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Lo sterminio di aziende italiane e tedesche: come funziona la guerra economica USA contro l’Europa

Nel 2013 perse oltre 100 mila aziende titolava ieri Il Sole 24 ore. Un dato allarmante, e più scavi dentro a quei numeri, e più inquietante diventa; intanto, per la distribuzione geografica: di queste 100 mila aziende, infatti, “54 mila solo nelle Marche e in Piemonte”. “Il tessuto produttivo di un’intera provincia italiana, grande quanto tutta Reggio Emilia” insiste Il Sole: “è questa l’entità delle aziende scomparse nelle sole regioni Marche e Piemonte tra il 2013 e il 2023”; ora, è vero che a guidare la classifica ci sono province come Biella e Vercelli, dove a pesare è stato anche un calo demografico consistente (rispettivamente -7,5 e -6,6%) che, ovviamente, ha avuto ricadute disastrose in particolare sulle attività commerciali, ma il brutto è che nella classifica ci sono anche province come Ancona, dove il calo demografico è stato solo del 3,4 e, invece, la diminuzione di imprese registrate supera il 15%. E qui, a pesare, è la chiusura di attività manifatturiere: -13%, che è comunque niente rispetto al -22% di Pesaro Urbino e – addirittura – il -28% di Fermo, un fenomeno che tocca anche realtà che, a prima vista, sembrano scoppiare di salute. Milano, ad esempio, nel complesso registra una crescita del numero delle attività poco inferiore all’8%; peccato siano tutti servizi: 9.200 attività professionali, 5.500 attività legate ai servizi finanziari e assicurativi e 3.700 legate alle attività ricettive. Ma anche qui, invece, nel manifatturiero si registra un vero tracollo: oltre 5.000 attività in meno, poco meno del 15 per cento; e anche quando i dati sono in controtendenza, nascondono uno scenario tutt’altro che entusiasmante. Tra le province con la maggior crescita di attività risulta infatti Taranto, al quarto posto con una crescita dell’8,1% nonostante un calo demografico superiore al 5: un miracoloso colpo di reni? Ma quando mai! Piuttosto, “Dopo la crisi industriale più grande del decennio, quella dell’ILVA, da acciaieria più grande d’Europa al baratro” sottolinea nel suo commento il caporedattore del Sole Lello Naso, “si è vista una crescita inaspettata di micro-imprese, rifugio per quadri e operai, compresi quelli dell’indotto, espulsi dall’industria”. Insomma, molto banalmente “Chi resta si ingegna con quel che c’è” e per mantenere il reddito che prima ti era garantito da un posto di lavoro stabile con tutti i diritti e la sicurezza che comporta, oggi devi perdere la salute in un’attività che, nella stragrande maggioranza dei casi, sta in piedi per miracolo e rischia di crollare alla prima folata di vento. “L’industria” riassume sempre Lello Naso “è il settore che perde più imprese, mentre i servizi, in tutte le loro declinazioni, sono il comparto che ne guadagna di più. Il segno di una grande manifattura che si sta trasformando in un’economia di servizi, non sempre avanzati. Turismo, accoglienza, ristorazione, manifestazioni ricreative e sportive sono i segmenti che crescono in maniera più decisa”. Insomma: un “paese a deriva Disneyland destinato a perdere ancora competitività e ad avere sempre più il fiato corto”; Naso ricorda come quello a cui stiamo assistendo è ancora in parte “la coda della crisi del debito sovrano del 2011-2023, con le conseguenze della più grande stretta del credito alle imprese della storia economica italiana”. Ma poi è arrivato qualcosa di molto peggio: il ritorno del protezionismo negli USA e la guerra senza frontiere all’economia europea; come ha ricordato entusiasta giovedì scorso Biden nel suo discorso sullo Stato dell’Unione “In realtà, le mie politiche hanno attirato 650 miliardi di dollari in investimenti privati nell’energia pulita e nella produzione avanzata, creando decine di migliaia di posti di lavoro qui in America”. A pagare il prezzo, appunto, siamo stati noi e in particolare la Germania che, come ricorda Naso, “per la prima volta nel dopoguerra” è entrata in recessione e “crisi della manifattura tedesca, significa crisi della fornitura e subfornitura italiana”. Nel pippone di ieri, appunto, abbiamo fatto le pulci all’importante discorso di Biden sullo Stato dell’Unione, nel quale ha annunciato in pompa magna la sua guerra economica senza frontiere agli alleati europei; con il pippone di oggi entreremo nel dettaglio delle conseguenze che questa guerra sta già facendo sentire. Pure troppo.
