Fine del dollaro: il summit BRICS+ di Kazan è stato un fallimento totale?
Dopo 3 giorni di ottimismo è arrivata, inesorabile, l’ora della delusione: il summit dei BRICS+ di Kazan ha rappresentato oggettivamente, da tanti punti di vista, un’occasione straordinaria per dimostrare in modo plateale che il mondo è molto più complesso e articolato della rappresentazione da bimbiminkia che ne fa la propaganda mainstream; e che l’era dove bastava che un analfoliberale qualsiasi puntasse il dito contro un avversario a caso sullo scacchiere globale per decretarne l’isolamento e la disfatta è ormai passata per sempre: Putin ha avuto l’occasione di dimostrare che la famosa comunità internazionale va ben oltre i confini del Golden Billion, il miliardo dorato delle ex potenze coloniali, e che alla barzelletta del rule-based international order – l’ordine globale fondato su regole che (te guarda un po’ il caso) beneficiano sempre e solo il blocco imperialista a guida USA e obbligano il resto del mondo a pagare il conto – non ci crede più nessuno. Purtroppo, però, le buone notizie finiscono qui: in mezzo a mille aspetti secondari da infarcire con un po’ di inconcludente retorica a costo zero, la vera grande partita in ballo, infatti, consisteva nel dare un’accelerazione consistente al processo di dedollarizzazione già in atto; per capire esattamente come questa accelerazione sarebbe dovuta avvenire, il ministero delle finanze e la Banca Centrale della Federazione russa avevano elaborato un lungo rapporto che elencava, punto per punto, la roadmap che avrebbe permesso di affiancare alle istituzioni incentrate sul dollaro (che monopolizzano oggi il sistema monetario e finanziario globale) nuove istituzioni multilaterali che avrebbero permesso di ufficializzare, in tempi anche piuttosto rapidi, la fine di quel monopolio stesso. Un rapporto che noi, dal profondo della nostra essenza moderata, compatibilista, gradualista e democristiana, avevamo descritto come un vero e proprio capolavoro di realismo politico. Evidentemente, però, gli altri membri dei BRICS+ non la pensano allo stesso modo; e, così, la risoluzione finale del summit di Kazan sul tema della dedollarizzazione e delle proposte avanzate dal report non fa mezzo passo avanti. Ma prima di cercare di capire insieme nel dettaglio perché e per come e che conseguenze potrebbe avere questa apparente battuta d’arresto, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per aiutarci (anche oggi) a combattere anche noi un altro monopolio: quello della propaganda mainstream e degli algoritmi al suo servizio e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non impieghino le petromonarchie del Golfo a tornare con la coda tra le gambe a inginocchiarsi a Washington, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a dare il nostro piccolo contributo verso l’unica vera via di uscita realistica da questa spirale di guerra e distruzione in cui siamo precipitati, una vera riscossa multipopolare.
