppio della Cina.

Quanto cazzo deve essere bello di mestiere fare il giornalista ed essere pagato per dire ste puttanate.

Ovviamente, come credo sappiate tutti voi che piuttosto che lavorare al corriere della serva preferireste morire di fame accasciati per terra a qualche angolo di strada, l’economia cinese è più di cinque volte quella indiana, e l’India ogni anno spende in importazioni meno di un quinto della Cina.

Ma non solo…

L’Italia, in India, quel che è possibile esportare in quel piccolo mercato lo esporta già. Nel 2022 abbiamo esportato beni e servizi per 5,4 miliardi. Più dell’Olanda che è ferma a 3,5 e poco meno della Francia, che è a quota 6,5. Insomma, in linea con le nostre quote di export

Discorso che invece non vale per la Cina dove l’Italia esporta per 18 miliardi, la Francia per 25, il Regno Unito per 35 e la Germania per 113 miliardi. Cioè, il nostro export totale è inferiore del 25% rispetto a quello inglese e francese, ma in Cina esportano rispettivamente i 50 e il 100% in più. Ancora peggio il confronto con la Germania: l’export tedesco è circa 2 volte e mezzo quello italiano, ma in Cina esportano 7 volte più di noi. Quando saggiamente avevamo deciso di essere l’unico paese del G7 che avrebbe aderito al memorandum della belt and road, era per recuperare questo gap. Dopo la firma non abbiamo mosso un dito, e ora rinunciamo a una crescita potenziale di svariate decine di miliardi di export, e ci raccontiamo pure che li sostituiremo con i 2 o 3 miliardi in più che potremmo guadagnare dall’India.

Ora, io non ti dico di finanziare un vero think tank indipendente coi controcazzi invece di affidarti a quelli a stelle e strisce e in Italia dare i soldi a Nathalie Tocci per trasformare l’istituto affari internazionale nel milionesimo ufficio stampa di Washington e delle sue oligarchie finanziarie.

Ma almeno i soldi per una cazzo di calcolatrice trovateli! Se volete, famo una colletta noi su gofundme.

E sia chiaro, io lo dico da grande amante dell’India, da tempi non sospetti. Quando ho cominciato a fare il giornalista a fine anni ‘90, il mio obiettivo era raccontare l’ascesa del peso Internazionale di questo incredibile paese continente. Non è andata benissimo, e ogni fallimento dell’india in questi 30 anni per me è stata una pugnalata al cuore, a prescindere da chi ci fosse al governo. Modi compreso.

Ora non mi posso che augurare che di fronte a questi teatrini imbarazzanti che offre continuamente l’Occidente, Modi sia abbastanza lucido da capire che gli attriti con la Cina, che sono legittimi e anche normali, non possono certo distoglierlo dal perseguire il vero interesse del suo disastrato Paese, che potrà crescere davvero se e solo se il sud globale riesce finalmente a mettere fine all’ordine unipolare della globalizzazione neoliberista guidata da Washington.

Per parlare del mondo nuovo che avanza, senza i paraocchi della vecchia propaganda vi aspettiamo sabato 16 settembre all’hotel terme di Fiuggi con Fulvio Scaglione, Marina Calculli, Elia Morelli, Alessandro Ricci e l’inossidabile generale Fabio Mini.

È solo uno dei dodici panel messi in fila dagli amici dell’associazione Idee Sottosopra per questo fondamentale week end di studio e di approfondimento, per costruire insieme un’alternativa credibile e non minoritaria alla dittatura del pensiero unico del partito degli affari e della guerra.

Per chi vuole maggiori informazioni, trovate il link nei commenti.

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Fonti:

Editoriale del Global Times: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297861.shtml

Il piano ferroviario USA in Medio Oriente: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Il Premier Li chiede solidarietà e cooperazione al G20: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Articolo “Il Giornale”: https://www.ilgiornale.it/news/politica/g20-ecco-delle-spezie-india-emirati-arabia-europa-regia-usa-2208113.html

Articolo “la Repubblica”: https://www.repubblica.it/esteri/2023/09/08/news/ferrovia_arabia_india_cina_via_della_seta-413788548/

“Cambieremo le regole del gioco”: Il G77 e la rivolta del Sud Globale contro il neocolonialismo

Fermi un attimo, fermi un attimo perchè qui veramente siamo di fronte a un capolavoro da manuale della propaganda suprematista occidentale.

