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LA TERZA GUERRA MONDIALE PUO’ ATTENDERE: perché il bilaterale tra Xi e Biden è un’ottima notizia

L’armageddon può attendere.
Al di là di tutte le considerazioni e tutti i distinguo possibili immaginabili, il motivo per cui di fronte alle strette di mano e ai sorrisi che Sleepy Joe e Xi Dada si sono scambiati copiosamente la scorsa settimana, non possiamo che dirci un pochino sollevati sta tutto qui. Checché ne dicano tutti i dispensatori di analisi che straboccano del senno di poi, non era scontato. Ma proprio manco per niente: a partire dai colpi di coda della presidenza Trump, le relazioni bilaterali tra i due paesi hanno gradualmente raggiunto il punto più basso da quando, nel 1972, Richard Nixon e Kissinger avevano deciso di rivoluzionare l’intera politica internazionale giocandosi la carta cinese contro l’eterno avversario sovietico, e quando nel febbraio del 2022 è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, noi – sinceramente – abbiamo immediatamente pensato al peggio. L’idea, forse un po’ paranoica, era che il fronte ucraino servisse principalmente per appaltare al vassallo europeo una sorta di manovra di distrazione della Russia sul fronte occidentale per potersi concentrare sull’Indo – pacifico e dare una botta mortale all’ascesa cinese approfittando di qualche casus belli creato ad arte attorno alla questione Taiwan.
“L’Ucraina potrebbe essere solo il primo capitolo di una nuova grande guerra totale a partire da Taiwan” scrivevamo già nel marzo del 2022 “e l’escalation potrebbe essere più rapida del previsto” e in effetti, per qualche mese, i segnali non hanno fatto che andare tutti in quella direzione: l’Europa, andando palesemente contro ogni suo interesse, si impegnava sempre di più in una guerra che si confermava sempre più chiaramente andare in direzione di un lungo pantano; gli USA schiacciavano al massimo sul pedale della retorica del disaccoppiamento economico del Nord globale dalla Cina e ingaggiavano una guerra tecnologica a suon di chip di ultima generazione contro l’industria cinese e, ad agosto, l’incredibile provocazione della visita a sorpresa a Taiwan – contro ogni protocollo diplomatico possibile immaginabile – dell’allora speaker della camera democratica Nancy Pelosi (già tristemente nota per essersi arricchita a dismisura investendo nelle azioni di aziende che, da politica, avrebbe dovuto controllare) aveva clamorosamente rischiato di far precipitare tutta la situazione. Ne erano seguiti giorni infuocati di dimostrazione di forza a suon di missili e di incursioni navali ed aeree come mai si era registrato da parte cinese, alla quale era seguita l’interruzione repentina di tutte le linee di comunicazioni militari ad alto livello tra Cina ed USA. Le previsioni più catastrofiste sembravano avverarsi, ora dopo ora, sotto i nostri occhi increduli ; interrotta ogni forma di dialogo e immersi in un nebbia fitta di diffidenza reciproca, da lì in poi nessuno era più in grado di garantire che una qualsiasi incomprensione sulle manovre continue intorno all’isola non sarebbe potuta degenerare rapidamente in uno scontro frontale.
Fortunatamente non accadde niente del genere e anzi, da entrambi i lati – piuttosto rapidamente – si cominciarono a provare a rimettere le basi per riportare il tutto sotto controllo, fino ad arrivare al G20 di Bali e al bilaterale a latere tra Xi e Biden: un faccia a faccia, universalmente definito come storico, che inaugurava una stagione che veniva definita “new detente”, nuova distensione. Che è durata pochissimo: per farla saltare è bastato aspettare due mesi dopo che nei cieli del Montana venisse avvistato un gigantesco e innocuo pallone gonfiabile bianco.

