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Tag: asean

Il Messico rompe con gli USA, l’India guarda a est, l’Africa va in massa a Pechino: l’impero è accerchiato

28 agosto, Reuters: Il Messico congela i rapporti con le ambasciate statunitensi e canadesi; 29 agosto, New York Times: L’Honduras afferma che metterà fine al trattato di estradizione con gli Stati Uniti; 2 settembre, Washington Post: La crescente dipendenza dell’India dalla Cina rappresenta una sfida per la strategia commerciale degli Stati Uniti. “Negli ultimi anni” spiega l’articolo “le imprese americane che cercano di ridurre la loro dipendenza dalla Cina hanno guardato sempre più all’India come nuovo hub manifatturiero e come copertura contro potenziali interruzioni nelle catene di approvvigionamento cinesi causate dalle crescenti tensioni geopolitiche. Ma man mano che l’India ha incrementato la produzione di beni come smartphone, pannelli solari e medicinali, la stessa economia indiana paradossalmente è diventata in realtà sempre più dipendente dalle importazioni cinesi”. 3 settembre, Foreign Affairs: L’America sta perdendo il Sud-est asiatico. Gli alleati degli Stati Uniti nella regione si stanno rivolgendo sempre di più alla Cina; giorno dopo giorno, in ogni angolo del pianeta, l’impero USA non fa che perdere continuamente pezzi, che cominciano a guardare altrove. Di nuovo 3 settembre, Bloomberg: La Cina mantiene la leadership nella corsa per l’influenza sui giovani africani; “Secondo un recente sondaggio” riporta l’articolo “l’82% dei giovani africani considera positiva l’influenza di Pechino sul continente”. 4 settembre, The Hindu: La Turchia, membro della NATO, ha chiesto di aderire al blocco dei BRICS, ed è solo l’inizio. Ieri a Pechino ha avuto inizio quello che Il Sole 24 Ore definisce “il più grande evento diplomatico dai tempi dello scoppio della pandemia”: è il nono FOCAC, il forum per la cooperazione tra Cina ed Africa, che vede la presenza di almeno 50 fra capi di Stato e di governo di tutta l’Africa determinati a mettere le basi per la costruzione di “un futuro condiviso”. Ma prima di compiere questo viaggio dentro alle millemila ragioni per cui – a parte i per lettori de La Repubblichina e di Internazionale – in tutto il mondo, alle vaccate del sogno americano, si sta sostituendo la costruzione concreta di un nuovo ordine multipolare, ricordatevi di mettere un like a questo video per permetterci di sconfiggerle davvero quelle vaccate (nonostante la dittatura distopica degli algoritmi) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Victoria Nuland a organizzare un colpo di Stato, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare davvero a costruire un vero e proprio media che, invece che alle interferenze delle ambasciate USA in mezzo pianeta, dia voce all’autodeterminazione del 99%.

FOCAC 2024

Nuova convergenza nell’Indo-Pacifico: così a giugno il segretario alla difesa statunitense Lloyd Austin ha deciso di intitolare il suo intervento all’annuale summit di Shangri-La, in quel di Singapore. E quando, il mese dopo, all’Aspen Security Forum è intervenuto il segretario di Stato americano Antony Blinken, c’ha tenuto a sottolineare come non aveva mai assistito a “un momento in cui ci sia stata una maggiore convergenza tra gli Stati Uniti e i nostri partner europei e asiatici in termini di approccio alla Russia, ma anche in termini di approccio alla Cina”; “Ma la verità” è costretto ad ammettere Foreign Affairs “è che gli Stati Uniti stanno perdendo terreno in parti importanti dell’Asia”. A testimoniarlo, l’annuale ricerca dell’ISEAS – Yusof Ishak Institute, che è finanziato dal governo di Singapore e, quindi, non è esattamente un pezzo della propaganda putiniana e filo-cinese: anche a questo giro, hanno intervistato duemila persone provenienti dal mondo accademico, del business, delle organizzazioni non governative e pure quelle governative sparse tra tutti i paesi dell’ASEAN; l’anno scorso il 61% degli intervistati aveva dichiarato che nel caso l’ASEAN, a un certo punto, fosse costretto a decidere se schierarsi con gli USA o la Cina, avrebbe dovuto optare per gli USA – e solo il 39% aveva scelto la Cina. Sono passati appena 12 mesi e il mondo s’è rovesciato: la Cina ha sorpassato gli USA (50,5 a 49,5); “Gli Stati Uniti” sottolinea Foreign Affairs “hanno perso sostegno in modo più drammatico nei paesi a maggioranza musulmana. Il 75% degli intervistati malesi, il 73% degli indonesiani e il 70% dei bruneiani hanno affermato che preferirebbero l’allineamento con la Cina rispetto agli Stati Uniti”. A quanto pare, il fatto di aver continuato a fornire armi come se non ci fosse un domani per sterminare i bambini palestinesi non è stato preso proprio benissimo – e anche l’idea di omaggiare con 15 mila standing ovation il commander in chief del primo genocidio in diretta streaming; d’altronde, sono contraddizioni che chi è costretto a tenere in piedi un impero in declino è costretto ad affrontare.