Venerdi scorso all’Havana si è tenuta una piccola riunioncina, na cosa ‘e niente, proprio.

Appena centotrentaquattro Paesi, che rappresentano l’80% della popolazione mondiale e che all’unisono hanno detto una cosuccia che forse non è proprio esattamente irrilevante: il vecchio ordine globale è morto, finito.

È arrivato il momento di Cambiare alla Radice le Regole del Gioco, e porre fine una volta per tutte a secoli e secoli di dominio attraverso la violenza e lo sfruttamento economico da parte di una piccola minoranza su tutto il resto del pianeta.

Ripeto. raissumendo: l’80% della popolazione mondiale si è riunita e ha detto all’unanimità che l’occidente ha rotto il cazzo.

A me sembra una notizia che dovrebbe occupare paginate su paginate nei quotidiani, e ore e ore di palinsesto e invece…

Ora, quello che mi chiedo è: quanto a lungo permetteremo ancora alla propaganda suprematista di sfrucugliarci le gonadi con la descrizione di un mondo vecchio che ormai esiste soltanto nelle fantasie psichedeliche di un esercito di pennivendoli analfoliberali? 

Non è certo la prima volta che l’eroica Repubblica rivoluzionaria cubana ottiene un clamoroso successo diplomatico. Nonostante le innumerevoli e impacciate operazioni propagandistiche della propaganda suprematista di ogni colore politico come la gigantesca merda che pestò il sempre pessimo Roberto Saviano un paio di anni fa.

Non so se vi ricordate. Stremate dalle conseguenze dell’utilizzo politico che gli USA stavano facendo della crisi pandemica per infliggere un’altra mazzata alla popolazione cubana, vi furono alcune mobilitazioni contro il Governo rivoluzionario. Sempre tutte cose ultraminoritarie, che il sostegno popolare alla rivoluzione cubana, nonostante le gigantesche difficoltà economiche dovute all’embargo illegale da parte dell’imperialismo USA, rimane quasi unanime.

Ma evidentemente, abbastanza per far arrapare il suprematismo analfoliberale, che è convinto che a Cuba non ambiscano ad altro che poter leggere liberamente la repubblichina e a eleggere presidente Lia Quartapelle. Tra loro, appunto, il nostro Robertino:

“Cuba finalmente insorge contro la dittatura del partito comunista cubano”, avevo twittato. “Cuba merita democrazia e la conquisterà”. D’altronde, è un’affermazione coerente col Saviano pensiero: uno che decanta le lodi e definisce democrazia il regime di apartheid di Tel Aviv, non può che coerentemente spregiare l’eroica resistenza popolare antimperialista del popolo cubano.

Basta però, per lo meno, che si scelga i testimonial giusti. Nel tweet di Saviano infatti c’era allegata anche questa foto

secondo Saviano, un’icona della rivolta democratica e filooccidentale contro il regime.

Insomma…

La persona ritratta nella foto infatti si chaima Betty Pairol Quesada e come la stragrande maggioranza dei suoi concittadini, è una sostenitrice accanita del Governo rivoluzionario cubano, e quando è stata scattata questa foto, stava partecipando a una manifestazione contro El Bloqueo, contro l’embargo illegale imposto a Cuba dalle potenze democratiche che tanto piacciono a Saviano.

La nostra Betty s’è accorta della cosa, e ha diffidato i suprematisti analfoliberali alla Saviano dall’utilizzare la sua immagine per legittimare le proteste di quelle che lei definisce apertamente “delinquenti e vandali”.