Steffen Cyris è il proprietario e amministratore delegato della Schrutka-Peukert, una storica azienda familiare bavarese specializzata in banconi per la gastronomia refrigerati e in attrezzature per la stagionatura delle carne bovina; ancora lo scorso Natale, durante la rituale festa coi dipendenti, riporta Bloomberg, “si era vantato del libro ordini gremito dell’azienda, e aveva detto ai dipendenti di tenersi pronti per un bel po’ di lavoro extra”, ma nel giro di poche settimane, come d’incanto, tutto quell’ottimismo è svanito nel nulla. “Macellerie e panetterie hanno annullato gli ordini” scrive ancora Bloomberg “e con il paese che scivola sempre più nella recessione, Cyris è sempre più preoccupato per le prospettive a lungo termine della sua attività”; “Le preoccupazioni di Cyris” continua Bloomberg “sono condivise da una bella fetta delle circa 3 milioni di aziende tedesche a conduzione familiare, che rappresentano ancora la spina dorsale dell’economia del paese, e che si trovano vicine a un punto di rottura”. Lo chiamano il mittelstand ed è, appunto, questo incredibile tessuto di piccole medie aziende che incarnano al meglio l’etica protestante e che hanno fatto la grandezza del capitalismo industriale tedesco; una lunga schiera di attività altamente specializzate sparse in tutto il paese e che spesso nascondono veri e propri campioni nazionali che si sono imposti come leader globali nelle nicchie più impensabili e dalle quali, in buona parte, dipendiamo anche noi italiani come fornitori e subfornitori, un tessuto che però l’austerity, il mercato unico europeo e la moderazione salariale degli ultimi 20 anni, alla fine dei giochi, non ha fatto che indebolire.
Invece di essere costrette a investire in innovazione e in aumento della produttività, le PMI tedesche – infatti – hanno potuto continuare a macinare profitti continuando a pagare i loro dipendenti molto meno di quanto producessero e, quando anche questo non era sufficiente, esternalizzando pezzi di produzione prima agli italiani e poi ai vicini dell’est, dalla Repubblica Ceca alla Polonia, passando per l’Ungheria; nel frattempo, grazie alla religione dell’austerity, anche la macchina pubblica tirava il freno a mano degli investimenti riducendo così, anno dopo anno, quello sviluppo delle forze produttive generali che continuava a rendere le imprese tedesche produttive: dalle infrastrutture funzionanti alla manodopera qualificata. E quando, alla fine, è arrivata la fine dell’energia a prezzo ultra scontato che arrivava dalla Russia, per continuare a rimanere competitive le aziende avrebbero dovuto affrontare investimenti consistenti; peccato, però, che da un lato il denaro necessario per questi investimenti abbia raggiunto un costo improponibile e, dall’altro, la recessione lasci temere che fatti questi investimenti poi non ci sarà un mercato sufficiente per giustificarli. Nel frattempo, si è fatta sempre più avanti la consapevolezza che per far fruttare i propri capitali non è necessario investirli in un’attività di successo: basta dedicarsi alla rendita finanziaria che, sempre più, garantisce ritorni stabili e permette di non avere a che fare con quei lavoratori sporchi e cattivi che, dopo 2 anni di inflazione a doppia cifra, sono capaci pure di chiederti l’aumento dei salari. Ed ecco così che quando le aziende familiari arrivano al momento fatidico della successione agli eredi, gli eredi di menarsela ancora con questa grandissima rottura di coglioni che è lavorare per guadagnare non ne vogliono sapere e decidono di vendere per poi, appunto, usare il ricavato per comprarsi qualche azione di Nvidia o di Amazon, o – al limite – qualche bitcoin: “Quasi ogni settimana ricevo chiamate da imprenditori familiari instabili” avrebbe rivelato il fondatore della May Consulting a Bloomberg; “Mi chiedono se dovrebbero vendere, e se vale ancora la pena fare l’imprenditore in Germania”.