Ma essere costretti a far cadere definitivamente la maschera che dissimulava la natura violenta e razzista dell’imperialismo USA non è il solo fattore a pesare: “I media occidentali” sottolinea infatti ancora Foreign Affairs, forzano spesso la mano e “riportano notizie catastrofiche sulle trappole del debito associate alla Belt and Road Initiative cinese”, ma in realtà, nel sudest asiatico “l’iniziativa generalmente è accolta favorevolmente” e si ritiene “offra notevoli opportunità di sviluppo e di crescita”. E non solo nel sudest asiatico: anche in Africa – soprattutto in Africa – la propaganda suprematista ha investito tutte le sue energie per far passare la Belt and Road come lo spregiudicato veicolo di un nuovo colonialismo cinese, ovviamente ben più feroce di quello imposto sul continente da secoli dall’uomo bianco (che avrà i suoi difetti, ma alla fine è comunque civilizzato e lettore di Kant); l’idea che la Cina si sia comprata l’Africa viene ripetuta ovunque continuamente e non passa giorno senza che mi arrivi qualche messaggio da qualche analfoliberale che mi chiede conto della ferocia del colonialismo cinese in Africa. Peccato, però, sia una gigantesca puttanata: nonostante gli investimenti giganteschi degli ultimi 10 anni, infatti, Stato e aziende private cinesi controllano ad oggi meno dell’8% della produzione mineraria del continente, meno della metà degli anglo-americani; e a partire dal 2016 gli investimenti cinesi diretti in Africa sono enormemente diminuiti. Quello che è vero, piuttosto, è che la Cina è il principale acquirente di materie prime dall’Africa. Che strano, eh? Gli USA per produrre future e derivati importano meno materie prime di quelle che la Cina s’accatta per costruire le apparecchiature elettroniche, le pale eoliche e le auto elettriche che produce per tutto il resto del mondo: veramente inspiegabile!
L’altro aspetto che è sicuramente vero è che la Cina, prima degli altri, si è concentrata sui minerali indispensabili per la rivoluzione verde e quella digitale e, quindi, si è garantita una posizione di quasi monopolio nella Copperbelt – la regione tra l’Africa centrale e l’Africa orientale che occupa uno spazio diviso tra lo Zambia centrale e l’estrema parte meridionale della Repubblica Democratica del Congo – conosciuta per la ricchezza dei suoi giacimenti di rame e di cobalto (e un po’ anche di litio). Adesso però, giustamente, i paesi coinvolti cominciano a chiedere quello che alle vecchie potenze coloniali non è mai stato concesso chiedere e, cioè, che invece che saccheggiare le ricchezze del territorio, dando in cambio al massimo qualche infrastruttura, si cominci a investire a casa loro per fare anche almeno un pezzo di trasformazione industriale e creare così non solo un po’ di lavoro più o meno dignitoso, ma anche un po’ di competenze tecniche. Ai fronte a queste richieste, quando hai a che fare col mondo liberale e democratico in cambio – di solito – ti puoi aspettare un bel colpo di Stato o una bella rivoluzione colorata accolta con entusiasmo dai media progressisti occidentali. A quanto pare, invece, con la Cina se ne può discutere; è quello che, ad esempio, ha fatto l’Indonesia con l’industria del nickel: prima esportava il nickel grezzo, che comprava la Cina, ma il grosso dei soldi andava in tasca alle multinazionali occidentali e alle oligarchie di svendipatria locali conniventi. Poi l’Indonesia ha deciso che il nichel andava raffinato lì e, come ricorda Asia Times, “Questo piano è stato sostenuto da investimenti cinesi”.