Saviano, senza scusarsi, ha sconigliato quatto quatto e ha rimosso l’immagine. Due anni dopo, il suo account twitter è sempre attivissimo e seguitissimo, ed è l’ennesimo importante strumento della peggiore propaganda woke imperiale. Quello della povera Betty invece appare temporaneamente limitato.

Non fosse mai che si azzardasse a far fare qualche altra colossale figura di merda a qualche propagandista.

Nonostante la potenza di fuoco della propaganda suprematista comunque, Cuba non è nuova ai successi diplomatici. Negli ultimi trenta anni ogni anno l’assemblea generale delle Nazioni Unite mette ai voti una mozione per chiedere agli USA la fine dell’embargo. La prima volta fu il 1992, e votarono a favore in appena 59. Anno dopo anno quei voti sono progressivamente sempre aumentati, e da una quindicina di anni abbondanti ad approvare la mozione è sempre invariabilmente sostanzialmente la totalità dei 193 Paesi rappresentati alle nazioni unite. A votare contro infatti sono sempre e solo in due: Stati Uniti e Israele, i due stati canaglia della comunità Internazionale. A loro si affiancano sempre due o tre Paesi che optano per l’astensione. Prima erano gli Stati fantoccio insulari del Pacifico, come Palau e le Isole Marshall. Poi si sono rotti il cazzo pure loro, ma sono stati sostituiti per un periodo dal Brasile del presidente fascioterrapiattista Jair Bolsonaro e da un paio di anni dall’Ucraina, che vale la pena sottolineare, visto che la propaganda suprematista Occidentale parla sempre del presunto isolamento di Putin: l’Ucraina all’ONU vota da sola con altri 3 paesi contro tutto il resto del mondo. Dal punto di vista dell’autonomia geopolitica, l’Ucraina appunto, è come erano Palau e le Isole Marshall una decina di anni fa. Questa volta però Cuba è andata oltre, perchè a questo giro non si trattava semplicemente di votare contro un embargo palesemente criminale e illegale. Questa volta si trattava di andare all’Havana, e non solo dimostrare simbolicamente la propria doverosa solidarietà nei confronti della rivoluzione castrista, ma di sedere al fianco di Cuba in un’organizzazione multilaterale che, proprio a partire dall’appello di ormai una ventina di anni fa di Fidel Castro in persona, ha deciso di marciare unita per porre fine al dominio del nord globale.

“Una vittoria diplomatica contro il bloqueo”, la definisce senza mezzi termini People dispatch, che sottolinea come la storica riunione dell’Havana si sia tenuta giusto pochi giorni dopo la proroga di un altro anno da parte della democratica amministrazione Biden non solo dell’embargo criminale che è in piedi da oltre sessant’anni, ma anche dell’ulteriore ondata di sanzioni aggiuntive introdotte dall’amministrazione ultrareazionaria ed esplicitamente suprematista di Donald Trump.

Ma lo straordinario successo diplomatico di Cuba è soltanto un pezzetto della storia.

Per capirne il resto, non rimane che leggere attentamente i 47 punti della dichiarazione finale sottoscritta all’unanimità da tutti i paesi partecipanti. Il primo fondamentale punto è la richiesta di democratizzazione delle Nazioni Unite come istituzione. Ma attenzione, non contro lo spirito della carta delle Nazioni Unite e del diritto Internazionale, ma proprio nell’ottica di una loro reale attuazione.

“Riaffermiamo il pieno rispetto degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, sottolineano esplicitamente nel comunicato. Chi non li rispetta, evidentemente, sono le Nazioni Unite stesse, per come sono oggi. L’assemblea generale infatti non ha nessun potere reale che è tutto esclusivamente nelle mani del consiglio di sicurezza, che però è di un’altra epoca. Appena cinque potenze, o meglio tre. Tra i cinque infatti ci sono Gran Bretagna e Francia, che ormai sono piccole potenze subregionali a sovranità limitata, e completamente allineati agli USA. In pratica, quindi, il consiglio di sicurezza è composto da tre paesi, con uno che conta più degli altri due messi assieme. Che nel 2023 non vengano rappresentati in nessun modo l’Africa, l’America Latina, il sud ed il sud est asiatico è una cosa semplicemente ridicola e da sabato è chiaro che gli unici che tentano di ostacolare quello che è evidentemente ineluttabile, sono i rappresentanti di quel 20% scarso della popolazione globale che continuano a vivere in una bolla anacronistica tutta loro.