L’idea è sempre quella di continuare nel tentativo di riformare le istituzioni esistenti, soprattutto dal momento che – formalmente – hanno già fatto loro il multilateralismo; solo che poi sono state svuotate da rapporti di forza talmente iniqui da trasformarle spesso nel loro esatto opposto. Come, ad esempio, le Nazioni Unite, per le quali la dichiarazione sottolinea “l’urgente necessità di raggiungere una rappresentanza geografica equa e inclusiva nella composizione del personale del Segretariato delle Nazioni Unite” che non è una richiesta esotica, ma – appunto – esattamente quello che formalmente dovrebbe già essere attuato: garantire una rappresentanza geografica equa, infatti, è proprio uno dei principi fondamentali in base al quale andrebbe selezionato il personale del segretariato delle Nazioni Unite. Il segretariato dell’ONU rappresenta il cuore amministrativo e operativo dell’organizzazione ed è responsabile della gestione quotidiana e del coordinamento di tutte le attività: dalla diplomazia alle missioni umanitarie, dal peacekeeping allo sviluppo sostenibile; è composto da numerosi dipartimenti ed uffici, a partire dall’ufficio del Segretario generale dove siedono tutti i vari vice segretari generali e una serie di altri alti funzionari che sovrintendono aree specifiche, per passare al Dipartimento per gli affari politici e il consolidamento della pace, quello per le operazioni di peackeeping, quello degli affari economici e sociali, quello per gli affari umanitari, quello incaricato del supporto operativo a tutte le operazioni sul campo dell’ONU e, ancora, il dipartimento per la sicurezza, quello per il disarmo, quello per gli affari giuridici. In tutto, un centinaio di persone – tra sottosegretari generali e vice sottosegretari generali – che quasi per metà provengono o dagli Stati Uniti o dall’Europa occidentale, nonostante rappresentino appena il 10% della popolazione globale; i BRICS+, ancora una volta, non perorano la causa esclusivamente dei Paesi aderenti, ma – piuttosto – attraverso i Paesi aderenti, cercando di costruire una massa critica sufficiente per dare voce alle esigenze in generale del Sud globale: “Chiediamo di garantire una partecipazione maggiore e più significativa delle economie emergenti e dei Paesi meno sviluppati, in particolare in Africa, America Latina e nei Caraibi, nei processi e nelle strutture decisionali globali e di renderli più in sintonia con le realtà contemporanee”. Dei simpatici benefattori? Non esattamente; il punto è che una profonda riforma in senso multipolare delle istituzioni multilaterali già esistenti, avvantaggerebbe in generale tutti i Paesi (a parte la potenza egemone), a partire proprio dai Paesi più marginalizzati e, quindi, anche i BRICS+: perché mai essere egoista quando un po’ altruismo, alla fine del giro, comunque favorisce i tuoi interessi? I BRICS hanno – almeno teoricamente – una potenzialità dirompente proprio perché i loro interessi sono allineati con gli interessi della maggior parte del pianeta in questo nuovo contesto che, nel mondo reale, è già (almeno parzialmente) multipolare de facto; ed ecco, così, che le riforme richieste alle Nazioni Unite non si limitano alla provenienza geografica dei sottosegretari e dei vice sottosegretari: come sottolineato dal presidente etiope durante l’incontro ufficiale di ieri mattina, la riforma delle Nazioni Unite dovrebbe riguardare anche la composizione del Consiglio di sicurezza “al fine” – si legge nella dichiarazione finale – “di renderlo più democratico, rappresentativo, efficace ed efficiente e di aumentare la rappresentanza dei Paesi in via di sviluppo tra i membri del Consiglio in modo che possa rispondere adeguatamente alle sfide globali prevalenti e supportare le legittime aspirazioni dei Paesi emergenti e in via di sviluppo di Africa, Asia e America Latina”.
D’altronde, non sono certo rivendicazioni nuove: la dichiarazione stessa fa riferimento al Consenso di Ezulwini, un documento adottato dall’Unione africana (ormai poco meno di 20 anni fa) dove, appunto, si chiedeva espressamente un posto per un Paese africano al fianco dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza; averglielo concesso prima avrebbe potuto salvare centinaia di migliaia di vite. Un posto tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, infatti, garantisce il diritto di veto, un diritto di veto che, ad esempio, gli africani – con ogni probabilità – avrebbero esercitato nel caso della risoluzione che autorizzava un intervento a fine umanitario in Libia, che poi (ovviamente) le forze imperialiste hanno interpretato come gli pareva e hanno strumentalizzato per compiere la loro ennesima guerra di aggressione criminale che ha ridotto l’allora Paese più ricco del continente nero in un cumulo di macerie e di faide tribali. Un’altra istituzione multilaterale che contraddice platealmente i principi fondamentali del suo mandato e che i BRICS+ all’unanimità vogliono tentare di riformare in profondità è l’Organizzazione mondiale del commercio: la risoluzione adottata a Kazan, infatti, “accoglie con favore i risultati della 13esima conferenza ministeriale” che si è tenuta dal 26 febbraio al 2 marzo scorso ad Abu Dhabi; in quell’ambito – che, ricordiamo, è il massimo organo decisionale del WTO – i membri si erano impegnati a portare a termine la riforma del sistema delle controversie entro la fine del 2024. Chi segue questo canale ne ha già sentito parlare millemila volte perché si tratta dell’ennesimo, plateale esempio della prepotenza senza limiti dell’imperialismo USA e del suo uso del tutto illegittimo e strumentale di ogni istituzione multilaterale possibile immaginabile.
