Xi alla conquista dell’America Latina per un fronte popolare contro la guerra commerciale di Trump
Tra l’APEC di Lima e il G20 di Rio, nell’arco di pochi giorni sostanzialmente tutti i principali leader del pianeta si incontreranno faccia a faccia per capire in che direzione sta andando il pianeta e come attrezzarsi: in entrambi i casi si tratta di strutture multilaterali che, per quanto spesso del tutto inefficaci e inconcludenti, hanno il merito (perlomeno) di mettere attorno a un tavolo sia leader del Nord che del Sud globale e senza che nessuno abbia il potere di dettare le regole del gioco. Un tavolo dove, però ,manca il più blasonato dei commensali, il leader del mondo libero e democratico: gli USA; ovviamente Biden è presente, ma non può ambire ad altro che ad essere compatito (per l’ultima volta). La sua squadra non ha semplicemente perso le elezioni: è stata letteralmente asfaltata; la credibilità per trattare sulle iniziative future, rispondere ai timori e prendersi qualche impegno è sotto zero (e sottolineo sotto perché a zero – o poco lontano – c’era pure prima). Sul G20 torneremo la settimana prossima in modo più approfondito; ora concentriamoci un attimo sull’APEC, l’Asia Pacific Economic Cooperation, il forum economico che racchiude le 21 economie principali delle due sponde del Pacifico che, insieme, rappresentano il 38% della popolazione globale e addirittura il 62% del prodotto globale lordo, che però, è in diminuzione: se l’anno scorso, infatti, nel complesso sono cresciute più della media globale, per quello che sta terminando si stima una crescita media del 2,8% contro il 3,2 globale e, in buona parte, è dovuta alla tenuta cinese, nonostante le illuminanti analisi fantasy di Federico Rampini. Per molti degli altri, siamo in periodi di magra e buona parte della responsabilità viene attribuita proprio all’amministrazione Biden che, dopo la parentesi della prima amministrazione Trump, aveva provato a spacciarsi al mondo come il paladino dei liberi scambi e invece, come prevedibile, ha continuato sulla strada del protezionismo. Con – in più – una bella overdose di sanzioni illegali unilaterali che imponevano ai Paesi di decidere se schierarsi con lui o contro di lui; e chi non aveva i mezzi o la volontà di schierarsi apertamente contro doveva pagare il suo tributo in termini di minori relazioni commerciali con quello che, per 13 economie dell’APEC su 21, è di gran lunga il principale partner commerciale: la Repubblica Popolare cinese.
A differenza degli elettori USA e dei giornalisti di tutto il mondo libero e democratico, che la diatriba tra protezionisti e liberali statunitensi è solo una rappresentazione teatrale l’hanno imparato a loro spese: la messinscena era iniziata nel 2017 – fatalità del caso – proprio in occasione di un altro vertice APEC organizzato di nuovo a Lima; anche allora il presidente neoeletto in attesa di subentrare alla casa bianca era il nostro The Donald. Quello uscente, invece, era Obama, che il libero scambio durante il suo doppio mandato, invece, (seppur con qualche eccezione) l’aveva sostenuto davvero; a partire dal TPP, la Trans-Pacific Partnership, l’ambizioso piano per un mega accordo commerciale tra tutte le principali economie dell’APEC, escluse la Cina e la Russia – il più classico e rodato meccanismo dell’impero USA per rafforzare la sua egemonia sui Paesi amici o non allineati garantendo la massima libertà di movimento ai capitali alleati alla ricerca del massimo profitto sulla pelle dei lavoratori, in particolare di quelli dei Paesi a reddito più elevato. La guerra tra poveri della globalizzazione neoliberista che, però, permetteva agli USA, oltre di arricchire a dismisura le sue oligarchie, anche di tenersi strette – in un matrimonio d’interessi piuttosto efficace – quelle dei Paesi non ostili; contro quell’accordo, che coinvolgeva centinaia e centinaia di negoziatori da ben 8 anni, Trump aveva speso parole di fuoco in campagna elettorale. Obama all’APEC era corso proprio per garantire che erano solo sparate elettorali, che era nell’interesse dell’imperialismo USA e che nessuno sarebbe stato così folle da rinunciarci: 3 giorni dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Trump ritirava gli USA dai negoziati per il TPP. L’anno dopo, i Paesi che avevano partecipato ai negoziati, senza gli USA trovavano un accordo tra loro che era ancora più liberista del precedente e che è, ad oggi, uno dei più importanti accordi di libero scambio esistenti al mondo. E quello di allora era un Trump enormemente più debole di quello che si impossesserà della Casa Bianca il prossimo gennaio: nonostante, allora come adesso, il partito repubblicano avesse già la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, infatti, Trump non aveva la maggioranza degli elettori americani dalla sua, era rimasto sotto di 3 milioni nel voto popolare e l’influenza della vecchia guarda tra le fila del partito era ancora notevole; ciononostante, quando 3 anni dopo arrivò il turno di Biden, la forza per rimettere in discussione l’adesione USA al CPTPP non c’era. D’altronde sono l’impero, e l’impero gli accordi li detta, non vi aderisce.
