Il Messico rompe con gli USA, l’India guarda a est, l’Africa va in massa a Pechino: l’impero è accerchiato
28 agosto, Reuters: Il Messico congela i rapporti con le ambasciate statunitensi e canadesi; 29 agosto, New York Times: L’Honduras afferma che metterà fine al trattato di estradizione con gli Stati Uniti; 2 settembre, Washington Post: La crescente dipendenza dell’India dalla Cina rappresenta una sfida per la strategia commerciale degli Stati Uniti. “Negli ultimi anni” spiega l’articolo “le imprese americane che cercano di ridurre la loro dipendenza dalla Cina hanno guardato sempre più all’India come nuovo hub manifatturiero e come copertura contro potenziali interruzioni nelle catene di approvvigionamento cinesi causate dalle crescenti tensioni geopolitiche. Ma man mano che l’India ha incrementato la produzione di beni come smartphone, pannelli solari e medicinali, la stessa economia indiana paradossalmente è diventata in realtà sempre più dipendente dalle importazioni cinesi”. 3 settembre, Foreign Affairs: L’America sta perdendo il Sud-est asiatico. Gli alleati degli Stati Uniti nella regione si stanno rivolgendo sempre di più alla Cina; giorno dopo giorno, in ogni angolo del pianeta, l’impero USA non fa che perdere continuamente pezzi, che cominciano a guardare altrove. Di nuovo 3 settembre, Bloomberg: La Cina mantiene la leadership nella corsa per l’influenza sui giovani africani; “Secondo un recente sondaggio” riporta l’articolo “l’82% dei giovani africani considera positiva l’influenza di Pechino sul continente”. 4 settembre, The Hindu: La Turchia, membro della NATO, ha chiesto di aderire al blocco dei BRICS, ed è solo l’inizio. Ieri a Pechino ha avuto inizio quello che Il Sole 24 Ore definisce “il più grande evento diplomatico dai tempi dello scoppio della pandemia”: è il nono FOCAC, il forum per la cooperazione tra Cina ed Africa, che vede la presenza di almeno 50 fra capi di Stato e di governo di tutta l’Africa determinati a mettere le basi per la costruzione di “un futuro condiviso”. Ma prima di compiere questo viaggio dentro alle millemila ragioni per cui – a parte i per lettori de La Repubblichina e di Internazionale – in tutto il mondo, alle vaccate del sogno americano, si sta sostituendo la costruzione concreta di un nuovo ordine multipolare, ricordatevi di mettere un like a questo video per permetterci di sconfiggerle davvero quelle vaccate (nonostante la dittatura distopica degli algoritmi) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Victoria Nuland a organizzare un colpo di Stato, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare davvero a costruire un vero e proprio media che, invece che alle interferenze delle ambasciate USA in mezzo pianeta, dia voce all’autodeterminazione del 99%.
Nuova convergenza nell’Indo-Pacifico: così a giugno il segretario alla difesa statunitense Lloyd Austin ha deciso di intitolare il suo intervento all’annuale summit di Shangri-La, in quel di Singapore. E quando, il mese dopo, all’Aspen Security Forum è intervenuto il segretario di Stato americano Antony Blinken, c’ha tenuto a sottolineare come non aveva mai assistito a “un momento in cui ci sia stata una maggiore convergenza tra gli Stati Uniti e i nostri partner europei e asiatici in termini di approccio alla Russia, ma anche in termini di approccio alla Cina”; “Ma la verità” è costretto ad ammettere Foreign Affairs “è che gli Stati Uniti stanno perdendo terreno in parti importanti dell’Asia”. A testimoniarlo, l’annuale ricerca dell’ISEAS – Yusof Ishak Institute, che è finanziato dal governo di Singapore e, quindi, non è esattamente un pezzo della propaganda putiniana e filo-cinese: anche a questo giro, hanno intervistato duemila persone provenienti dal mondo accademico, del business, delle organizzazioni non governative e pure quelle governative sparse tra tutti i paesi dell’ASEAN; l’anno scorso il 61% degli intervistati aveva dichiarato che nel caso l’ASEAN, a un certo punto, fosse costretto a decidere se schierarsi con gli USA o la Cina, avrebbe dovuto optare per gli USA – e solo il 39% aveva scelto la Cina. Sono passati appena 12 mesi e il mondo s’è rovesciato: la Cina ha sorpassato gli USA (50,5 a 49,5); “Gli Stati Uniti” sottolinea Foreign Affairs “hanno perso sostegno in modo più drammatico nei paesi a maggioranza musulmana. Il 75% degli intervistati malesi, il 73% degli indonesiani e il 70% dei bruneiani hanno affermato che preferirebbero l’allineamento con la Cina rispetto agli Stati Uniti”. A quanto pare, il fatto di aver continuato a fornire armi come se non ci fosse un domani per sterminare i bambini palestinesi non è stato preso proprio benissimo – e anche l’idea di omaggiare con 15 mila standing ovation il commander in chief del primo genocidio in diretta streaming; d’altronde, sono contraddizioni che chi è costretto a tenere in piedi un impero in declino è costretto ad affrontare.
Ma essere costretti a far cadere definitivamente la maschera che dissimulava la natura violenta e razzista dell’imperialismo USA non è il solo fattore a pesare: “I media occidentali” sottolinea infatti ancora Foreign Affairs, forzano spesso la mano e “riportano notizie catastrofiche sulle trappole del debito associate alla Belt and Road Initiative cinese”, ma in realtà, nel sudest asiatico “l’iniziativa generalmente è accolta favorevolmente” e si ritiene “offra notevoli opportunità di sviluppo e di crescita”. E non solo nel sudest asiatico: anche in Africa – soprattutto in Africa – la propaganda suprematista ha investito tutte le sue energie per far passare la Belt and Road come lo spregiudicato veicolo di un nuovo colonialismo cinese, ovviamente ben più feroce di quello imposto sul continente da secoli dall’uomo bianco (che avrà i suoi difetti, ma alla fine è comunque civilizzato e lettore di Kant); l’idea che la Cina si sia comprata l’Africa viene ripetuta ovunque continuamente e non passa giorno senza che mi arrivi qualche messaggio da qualche analfoliberale che mi chiede conto della ferocia del colonialismo cinese in Africa. Peccato, però, sia una gigantesca puttanata: nonostante gli investimenti giganteschi degli ultimi 10 anni, infatti, Stato e aziende private cinesi controllano ad oggi meno dell’8% della produzione mineraria del continente, meno della metà degli anglo-americani; e a partire dal 2016 gli investimenti cinesi diretti in Africa sono enormemente diminuiti. Quello che è vero, piuttosto, è che la Cina è il principale acquirente di materie prime dall’Africa. Che strano, eh? Gli USA per produrre future e derivati importano meno materie prime di quelle che la Cina s’accatta per costruire le apparecchiature elettroniche, le pale eoliche e le auto elettriche che produce per tutto il resto del mondo: veramente inspiegabile!
L’altro aspetto che è sicuramente vero è che la Cina, prima degli altri, si è concentrata sui minerali indispensabili per la rivoluzione verde e quella digitale e, quindi, si è garantita una posizione di quasi monopolio nella Copperbelt – la regione tra l’Africa centrale e l’Africa orientale che occupa uno spazio diviso tra lo Zambia centrale e l’estrema parte meridionale della Repubblica Democratica del Congo – conosciuta per la ricchezza dei suoi giacimenti di rame e di cobalto (e un po’ anche di litio). Adesso però, giustamente, i paesi coinvolti cominciano a chiedere quello che alle vecchie potenze coloniali non è mai stato concesso chiedere e, cioè, che invece che saccheggiare le ricchezze del territorio, dando in cambio al massimo qualche infrastruttura, si cominci a investire a casa loro per fare anche almeno un pezzo di trasformazione industriale e creare così non solo un po’ di lavoro più o meno dignitoso, ma anche un po’ di competenze tecniche. Ai fronte a queste richieste, quando hai a che fare col mondo liberale e democratico in cambio – di solito – ti puoi aspettare un bel colpo di Stato o una bella rivoluzione colorata accolta con entusiasmo dai media progressisti occidentali. A quanto pare, invece, con la Cina se ne può discutere; è quello che, ad esempio, ha fatto l’Indonesia con l’industria del nickel: prima esportava il nickel grezzo, che comprava la Cina, ma il grosso dei soldi andava in tasca alle multinazionali occidentali e alle oligarchie di svendipatria locali conniventi. Poi l’Indonesia ha deciso che il nichel andava raffinato lì e, come ricorda Asia Times, “Questo piano è stato sostenuto da investimenti cinesi”.
Ora la Cina sta facendo una cosa simile in Zimbabwe, dove ha aperto un impianto di lavorazione del litio da 300 milioni di dollari. Intendiamoci: è una goccia nell’oceano, ma va anche detto che per raccogliere altre gocce ci sono ostacoli oggettivi; in primo luogo manca una produzione di energia adeguata. La buona notizia è che ci potrebbe essere una soluzione made in China: mentre la propaganda suprematista occidentale accusa la Cina di pratiche commerciali scorrette perché è arrivata a produrre l’80% dei pannelli solari del mondo, quello che non dicono è che questi giganteschi investimenti cinesi hanno consentito di abbattere drasticamente il costo dei pannelli stessi, che ora sono alla portata delle tasche africane e potrebbero permettere finalmente di fargli produrre in casa l’energia elettrica di cui hanno bisogno per cominciare a industrializzarsi sul serio, per poi magari cominciare a farsi in casa anche i pannelli grazie a investimenti e know how cinese (e, a quanto pare, i giovani africani – al contrario dei giornalisti impegnati a fare whitesplaining per conto delle oligarchie imperiali – lo sanno). Ed ecco così che tra le loro fila, mentre la popolarità degli USA è scesa di 8 punti dal 2020, quella cinese non ha fatto che aumentare. Fortunatamente, conclude incredibilmente Foreign Affairs riferendosi – in particolare – al sudest asiatico (ma è un discorso che può essere facilmente ampliato), “Molti paesi non sono democrazie liberali e i loro governi non necessariamente attuano politiche estere che riflettono l’opinione pubblica”; insomma: anche se generalmente siamo visti male, possiamo sempre ricorrere a qualche ricatto e a un po’ di corruzione della classe dirigente per imporre con la violenza le magnifiche sorti e progressive che l’adesione acritica all’ordine neoliberale garantisce, anche se le persone comuni non sono in grado di capirle. Se non fosse che, conclude amaramente l’articolo, ormai “anche le democrazie illiberali sentono spesso l’esigenza di rispondere alle opinioni dei cittadini”; sapesse, contessa, non esistono più le care vecchie dittature di una volta…
Visto che non si può più fare troppo affidamento sui cari vecchi regimi militari instaurati col sostegno di qualche operazione sotto copertura, gli USA allora hanno tentato la strada delle promesse economiche: all’India, ad esempio, le hanno promesso che sarebbe diventata la prossima Cina, ma senza quella gigantesca rottura di coglioni che consiste nell’avere un Partito Comunista al potere, ma a quanto pare non gli è andata esattamente benissimo; invece di diventare un’alternativa alla Cina, l’India è diventata una sua terzista (un po’ come l’Italia con la Germania). Una vera manna: uno, perché ti permette di mantenere la competitività mano a mano che i salari all’interno aumentano; due, perché rende il paese terzista totalmente dipendente senza aver bisogno di minacciarlo militarmente o con qualche dossieraggio in stile Jeffrey Epstein. “Man mano che l’India ha incrementato la produzione di beni come smartphone, pannelli solari e medicinali, l’economia indiana è diventata sempre più dipendente dalle importazioni cinesi” ricorda il Post: “Le importazioni dell’India dalla Cina” continua “sono cresciute due volte più velocemente di quelle complessive e ora costituiscono quasi un terzo delle importazioni indiane in settori che vanno dall’elettronica alle energie rinnovabili passando per prodotti farmaceutici”; quasi due terzi delle importazioni indiane di componenti elettronici – dai circuiti stampati alle batterie – infatti, oggi provengono dalla Cina, che ha visto i volumi dell’export triplicarsi nell’arco di appena 5 anni. E almeno quella è un’industria che prima in India manco c’era; il grave è che la dipendenza nei confronti della Cina è aumentata anche nei settori dove prima c’era un’industria autoctona, ad esempio nel settore farmaceutico. l’India è da sempre un grande esportatore di prodotti farmaceutici anche verso il Nord globale, a partire proprio dagli USA; ma, come sottolinea di nuovo il Post, “Mentre prima l’industria nazionale produceva in casa gran parte dei propri ingredienti, ora fa sempre più affidamento sulla Cina per buona parte dei suoi input farmaceutici più importanti, come ad esempio il paracetamolo. Dal 2007 al 2022, la quota della Cina nelle importazioni indiane di prodotti chimici e farmaceutici è cresciuta di oltre il 50% e, solo negli ultimi cinque anni, le importazioni indiane dalla Cina di ingredienti farmaceutici e altri prodotti farmaceutici intermedi sono aumentate di oltre la metà”. Idem per il tessile, che è un altro fiore all’occhiello dell’export indiano, ma dove “l’India ha aumentato le importazioni di filati e tessuti dalla Cina”; e anche l’automotive, che era “considerata una storia di successo sia per le vendite nazionali che per quelle all’estero”, ma dove sono aumentate a dismisura “le importazioni di parti e accessori di veicoli dalla Cina”. E anche laddove l’India ha cercato di sviluppare una produzione autoctona di beni intermedi e di componentistica – ammette desolato il Post – è comunque “rimasta dipendente dalla Cina per le competenze”, tant’è che nonostante lo chauvinismo dell’era Modi e la crescente sinofobia, “I rappresentanti dell’industria indiana hanno fatto pressioni sul governo affinché allenti le restrizioni sui visti per i tecnici cinesi”; e recentemente il principale consigliere economico del governo indiano, Anantha Nageswaran, ha proposto anche di allentare le restrizioni sugli investimenti cinesi.
Insomma: non ci sono più le dittature e i colpi di Stato di una volta – e anche il potere economico diciamo che ha perso qualche colpo, che da un lato è una bella notizia, dall’altro è anche terrificante perché, ovviamente, l’unica carta che rimane da giocarsi è la guerra vera. Ma per sapere se quella alla fine può essere la soluzione, forse prima gli conviene farsi una chiacchierata con il compagno Dmytro Kuleba, il ministro degli esteri ucraino che ieri è stato cacciato, insieme ad altri 6 colleghi, per un mega rimpasto di governo che così, a occhio, non credo significhi che sul campo le cose siano andando esattamente come sperato. L’unico posto in cui le cose continuano ad andare come sperato è nei titoli dei giornalacci e dei media finanziati dalle oligarchie dell’impero in declino; sarebbe arrivato il momento di creare un’alternativa e dare finalmente voce al 99%. Aiutaci a costruirla: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Daniele Capezzone
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