Un breve riassunto: quando due o più membri del WTO pensano che un altro membro abbia adottato qualche decisione contraria alle regole, lo vanno a dire alla mamma e all’avvocato; il primo step sono dei negoziati bilaterali che possono durare al massimo 60 giorni, durante i quali il WTO fa semplicemente da facilitatore e offre un minimo di supporto tecnico. Nel caso le consultazioni non portino a un accordo, una della parti può richiedere la creazione di un panel indipendente di esperti, che ha dai 6 ai 9 mesi per formulare un rapporto; a quel punto, se una delle parti coinvolte non è soddisfatta delle conclusioni del panel – e, ovviamente, almeno una delle due parti non lo è sostanzialmente mai – si può presentare un ricorso al famigerato organo d’appello che, a quel punto, ha 90 giorni per esprimersi e la sua decisione è vincolante: peccato che a un certo punto, però, gli USA abbiano deciso che l’organo di appello non dovesse più essere messo in condizioni di operare; per potersi esprimere, infatti, l’organo di appello ha bisogno di essere composto almeno da 3 giudici, ma dal 2017 gli USA hanno impedito che venissero nominati nuovi giudici. Dal 2019 i giudici in carica sono diventati meno di 3 e da 5 anni l’organo di appello, semplicemente, non c’è: il motivo per il quale, ovviamente, gli USA nel 2017 hanno deciso di impedire a tutto il sistema di funzionare è che l’appena eletto Donald Trump aveva deciso di dichiarare una guerra commerciale ed economica contro la Cina e non voleva arbitri in mezzo ai coglioni, per quanto storicamente molto vicini agli interessi USA; da allora, gli USA hanno introdotto una serie infinita di misure completamente contrarie alle regole del commercio internazionale, come sistematicamente certificato anche dai panel di esperti chiamati ad esprimersi, ma senza mai pagare dazio. Le prime sono state le tariffe sull’acciaio e l’alluminio introdotte nel 2018, che non sono state criticate soltanto dalla Cina, ma anche dall’Unione europea e dal Canada; in quel caso Trump il cazzaro aveva provato a tirare in ballo addirittura la sicurezza nazionale. Il panel di esperti, dopo una lunghissima indagine, ha detto che erano tutte fregnacce e le tariffe sono rimaste; anzi, solo in parte. L’amministrazione Biden, infatti, le ha ritirate per l’Unione europea e il Giappone, ma le ha tenute in piedi per la Cina, che è un altro esempio di cosa intendiamo quando diciamo che Trump, per quanto sia un pluricriminale guerrafondaio imperialista della peggior specie, paradossalmente potrebbe essere meglio di Biden o della Harris: litigando con tutti, compresi i supposti alleati, contribuirebbe infatti all’isolamento degli USA e quindi ad accelerare l’autodistruzione di questo vero e proprio cancro del pianeta. Visto che questo primo, plateale caso di violazione delle regole commerciali era passato liscio, allora, Trump c’ha preso gusto e, un pezzetto alla volta, ha introdotto dazi completamente ingiustificati su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi; la Cina, allora, un’altra volta si è rivolta a un panel di esperti che, ovviamente, le hanno dato ragione su tutta la linea, ma – altrettanto ovviamente – senza che questo comportasse assolutamente niente. La Cina a quel punto, sostanzialmente, pur sapendo benissimo che nell’ambito del WTO non era più possibile ottenere nemmeno la minima sembianza di giustizia, ha puntato a rivolgersi più che altro alle opinioni pubbliche occidentali nella speranza che violazioni così palesi avrebbero sollevato qualche critica; gli avevano detto che laddove c’è la libertà di stampa funziona così: ci sono le critiche, la pressione dell’opinione pubblica. Macché: ormai l’egemonia suprematista aveva già fatto il suo corso e anche se qualcuno provava a muovere delle critiche, non c’erano più orecchie pronte ad ascoltare; anzi, la narrazione comune è che ad adottare pratiche commerciali scorrette siano in realtà, paradossalmente, gli stessi cinesi, al punto che ormai anche in Europa è partita la gara a chi c’ha il dazio più grosso e, ovviamente, tutti giustificati dal fatto che è la Cina ad essere scorretta.