Quelli che, invece, non vogliono mollare la presa hanno un’unica possibilità: l’America, a partire proprio dal nostro Cyris che “per mitigare parte degli affari che sta perdendo in Germania” – riporta Bloomberg – “ha iniziato a trasferire parte della sua attività negli Stati Uniti con il marchio The Aging Room” (la stanza dell’invecchiamento) e “ora” continua Bloomberg “sta vendendo locali per la stagionatura della carne bovina a ristoranti e macellerie raffinati in stati come la California o la Florida”. “Inventato in Germania, prodotto negli Stati Uniti” avrebbe affermato Cyris: questa “potrebbe essere la strada da seguire”ed è, più o meno, la strategia che stanno adottando sempre di più anche i gruppi più grandi. Porsche ha da poco annunciato che starebbe valutando l’idea di annullare il progetto di un nuovo stabilimento per la produzione di batterie nel Baden-Wuerttemberg in favore dell’altra sponda dell’Atlantico; un altro esempio paradigmatico è quello di Viessman, il leader tedesco delle pompe di calore: in questo caso, il timore della debolezza del mercato interno ai tempi della grande stagnazione non c’entra. A creare il mercato, infatti, c’ha pensato direttamente il governo che, in nome della transizione ecologica, ha fatto della sostituzione dei riscaldamenti a gas con le pompe di calore un cavallo di battaglia: nonostante i costi proibitivi, l’anno scorso il governo tedesco ha approvato una legge che prevede il divieto di nuovi sistemi di riscaldamento a gas a partire da quest’anno; inevitabilmente la gente s’è incazzata nera. Secondo la propaganda antipoveri s’è trattato, ovviamente, di una strumentalizzazione dei fasciocomplottisti perché in realtà – sostengono – per sostituire le pompe di calore ai vecchi sistemi ci sono ricchi incentivi: peccato che, come riporta anche Deutsche Welle, nonostante gli incentivi, i sistemi a gas costino 10 mila euro; le pompe di calore 17 mila. L’hanno etichettata come l’ennesima rivolta dei negazionisti, ma erano semplicemente poveri (anche se, ovviamente, per l’ecologismo delle ZTL sono sinonimi); comunque sia, il mercato era assicurato e per un leader del settore come Viessman si prospettava un futuro di profitti stratosferici. Evidentemente non basta: ad aprile dell’anno scorso Viessmann, infatti, comunica ufficialmente l’acquisizione da parte di Carrier, il colosso globale del riscaldamento di Palm Beach, Florida. Costo dell’operazione: 12 miliardi di dollari che gli eredi Viessmann hanno annunciato utilizzeranno per “espandere le attività del family office”, riporta Bloomberg (tradotto: per dedicarsi alla speculazione finanziaria alla borsa di New York).
I nuovi investimenti produttivi, invece, di fronte a un mercato in enorme espansione si sposteranno tutti negli USA, attratti dagli enormi incentivi fiscali dell’Inflation reduction act, l’arma di distrazione di massa dell’economia produttiva europea che costituisce il cuore pulsante della Bidenomics; in questo modo, gli USA ci guadagnano due volte: da un lato rilanciano il loro manifatturiero grazie a un debito che, alla fine, in buona parte paghiamo noi e, dall’altro, attirano sempre più quattrini sui loro mercati finanziari, necessari per continuare a sostenere a oltranza lo schema Ponzi, a meno che tutti gli eredi Viessmann che stanno svendendo il continente non decidano di darsi alla speculazione finanziaria, ma, invece che a New York, sotto casa.
I mercati europei, effettivamente, da qualche tempo a questa parte stanno andando alla grande, ma c’è qualche problemino; primo di tutto, sono minuscoli: nonostante il GDP dell’Unione Europea sia solo di circa il 25% più basso di quello USA, la capitalizzazione in borsa di tutti i paesi messi insieme è poco più di un quinto di quella della sola New York, ed è anche estremamente concretata. Il 50% della crescita negli ultimi 12 mesi di tutto l’indice Stoxx 600 che, come suggerisce il nome, racchiude i 600 principali titoli europei per capitalizzazione, è dovuto interamente a un microgruppo di 11 società: sono le così dette GRANOLAS, un acronimo che indica i colossi farmaceutici GalxoSmithKline e Roche, la leader dei macchinari per la produzione di chip ASML, le svizzere Nestlè e Novartis, la leader mondiale dei farmaci per il diabete Novo Nordisk, le francesi l’Oreal e LVMH, la britannica Astra Zeneca, l’azienda di software tedesca SAP e la francese Sanofi; esattamente come per i 7 colossi del big tech a stelle e strisce che, da soli, pesano per il 28% dello Standard&Poor 500, fatta 100 la capitalizzazione totale a gennaio 2021, oggi l’indice è schizzato ben oltre quota 160. Tutte assieme le GRANOLAS, però, superano di poco la capitalizzazione della sola Nvidia nonostante, ancora nel 2023, abbiano generato 3 volte i suoi profitti e fatturino 8 volte di più.