Ora la Cina sta facendo una cosa simile in Zimbabwe, dove ha aperto un impianto di lavorazione del litio da 300 milioni di dollari. Intendiamoci: è una goccia nell’oceano, ma va anche detto che per raccogliere altre gocce ci sono ostacoli oggettivi; in primo luogo manca una produzione di energia adeguata. La buona notizia è che ci potrebbe essere una soluzione made in China: mentre la propaganda suprematista occidentale accusa la Cina di pratiche commerciali scorrette perché è arrivata a produrre l’80% dei pannelli solari del mondo, quello che non dicono è che questi giganteschi investimenti cinesi hanno consentito di abbattere drasticamente il costo dei pannelli stessi, che ora sono alla portata delle tasche africane e potrebbero permettere finalmente di fargli produrre in casa l’energia elettrica di cui hanno bisogno per cominciare a industrializzarsi sul serio, per poi magari cominciare a farsi in casa anche i pannelli grazie a investimenti e know how cinese (e, a quanto pare, i giovani africani – al contrario dei giornalisti impegnati a fare whitesplaining per conto delle oligarchie imperiali – lo sanno). Ed ecco così che tra le loro fila, mentre la popolarità degli USA è scesa di 8 punti dal 2020, quella cinese non ha fatto che aumentare. Fortunatamente, conclude incredibilmente Foreign Affairs riferendosi – in particolare – al sudest asiatico (ma è un discorso che può essere facilmente ampliato), “Molti paesi non sono democrazie liberali e i loro governi non necessariamente attuano politiche estere che riflettono l’opinione pubblica”; insomma: anche se generalmente siamo visti male, possiamo sempre ricorrere a qualche ricatto e a un po’ di corruzione della classe dirigente per imporre con la violenza le magnifiche sorti e progressive che l’adesione acritica all’ordine neoliberale garantisce, anche se le persone comuni non sono in grado di capirle. Se non fosse che, conclude amaramente l’articolo, ormai “anche le democrazie illiberali sentono spesso l’esigenza di rispondere alle opinioni dei cittadini”; sapesse, contessa, non esistono più le care vecchie dittature di una volta…
Visto che non si può più fare troppo affidamento sui cari vecchi regimi militari instaurati col sostegno di qualche operazione sotto copertura, gli USA allora hanno tentato la strada delle promesse economiche: all’India, ad esempio, le hanno promesso che sarebbe diventata la prossima Cina, ma senza quella gigantesca rottura di coglioni che consiste nell’avere un Partito Comunista al potere, ma a quanto pare non gli è andata esattamente benissimo; invece di diventare un’alternativa alla Cina, l’India è diventata una sua terzista (un po’ come l’Italia con la Germania). Una vera manna: uno, perché ti permette di mantenere la competitività mano a mano che i salari all’interno aumentano; due, perché rende il paese terzista totalmente dipendente senza aver bisogno di minacciarlo militarmente o con qualche dossieraggio in stile Jeffrey Epstein. “Man mano che l’India ha incrementato la produzione di beni come smartphone, pannelli solari e medicinali, l’economia indiana è diventata sempre più dipendente dalle importazioni cinesi” ricorda il Post: “Le importazioni dell’India dalla Cina” continua “sono cresciute due volte più velocemente di quelle complessive e ora costituiscono quasi un terzo delle importazioni indiane in settori che vanno dall’elettronica alle energie rinnovabili passando per prodotti farmaceutici”; quasi due terzi delle importazioni indiane di componenti elettronici – dai circuiti stampati alle batterie – infatti, oggi provengono dalla Cina, che ha visto i volumi dell’export triplicarsi nell’arco di appena 5 anni. E almeno quella è un’industria che prima in India manco c’era; il grave è che la dipendenza nei confronti della Cina è aumentata anche nei settori dove prima c’era un’industria autoctona, ad esempio nel settore farmaceutico. l’India è da sempre un grande esportatore di prodotti farmaceutici anche verso il Nord globale, a partire proprio dagli USA; ma, come sottolinea di nuovo il Post, “Mentre prima l’industria nazionale produceva in casa gran parte dei propri ingredienti, ora fa sempre più affidamento sulla Cina per buona parte dei suoi input farmaceutici più importanti, come ad esempio il paracetamolo. Dal 2007 al 2022, la quota della Cina nelle importazioni indiane di prodotti chimici e farmaceutici è cresciuta di oltre il 50% e, solo negli ultimi cinque anni, le importazioni indiane dalla Cina di ingredienti farmaceutici e altri prodotti farmaceutici intermedi sono aumentate di oltre la metà”. Idem per il tessile, che è un altro fiore all’occhiello dell’export indiano, ma dove “l’India ha aumentato le importazioni di filati e tessuti dalla Cina”; e anche l’automotive, che era “considerata una storia di successo sia per le vendite nazionali che per quelle all’estero”, ma dove sono aumentate a dismisura “le importazioni di parti e accessori di veicoli dalla Cina”. E anche laddove l’India ha cercato di sviluppare una produzione autoctona di beni intermedi e di componentistica – ammette desolato il Post – è comunque “rimasta dipendente dalla Cina per le competenze”, tant’è che nonostante lo chauvinismo dell’era Modi e la crescente sinofobia, “I rappresentanti dell’industria indiana hanno fatto pressioni sul governo affinché allenti le restrizioni sui visti per i tecnici cinesi”; e recentemente il principale consigliere economico del governo indiano, Anantha Nageswaran, ha proposto anche di allentare le restrizioni sugli investimenti cinesi.