Il continuo richiamo da parte di tutte le organizzazioni multilaterali del sud globale alla riaffermazione dello spirito della carta delle Nazioni Unite ricorda molto da vicino il continuo richiamo delle forze popolari dell’Europa occidentale alle carte Costituzionali emanate dopo la seconda guerra mondiale.

D’altronde, sono i due lati della stessa medaglia. Le carte Costituzionali nazionali e la carta delle Nazioni Unite, nascono nel momento di massima affermazione della democrazia moderna, ed hanno lo stesso identico impianto concettuale. Cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista le hanno trasformate entrambe in lettera morta. Compito delle forze realmente democratiche è riaffermarne lo spirito sia a livello dei singoli Paesi, sia su scala internazionale. Questa rivendicazione assume un significato ancora più urgente proprio oggi, mentre a New York si scaldano i motori per il principale evento annuale nell’agenda delle Nazioni Unite: l’assemblea generale che avrà inizio tra poche ore e dove sarà difficile riuscire a ottenere qualche risposta concreta: dei cinque Paesi del consiglio di sicurezza, soltanto i padroni di casa, gli USA, hanno garantito la partecipazione del presidente, che è anche il principale bersaglio delle critiche del G77.

“Rigettiamo tutti i tipi di misure economiche coercitive”, si legge nella dichiarazione dell’Havana, “a partire dalla sanzioni unilaterali contro i paesi in via di sviluppo, per le quali chiediamo l’eliminazione immediata”.

Come dimostra in modo evidente questo grafico,

il ricorso allo strumento illegale dal punto di vista del diritto internazionale delle sanzioni economiche unilaterali negli ultimi anni è diventata una vera e propria barzelletta. Sostanzialmente ormai è sufficente non essere completamente allineati agli obiettivi strategici di Washington per vedersi applicare una qualche forma di sanzione, alla quale poi il resto del mondo è costretto ad adeguarsi. Se fino a qualche anno fa si cercava per lo meno di confondere un po’ le acque, tirando in ballo qualche fantomatica violazione dei diritti umani che vale sempre e solo per gli altri, ma che almeno fa dormire tranquilli i fintoprogressisti suprematisti delle ztl di tutto il nord globale, con l’acuirsi del conflitto tecnologico con la Cina ormai il Re è completamente nudo, e le sanzioni vengono utilizzate sistematicamente anche solo per ostacolare lo sviluppo economico altrui. Ed è proprio il contrasto a questo utilizzo arbitrario dello strumento delle sanzioni per impedire l’autonomia tecnologica della Cina e di tutto il sud globale, a nostro avviso, a rappresentare l’aspetto più importante della risoluzione dell’Havana.

I paesi del g77, schierandosi apertamente con la Cina nella guerra tecnologica a forza di sanzioni con l’impero USA, affermano infatti di rifiutare categoricamente “i monopoli tecnologici e altre pratiche sleali che ostacolano lo sviluppo tecnologico dei paesi in via di sviluppo. Gli Stati che detengono il monopolio e il dominio nell’ambiente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione non dovrebbero utilizzare i progressi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione come strumenti per contenere e reprimere il legittimo sviluppo economico e tecnologico di altri Stati”