Di fronte a questa vera e propria ennesima barzelletta offerta dall’Occidente in declino, ovviamente la tentazione è quella di farsene un’altra di organizzazione del commercio, riservata soltanto ai Paesi che dimostrano un qualche senso del pudore; e invece no: i BRICS+ continuano imperterriti a insistere sulla via del dialogo, nella speranza che – prima o poi – qualche sano di mente in Occidente salti fuori e si possa evitare le nostre istituzioni di doverle tirar giù con i missili. D’altronde, come sottolinea la risoluzione adottata a Kazan, tutto sommato la diatriba del WTO è solo uno dei tanti aspetti, a tratti surreali, della guerra economica totale che l’Occidente ha deciso di dichiarare al resto del pianeta: i BRICS si dicono infatti “profondamente preoccupati per l’effetto dirompente che le misure coercitive unilaterali illecite, a partire dalle sanzioni unilaterali illegali, stanno avendo sull’economia mondiale, sul commercio internazionale e sul raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Tali misure” insistono “minano la Carta delle Nazioni Unite, il sistema commerciale multilaterale e gli accordi sullo sviluppo sostenibile e sull’ambiente. Hanno inoltre un impatto negativo sulla crescita economica, sull’energia, sulla salute e sulla sicurezza alimentare, esacerbando la povertà e le sfide ambientali”. Insomma: sono veri e propri atti di guerra che, magari, occupano un po’ meno spazio sulle pagine della propaganda suprematista dell’Occidente collettivo, ma spesso fanno altrettante vittime. Ed è probabilmente proprio perché i BRICS sono pienamente consapevoli della violenza concreta di queste misure e della spregiudicatezza con la quale ormai l’Occidente (e, in particolare, gli USA) vi ricorre in maniera sistematica che sembrano provare, in ogni modo, a convincerli di fare finalmente le riforme che è possibile fare rimanendo nell’ambito delle istituzioni neo-coloniali di Bretton Wood e del Washington Consensus (anche se ormai palesemente inadeguate alle esigenze): perché è piuttosto chiaro che le nostre classi dirigenti al traino di Washington sono ormai composte, sostanzialmente, da un mix di rincoglioniti e di pazzi criminali che, pur di continuare a negare il fatto che la realtà e la storia sono andati diversamente da quanto auspicavano, sono pronti non solo a commettere ogni sorta di atrocità nei confronti degli altri, ma, come un terzo reich qualsiasi, di condannarsi loro stessi all’autodistruzione. Da questo punto di vista, la risoluzione di Kazan restituisce un quadro piuttosto semplificato della dicotomia in ballo: non è tanto questione di Sud globale vs Nord, o di mondo multipolare vs unipolarismo a guida USA; sembra, molto più banalmente, la contrapposizione tra il raziocinio e un minimo di senso di realtà e il delirio da demenza senile.