Insomma: non ci sono più le dittature e i colpi di Stato di una volta – e anche il potere economico diciamo che ha perso qualche colpo, che da un lato è una bella notizia, dall’altro è anche terrificante perché, ovviamente, l’unica carta che rimane da giocarsi è la guerra vera. Ma per sapere se quella alla fine può essere la soluzione, forse prima gli conviene farsi una chiacchierata con il compagno Dmytro Kuleba, il ministro degli esteri ucraino che ieri è stato cacciato, insieme ad altri 6 colleghi, per un mega rimpasto di governo che così, a occhio, non credo significhi che sul campo le cose siano andando esattamente come sperato. L’unico posto in cui le cose continuano ad andare come sperato è nei titoli dei giornalacci e dei media finanziati dalle oligarchie dell’impero in declino; sarebbe arrivato il momento di creare un’alternativa e dare finalmente voce al 99%. Aiutaci a costruirla: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Daniele Capezzone

Tensione nel Pacifico: uno tsunami atomico investirà l’ Estremo Oriente? – ft. Giacomo Gabellini

Oggi pomeriggio presentiamo un panel che si è tenuto il 5 luglio presso il Circolo Arci di Putignano a Fest8lina, con relatori Giacomo Gabellini e Francesco Maringiò e moderatori Clara Statello e Giuliano Marrucci. Nel panel si è parlato dell’Oceano Pacifico, nuova linea di faglia del conflitto che il super-imperialismo USA ha aperto nei confronti della Cina e dello schieramento dei paesi emergenti. Proprio in queste settimane si stanno tenendo nell’area fatti importantissimi: la visita di Putin in Corea del Nord e in Vietnam, la discussione di un accordo tra Giappone e Filippine e il rinvio di armi dagli USA a Taiwan. Così, mentre il mondo si concentra su quanto accade in Ucraina e a Gaza, esplodono nuove contraddizioni e conflittualità in Estremo Oriente. Buona visione!

#Pacifico #guerra #imperialismo #Cina #USA #Vietnam #Taiwan #Filippine #Corea #Giappone #Russia #ASEAN

Gli USA convincono Giappone e Filippine a immolarsi per la sua Grande Guerra contro la Cina

“Stati Uniti e Giappone pianificano il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni”; manco il tempo di fare un minibrindisino per la risoluzione che Cina e Russia, finalmente, sono riusciti a imporre agli amici del genocidio della Casa Bianca al Consiglio di sicurezza dell’ONU che ecco un altro fronte che si avvia inesorabilmente verso l’escalation, il fronte per eccellenza: “Biden e Kishida” annuncia il Financial Times “annunceranno una mossa per contrastare la Cina alla riunione della Casa Bianca del mese prossimo”. Quello che è in ballo è, appunto, il più importante aggiornamento del patto di sicurezza tra i padroni di Washington e il loro principale vassallo del Pacifico da quando, nel 1960, USA e Giappone firmarono il trattato di mutua difesa: un trattato edulcorato, almeno rispetto alle ambizioni dell’allora premier Nobusuke Kishi, il sanguinario amministratore della colonia della Manciuria ai tempi dell’impero, che venne salvato dagli USA in cambio della garanzia di trasformare il Giappone in un protettorato a stelle e strisce. La mobilitazione popolare lo costrinse alle dimissioni e il trattato venne rivisto al ribasso; e, così, il Giappone si rassegnò ad avere forze armate dedicate esclusivamente alla difesa e gli USA rinunciarono all’idea di avere il pieno controllo della catena di comando dell’alleato del Pacifico. Dopo 60 anni abbondanti di lavoro certosino, nel dicembre del 2022, intanto, è saltato in buona parte il primo tabù e il Giappone ha approvato una riforma radicale delle sue forze armate in chiave offensiva, che le dota – finalmente – di armi di attacco all’altezza della sfida cinese e che prevede di portare la spesa militare dall’1 al 2% di PIL.