L’unica delle GRANOLAS che, benché capitalizzi meno della metà del più piccolo dei giganti tecnologici USA, potrebbe mirare ad registrare performance simili è proprio la Novo Nordisk, un’azienda decisamente sui generis: il 28% della proprietà e il 77% dei diritti di voto sono infatti in mano a una fondazione no profit; la più grande fondazione caritatevole del pianeta, con un patrimonio che è più del doppio di quella di Bill e Melinda Gates; come la fondazione Gates, ovviamente, non può essere confusa con una sorta di cugino, manco di dodicesimo grado, del socialismo, ma forse qualche differenza c’è. Per dirne una, nel 2022 Meta in borsa ha perso il 70% di capitalizzazione; ciononostante, i suoi 5 top executive si sono portati a casa 106 milioni di dollari. Nello stesso periodo, Novo Nordisk – invece – ha guadagnato oltre il 30%, ma i suoi top executive si sono portati a casa 35 milioni, mentre, secondo Glassdoor, i salari medi sono più alti di circa il 10%. Negli ultimi 3 anni Novo Nordisk ha più che quadruplicato il valore delle sue azioni e, con quasi 600 miliardi di dollari di capitalizzazione, è di gran lunga la leader indiscussa del mercato azionario del vecchio continente, una fortuna fondata tutta sui farmaci contro il diabete che, guarda caso, hanno rappresentato una fetta consistente del discorso di Biden sullo Stato dell’Unione: “Finalmente abbiamo battuto Big Pharma. Invece di pagare 400 dollari al mese o giù di lì per l’insulina contro il diabete, quando al produttore ne costa solo dieci, abbiamo fatto sì che ne vengano pagati solo 35 al mese”. Dal discorso di Biden il titolo ha perso il 3,6%; ho come l’impressione che se qualcuno crede di poter replicare il gran casino a stelle e strisce sul continente europeo, dovrà presto ricredersi: manco le briciole questi ti lasciano. Il bello è che, di fronte a ogni evidenza, continuano comunque a provare a intortarci: secondo il Financial Times, infatti, gli USA attraggono gli investimenti non perché è in corso la più grande rapina a mano armata della storia dell’umanità, ma perché “hanno ampliato il loro vantaggio in termini di produttività rispetto all’Europa”; “Nuovi dati pubblicati venerdì” continua l’articolo “mostrano che la produttività dell’Eurozona è scesa dell’1,2% nel quarto trimestre rispetto all’anno precedente, mentre negli Stati Uniti è aumentata del 2,6”. E graziarcazzo: al di là delle leggende metropolitane degli analfoliberali, la produttività da una cosa dipende, e solo da quella: gli INVESTIMENTI; il resto è fuffa.
D’altronde, fare parte del giardino ordinato del mondo libero ha un prezzo: senza il cappello di Washington, chi avrebbe mai il coraggio di mandare oltre 100 imbarcazioni di armi a Tel Aviv mentre sta compiendo il più grande massacro di civili del XXI secolo sapendo che, prima o poi, qualcuno ce ne verrà a chiedere conto e, probabilmente, non lo farà con un mazzo di rose in mano?
Perché, alla fine, è di questo che si tratta: ci lasciamo derubare sistematicamente per finanziare un regime criminale intento a provare ad arrestare la storia con le armi e con la finanza; e poi il matto era Aaron Bushnell. Contro la propaganda che copre la più grande rapina della storia dell’umanità dopo il colonialismo di fine ‘800, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che faccia i conti in tasca alle nostre élite di svendipatria e difenda gli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è David Parenzo

OttolinaTV

12 Marzo 2024

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