Nella risoluzione i BRICS, poi, ovviamente tornano sulla riforma dell’FMI, (che tralasciamo perché l’abbiamo affrontata in dettaglio nei giorni scorsi), ma, insomma, il succo è sempre quello: da una parte ci sono quelli che le regole e i principi fondamentali li hanno scritti e che, fino a che dietro una facciata di imparzialità gli facevano comodo, erano pronti a difenderli con le armi, e che oggi (che il mondo è cambiato) pretendono di stravolgere tutto e che nessuno abbia da ridire; dall’altra quelli che, molto banalmente, hanno preso atto del fatto che il mondo è cambiato, che le regole del vecchio mondo non sono adeguate e ciononostante, per quieto vivere, si accontenterebbero anche di un compromesso al ribasso basato proprio su quelle vecchie regole e che provano a far capire al vecchio egemone che, se rifiuta anche quel compromesso, non hanno altra alternativa che farsene una ragione e costruire tra di loro un universo parallelo adeguato ai tempi correnti.
Peccato che poi mi sono svegliato… Carissimi Ottoliner, vi devo chiedere umilmente scusa: evidentemente il mio era un sogno; moderato, democristiano, gradualista, ma comunque un sogno. Negli ultimi giorni, infatti, mi sono sperticato in lodi di ogni tipo nei confronti del rapporto che ministero delle finanze e Banca Centrale della Federazione russa avevano presentato come base di lavoro da discutere a Kazan sul tema cruciale della riforma del sistema finanziario e monetario internazionale: un documento intriso di realismo dove, invece di annunciare chissà quali rivoluzioni improbabili, ci si limitava a disegnare le tappe fondamentali di una roadmap che mi era sembrata un vero e proprio capolavoro strategico; per un’analisi dettagliata del documento vi rimando a questo pippone e a questo. Ma, giusto per intenderci, la mia valutazione era che il documento – un po’ come aveva già fatto la Repubblica Popolare di Cina a suo tempo con il programma di riforma e apertura sotto la sapiente regia di un colosso del realismo politico come Deng Xiaoping – offriva una lunga serie di concessioni succulente non solo alle borghesie del Sud globale, ma addirittura anche ad alcune fazioni delle borghesie occidentali stesse e nel frattempo, però, poneva le basi affinché nel medio-lungo termine i rapporti di forza, strutturalmente, cambiassero in modo sostanziale; in quel caso, il processo da avviare per cambiare strutturalmente i rapporti di forza tra un ex colonia come la Cina e il centro dell’impero era lo sviluppo industriale che avrebbe portato all’indipendenza tecnologica e, per farlo, servivano i capitali, il know how e i mercati di sbocco dei Paesi sviluppati. Ora che, dopo 40 anni abbondanti di aperture e riforme, lo sviluppo industriale ha portato realmente a un buon livello di indipendenza tecnologica e che, dal punto di vista della produzione, i rapporti di forza non sono stati semplicemente modificati, ma ribaltati, col Nord globale che dipende dal Sud (a partire dalla Cina, unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta) sostanzialmente per tutto, il processo da avviare per modificare ulteriormente i rapporti di forza complessivi tra ex colonie e colonialisti è la dedollarizzazione, che dovrebbe portare all’indipendenza finanziaria del Sud globale e, attraverso l’indipendenza finanziaria, all’indipendenza strategica tout court. La buona notizia è che, come nel caso dello sviluppo industriale cinese, è in corso una chiara tendenza storica che punta in modo spontaneo alla dedollarizzazione; come hanno sottolineato ieri mattina a Kazan nel corso dell’assemblea plenaria di BRICS+ sia Dilma Roussef che Vladimir Putin, la scelta (più o meno obbligata) da parte degli USA di weaponizzare – e, cioè, di trasformare in una vera e propria arma – il dollaro, ne mina di per se alle fondamenta lo status di valuta di riserva globale: “Dilma Roussef ha affermato che il dollaro è stato trasformato in un’arma” ha dichiarato Putin “e questo è assolutamente vero, e lo vediamo chiaramente. Credo che si sia trattato di un gigantesco errore, dal momento che il dollaro è ancora lo strumento fondamentale della finanza globale, e il suo utilizzo come strumento politico mina la fiducia sul suo ruolo come valuta di riserva globale. Non siamo noi ad aver causato questo fenomeno, non siamo noi che rigettiamo l’uso del dollaro, o che combattiamo il dollaro, ma se molto banalmente sono loro a impedirci di utilizzarlo, cosa dovremmo fare? Necessariamente dobbiamo cercare altre alternative, che è esattamente quello che stiamo facendo”. Ma proprio come nel caso dello sviluppo industriale cinese, pensare che – di per se – questo movimento spontaneo sfoci spontaneamente in un cambio dei rapporti di forza a favore di un nuovo ordine globale più equo, pacifico e democratico potrebbe rivelarsi puro e semplice wishful thinking.