Shinzo Abe

E’ l’eredita lasciata – prima di venire barbaramente assassinato – dalla buonanima di Shinzo Abe, nipote del gerarca Nobusuke Kishi e leader del Nippon Kaigi, la potente organizzazione clericofascista fondata dal nonno e che da decenni influenza profondamente la politica giapponese. Nonostante il riarmo, però – come sottolineava a suo tempo l’ex direttore per l’Asia orientale nel Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden su Foreign Affair – il problema della catena di comando rimaneva: “Il Giappone” sottolineava, “per massimizzare l’efficacia di questa sua nuova postura, deve rafforzare la sua alleanza con gli USA”; ci è voluto un anno, ma ora, finalmente, ci siamo arrivati. E non è tutto, perché il Giappone sarà, a breve, più potente e aggressivo che mai e totalmente sotto controllo USA, ma è lontano.
Ed ecco allora la soluzione: facciamoci prestare le Filippine; dopo la parentesi multipolare e sovranista dell’amministrazione Duterte, con la presidenza Marcos le Filippine sono tornate alla loro vecchia condizione di portaerei dell’imperialismo USA nel cuore del Pacifico e hanno rimesso in moto l’EDCA, l’Enhanced Defense Cooperation Agreement – l’accordo di cooperazione rafforzata in materia di difesa che, sostanzialmente, permette alla marina militare a stelle e strisce di fare un po’ cosa cazzo gli pare. Siglato nel 2014 durante la presidenza filocolonialista di Aquino, prevedeva inizialmente 5 location dove far scorrazzare armi, navi e uomini USA a volontà e nessuna nella parte settentrionale dell’arcipelago, quella più utile per un’eventuale guerra con epicentro Taiwan; ora, fatto fuori Duterte, il piano torna in grande stile con 4 nuove location, tutte a un tiro di schioppo da Taipei e con anche un extra bonus: un nuovo porto nelle minuscole isole Batanes, a meno di 200 chilometri dalle coste di Taiwan. E visto che la flotta giapponese sarà, a breve, sostanzialmente eterodiretta da Washington, ecco che la relazione si allarga e diventa una bella threesome: a partire da novembre, infatti, Filippine e Giappone hanno avviato i negoziati per un accordo di accesso reciproco per le rispettive truppe: l’11 aprile prossimo i rispettivi leader sono entrambi attesi alla Casa Bianca per il primo trilaterale USA – Giappone – Filippine.
Nel frattempo, le provocazioni USA su Taiwan – con la vendita del sistema di telecomunicazioni militari Link 16 e la fuga di notizie sugli addestratori americani nell’isola di Kinmen, a 10 chilometri dalla repubblica popolare di Cina – continuano ad aumentare; ora rimane solo da convincere definitivamente i vassalli europei ad accollarsi la guerra di logoramento contro la Russia in Ucraina e dintorni e assicurarsi che il massacro dei bambini a Gaza non si trasformi in una dispendiosa guerra regionale, obiettivo talmente importante da obbligare gli USA, per la prima volta, addirittura a non mettere il veto in Consiglio di sicurezza, dopodiché, finalmente, gli USA si potranno concentrare a tempo pieno nella vera partita del secolo: la grande guerra del Pacifico contro il primo paese che ha osato superare la potenza economica del padrone del mondo. Prima di procedere con i dettagli di questo racconto inquietante, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola, ma vitale, battaglia contro gli algoritmi e anche di aiutarci a crescere iscrivendovi a tutti i nostri canali, compreso quello Youtube in inglese, e attivare le notifiche: non riusciremo a bloccare l’armageddon, ma almeno proveremo a dare un contributo affinché, mentre ci preparano la tomba, non ci prendano anche impunemente per il culo.
“La Cina ha continuato e intensificato i suoi tentativi di modificare unilateralmente lo status quo con la Forza” e nel contesto “più grave e complesso” scaturito da questa aggressività “dobbiamo rafforzare la collaborazione con le nazioni che la pensano allo stesso modo”: la bozza del Diplomatic Bluebook 2024, il documento che descrive le linee guida della politica internazionale del Giappone per l’anno venturo e che è stata anticipata alla stampa nei giorni scorsi, è una vera e propria bomba incendiaria, soprattutto perché anticipa lo spirito col quale il premier Kishida ha deciso di affrontare lo storico trilaterale dell’11 aprile organizzato da Rimbambiden e che, oltre a USA e Giappone, vedrà la presenza delle Filippine. Ma perché un’alleanza solida tra Filippine e Giappone è così fondamentale per la strategia USA? Ma come perché! Sembrano nate l’una per l’altra!