È la critica fondamentale al cuore pulsante del neocolonialismo. Durante la fase coloniale infatti i paesi del nord globale, e cioè i difensori della democrazia di sto cazzo riuniti oggi nel g7, hanno accumulato un vantaggio tecnologico enorme sul resto del pianeta attraverso il semplice esercizio della forza bruta. Quando il dislivello è diventato sufficentemente ampio, dalle politiche coloniali, che comunque comportavano anche una lunga serie di costi e di disagi, sono passati a quelle neocoloniali che consistono semplicemente nello sfruttare questo gap per impedire strutturalmente al sud globale di recuperare terreno. Fino a che il sud globale è totalmente dipendente tecnologicamente dai Paesi ricchi, si può anche far finta di essere per il libero mercato, che non fa che aumentare il vantaggio di partenza dei paesi più sviluppati. Con loro grande disappunto però c’è chi non è fatto infinocchiare, e quando ha messo a disposizione dei capitali stranieri la forza del suo stato, la manodopera a basso costo della sua popolazione e anche la salubrità del suo ambiente naturale, ha chiesto però una cosa in cambio: il trasferimento di tecnologia.

È esattamente quello che ha fatto la Cina. Col tempo, grazie a questo trasferimento iniziale di tecnologia, la Cina è stata in grado di ridurre il gap con l’Occidente, e quindi di guadagnare la sua indipendenza, che è esattamente quello che adesso chiedono di fare tutti i Paesi del sud globale, mutuando completamente da questo punto di vista il modello di sviluppo del dragone. Contro questa prospettiva, ecco allora che per il nord globale diventa prioritario ostacolare con ogni mezzo necessario la capacità del sud del mondo di emanciparsi tecnologicamente dai paesi più avanzati, anche a costo nell’immediato di rimetterci economicamente. Un po’ come succede anche con l’austerity: la priorità è mantenere i rapporti gerarchici di forza tra capitale e lavoro, e per riaffermare il dominio del capitale sul lavoro la stagnazione economica, se non addirittura la recessione, sono un costo che vale la pena affrontare. Per ostacolare l’autonomia tecnologica del sud globale, gli USA e i suoi vassalli non si limitano a introdurre sanzioni unilaterali contro la Cina, che è il competitor diretto, ma tentano di impedire a tutti gli altri di usufruire degli sviluppi tecnologici che la CIna ha già conseguito.

La gigantesca e ipercompetitiva capacità produttiva cinese infatti sta permettendo anche ai Paesi più poveri di cominciare a intraprendere la strada dello sviluppo tecnologico, ad esempio attraverso la infrastrutture di rete di Huawei.

Le sanzioni contro Huawei quindi hanno una doppia valenza: ostacolare il superamento della Cina come produttore di tecnologia da un lato e ostacolare i primi passi del resto del sud globale come acquirenti di tecnologia cinese. Una strategia che però forse non sta funzionando alla perfezione. Huawei ha continuato a sviluppare tecnologia autoctona colmando sempre più gap, prima con lo sviluppo di infrastrutture 5g e l’implementazione a livello industriale dell’intelligenza artificiale su una scala che l’Occidente manco si sogna, e ultimamente anche con i microchip. Dall’altro lato, l’atteggiamento punitivo e predatorio del nord globale non ha fatto che saldare ulteriormente l’alleanza tra la Cina e il resto del sud globale. La risoluzione dell’Havana è proprio il risultato di questo completo allineamento tra gli interessi di Paesi che nella realtà hanno livelli di sviluppo molto diversi tra loro.

“Ai paesi in via di sviluppo”, si legge infatti chiaramente nella risoluzione, “non dovrebbero essere imposte restrizioni all’accesso ai materiali, alle attrezzature e alla tecnologia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione al fine di mantenere uno sviluppo sostenibile”