Nel caso dello sviluppo industriale cinese, alimentato dai capitali del centro imperiale e dei suoi vassalli, non è che questo ha portato automaticamente e spontaneamente a una sempre maggiore indipendenza tecnologica della Cina, anzi: di default, succede esattamente il contrario; basta vedere cosa è successo a molti altri Paesi che sono stati a lungo meta di delocalizzazioni da parte del capitale occidentale e che poi, dopo una prima fase di sviluppo (anche tumultuoso), si sono sistematicamente ritrovati imprigionati in quella che viene definita la middle-income trap, la trappola del reddito medio. Quello che è avvenuto in quei casi è che mentre gli investimenti esteri garantivano, appunto, una prima fase di industrializzazione e di sviluppo, nel frattempo non avveniva nessun trasferimento di know how, anzi: il grosso dei profitti, infatti, tornava verso il centro imperiale che li utilizzava (almeno in parte) per finanziare ricerca e sviluppo e, quindi, aumentare – invece che diminuire – il gap tecnologico tra centro e periferia; ed ecco, così, che la dipendenza tecnologica, invece che diminuire, aumentava. Se in Cina l’esito è stato diametralmente opposto non è stato certo grazie alle dinamiche spontanee del capitale, ma solo ed esclusivamente grazie a un’attenta pianificazione e all’utilizzo del monopolio della forza da parte dello Stato guidato dal Partito Comunista, che ha imposto una direzione opposta a quella naturale che avrebbe preso uno sviluppo capitalistico lasciato a se stesso; come chi ci segue sa benissimo, infatti, la Cina ha imposto una formula ben precisa per gli investimenti esteri nel suo Paese che ha previsto a lungo l’obbligo di creare joint venture tra aziende private straniere e aziende (perlopiù statali) cinesi, con le aziende cinesi che dovevano detenere perlomeno il 51% del capitale azionario: in questo modo, da un lato la maggioranza dei profitti rimaneva in casa per essere reinvestita, dall’altro si garantiva il passaggio totale del know how dal centro alla periferia. Fino a un ribaltamento totale dei rapporti di forza: la periferia, infatti, acquisiva tutto il know how del centro, ma grazie al reinvestimento dei capitali nell’economia reale (invece che nelle bolle speculative) e grazie al fatto che, nel frattempo, il centro – con la deindustrializzazione – si svuotava gradualmente di tutta una serie di competenze, ne aggiungeva continuamente altro sviluppato internamente, fino a superare il maestro – che è quello che sostanzialmente spiega com’è possibile che, un bel giorno, ci siamo svegliati con la Cina che è in grado di produrre auto a meno della metà di quanto non costi produrle nelle economie sviluppate.