Per affrontare la Grande Guerra del Pacifico contro il Nemico Esistenziale del loro modello imperiale unipolare, gli USA – infatti – prima di tutto devono risolvere un problemino piuttosto impattante: in una lunga guerra convenzionale contro una potenza industriale delle dimensioni della Cina, alla lunga – dopo 40 anni di finanziarizzazione e di deindustrializzazione, infatti – sono inevitabilmente destinati a soccombere; gli USA, infatti, hanno smesso di produrre tante cose, ma – in particolare – hanno smesso di produrre navi. Cioè, continuano – ovviamente – a produrre navi da guerra, ma a un ritmo e a costi che vanno bene solo per tempi di pace; in caso di guerra, per affrontare le quantità richieste c’è solo un modo: convertire la produzione civile a militare. Cioè, non è che ti puoi inventare i porti, le banchine, la manovalanza, le linee produttive e tutta la filiera da zero; ci devi avere la produzione civile già sviluppata e convertirla alla produzione militare e, molto banalmente, quella produzione gli USA non ce l’hanno – non nel senso che non ne hanno abbastanza: proprio che non ce l’hanno del tutto. In tutto, in un anno, producono imbarcazioni per 73 mila tonnellate; la Cina per 26 milioni e, come abbiamo ricordato diverse volte, alla fine quello è l’unico parametro che conta davvero. Hai voglia te di convincerti delle vaccate dei suprematisti sui primati tecnologici e segate varie: una grande guerra del mare la vince chi produce più navi. Punto. Il resto e fuffa. E la Cina, da sola, produce metà delle navi prodotte nel mondo.
Fortunatamente per gli USA, però, l’altra metà è concentrata in due paesi amici: Giappone e Corea del sud, insieme, coprono sostanzialmente l’altra metà della produzione mondiale; al resto rimangono gli spiccioli. Quindi, il primo scoglio da superare è fare in modo che Corea del sud e Giappone siano senza se e senza ma nella partita. Facile, direte. Fino a un certo punto, perché una cosa è essere amici e volesse bene, un’altra è essere così amici che – non dico per vincere, ma anche solo per poterci sperare – dipendo interamente da te: siccome in ballo non c’è la coppa del dopolavoro ferroviario per un torneo di calcetto babbi contro figli, se io dipendo da te per vincere devo essere sicuro al 100% che fai tutto quello che dico io quando lo dico io e, tradotto in termini militari, significa che la catena di comando, alla fine, fa riferimento a me e soltanto a me – che, per la Corea del sud, in buona misura è già così.
Per il Giappone, paradossalmente, un po’ meno: nonostante il trattato tra i due paesi preveda il mutuo soccorso, le forze armate giapponesi, tutto sommato, sono sempre rimaste nella loro bolla, con una catena di comando a se; il primo punto, quindi, è superare questo ostacolo e rivedere il patto in modo che le forze armate giapponesi diventino, a tutti gli effetti, un braccio interamente gestito dalla testa a stelle e strisce e questo è quello che, appunto, si vuole ottenere con il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni a cui accennavamo all’inizio. Per il Giappone si tratta di una scelta epocale, che lo destina a un futuro e di incertezze; e il bello è che a prendere questa scelta sarà un primo ministro che ha una percentuale di consensi di poco superiore al 20% (le grandi magie del mondo libero e democratico…). Comunque, dal momento che l’altro 80% non s’è saputo organizzare adeguatamente, per quanto schifato anche dai parenti, Kishida sembra poter portare a casa questo risultato senza troppi problemi.