Da questo punto di vista, il g77 dell’havana oltre ad essere un piccolo capolavoro diplomatico della Repubblica rivoluzionaria cubana, è un ulteriore capolavoro anche della diplomazia cinese, ed è anche una piccola speranza per la pace. Ultimamente, infatti, parlando della creazione di un nuovo ordine realmente multipolare, abbiamo posto l’accento sulla dedollarizzazione. Eppure di dollaro nella risoluzione non si parla. Si parla di riforma dell’architettura finanziaria e di democratizzazione delle istituzioni finanziarie globali, ma c’è una bella differenza. La democratizzazione delle istituzioni finanziarie, come la banca mondiale e il fondo monetario internazionale infatti, si riferiscono semplicemente a una maggiore rappresentanza del sud globale e a un uso meno predatorio dei finanziamenti allo sviluppo, che fino ad oggi sono stati utilizzati per imporre l’agenda della globalizzazione neoliberista in lungo e in largo. Ma a differenza della dedollarizzazione, queste riforme non rappresentano una minaccia esistenziale immediata per gli USA. La fine del dollaro come valuta di riserva globale infatti significa di per se la fine dell’imperialismo finanziario USA per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni, che si fonda proprio sulla necessità da parte dei paesi esportatori di accumulare dollari come riserve, sotto forma di titoli di stato USA. Sostanzialmente obbliga tutto il Mondo che produce, a finanziare il debito crescente e anche le bolle speculative che sole giustificano questo livello di ricchezza in un Paese che ormai sostanzialmente produce poco o niente. Da questo punto di vista l’egemonia del dollaro per gli USA rappresenta una redline invalicabile, e la minaccia di un suo declino non può che spingere gli USA verso il conflitto, a prescindere da quali siano le possibili conseguenze, con buona pace del pacifismo più moralista e naif.

La riforma graduale delle istituzioni finanziarie multilaterali invece, ovviamente comporta un ulteriore spinta al graduale declino dell’egemonia USA, ma non una minaccia esistenziale. Aver spostato in questa fase il focus della rivolta del sud globale contro il vecchio ordine unipolare dalla dedollarizzazione alla guerra tecnologica, rappresenta quindi un importante gesto distensivo. La Cina e il sud globale sono convinti in questa fase di poter continuare a colmare il gap con il mondo sviluppato anche nell’ambito di un’architettura finanziaria globale ancora incentrata sul dollaro, proprio come d’altronde la Cina ha già fatto negli ultimi trent’anni, a patto però di rimuovere gli ostacoli introdotti per impedire il loro ulteriore sviluppo tecnologico. Il processo della dedollarizzazione è inarrestabile e nel frattempo proseguirà, ma il suo ritmo dipenderà anche molto dalle prossime mosse statunitensi: se continueranno ad utilizzare le sanzioni contro chiunque in modo sistematico, il processo si velocizzerà, se invece faranno un bagno di realtà e realizzeranno di non avere più il coltello dalla parte del manico, il processo potrebbe proseguire anche molto lentamente.

Da questo punto di vista, la risoluzione dell’Havana e il rafforzamento di un organo come quello del g77 non rappresentano soltanto una presa di coscienza della forza che il sud globale se davvero unito può avere e dei diritti che può rivendicare, ma anche la speranza, per quanto flebile, che questa unità possa allontanare lo spettro di una guerra totale che continua a sembrare allo stesso tempo tanto inconcepibile, quanto ineluttabile. Che questa dialettica fondamentale per il destino stesso dell’umanità non trovi minimamente spazio nel nostro ecosistema mediatico, a me non sapete quanto mi fa girare il cazzo!

Allo stesso tempo però mi fa anche credere che quello che stiamo provando a fare non è solo utile, ma necessario anche se, ovviamente, del tutto insufficiente.

Contro la putrescenza dei vecchi media, per raccontare il nuovo mondo che avanza, mai come adesso abbiamo bisogno di un nuovo media che stia dalla parte della pace e del 99%

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Fonti:

Discorso del Presidente Cubano Díaz-Canel alla sessione inaugurale del G77+Cina: https://www.presidencia.gob.cu/es/presidencia/intervenciones/discurso-pronunciado-por-el-presidente-de-la-republica-en-la-sesion-inaugural-del-grupo-de-los-77-y-china/?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it

Relazione finale del G77+Cina: https://cubaminrex.cu/en/declaration-summit-heads-state-and-government-group-77-and-china-current-development-challenges

Tweet Roberto Saviano e Betty Pairol Quesada: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/cuba-cosi-saviano-ha-diffuso-una-clamorosa-fake-news-201809/?noamp=mobile

Grafico delle sanzioni: http://www.globalsanctionsdatabase.com/