Per tornare a corteggiare i potenziali alleati, allora, Biden tentò un escamotage, un nuovo accordo leggermente più snello e all’acqua di rose: l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity, per gli amici IPEF; tutti si illudevano che – a parte doverci per forza mettere il timbro imperiale e rinominarlo – si sarebbe trattato, in soldoni, della stessa cosa. D’altronde, nell’ottica dell’internazionalismo liberale dei democratici, era una necessità che non si poteva più rinviare: lo spazio lasciato libero dagli USA era ovviamente sempre di più presidiato da vicino dal nemico cinese che, poco dopo che Trump si era ritirato dalla partita, aveva fatto richiesta formale di adesione al nuovo accordo di libero scambio; l’offerta, però, è stata tenuta in stand-by (e anche comprensibilmente). Al contrario degli USA – che le merci le comprano – fare un accordo di libero scambio con la più grande superpotenza del pianeta, per dei Paesi che puntano comunque sul manifatturiero (anche se con una potenza di fuoco infinitamente inferiore di Pechino) è abbastanza un suicidio; ciononostante, la Cina rappresenta anche il secondo mercato al mondo subito dietro gli USA – e manco di tanto – e quindi se Washington non si dà una svegliata e continua a fare politiche protezioniste, rimane comunque il partner più importante per l’interscambio commerciale. Che è esattamente quello che è continuato a succedere sempre di più: la Cina si è sempre più affermata come il principale partner commerciale per tutti i paesi del CPTPP (e anche di parecchio); eppure, quando si è trattato di tirare le somme, il nuovo accordo architettato dagli USA si è rivelato una gigantesca delusione. Tutta la parte commerciale era stata tirata via dietro la spinta, più che legittima, dei sindacati statunitensi: era rimasta solo la fuffa; da allora, nonostante gli appelli USA al decoupling e al friendshoring, l’integrazione economica tra quei Paesi e la Cina non ha fatto che aumentare a dismisura, in particolare proprio nei Paesi come la Thailandia, la Malesia e, in particolare, il Vietnam, che la propaganda occidentale ha ribattezzato alt Asia (nel senso di Asia alternativa alla Cina) e dove sperava di poter far leva su alcune rilevanti, ma del tutto gestibili, incomprensioni tra vicini. Tutti questi Paesi negli ultimi anni hanno imparato tre cose: i trumpiani possono fare davvero alcune delle cose che promettono, anche se vanno chiaramente contro i loro interessi imperiali; i democratici non hanno nessunissima capacità – e forse manco intenzione – di invertire queste decisioni (anzi) e la Cina è l’unico adulto nella stanza che fa – ovviamente – i suoi interessi, ma non ha nessunissima intenzione di tirare la corda ed è un partner affidabile con cui cercare soluzioni concrete a problemi concreti. Oltre, ovviamente, ad essere l’unica vera superpotenza manifatturiera globale; e senza collaborarci non puoi aspirare ad essere competitivo sui mercati globali.
Ora questi Paesi si trovano di fronte a un Trump on steroids che, a differenza dell’altra volta, ha stravinto anche il voto popolare e ha interamente in pugno l’intero partito e che annuncia misure protezioniste ordini di grandezza più radicali dell’altra volta, a partire dal fatto che – per quanto sia innocuo – gli USA si ritireranno anche dall’IPEF; ma per discutere di tutto questo, le 21 economie riunite nell’APEC si ritrovano davanti un vecchio rincoglionito ormai totalmente privo di ogni forma di influenza e che il suo partito stesso ammette sarebbe meglio mandare in pensione anzitempo senza manco fargli gestire questa fase di transizione e di normale amministrazione in attesa del cambio della guardia. “Ora più che mai è fondamentale trascendere la mentalità del gioco a somma zero e proteggersi dal nazionalismo che distorce le decisioni politiche” ha affermato nel suo intervento il presidente vietnamita Luong Cuong: “Isolazionismo, protezionismo e guerre commerciali portano solo a recessione, conflitto e povertà”; “Imporre nuovi standard commerciali e di investimento senza una logica scientifica o una valutazione oggettiva, ignorando i livelli di sviluppo e le circostanze uniche di ogni Paese, priva ingiustamente milioni di opportunità di lavoro, soffoca l’innovazione e ostacola la crescita aziendale”. “Ogni Paese, indipendentemente dalle sue dimensioni, deve aderire al diritto internazionale e agire in modo responsabile, riconoscendo che ogni decisione comporta conseguenze significative e di vasta portata”. Dall’altra parte, la Cina si presenta con un curriculum leggermente diverso: durante l’APEC si dovrebbe rinnovare l’accordo di libero scambio tra Cina e Perù, che vanta nei confronti della Cina un attivo commerciale di oltre 10 miliardi ed esportazioni per 23 (contro i 9 degli USA) e che col nuovo accordo – dichiarano i funzionari sia cinesi che peruviani – dovrebbe aumentare di un altro 50% nell’arco di pochi anni. Per facilitare questi scambi, sempre durante il vertice verrà inaugurato anche il mega-progetto del porto di Chancay: 1,3 miliardi di investimento da parte del colosso di stato cinese Cosco (che nei prossimi anni saliranno a 3,6) per la costruzione del primo porto dell’America Latina affacciato sul Pacifico in grado di ricevere i mega-portacontainer da 22 mila tonnellate equivalenti che dominano le rotte commerciali globali; un’opera che il Perù, nonostante l’ascesa del governo golpista sostenuto dagli USA, ha voluto in ogni modo, fino a cambiare le leggi ad hoc. Come ha ricordato Ryan Berg del Center for Strategic and International Studies (il prestigioso think tank diretto dall’ex Vice Segretario alla Difesa di Clinton John Hamre) durante una conferenza stampa dedicata al vertice dell’APEC, “Circa sei mesi fa, quando Chancay si stava avvicinando al traguardo, i peruviani hanno notificato ai cinesi che secondo la legge peruviana la Cosco Shipping non poteva essere sia proprietaria che gestore del porto e che questa cosa avrebbe bloccato tutto. Dina Boluarte, l’impopolare presidente del Perù, allora è andata a Pechino a luglio e quando è tornata ha fatto in modo che la legge venisse cambiata”.
D’altronde, in ballo non ci sono solo le esportazioni peruviane verso la Cina: c’è un pezzo importante di sviluppo economico di tutto il Sud America; il nuovo porto, infatti, permette di ridurre della bellezza di 10 giorni i tempi di trasporto verso la Cina non solo per le merci peruviane, ma per tutti i Paesi limitrofi, dove i cinesi stanno collaborando a decine e decine di progetti infrastrutturali per dare al continente uno sbocco sul Pacifico e renderlo indipendente dai porti USA e dal canale di Panama. In questa rete di nuove infrastrutture, a fare la parte del leone c’è il Brasile che, nel 2023, ha esportato in Cina beni per 122 miliardi contro i 37 negli USA; ovviamente, si tratta prevalentemente di materie prime e, quindi, non è certo un rapporto paritario, ma che però sta cambiando radicalmente: mentre gli investitori statunitensi scappano, quelli cinesi arrivano in massa. Nello Stato di Bahia, BYD ha acquistato lo stabilimento che Ford aveva abbandonato nel 2021, c’ha investito una miliardata abbondante e, a partire dal 2025, ci produrrà (per ora) 300 mila veicoli elettrici l’anno dando lavoro a 15 mila persone, contro le 9 mila che è arrivata a impiegare Ford al momento del massimo splendore. A Iracemàpolis, nello Stato di San Paolo, l’anno prima di Ford a chiudere un piccolo stabilimento era stata Mercedes-Benz: se l’è comprato Great Wall Motor, il produttore cinese di SUV e pick-up elettrici, che ha dichiarato che intende investirci 1,8 miliardi di dollari entro il 2032. E non sono destinate solo al mercato brasiliano: in base alle regole stabilite dal Mercosur, il blocco commerciale sudamericano, le case automobilistiche che producono almeno il 40% delle loro auto sul suolo brasiliano possono esportare nel resto del Sud America senza tasse di importazione in quei Paesi; il Brasile potrebbe diventare l’hub industriale per l’automotive cinese per tutto il continente e i suoi 650 milioni di abitanti, che potrebbero così sfruttare l’enorme quantità di litio che si ritrovano per svilupparsi in casa, invece che farsi rapinare dagli USA a suon di dottrina Monroe. Questo significa che il porto di Chancay, al contrario delle infrastrutture coloniali, potrebbe non servire soltanto per esportare materia prima, ma anche per importare semilavorati e componentistica di ogni genere che permetterebbe all’America Latina di integrarsi con la fabbrica del mondo cinese e avviare una nuova era di sviluppo industriale.
Rimbambiden fa l’ultima gita tropicale al tavolo dei grandi prima del meritato riposo in una RSA di lusso, ma non saranno in molti a salutarlo commossi: tra i 21 paesi dell’APEC che si stanno riunendo in queste ore a Lima e gli altri membri del G20 che si sono dati appuntamento per lunedì a Rio, non c’è grande economia del pianeta (e manco piccola) che negli ultimi 4 anni non abbia potuto constatare la totale inaffidabilità di Washington e l’incompatibilità totale tra i piani imperiali e ogni speranza di sviluppo economico; e fino ad ora era solo l’antipasto: il ritorno dell’amministrazione Trump, che durante il primo mandato aveva iniziato la guerra commerciale continuata poi da rimbamBiden, promette dazi e tariffe per tutti. Per le economie emergenti che si affacciano sulle due sponde del Pacifico (e, in particolare, quelle asiatica) e che, negli ultimi 20 anni, sono state spinte dalla globalizzazione neoliberista architettata da Washington a diventare sempre più dipendenti dalle esportazioni verso gli USA, rischia di essere un bagno di sangue di proporzioni epiche. Il Vietnam, per fare un esempio a caso, oggi esporta negli USA merci per 110 miliardi l’anno, con 95 miliardi di attivo commerciale (oltre il 20% del PIL): un’azione protezionistica degli USA contro il Vietnam sarebbe letale; già durante il suo primo mandato Trump l’aveva definito letteralmente il peggior abusatore e, all’epoca, ancora la guerra commerciale era roba da donnicciuole. E dal palco dell’APEC il presidente Luong Cuong lancia l’allarme: “Isolazionismo, protezionismo e guerre commerciali portano solo a recessione, conflitto e povertà”: riusciranno i leader dei 30 e oltre Paesi che si incontrano in questi giorni in America Latina ad affermare i rispettivi interessi nazionali e ad attrezzarsi contro l’ultimo colpo di coda dell’impero in disfacimento? L’automotive cinese è già presente in Brasile dal 2014, quando Chery ha inaugurato uno stabilimento, sempre nello Stato di San Paolo, dove produce circa 50 mila veicoli l’anno e per il quale nell’agosto del 2023 è stato annunciato un nuovo investimento da 3 miliardi e l’assunzione immediata di altri 1.400 operai; e sebbene il Brasile faccia la parte del leone, a breve potrebbe essere in buona compagnia. Quando a luglio i cinesi hanno convinto la Boluarte a cambiare la legge per permettere a Cosco di gestire il porto ci Chancay senza troppi rompimenti di coglioni, a convincerla sembra sia stata, in particolare, un’offerta che non si può rifiutare, sempre da BYD: uno nuovo stabilimento di pacca nei paraggi del porto per sfornare veicoli elettrici. D’altronde, mentre in tutto l’Occidente – e, in particolare, in Europa – l’automotive cominciava a scontare il fatto di essersi rassegnato alla transizione all’elettrico con una decina d’anni di ritardo, la Cina continuava a costruire ed aprire fabbriche in mezzo mondo: dall’Ungheria alla Turchia, passando per l’India, ma con un occhio di riguardo, appunto, proprio ai Paesi che s’affacciano sul Pacifico. Nel 2023 Chery ha annunciato la costruzione di uno stabilimento in Indonesia da 200 mila veicoli l’anno; in Thailandia, a Rayong, GWM ha acquistato uno stabilimento che General Motors aveva dismesso nel 2020 mandando a casa oltre 1500 operai: nel giugno 2021 sono usciti i primi veicoli e ora si viaggia intorno agli 80 mila pezzi l’anno. In tutto, per aggirare i dazi di Washington e dei vassalli europei, la Cina prevede di passare dal milione e 200 mila veicoli prodotti all’estero nel 2023 ai 2,7 milioni entro il 2026 e questo prima che gli statunitensi eleggessero nuovo paladino dell’impero Trump e la sua agenda protezionista.
Insomma: chi non si vuole rassegnare al declino, da che parte del pianeta guardare l’ha capito benissimo e l’amministrazione Trump non può che accelerare a dismisura questo processo. I Paesi dell’APEC – dall’Asia all’America Latina – sembrano averlo capito; vedremo cosa servirà ancora, e quanto tempo, per farlo capire anche ai pupazzetti che governano l’amministrazione coloniale europea. Di sicuro, a capirlo per ultimi saranno i pennivendoli della propaganda, che è il motivo per cui ci serve come il pane un vero e proprio media che dia voce al 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce si merita Francesco Costa
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