Il pallone gonfiabile cinese

I cinesi hanno provato a spiegare, come poi è stato confermato, che non si trattava di altro che di uno strumento per la raccolta di dati scientifici e meteorologici sfuggito al controllo a causa del vento, ma contro la sete di sangue della propaganda sinofoba e guerrafondaia la spiegazione più logica è un’arma spuntata. E così risiamo punto e a capo. Ecco, io a quel punto, se fossi stato la Cina, avrei mollato: se siete così invasati da trasformare una puttanata del genere in un casus belli vuol dire che non c’è niente da fare. Se proprio volete la guerra, che guerra sia.
Fortunatamente per il resto dell’umanità, però, io mi limito a sproloquiare su un canale Youtube, e a guidare la Cina – invece – ci sono gli eredi di un impero millenario che, al contrario di qualche governatore zoticone dell’impero fondato sulle armi semiautomatiche in vendita al tabacchino, riesce a mantenere la calma anche in queste circostanze e ragiona sui tempi lunghi della storia che, poco dopo, torna a fare capolino. Nell’arco di pochi mesi, dopo questa figura barbina di fronte all’intero pianeta, il termine disaccoppiamento comincia a diventare tabù: che l’economia USA e quella cinese non possono fare a meno l’una dell’altra diventa il nuovo mantra, ripetuto prima da Sullivan, poi dalla Yellen, poi da Blinken. Intendiamoci: le parole non costano nulla e i fatti continuano ad andare in un’altra direzione ma, alla fine, nella diplomazia anche il tono conta, eccome. Ed ecco così che si ricomincia a parlare di un eventuale nuovo faccia a faccia che riprenda il filo del discorso iniziato a Bali e naufragato per un pallone gonfiabile. Manco al campino del parroco quando andavo alle medie… Ma d’altronde la Cina la distensione la deve trovare con chi c’è, anche se quello che c’è si chiama Rimbambiden e, tra una gaffe e l’altra, ormai è abbastanza evidente che tiene in pugno la politica estera USA un po’ come io tengo in pugno l’opinione pubblica italiana.
L’occasione giusta, appunto, viene identificata nella riunione annuale dell’APEC organizzata per metà novembre a San Francisco; le due diplomazie lavorano giorno e notte per risolvere ogni tipo di ostacolo e, per avere la conferma definitiva, si dovranno aspettare gli ultimissimi giorni: andrà, non andrà, ci sarà un incontro bilaterale ad hoc, oppure no, si concluderà con una dichiarazione congiunta… fino all’ultimo minuto niente è scontato. Ecco perché, oggi, mi fanno un po’ ridere quelli che minimizzano: la sanno lunga, però solo dopo. In realtà mai come oggi, almeno da 60 anni a questa parte, l’umanità intera sta camminando su una fune sospesa a 50 metri d’altezza dal suolo; basteranno queste strette di mano e questi sorrisi a farci mantenere in equilibrio almeno per un altro po’?
Il messaggio che arriva da San Francisco, stringi stringi, è uno: per quanto, effettivamente, tutto sembri ineluttabilmente crollarci sotto i piedi e sfuggirci di mano, per il momento le due principali potenze globali di annichilirsi l’un l’altra a suon di testate atomiche non sembrano averne intenzione. Per gli inguaribili ottimisti – che sono ancora convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, dove le magnifiche sorti e progressive della grande civiltà dell’uomo bianco ha relegato la tentazione della mutua distruzione reciproca ai libri di storia – probabilmente è poca cosa, ma per noi che siamo pessimisti cosmici e che ancora facciamo fatica a vedere quali alternative all’armageddon dovrebbe avere l’imperialismo occidentale a guida USA a sua disposizione non solo per impedire, ma anche solo per ostacolare efficacemente il suo inesorabile declino, in realtà è tipo – non voglio dire – un miracolo, ma quasi.