Ma come ha fatto la Cina a convincere il grande capitale del centro a suicidarsi? Semplice: gli ha garantito la possibilità di fare una quantità di quattrini senza precedenti; per farlo, è arrivata addirittura a imporre alla sua classe lavoratrice una cura da cavallo di ultra-liberismo. A lungo, infatti, i salari cinesi sono stati tenuti a bada con una crescita sistematicamente di molto inferiore rispetto all’aumento della produttività e, se qualcuno aveva da ridire, ecco che scendeva in campo la capacità di esercitare il monopolio della forza che solo uno Stato autoritario può garantire. Insomma: nella lotta di classe che s’è inevitabilmente scatenata a seguito del piano di riforme e apertura, lo Stato, guidato saldamente dal Partito Comunista, si è apparentemente schierato a lungo dalla parte del capitale fino a che non è stato chiaro che il tutto seguiva una pianificazione precisa di lungo termine che, alla fine, sarebbe sfociata in una epocale vittoria della lunga lotta anti-coloniale di liberazione nazionale; se negli ultimi giorni ci siamo esaltati così tanto di fronte alla proposta di riforma del sistema monetario e finanziario internazionale elaborata dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale della Federazione russa è proprio perché, sostanzialmente, ci avevamo visto un’applicazione di quello stesso schema al processo di dedollarizzazione. Come abbiamo già discusso ampiamente, il rapporto sulla riforma del sistema monetario e finanziario globale elaborato dai russi è talmente moderato da evitare – addirittura – di parlare apertamente di riforme: miglioramenti, li definisce, ed è interamente, totalmente intriso di logica liberista. Il messaggio sostanzialmente è che la realtà economica del pianeta, in gran parte proprio a causa dell’ascesa cinese, è completamente cambiata e il sistema monetario e finanziario globale costruito sul vecchio mondo (e ancora in vigore) impedisce di cogliere le opportunità di valorizzazione del capitale; e quindi è inefficiente e, alla lunga, anche insostenibile. Noi, come BRICS, siamo in grado di garantire un’apertura alla libera circolazione dei capitali dei nostri Paesi membri, il che può rappresentare un’occasione straordinaria per il capitale internazionale – sia delle oligarchie gregarie del Sud globale che anche di un pezzo consistente di quelle del centro imperiale – per fare una montagna di quattrini e per farli in modo sostenibile; oggi, infatti, continuate a fare una marea di quattrini grazie ai mercati finanziari USA, ma è un’illusione: la bolla speculativa dei mercati finanziari USA è destinata, inesorabilmente, ad esplodere, e fino a che non costruiamo alternative concrete al monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie globali dollarocentriche, il flusso dei capitali internazionali è destinato comunque a continuare a seguire questo percorso, anche se (sempre più ovviamente) porta dritti a sbattere contro un muro.
Proprio come il piano di riforma e apertura di Deng, insomma, si trattava di un colossale ramoscello di ulivo offerto al grande capitale internazionale: “Noi aspiriamo alla cooperazione” ha sottolineato ancora ieri Putin, “ma allo stesso tempo dobbiamo comprendere che più a lungo ci ostiniamo a vivere sotto il tetto di qualcun altro, e sulle piattaforme di qualcun altro, più tempo impiegheremo per portare a termine la transizione verso un nuovo sistema economico finanziario più equo, e più turbolenze saremo costretti ad affrontare, comprese quelle a cui assistiamo oggi in Medio Oriente”. Nel nostro infinito ottimismo, questa impostazione a noi era sembrata – appunto – un raffinato compromesso dettato dalla realpolitik impossibile da non accogliere a braccia aperte; il problema che ci eravamo posti, semmai, era se anche i BRICS erano davvero in grado, una volta fatte tutte queste concessioni al liberismo e al capitalismo internazionale, di mantenere la barra dritta come è avvenuto in Cina: a differenza della Cina infatti, dove il monopolio del potere da parte di forze realmente rappresentative dell’interesse nazionale generale è stato raggiunto con enormi sacrifici in seguito al consolidamento di una grande guerra di liberazione nazionale e popolare, i BRICS – e, a maggior ragione, i BRICS nella loro configurazione allargata attuale – sono guidati da blocchi sociali dove a fare la parte del leone sono spesso borghesie compradore o, comunque, forme ibride di Stati nazionali soggetti al dominio delle oligarchie locali; se in Cina a tenere la barra dritta nel mare in tempesta dell’apertura ai mercati e alle logiche dell’accumulazione capitalistica c’ha pensato (a fatica) il Partito Comunista, nei BRICS+ chi ci penserà? Al Sisi? Le dinastie che guidano le petromonarchie? La stessa Russia di Putin, nonostante gli enormi passi avanti fatti, è un Paese dove l’influenza delle oligarchie non può certo essere minimizzata; per non parlare del Brasile di Lula, continuamente costretto a mediare con una potentissima classe di grandi latifondisti reazionari fino al midollo e legati a doppio filo al centro imperiale. Idem con patate per l’India di Modi: come dice il nostro amico Federico Drago, “Per passare al denghismo, serve aver avuto prima un Mao, e questi non ce l’hanno avuto”; ciononostante, fare leva sull’avidità del capitale per rompere il monopolio del dollaro è un compromesso accettabile che pone strutturalmente le basi per un nuovo sistema monetario e finanziario globale più equo e democratico. E, quindi, è di per se un fattore di emancipazione e di progresso che vale il rischio che comporta aprirsi maggiormente alla libera circolazione dei capitali.
Purtroppo, però, evidentemente non è bastato: nonostante si trattasse palesemente di offrire un ramoscello di ulivo al capitale occidentale (e non di minacciarlo con un Kinzhal), la proposta di mediazione avanzata dalla Federazione russa col sostegno della Cina – e, a quanto pare, anche del Brasile – non è stata colta; a parte gli interventi di Putin, di Xi e di Lula, alla plenaria di ieri (con, a mio avviso, una palese irritazione e insofferenza da parte del leader russo) gli altri rappresentanti dei BRICS+ non solo non si sono espressi in modo chiaro, ma non sembravano proprio aver colto nemmeno il proposito. Uno spaesamento che poi, inevitabilmente, s’è tradotto anche nella risoluzione finale, dove i vari aspetti del processo che dovrebbe portare alla dedollarizzazione sono appena accennati, come se si trattasse di insignificanti dichiarazioni d’intenti destinate a rimanere sulla carta; per una missione così mastodontica, decisamente troppo poco e decisamente troppo poco per rappresentare quel deterrente che auspicavamo giusto lunedì scorso, quando abbiamo deciso di intitolare il nostro lungo pippone a 6 mani Perché il vertice BRICS di Kazan è l’ultima speranza che abbiamo per evitare la terzaguerra mondiale. Il nocciolo è, appunto, quello sottolineato dal rapporto e anche da Putin durante la plenaria: se non riformiamo profondamente il sistema monetario e finanziario globale, le contraddizioni strutturali che la rapina sistematica del pianeta – operata dagli USA (via monopolio del dollaro) che hanno portato alla guerra mondiale a pezzi a cui stiamo assistendo da ormai quasi 3 anni – non possono che sfociare in una guerra mondiale vera e propria; purtroppo, anche a questo giro, non possiamo che constatare come Stati nazionali che non hanno vissuto una vera rivoluzione democratica e popolare che ha consegnato il monopolio del potere politico a un soggetto realmente rappresentativo degli interessi nazionali generali, ma sono rimasti ostaggio dell’egoismo ottuso delle proprie borghesie compradore, non abbiano proprio non tanto semplicemente la volontà, ma proprio gli strumenti, anche teorici, per evitare la discesa agli inferi. E che, per quanto utopistico e velleitario possa apparire, realisticamente solo una grande riscossa multipopolare può salvare il pianeta.
Per quanto marginale e ininfluente possa apparire (e oggettivamente è), noi non possiamo che continuare a provare a fare la nostra piccola, microscopica parte e, per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99% e di una comunità in grado di sostenerlo. Aiutaci a costruirli! Partecipa alle iniziative di Multipopolare in programma: vieni a conoscerci sabato prossimo a Pisa o a Bergamo e domenica a Novara; e, poi, aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Daniele Capezzone