Fumio Kishida

Facciamo quindi conto che il problema della produzione delle navi e della catena di comando sia risolto; rimane, però, il problema della geografia perché con gli arcipelaghi meridionali – fino ad arrivare a Taiwan inclusa – un pezzo di accerchiamento alla Cina è fatto, ma rimane tutta la parte più a sud: ed ecco qua che entrano in ballo le Filippine. Che le Filippine rappresentino una pedina fondamentale per il dominio del Pacifico occidentale, gli USA lo sanno da sempre e, infatti, da sempre hanno fatto in modo di tenerle sotto controllo e nel 2014, durante la presidenza Aquino, l’avevano scritto nero su bianco: in 5 località sparse per le Filippine gli USA possono manovrare di tutto e di più, a loro piacimento. Poi però, appunto, era arrivato Duterte, che questa storia di essere una colonia USA non è che l’apprezzasse tanto, ma quell’epoca sembra tristemente tramontata; il nuovo presidente, all’inizio, aveva promesso di continuare sulla linea di avvicinamento a Cina, Russia e Sud Globale del predecessore – anche perché, altrimenti, non avrebbe mai vinto – ma dal giorno dopo il suo insediamento ha cambiato linea. Le malelingue dicono sia ricattabile: durante il regime del padre, infatti, si mormora che la sua famiglia abbia imboscato, col sostegno USA, in vari paradisi fiscali sparsi per il mondo una decina di miliardi; “Alcuni osservatori” riporta Asia Times “sospettano che Washington possa aver allentato il controllo sull’enorme ricchezza illecita dei Marcos, in cambio di un maggiore accesso alle basi militari e una più profonda cooperazione in materia di sicurezza”. Ed ecco così che, come per magia, dalle promesse elettorali si passa alla consegna chiavi in mano del paese agli americani per trasformarlo nella testa di ponte per la grande guerra contro la Cina, cosa che sembra Duterte non abbia gradito particolarmente: “Abbiamo un presidente tossicodipendente e figlio di puttana” avrebbe dichiarato col suo solito rispetto del politically correct al limite della pedanteria.
In sostanza, le Filippine con Marcos hanno concesso agli USA 4 nuove basi; siccome la costituzione, sostengono molti, in realtà lo vieterebbe, hanno trovato questo escamotage: uomini e attrezzature non potranno essere stabili, ma dovranno ruotare (come se, di solito, non ruotassero e come se ci fosse qualcuno a controllare): una controllatina l’hanno data gli analisti dell’ATMI, l’Asia Maritime Transparency Initiative, e hanno trovato un sacco di sorpresine. Tutte le basi presenterebbero un’attività frenetica per lo sviluppo delle infrastrutture: “A quanto pare” scrive Asia Times “le Filippine stanno rafforzando in modo proattivo la loro deterrenza contro l’espansione della Cina nel Mar Cinese Meridionale a ovest, mentre si preparano anche a potenziali imprevisti nella vicina Taiwan a nord” e dall’11 aprile, appunto, tutto questo potrebbe diventare pienamente accessibile anche agli amici giapponesi; “La cooperazione trilaterale” scrive diplomaticamente il Global Times “potrebbe diventare una routine fissa e normalizzata in futuro, prevedendo esercitazioni militari, esercitazioni di sbarco sulle isole, pattugliamenti marittimi congiunti con altri paesi, e sfruttando la posizione delle Filippine nell’ASEAN per cercare di influenzare gli altri paesi dell’organizzazione multilaterale regionale”.
Al grande appuntamento per la threesome dell’anno, comunque, le Filippine hanno tutta la volontà di presentarsi il più agghindate possibile: “Oltre a fare affidamento sugli aiuti militari statunitensi” ricorda infatti Asia Times “le Filippine mirano a procurarsi moderni aerei da combattimento, sottomarini e sistemi missilistici strategici nell’ambito di un programma di modernizzazione militare da” – udite udite – “36 miliardi di dollari”; 36 miliardi di dollari per un paese che ha un PIL che non arriva a 450. Per capire l’entità: negli ultimi 2 anni abbiamo spalancato gli occhi di fronte al programma tedesco di riarmo da 100 miliardi di euro; ecco, in proporzione, le Filippine è come se ne avessero annunciato uno da poco meno di 400 miliardi. Oltre ai caccia F16 dagli USA e Saab Gripen dalla Svezia, Manila sta trattando per comprarsi pure i sottomarini; e non uno, ma tre, perché “Tre” hanno affermato pubblicamente “è un numero magico: uno in funzione, uno in addestramento e uno in riparazione/manutenzione” e, il tutto, rivolto minacciosamente contro la Cina. Le Filippine, infatti, hanno da pochissimo approvato una nuova strategia di difesa nazionale denominata CADCComprehensive Archipelagic Defense Concept – che sta per concetto globale di difesa arcipelagica e che, in soldoni appunto, vuol dire concentrare il grosso delle risorse verso la Cina e verso Taiwan; pronti per raggiungere le isole più settentrionali ci dovrebbero essere anche i nuovi missili da crociera supersonici BrahMos acquistati dall’India e che hanno una gittata di circa 900 chilometri e, sempre a partire dalle isole settentrionali, il prossimo mese USA e Filippine dovrebbero dare il via a un’esercitazione denominata Balikatan che dovrebbe coinvolgere circa 12 mila soldati americani e vedere in veste di osservatori la presenza, appunto, del Giappone e anche dell’Australia.