Ma non di sole profezie millenariste si vive e allora, intanto, cominciamo da qualcosa di completamente diverso: la cosa più bella di questo bilaterale infatti, è stata la location perché la tenuta dove Xi e Biden si sono confrontati in modo “franco e diretto” – come hanno sottolineato i comunicati – per la bellezza di 4 ore, non è un luogo qualsiasi ma è nientepopodimeno che la tenuta di famiglia al centro di uno dei prodotti più iconici in assoluto dell’industria culturale USA: Dynasty. E non è tutto, perché c’è un aspetto che non tutti conoscono di Dynasty: durante i lavori per la realizzazione di tutte e 8 le stagioni della telenovela, un personaggio di primissimo piano negli USA ha continuato ininterrottamente a stalkerizzare la produzione elemosinando – con ogni mezzo possibile – una parte qualsiasi, venendo sistematicamente rimbalzato. Quel personaggio di primissimo piano è nientepopodimeno che Donald Trump. Un caso? Io non kreto. E con questo retroscena dall’incontro bilaterale, sostanzialmente è tutto. Poi sì – per carità – dice che hanno parlato di Fentanyl, di ostacolare la deriva che potrebbe portarci a breve al paradosso che a decidere se scoppierà la guerra mondiale o meno sia direttamente l’intelligenza artificiale, di clima; d’altronde, in qualche modo, queste 4 ore andavano riempite ma, tutto sommato, è solo fuffa. Il punto è che, a parte la promessa reciproca di non distruggersi a vicenda, i due leader non hanno niente da dirsi; le traiettorie e gli interessi strategici dei due paesi, semplicemente, non sono compatibili: da un lato l’ordine unipolare fondato sulla concentrazione dei capitali in mano alle oligarchie finanziarie, dall’altro un nuovo ordine multipolare fondato sullo sviluppo delle forze produttive e sulle relazioni commerciali tra stati sovrani. Un dualismo semplicemente irrisolvibile, a meno di una rivoluzione all’interno di uno dei due poli; e allora è proprio da questo punto di vista che dobbiamo provare a leggere tutto quello che è successo negli ultimi giorni.
Come tutti sapete, infatti, il tête-à-tête tra Sleepy Joe e Xi Dada non è stato altro che uno dei tanti incontri che si sono svolti in occasione della riunione annuale dell’APEC, l’Asia-Pacific Economic Cooperation, un organo multilaterale del quale – nella nostra provincia profonda dell’impero – a malapena conosciamo l’esistenza, figurarsi l’importanza e il ruolo. D’altronde con i suoi 21 membri che rappresentano il 38% della popolazione, il 50% del commercio globale e il 62% del PIL globale, è soltanto l’organismo di cooperazione economica più grande del pianeta. Che ce frega a noi?
In cima all’agenda dei lavori dell’APEC – a questo giro – c’era una questione piuttosto delicata: si chiama IPEF, che sta per Indo-Pacific Economic Framework; lanciato dallo stesso Rimbambiden nel maggio scorso, sarebbe dovuto servire agli USA per controbilanciare l’aumento dell’influenza economica cinese nell’area. Un buco nell’acqua: “Il fallimento degli Stati Uniti nell’accordo commerciale Indo – pacifico apre le porte alla Cina” scrive Bloomberg, e l’Economist rilancia “I fallimenti di Joe Biden sul fronte commerciale avvantaggiano la Cina”.

Un pallone gonfiato americano

Facciamo un piccolo passo indietro; per contrastare la crescente influenza commerciale del dragone in Asia, nel 2005 l’amministrazione Bush Junior avvia una serie di negoziati con 14 partner locali: l’obiettivo è raggiungere un quadro regolatorio onnicomprensivo per favorire il libero scambio e l’integrazione economica tra le due sponde del pacifico tenendo fuori la Cina. Si chiama TPP, Trans-Pacific Partnership (partenariato trans-pacifico) ed è il classico strumento della globalizzazione neoliberista a guida USA e fondata sul dollaro e, sebbene sia stato avviato da Bush Jr, diventerà il cavallo di battaglia del Pivot to Asia dell’amministrazione Obama; attraverso l’accordo si dovrebbe facilitare ulteriormente la delocalizzazione e la deindustrializzazione degli USA e, in cambio, le oligarchie locali avrebbero l’opportunità di estrarre plusvalore dalle loro economie per incassare dollari ed andarli a reinvestire nelle bolle speculative a stelle e strisce, e a pagare il conto sarebbero i lavoratori che, però, si oppongono con ogni mezzo necessario – compresa l’elezione di un pazzo furioso. In mezzo a mille proteste, infatti, i negoziati procedono a rilento e la scadenza iniziale del 2012 viene rimandata per ben 4 volte. La firma, finalmente, arriva nel febbraio del 2016: durerà come un gatto in tangenziale; l’opposizione al vecchio paradigma liberoscambista, pochi mesi dopo, porterà alla vittoria alle presidenziali di Donald Trump che, poco dopo, ritirerà l’adesione degli USA al TPP.
Le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, come meccanismo fondamentale per far avanzare le ambizioni egemoniche USA, non convincono più nessuno; nel frattempo la Cina continua, con passo lento ma inesorabile, a rafforzare i suoi legami commerciali e a lavorare a una sempre maggiore integrazione e interdipendenza economica dell’area. E’ un modello completamente diverso che, invece di essere fondato sulle delocalizzazioni, è fondato sulla liberazione delle forze produttive della regione attraverso gli investimenti e l’integrazione delle catene produttive: non ruba lavoro a qualcuno per darlo a qualcuno con meno diritti e pagato meno, ma crea le condizioni perché entrambi, cooperando, siano in grado di creare più ricchezza. Per la crescita dell’economia – in generale – è un modello molto più ragionevole, anche se per le élite economiche un po’ meno; in questo modello, infatti, per fare soldi non basta investirli in azioni al Nasdaq o in prodotti finanziari garantiti da BlackRock e Vanguard, ma tocca lavorare. Ma con l’America ripiegata su se stessa, rimane l’unica opzione a disposizione; quindi l’integrazione economica regionale trainata dalla Cina e fondata sulla liberazione delle forze produttive prosegue, mentre una fetta consistente delle élite continua a sperare che un giorno si possa tornare a depredare l’economia reale per fare quattrini al casinò a stelle e strisce, che è esattamente quello che gli promette Biden nel maggio del 2022 con l’avvio dei negoziati per l’Indo-Pacific Economic Framework e che, però, si ritrova di fronte agli stessi identici ostacoli del passato. I lavoratori USA di pagare di tasca loro i piani egemonici delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce non ce n’hanno voglia e – con le elezioni presidenziali alle porte e Trump che torna a minacciare lo scricchiolante ordine liberale – meglio rimandare tutto. “Una terribile battuta d’arresto per la leadership americana” ha commentato John Murphy, vicepresidente della Camera di Commercio degli Stati Uniti; “In privato” riporta Bloomberg “un dirigente aziendale ha paragonato il caos attorno alle discussioni commerciali dell’IPEF al ritiro disordinato degli USA dall’Afghanistan”. “Lascia la porta aperta alla Cina” avrebbe commentato. “Nella competizione tra America e Cina per l’influenza sul commercio asiatico” commenta l’Economist “solo una parte sta facendo progressi. I governi asiatici non riponevano grosse speranze sull’IPEF, ma ormai è evidente che se mai un accordo arriverà anche quelle basse aspettative saranno tradite”. E Xi Dada passa all’incasso: a latere delle riunione dell’APEC Xi ha incontrato faccia a faccia la leadership filippina che, delusa dalle trattative sull’IPEF, da spina nel fianco cinese eterodiretta da Washington si è riscoperta pacifista. “I problemi rimangono” ha sottolineato il presidente Marcos “ma abbiamo concordato su alcuni meccanismi per ridurre le tensioni nel Mare Cinese Meridionale. Nessuno vuole una guerra”. Ancora più significativo il bilaterale tra Cina e Giappone, sfociato in un testa e testa tra Xi e Kishida di oltre un’ora, al termine del quale gli analisti hanno parlato di un ritorno allo spirito del “rapporto strategico di reciproco vantaggio” del 2008, considerato l’apice dell’era d’oro delle relazioni sino – giapponesi, poi nel tempo gravemente deteriorate. Ma il vero trionfo di Xi è stata – come l’ha definita Santevecchi sul corriere della serva – la “conquista degli imprenditori”: il riferimento, ovviamente, è alla cena che ha visto Xi sedersi al fianco di 400 tra i principali imprenditori e dirigenti d’azienda USA e durante la quale Xi “ha incassato applausi scroscianti”. Per strapparli non ha dovuto fare altro che ribadire che “la Cina non combatterà una guerra con nessuno, né fredda, né calda. La Cina non cerca egemonia, né espansionismo”. “La grande settimana di Xi” titola a 6 colonne Bloomberg “si conclude con una serie di vittorie nei confronti di Stati Uniti, Taiwan ed economia”: a Taiwan infatti – che fa parte della lunga serie di paesi delusi dalla ritirata USA dai negoziati sull’IPEF – le opposizioni che tifano per un riavvicinamento a Pechino e che fino a ieri marciavano divise, avrebbero trovato uno storico accordo che le rende le favorite in vista delle prossime elezioni presidenziali.
Di tutto questo e di molto altro parleremo oggi, lunedì 21 novembre alle 13 e 30, durante la nuova puntata di MondoCina in collaborazione con i nostri soci di Dazibao e dintorni che tra l’altro – sempre per analizzare questa settimana storica – ha fatto un altro dei suoi imperdibili video che vi consiglio assolutamente di andare subito a vedere sul suo canale. Perché, d’altronde, se c’è una cosa che questa settimana conferma è che il mondo nuovo avanza e che non ce lo possiamo far raccontare dai vecchi media. Per raccontarlo senza fette di prosciutto sugli occhi abbiamo bisogno di un vero e proprio nuovo media che dia voce al sud globale e al 99%.
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OttolinaTV

20 Novembre 2023

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