Insomma: si stanno scaldando i motori in attesa di essere un po’ meno affaccendati in altre faccende; intendiamoci, non che manchino gli ostacoli: prima che l’Europa – ammesso e non concesso riesca mai a farcela – possa, in qualche modo, essere autosufficiente nell’assistere l’Ucraina oggi e, magari, gli altri paesi dell’est europeo domani nella lunga guerra di logoramento della Russia, ancora ce ne manca e svincolarsi, per gli USA – se mai sarà possibile – sicuramente non sarà immediato. Basti considerare che mentre si cercavano di risolvere tutti i colli di bottiglia del Pacifico, a un certo punto gli USA si son accorti di essere messi così male da chiedere nuove armi per rimpinzare gli arsenali allo stesso Giappone, in particolare le batterie di Patriot; il Giappone ha obbedito immediatamente e siccome, in realtà, non poteva inviare i suoi missili Patriot negli USA, ha addirittura cambiato la legge in fretta e furia per far contento il padrone di Washington – che quindi, da un lato, significa che sulla fedeltà ci possono essere pochi dubbi, dall’altro però, appunto, significa che fino a che a provvedere ad armare l’Ucraina non ci penserà qualcun altro, anche col supporto di Tokyo la grande alleanza del mondo libero di tenere testa, sul piano industriale, al colosso produttivo cinese nel Pacifico potrebbe non essere in grado.
Qualche altro problemino potrebbe arrivare dai fronti interni in Giappone e anche in Corea del sud, due paesi che, ovviamente, hanno nella Cina – di gran lunga – il primo partner commerciale (la Corea del sud addirittura, caso più unico che raro, vantando addirittura un piccolo surplus commerciale): un giro di affari enorme messo fortemente a rischio dalla guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca e sul quale la Cina tenta di fare leva. A partire già dal lontano 1999, i 3 paesi tengono regolarmente degli incontri trilaterali – o meglio, tenevano: nel 2019, infatti, questa abitudine è stata interrotta; ma il bello è che è stata interrotta non a causa della Cina, ma per tensioni tra Giappone e Corea del sud. Inutile, comunque, farsi troppe illusioni: i rapporti tra i due paesi sono spesso tesi e i due popoli non è che si stiano proprio simpaticissimi, diciamo; ciononostante, gli USA hanno ancora una leva sufficiente a superare le divisioni e quando, nell’agosto scorso, li ha richiamati entrambi all’ordine con un incontro trilaterale sempre alla Casa Bianca, con la coda tra le gambe i due hanno fatto buon viso a cattivo gioco e hanno obbedito senza troppi distinguo. Più che ai mal di pancia di paesi che, comunque, si riconoscono pienamente nel capitalismo globalizzato e finanziarizzato garantito da Washington, conviene allora forse guardare altrove per trovare le vere debolezze di questo piano USA, a partire da Ansar Allah, che continua a tenere alta la preoccupazione per un’estensione del conflitto in Medio Oriente che rovinerebbe alla base tutti i piani di Washington – che è uno dei motivi che, appunto, lunedì ha portato gli USA a compiere probabilmente la più grande rottura nei confronti del fedele alleato sionista di sempre: per la prima volta dall’inizio della fase terminale del piano di pulizia etnica di Israele nei confronti dei gazawi, gli USA non hanno posto il veto al Consiglio di sicurezza a una risoluzione presentata dall’Algeria e sostenuta da tutti gli altri 13 membri (Regno Unito incluso) che impone un cessate il fuoco immediato e che gli USA si sono limitati a non votare astenendosi; ne è seguito il più importante scontro tra leadership USA e israeliana di cui ho memoria, con Israele che ha cancellato la visita programmata a Washington e Kirby che si è dichiarato molto deluso.
Gli USA, da dettare la linea senza troppi intoppi all’intera comunità internazionale, sono ormai sempre di più costretti a scegliere quale guerra ritengono essenziale per i loro interessi; e non è detto che gli basti: è il vero, grande, epocale segnale non solo che il Mondo Nuovo avanza, ma che, al netto di tutto, è già avanzato e che non saranno i vecchi media a darci gli strumenti per capirci qualcosa e attrezzarci per prendere le contromisure. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media tutto nuovo e che sia indipendente, ma di parte: quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini