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Tag: investimenti

La Cina di Xi umilia l’impero e costringe Rimbambiden e le oligarchie a chiedere la grazia

Alleluja, alleluja! Forse Rimbambiden, finalmente, comincia a prendere atto della realtà e abbassa un po’ la cresta: Stati Uniti e Cina tornano al dialogo titolava ieri Libero; Una telefonata per il disgelo rilanciava Il Giornale. Martedì scorso, infatti, Rimbambiden ha smesso per ben 105 minuti la divisa da padrone del pianeta e ha chiesto udienza a Xi Dada; avrebbe preferito continuare a provocarlo con i suoi berretti verdi mandati ad addestrare il personale taiwanese a 2 chilometri dalla costa della Repubblica Popolare, ma probabilmente ha realizzato che, giorno dopo giorno, la grande strategia per arrivare al conflitto diretto contro l’unica superpotenza in grado di sfidare il primato USA perde sempre più pezzi. Il braccio armato dell’impero per il dominio del Medio Oriente ha perso la capa e, dopo 6 mesi di sterminio indiscriminato, rischia di impantanare gli USA in una guerra regionale in Medio Oriente senza via d’uscita; dopo due anni di guerra per procura in Ucraina, la Russia sembra più in forma che mai e l’Europa non è riuscita a fare mezzo passo per accollarsi la guerra di logoramento e lasciare gli USA liberi di concentrarsi sul Pacifico e il terzo fronte, quello della guerra economica e commerciale contro la Cina, ha raggiunto risultati soddisfacenti solo negli editoriali de Il Foglio e der Bretella Rampini. Per Foreign Affairs, invece, meglio non farsi troppe illusioni perché “La Cina sta ancora crescendo” e, in un lungo e dettagliato articolo, spiega – numeri alla mano – perché tutto l’allarmismo della propaganda suprematista occidentale è, molto banalmente, completamente infondato.
L’unica nota positiva, non da poco, è che sono riusciti a bastonare talmente forte gli altri membri della NATO che nessuno ha più neanche l’ambizione di far sentire la sua voce e gli USA si sono garantiti un altro anno di crescita economica letteralmente rapinando gli alleati, ma anche qui le perplessità non mancano perché, per scippare gli investimenti ai vassalli, gli USA hanno dovuto aprire i rubinetti del debito pubblico e proprio mentre, per attirare capitali, alzavano i tassi dei buoni del tesoro USA a livelli record. Risultato: Bloomberg Economics ha eseguito un milione di simulazioni per valutare le prospettive del debito americano e “L’88% mostra che l’indebitamento segue un percorso insostenibile”, ma non solo; per tentare di tornare ad essere una grande superpotenza manifatturiera – che è una precondizione necessaria anche solo per pensare di poter fare una guerra contro la Cina e uscirne vivi – gli USA hanno rinunciato a rafforzare i legami commerciali con il resto del mondo, a partire dai paesi dell’ASEAN, i 10 paesi del Sudest asiatico strategicamente indispensabili per accerchiare la Cina. Gli USA partivano pure avvantaggiati perché, ovviamente (e anche legittimamente), come sempre, i paesi temono di più il gigante cinese che hanno dietro casa che non quello USA che sta a migliaia di miglia di distanza, anche se è strutturalmente più aggressivo e, infatti, ancora l’anno scorso, secondo un sondaggio dello Yusof Ishak Institute, il 61% degli abitanti dei paesi dell’ASEAN dichiarava di preferire gli USA alla Cina; un anno dopo il quadro era totalmente stravolto, con i filocinesi che diventavano, per la prima volta nella storia, maggioranza assoluta raggiungendo quota 50,5%, un’evoluzione che vi avevamo anticipato qualche mese fa quando, proprio mentre Xi e Biden si stringevano la mano a San Francisco, il vertice dell’APEC si concludeva con un clamoroso nulla di fatto. Gli USA, infatti, sulla spinta sacrosanta dei principali sindacati del paese, si sono rifiutati di siglare l’Indo-Pacific economic framework, l’accordo di libero scambio che avrebbe aperto i mercati statunitensi ai produttori del sud est asiatico, e hanno lanciato così un segnale chiaro ai paesi dell’area: abbiamo bisogno di voi per contrastare l’ascesa cinese, ma non ci chiedete qualcosa in cambio perché, in questo momento, non ce lo possiamo permettere.
La Cina invece, nel frattempo, consolidava la sua posizione di principale partner commerciale per tutti i paesi dell’area e, in parte, è proprio grazie alle geniali strategie di USA e vassalli all’insegna del decoupling e del friendshoring che hanno avuto una conseguenza paradossale: importiamo meno dalla Cina e di più da altri paesi asiatici che, però, spesso non fanno altro che assemblare prodotti cinesi e, quindi, diventano sempre più dipendenti dalla Repubblica Popolare. Ma non solo: la Cina, infatti, che è a corto di risorse solo sui nostri giornali, è tornata a investire pesantemente lungo la via della Seta e, come al solito, nonostante badi ai suoi interessi, in modo molto meno predatorio di quanto fatto in passato dalle ex potenze coloniali. Come, ad esempio, in Indonesia: Widodo ha deciso di mettere fine al furto di nichel da parte delle multinazionali e ha introdotto il divieto all’esportazione della materia prima non lavorata, imponendo così alle aziende di investire nel paese per introdurre la lavorazione della materia prima e portare così occupazione e ricchezza. Le oligarchie occidentali si sono incazzate come bestie; i cinesi, invece, l’hanno sostenuto e hanno fatto investimenti giganteschi. Risultato: il 70% degli indonesiani afferma di preferire la Cina agli USA. Ma prima di andare avanti e raccontarvi, per filo e per segno, come Rimbambiden è riuscito a inimicarsi mezzo pianeta, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, già che ci siete, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare le notifiche: a voi non costa niente e a noi aiuta a provare a rompere il muro della propaganda suprematista.

Joe rimbamBiden

Prima che Rimbambiden si decidesse ad alzare la cornetta, a capire che non era tanto il caso di fare troppo i bulli con Xi Dada erano stati le stesse oligarchie USA: il primo appuntamento risale al novembre scorso quando, a latere dell’APEC di San Francisco – mentre gli USA facevano infuriare gli uomini d’affari americani e asiatici rifiutandosi di siglare l’Indo-Pacific economic framework – Xi veniva accolto, come titolava il Financial Times, dal mondo del business con una standing ovation; il 22 marzo, poi, una delegazione di dimensioni mai viste si è recata ricca di speranza al China Development Forum, la Davos cinese e, due giorni dopo, una rappresentanza di una ventina di multimiliardari capitanati da Stephen Schwarzman di Blackstone e Cristiano Amon di Qualcomm sono andati a rendere omaggio direttamente a Xi nella Grande sala del Popolo, il luogo in assoluto più iconico del governo indiscusso del Partito Comunista cinese. Il motivo è piuttosto semplice: tutte le favolette sulla crisi cinese che leggete dagli analfoliberali del gruppo Gedi o sentite farfugliare sul web dai vari Boldrin e Forchielli, molto semplicemente, sono sostanzialmente puttanate e chi, nella vita, non ambisce ad altro che a fare sempre più quattrini, lo sa bene. E per scoprirlo non c’ha manco bisogno di seguire Ottolina Tv: basta leggersi l’Economist o Foreign Affairs, dove Nicholas Lardy del Peterson institute for international economic si è preso la briga di smontare, una per una, le principali leggende metropolitane della propaganda suprematista.
Lardy ricorda come “Per oltre due decenni, la fenomenale performance economica della Cina ha impressionato e allarmato gran parte del mondo. Ma dal 2019, la crescita lenta della Cina ha portato molti osservatori a concludere che la Cina ha già raggiunto il picco come potenza economica e il presidente Biden lo ha anche affermato chiaramente nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di marzo: Per anni, ha dichiarato, ho sentito molti dei miei amici repubblicani e democratici dire che la Cina è in crescita e l’America è in ritardo. E’ il contrario della realtà”, “ma questa visione sprezzante del paese” sottolinea sarcastico Lardy “potrebbe sottovalutare la resilienza della sua economia”; secondo Lardy, il pessimismo sulle prospettive dell’economia cinese si fonda su una lunga serie di fraintendimenti, regolarmente contraddetti dai dati oggettivi: il primo è “che il reddito delle famiglie, la spesa e la fiducia dei consumatori in Cina siano deboli”. Purtroppo però, fa notare Lardy, “I dati non supportano questa visione”; nel 2023, infatti, ricorda Lardy, sono successe due cose significative: la prima è che mentre in tutto l’Occidente collettivo il potere d’acquisto delle famiglie crollava a causa dell’inflazione e della moderazione salariale, “in Cina il reddito reale pro capite è aumentato del 6%” – mentre a noi, in Italia, in due anni ci levavano dalle tasche l’equivalente di poco meno di due stipendi. Ma non è tutto, perché in Cina, al contrario delle leggende, il consumo pro capite aumentava ancora di più: +9%; in Italia, per dire, il consumo al dettaglio è in diminuzione da 20 mesi consecutivi. “Il secondo fraintendimento” continua Lardy “è che la Cina sia entrata in una fase deflattiva” e, cioè, quando i prezzi – nel tempo – diminuiscono invece che aumentare, disincentivando sia i consumi che gli investimenti e aprendo, così, le porte alla recessione. Ora, “E’ vero che i prezzi sono aumentati soltanto dello 0,2% l’anno scorso”, ma questo è dipeso, in buona parte, dal fatto che ad essere diminuiti sono stati i costi di cibo ed energia mentre il resto, quella che si chiama inflazione core, è aumentata dello 0,7%, tant’è che le aziende, invece di usare i profitti per abbattere il debito (come si fa quando è in arrivo una recessione), si sono indebitate ulteriormente per investire e “gli investimenti nel manifatturiero, minerario, dei servizi pubblici e dei servizi in generale”: ed ecco così che, alla fine del 2023, nel paese si contavano la bellezza di 23 milioni di nuove aziende familiari; in Italia ne erano state chiuse qualche decina di migliaia.
Quello che confonde gli analfoliberali e i cantori della finanziarizzazione, come sottolinea l’Economist, è che “quando un paese raggiunge il livello di sviluppo della Cina, l’economia tipicamente ruota verso i servizi”. Ma nel caso del socialismo con caratteristiche cinesi “il cuore del governo è altrove”; come sottolinea Tilly Zhang di Gavekal Dragonomics “Ciò che la Cina vuole veramente essere è il leader della prossima rivoluzione industriale” e non è solo questione di crescita nominale del PIL – e fa specie che, per vederlo scritto, si debba leggere una bibbia dell’ortodossia come l’Economist, perché la sinistra progressista non ci arriva manco se ce li accompagni per mano. Il tema è quello dello sviluppo delle Nuove forze produttive, il nuovo tormentone del vocabolario ufficiale del partito: “L’espressione nuove forze produttive” scrive l’Economist “evoca l’idea dialettica secondo cui un accumulo di cambiamenti quantitativi può provocare una rottura qualitativa o un salto improvviso, come diceva Hegel, come quando un aumento incrementale della temperatura a un certo punto trasforma l’acqua in vapore. Marx” continua l’Economist “notava che quando nuove forze produttive raggiungono un peso sufficiente nell’economia, possono stravolgere l’ordine sociale: Il mulino a mano ti dà la società con il signore feudale, scrisse; il mulino a vapore, la società con il capitalista industriale”.
Secondo Barry Naughton dell’Università della California, “La strategia di innovazione della Cina è il più grande impegno di risorse governative della storia verso un obiettivo di politica industriale”; “I risultati” continua l’Economist “sono stati migliori di quanto qualsiasi paese a reddito medio potesse aspettarsi” e ricorda come l’Australian Policy Research, l’anno scorso, aveva documentato come – in una lunga lista di 64 tecnologie critiche – la Cina, in termini di impatto delle pubblicazioni scientifiche in materia, dominava in tutte, a parte una decina. “Il Paese” continua l’Economist “è il numero uno nelle comunicazioni 5G e 6G, nonché nella bioproduzione, nella nanoproduzione e nella produzione additiva. È all’avanguardia anche nei droni, nei radar, nella robotica e nei sonar, nonché nella crittografia post-quantistica”. Il Global Innovation Index, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale, combina circa 80 indicatori che abbracciano infrastrutture, normative e condizioni di mercato, nonché investimenti in ricerca, numero e importanza dei brevetti e numero di citazioni nella letteratura scientifica: un paese a reddito medio con un PIL pro capite come quello cinese si dovrebbe collocare, su per giù, verso la sessantesima posizione; la Cina è al 12° posto.
E mentre la Cina continua a concentrare una quantità incredibile di risorse per sviluppare le nuove forze produttive, anche a costo di rinunciare a qualcosina in termini di crescita nominale del PIL e in attesa che l’intensità tecnologica sia tale da imporre un cambio radicale anche dei rapporti di produzione, le occasioni per fare una montagna di quattrini non mancano: basta vedere l’incredibile caso di Huawei che nel 2023, nonostante la guerra commerciale a 360 gradi ingaggiata dall’Occidente collettivo (che, ormai, ha abbandonato completamente la retorica del libero mercato e combatte la concorrenza esclusivamente a colpi di protezionismo e restrizioni), ha registrato una crescita dell’utile netto del 144%; oltre alle infrastrutture per le telecomunicazioni, dove Huawei – nonostante tutto – rimane leader indiscussa, a trainare i conti dell’azienda a partire dall’ultimo trimestre, in particolare, è stato il Mate 60 pro, lo smartphone che ha fatto sudare freddo tutto l’Occidente. Come ricorda Asia Times, infatti, il Mate 60 pro è dotato di un processore che “a causa delle sanzioni imposte dagli USA e che hanno impedito all’olandese ASML di vendere in Cina i suoi sistemi di litografia ultravioletta estrema, il dipartimento del commercio statunitense aveva pensato che sarebbe stato impossibile produrre”; per arrivare a questo risultato, Huawei “ha speso per la ricerca e lo sviluppo nel 2023 il 23,4% dei suoi ricavi, più del doppio di quanto investe la coreana Samsung. E’ il terzo anno di fila che la spesa supera il 20% del fatturato, e permette di diversificare la linea di prodotti e aggirare le sanzioni imposte dagli USA”. In generale, sottolinea uno studio del Center for Strategic and International Studies, “Il sostegno statale cinese per la politica industriale è eccezionalmente alto, stimato a 406 miliardi di dollari, ovvero l’1,73% del PIL, nel 2019. Contro lo 0,39% del PIL negli Stati Uniti e allo 0,5% in Giappone”; il Financial Times ricorda come “Negli Stati Uniti e in Europa, i politici temono che una spesa così pesante si tradurrà in un’ondata di esportazioni di prodotti high tech a basso costo dalla Cina che potrebbero spostare le industrie nazionali e mettere a rischio la sicurezza nazionale”.
Ma quanto saranno belli gli imperialisti e i suprematisti? Fino a che gli torna comodo, spacciano la libertà del commercio come l’unica vera religione civile rimasta; quando poi non sono più competitivi, gettano la religione nel cesso e reintroducono sanzioni arbitrarie e misure protezionistiche di ogni tipo e quando, poi, uno reagisce investendo tutto quello che ha per guadagnarsi l’indipendenza tecnologica, si mettono a frignare perché, grazie a quegli stessi investimenti, minaccia di invaderli con prodotti enormemente più competitivi anche nei settori tecnologicamente più avanzati, che pensavano fossero appannaggio dell’uomo bianco per manifesta superiorità culturale, se non – addirittura – genetica. E poi uno si chiede del perché l’Occidente non faccia altro che scatenare guerre ovunque… e graziarcazzo: non è che gli rimangano poi tante carte da giocarsi, a meno che non lo rovesciamo come un calzino e mandiamo a casa i Rimbambiden di tutto il pianeta; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alla fuffa suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Michele Boldrin


















8ore: SCIOPERO portuali per un nuovo piano economico nazionale

Oggi ad Ottolina Tv intervengono i lavoratori del settore portuale, aggiornandoci sugli ultimi passaggi del rinnovo del contratto e sulla situazione del loro settore lavorativo. L’Italia segue il modello greco di privatizzazione ai capitali stranieri invece di puntare a un nuovi investimenti nel pubblico per salvaguardare introiti e posti di lavoro (come in altri Stati europei). I lavoratori ci raccontano criticità e proposte del loro settore lavorativo. Buona visione!

Guerra al lavoro: sciopero ferrovie

Ottolina torna a parlare di lavoro, oggi ci concentriamo sulla situazione delle ferrovie.
A pochi giorni dello sciopero dei manutentori ferroviari, abbiamo deciso di parlare con lavoratori di tutta Italia (Bologna, Firenze, Milano, Roma) del settore per avere un quadro della protesta, cause e partecipazione. Ancora una volta le compagnie private prediligono comprimere salari e qualità del lavoro, invece di investire e aprire al dialogo; ancora una volta nel silenzio generale dei media, si combatte una battaglia di quella guerra tra capitale e lavoro che ci riguarda tutta nel nostro quotidiano.
Buona visione!

Lo sterminio di aziende italiane e tedesche: come funziona la guerra economica USA contro l’Europa

Nel 2013 perse oltre 100 mila aziende titolava ieri Il Sole 24 ore. Un dato allarmante, e più scavi dentro a quei numeri, e più inquietante diventa; intanto, per la distribuzione geografica: di queste 100 mila aziende, infatti, “54 mila solo nelle Marche e in Piemonte”. “Il tessuto produttivo di un’intera provincia italiana, grande quanto tutta Reggio Emilia” insiste Il Sole: “è questa l’entità delle aziende scomparse nelle sole regioni Marche e Piemonte tra il 2013 e il 2023”; ora, è vero che a guidare la classifica ci sono province come Biella e Vercelli, dove a pesare è stato anche un calo demografico consistente (rispettivamente -7,5 e -6,6%) che, ovviamente, ha avuto ricadute disastrose in particolare sulle attività commerciali, ma il brutto è che nella classifica ci sono anche province come Ancona, dove il calo demografico è stato solo del 3,4 e, invece, la diminuzione di imprese registrate supera il 15%. E qui, a pesare, è la chiusura di attività manifatturiere: -13%, che è comunque niente rispetto al -22% di Pesaro Urbino e – addirittura – il -28% di Fermo, un fenomeno che tocca anche realtà che, a prima vista, sembrano scoppiare di salute. Milano, ad esempio, nel complesso registra una crescita del numero delle attività poco inferiore all’8%; peccato siano tutti servizi: 9.200 attività professionali, 5.500 attività legate ai servizi finanziari e assicurativi e 3.700 legate alle attività ricettive. Ma anche qui, invece, nel manifatturiero si registra un vero tracollo: oltre 5.000 attività in meno, poco meno del 15 per cento; e anche quando i dati sono in controtendenza, nascondono uno scenario tutt’altro che entusiasmante. Tra le province con la maggior crescita di attività risulta infatti Taranto, al quarto posto con una crescita dell’8,1% nonostante un calo demografico superiore al 5: un miracoloso colpo di reni? Ma quando mai! Piuttosto, “Dopo la crisi industriale più grande del decennio, quella dell’ILVA, da acciaieria più grande d’Europa al baratro” sottolinea nel suo commento il caporedattore del Sole Lello Naso, “si è vista una crescita inaspettata di micro-imprese, rifugio per quadri e operai, compresi quelli dell’indotto, espulsi dall’industria”. Insomma, molto banalmente “Chi resta si ingegna con quel che c’è” e per mantenere il reddito che prima ti era garantito da un posto di lavoro stabile con tutti i diritti e la sicurezza che comporta, oggi devi perdere la salute in un’attività che, nella stragrande maggioranza dei casi, sta in piedi per miracolo e rischia di crollare alla prima folata di vento. “L’industria” riassume sempre Lello Naso “è il settore che perde più imprese, mentre i servizi, in tutte le loro declinazioni, sono il comparto che ne guadagna di più. Il segno di una grande manifattura che si sta trasformando in un’economia di servizi, non sempre avanzati. Turismo, accoglienza, ristorazione, manifestazioni ricreative e sportive sono i segmenti che crescono in maniera più decisa”. Insomma: un “paese a deriva Disneyland destinato a perdere ancora competitività e ad avere sempre più il fiato corto”; Naso ricorda come quello a cui stiamo assistendo è ancora in parte “la coda della crisi del debito sovrano del 2011-2023, con le conseguenze della più grande stretta del credito alle imprese della storia economica italiana”. Ma poi è arrivato qualcosa di molto peggio: il ritorno del protezionismo negli USA e la guerra senza frontiere all’economia europea; come ha ricordato entusiasta giovedì scorso Biden nel suo discorso sullo Stato dell’Unione “In realtà, le mie politiche hanno attirato 650 miliardi di dollari in investimenti privati nell’energia pulita e nella produzione avanzata, creando decine di migliaia di posti di lavoro qui in America”. A pagare il prezzo, appunto, siamo stati noi e in particolare la Germania che, come ricorda Naso, “per la prima volta nel dopoguerra” è entrata in recessione e “crisi della manifattura tedesca, significa crisi della fornitura e subfornitura italiana”. Nel pippone di ieri, appunto, abbiamo fatto le pulci all’importante discorso di Biden sullo Stato dell’Unione, nel quale ha annunciato in pompa magna la sua guerra economica senza frontiere agli alleati europei; con il pippone di oggi entreremo nel dettaglio delle conseguenze che questa guerra sta già facendo sentire. Pure troppo.
Steffen Cyris è il proprietario e amministratore delegato della Schrutka-Peukert, una storica azienda familiare bavarese specializzata in banconi per la gastronomia refrigerati e in attrezzature per la stagionatura delle carne bovina; ancora lo scorso Natale, durante la rituale festa coi dipendenti, riporta Bloomberg, “si era vantato del libro ordini gremito dell’azienda, e aveva detto ai dipendenti di tenersi pronti per un bel po’ di lavoro extra”, ma nel giro di poche settimane, come d’incanto, tutto quell’ottimismo è svanito nel nulla. “Macellerie e panetterie hanno annullato gli ordini” scrive ancora Bloomberg “e con il paese che scivola sempre più nella recessione, Cyris è sempre più preoccupato per le prospettive a lungo termine della sua attività”; “Le preoccupazioni di Cyris” continua Bloomberg “sono condivise da una bella fetta delle circa 3 milioni di aziende tedesche a conduzione familiare, che rappresentano ancora la spina dorsale dell’economia del paese, e che si trovano vicine a un punto di rottura”. Lo chiamano il mittelstand ed è, appunto, questo incredibile tessuto di piccole medie aziende che incarnano al meglio l’etica protestante e che hanno fatto la grandezza del capitalismo industriale tedesco; una lunga schiera di attività altamente specializzate sparse in tutto il paese e che spesso nascondono veri e propri campioni nazionali che si sono imposti come leader globali nelle nicchie più impensabili e dalle quali, in buona parte, dipendiamo anche noi italiani come fornitori e subfornitori, un tessuto che però l’austerity, il mercato unico europeo e la moderazione salariale degli ultimi 20 anni, alla fine dei giochi, non ha fatto che indebolire.
Invece di essere costrette a investire in innovazione e in aumento della produttività, le PMI tedesche – infatti – hanno potuto continuare a macinare profitti continuando a pagare i loro dipendenti molto meno di quanto producessero e, quando anche questo non era sufficiente, esternalizzando pezzi di produzione prima agli italiani e poi ai vicini dell’est, dalla Repubblica Ceca alla Polonia, passando per l’Ungheria; nel frattempo, grazie alla religione dell’austerity, anche la macchina pubblica tirava il freno a mano degli investimenti riducendo così, anno dopo anno, quello sviluppo delle forze produttive generali che continuava a rendere le imprese tedesche produttive: dalle infrastrutture funzionanti alla manodopera qualificata. E quando, alla fine, è arrivata la fine dell’energia a prezzo ultra scontato che arrivava dalla Russia, per continuare a rimanere competitive le aziende avrebbero dovuto affrontare investimenti consistenti; peccato, però, che da un lato il denaro necessario per questi investimenti abbia raggiunto un costo improponibile e, dall’altro, la recessione lasci temere che fatti questi investimenti poi non ci sarà un mercato sufficiente per giustificarli. Nel frattempo, si è fatta sempre più avanti la consapevolezza che per far fruttare i propri capitali non è necessario investirli in un’attività di successo: basta dedicarsi alla rendita finanziaria che, sempre più, garantisce ritorni stabili e permette di non avere a che fare con quei lavoratori sporchi e cattivi che, dopo 2 anni di inflazione a doppia cifra, sono capaci pure di chiederti l’aumento dei salari. Ed ecco così che quando le aziende familiari arrivano al momento fatidico della successione agli eredi, gli eredi di menarsela ancora con questa grandissima rottura di coglioni che è lavorare per guadagnare non ne vogliono sapere e decidono di vendere per poi, appunto, usare il ricavato per comprarsi qualche azione di Nvidia o di Amazon, o – al limite – qualche bitcoin: “Quasi ogni settimana ricevo chiamate da imprenditori familiari instabili” avrebbe rivelato il fondatore della May Consulting a Bloomberg; “Mi chiedono se dovrebbero vendere, e se vale ancora la pena fare l’imprenditore in Germania”.
Quelli che, invece, non vogliono mollare la presa hanno un’unica possibilità: l’America, a partire proprio dal nostro Cyris che “per mitigare parte degli affari che sta perdendo in Germania” – riporta Bloomberg – “ha iniziato a trasferire parte della sua attività negli Stati Uniti con il marchio The Aging Room” (la stanza dell’invecchiamento) e “ora” continua Bloomberg “sta vendendo locali per la stagionatura della carne bovina a ristoranti e macellerie raffinati in stati come la California o la Florida”. “Inventato in Germania, prodotto negli Stati Uniti” avrebbe affermato Cyris: questa “potrebbe essere la strada da seguire”ed è, più o meno, la strategia che stanno adottando sempre di più anche i gruppi più grandi. Porsche ha da poco annunciato che starebbe valutando l’idea di annullare il progetto di un nuovo stabilimento per la produzione di batterie nel Baden-Wuerttemberg in favore dell’altra sponda dell’Atlantico; un altro esempio paradigmatico è quello di Viessman, il leader tedesco delle pompe di calore: in questo caso, il timore della debolezza del mercato interno ai tempi della grande stagnazione non c’entra. A creare il mercato, infatti, c’ha pensato direttamente il governo che, in nome della transizione ecologica, ha fatto della sostituzione dei riscaldamenti a gas con le pompe di calore un cavallo di battaglia: nonostante i costi proibitivi, l’anno scorso il governo tedesco ha approvato una legge che prevede il divieto di nuovi sistemi di riscaldamento a gas a partire da quest’anno; inevitabilmente la gente s’è incazzata nera. Secondo la propaganda antipoveri s’è trattato, ovviamente, di una strumentalizzazione dei fasciocomplottisti perché in realtà – sostengono – per sostituire le pompe di calore ai vecchi sistemi ci sono ricchi incentivi: peccato che, come riporta anche Deutsche Welle, nonostante gli incentivi, i sistemi a gas costino 10 mila euro; le pompe di calore 17 mila. L’hanno etichettata come l’ennesima rivolta dei negazionisti, ma erano semplicemente poveri (anche se, ovviamente, per l’ecologismo delle ZTL sono sinonimi); comunque sia, il mercato era assicurato e per un leader del settore come Viessman si prospettava un futuro di profitti stratosferici. Evidentemente non basta: ad aprile dell’anno scorso Viessmann, infatti, comunica ufficialmente l’acquisizione da parte di Carrier, il colosso globale del riscaldamento di Palm Beach, Florida. Costo dell’operazione: 12 miliardi di dollari che gli eredi Viessmann hanno annunciato utilizzeranno per “espandere le attività del family office”, riporta Bloomberg (tradotto: per dedicarsi alla speculazione finanziaria alla borsa di New York).
I nuovi investimenti produttivi, invece, di fronte a un mercato in enorme espansione si sposteranno tutti negli USA, attratti dagli enormi incentivi fiscali dell’Inflation reduction act, l’arma di distrazione di massa dell’economia produttiva europea che costituisce il cuore pulsante della Bidenomics; in questo modo, gli USA ci guadagnano due volte: da un lato rilanciano il loro manifatturiero grazie a un debito che, alla fine, in buona parte paghiamo noi e, dall’altro, attirano sempre più quattrini sui loro mercati finanziari, necessari per continuare a sostenere a oltranza lo schema Ponzi, a meno che tutti gli eredi Viessmann che stanno svendendo il continente non decidano di darsi alla speculazione finanziaria, ma, invece che a New York, sotto casa.
I mercati europei, effettivamente, da qualche tempo a questa parte stanno andando alla grande, ma c’è qualche problemino; primo di tutto, sono minuscoli: nonostante il GDP dell’Unione Europea sia solo di circa il 25% più basso di quello USA, la capitalizzazione in borsa di tutti i paesi messi insieme è poco più di un quinto di quella della sola New York, ed è anche estremamente concretata. Il 50% della crescita negli ultimi 12 mesi di tutto l’indice Stoxx 600 che, come suggerisce il nome, racchiude i 600 principali titoli europei per capitalizzazione, è dovuto interamente a un microgruppo di 11 società: sono le così dette GRANOLAS, un acronimo che indica i colossi farmaceutici GalxoSmithKline e Roche, la leader dei macchinari per la produzione di chip ASML, le svizzere Nestlè e Novartis, la leader mondiale dei farmaci per il diabete Novo Nordisk, le francesi l’Oreal e LVMH, la britannica Astra Zeneca, l’azienda di software tedesca SAP e la francese Sanofi; esattamente come per i 7 colossi del big tech a stelle e strisce che, da soli, pesano per il 28% dello Standard&Poor 500, fatta 100 la capitalizzazione totale a gennaio 2021, oggi l’indice è schizzato ben oltre quota 160. Tutte assieme le GRANOLAS, però, superano di poco la capitalizzazione della sola Nvidia nonostante, ancora nel 2023, abbiano generato 3 volte i suoi profitti e fatturino 8 volte di più.
L’unica delle GRANOLAS che, benché capitalizzi meno della metà del più piccolo dei giganti tecnologici USA, potrebbe mirare ad registrare performance simili è proprio la Novo Nordisk, un’azienda decisamente sui generis: il 28% della proprietà e il 77% dei diritti di voto sono infatti in mano a una fondazione no profit; la più grande fondazione caritatevole del pianeta, con un patrimonio che è più del doppio di quella di Bill e Melinda Gates; come la fondazione Gates, ovviamente, non può essere confusa con una sorta di cugino, manco di dodicesimo grado, del socialismo, ma forse qualche differenza c’è. Per dirne una, nel 2022 Meta in borsa ha perso il 70% di capitalizzazione; ciononostante, i suoi 5 top executive si sono portati a casa 106 milioni di dollari. Nello stesso periodo, Novo Nordisk – invece – ha guadagnato oltre il 30%, ma i suoi top executive si sono portati a casa 35 milioni, mentre, secondo Glassdoor, i salari medi sono più alti di circa il 10%. Negli ultimi 3 anni Novo Nordisk ha più che quadruplicato il valore delle sue azioni e, con quasi 600 miliardi di dollari di capitalizzazione, è di gran lunga la leader indiscussa del mercato azionario del vecchio continente, una fortuna fondata tutta sui farmaci contro il diabete che, guarda caso, hanno rappresentato una fetta consistente del discorso di Biden sullo Stato dell’Unione: “Finalmente abbiamo battuto Big Pharma. Invece di pagare 400 dollari al mese o giù di lì per l’insulina contro il diabete, quando al produttore ne costa solo dieci, abbiamo fatto sì che ne vengano pagati solo 35 al mese”. Dal discorso di Biden il titolo ha perso il 3,6%; ho come l’impressione che se qualcuno crede di poter replicare il gran casino a stelle e strisce sul continente europeo, dovrà presto ricredersi: manco le briciole questi ti lasciano. Il bello è che, di fronte a ogni evidenza, continuano comunque a provare a intortarci: secondo il Financial Times, infatti, gli USA attraggono gli investimenti non perché è in corso la più grande rapina a mano armata della storia dell’umanità, ma perché “hanno ampliato il loro vantaggio in termini di produttività rispetto all’Europa”; “Nuovi dati pubblicati venerdì” continua l’articolo “mostrano che la produttività dell’Eurozona è scesa dell’1,2% nel quarto trimestre rispetto all’anno precedente, mentre negli Stati Uniti è aumentata del 2,6”. E graziarcazzo: al di là delle leggende metropolitane degli analfoliberali, la produttività da una cosa dipende, e solo da quella: gli INVESTIMENTI; il resto è fuffa.
D’altronde, fare parte del giardino ordinato del mondo libero ha un prezzo: senza il cappello di Washington, chi avrebbe mai il coraggio di mandare oltre 100 imbarcazioni di armi a Tel Aviv mentre sta compiendo il più grande massacro di civili del XXI secolo sapendo che, prima o poi, qualcuno ce ne verrà a chiedere conto e, probabilmente, non lo farà con un mazzo di rose in mano?
Perché, alla fine, è di questo che si tratta: ci lasciamo derubare sistematicamente per finanziare un regime criminale intento a provare ad arrestare la storia con le armi e con la finanza; e poi il matto era Aaron Bushnell. Contro la propaganda che copre la più grande rapina della storia dell’umanità dopo il colonialismo di fine ‘800, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che faccia i conti in tasca alle nostre élite di svendipatria e difenda gli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è David Parenzo

Boom economico e tecnologie all’avanguardia: il clamoroso autogol delle sanzioni alla Russia

Nella migliore delle ipotesi – o nella peggiore (dipende dai punti di vista) – l’economia russa nel 2024 crescerà 3 volte più rapidamente di quella dell’eurozona – +1,5, contro +0,5% – e il gap continuerà anche per tutto l’anno successivo, il 2025, durante il quale l’eurozona dovrebbe crescere dell’1,2%, e la Russia del 2, poco meno del doppio. Ad affermarlo non è qualche propagandista filo – putiniano estratto a sorte dalle liste di proscrizione del Corriere della serva, ma qualcuno che non è certo imputabile di remare contro le magnifiche sorti e progressive dell’Occidente collettivo: si chiama Amundi ed è di gran lunga il principale fondo di investimenti del vecchio continente, il braccio armato delle oligarchie finanziare europee o, almeno, di quello che ne resta dopo due anni di guerra per procura alla Russia. In soldoni, “Significa che Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia non sono in grado di sanzionare un paese in modo efficace” avrebbe affermato il capo degli investimenti di Amundi, Vincent Mortier, durante una conferenza stampa; “Possiamo deplorarlo” ha sottolineato, “ma è una realtà”. Certo, le sanzioni sono servite a congelare il patrimonio di un certo numero di persone – ha continuato Mortier – ma gli effetti sulle importazioni e le esportazioni russe nel complesso sono stati, tutto sommato, irrilevanti. Il mese scorso il Fondo Monetario Internazionale aveva rivisto al rialzo le stime sulla crescita della Russia nel 2023 , di parecchio: dall’1,5% di luglio al 2,2; nell’aprile scorso stimavano una crescita dello 0,7%.

Vladimir Putin

Secondo Putin, si tratta di stime eccessivamente caute: “Abbiamo sempre detto con cautela che la crescita sarebbe stata intorno al 2,5%. Ora possiamo affermare con sicurezza che supereremo senz’altro il 3%. Nel frattempo la Commissione europea, invece, ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita dell’eurozona: dallo 0,8 ad appena lo 0,6%. “Se facciamo il punto sulla guerra in Ucraina” ha concluso Mortier “per gli USA l’impatto è stato neutrale; Turchia, Asia Centrale e Asia in generale ne hanno beneficiato; e l’unica a soffrire direttamente e fortemente è stata l’Europa”. Ma te guarda alle volte il caso, eh? Fortunatamente, però, ora che ad ammettere che le sanzioni contro la Russia sono state principalmente sanzioni contro l’Europa ci s’è messo anche il gotha del capitalismo finanziario europeo stesso: la Commissione, finalmente, ha deciso di intervenire. Come? Ma con altre sanzioni – ovviamente – e con meccanismi più rigidi che dovrebbero garantire che anche quelle vecchie, finalmente, siano implementate come si deve ma che – come sottolinea giustamente il nostro amato Andrew Korybko – anche a questo giro potrebbero non fare altro che “uccidere definitivamente la competitività delle nostre stesse aziende tecnologiche”. Cosa mai potrebbe andare storto?
Certo, dal punto di vista economico le sanzioni alla Russia sono state come darci una martellata sui coglioni, ma chissà almeno quanti danni gli abbiamo fatto dal punto di vista militare! Eh, come no… Tantissimi proprio: “La Russia sta iniziando a far valere la sua superiorità nella guerra elettronica” titola l’Economist; “Gran parte dell’attenzione su ciò di cui l’Ucraina ha bisogno nella sua lunga lotta per liberare il suo territorio dalle forze d’invasione russe si è concentrata sull’hardware: carri armati, aerei da combattimento, missili, batterie di difesa aerea, artiglieria e grandi quantità di munizioni. Ma una debolezza meno discussa” sottolinea l’autorevole rivista inglese “risiede invece nella guerra elettronica; e i sostenitori occidentali dell’Ucraina finora hanno mostrato scarso interesse nell’affrontarla”.
La discrepanza tra le capacità ucraine e quelle russe era evidente sin dall’inizio del conflitto, ma – sottolinea l’Economist – “ha avuto a lungo un impatto limitato. Ora però che le linee di contatto sono diventate relativamente statiche, la Russia è stata in grado di posizionare le sue formidabili risorse dove possono avere il maggiore effetto”. “Già a partire dal marzo scorso” ricostruisce l’Economist “l’Ucraina ha cominciato a notare come i suoi proiettili Excalibur guidati dal GPS avevano improvvisamente iniziato ad andare fuori bersaglio, a causa del disturbo russo” e lo stesso era cominciato a succede alle bombe guidate JDAM e anche ai razzi a lungo raggio GMLRS che nella maggioranza dei casi – sottolinea l’Economist – “ora vanno fuori strada”: parliamo di armi intelligenti a cui sono stati dedicati decine e decine di titoli dalla propaganda occidentale e che avrebbero dovuto cambiare per sempre l’andamento del conflitto ma che ormai, grazie alla tecnologie per la guerra elettronica sviluppate negli anni dai russi, non fanno quasi mai il loro dovere. E ancora peggio sembrerebbe andare con gli sciami di droni: “l’Ucraina” scrive l’Economist “ha addestrato un esercito di circa 10.000 piloti di droni che ora sono costantemente impegnati in un gioco del gatto e del topo con operatori di guerra elettronica russi sempre più abili” che sono in grado di “confondere i loro sistemi di guida o bloccare i collegamenti radio con i loro operatori” e fanno fuori qualcosa come “oltre 2.000 droni la settimana”. Ma non solo, perché i russi sarebbero in grado “di acquisire con una precisione di un metro le coordinate del luogo da cui il drone viene pilotato, per trasmetterle poi ad una batteria di artiglieria” che a quel punto avrebbe un bersaglio facile.
Quello che manca all’Ucraina in questa guerra impari contro gli armamenti per la guerra elettronica dei russi, svela l’Economist, è “il sostegno degli alleati occidentali”: “La guerra tecnologica” spiega l’Economist “rientra infatti in una categoria di trasferimento tecnologico limitato da un regime di controllo delle esportazioni rigidamente vigilato dal Dipartimento di Stato” e “c’è una certa riluttanza, soprattutto da parte degli americani, a mostrare la mano alla Russia, anche perché le informazioni utilizzabili, ad esempio sulle frequenze o sulle varie tecniche utilizzate, dalla Russia potrebbero finire anche in mano ai cinesi”. Quello che speravano gli alleati occidentali, piuttosto, era che anche i russi prima o poi potessero trovare delle difficoltà a fornire il fronte continuamente di nuovi strumenti per la guerra elettronica, che sono sì progettati e prodotti in Russia, ma dentro – spesso e volentieri – hanno anche tecnologia a stelle e strisce che non dovrebbe arrivare più e invece – misteri della fede – arriva eccome; come sottolinea infatti Bloomberg, nonostante la Russia sia il paese più sanzionato della storia delle sanzioni “anche impedire a tecnologia sensibile di raggiungere la Russia si è rivelato più complesso del previsto”. Attraverso “triangolazioni tramite paesi come il Kazakhstan, la Serbia e la Turchia” la Russia, infatti, sarebbe stata in grado “di mettere le mani sui cosiddetti articoli ad alta priorità” inclusi in questa lunga lista aggiornata dall’Unione nel settembre scorso (https://finance.ec.europa.eu/system/files/2023-09/list-common-high-priority-items_en.pdf ) e che possono essere “utilizzati per scopi militari”. “I recenti dati commerciali visti da Bloomberg” sottolinea l’articolo “mostrano che le esportazioni da quelle nazioni, oltre che da Armenia, Azerbaigian e Uzbekistan, sono sì diminuite parzialmente nella seconda metà di quest’anno, ma rimangono perlopiù superiori ai livelli prebellici”. Ancora più importanti nella fornitura di questi articoli ad alta priorità alla Russia risulterebbero essere Cina ed Hong Kong, dai quali proverrebbe – sottolinea Bloomberg – “oltre l’80% degli acquisti esteri russi. E la Russia” continua Bloomberg “sarebbe stata in grado di costruire anche nuove vie commerciali attraverso paesi come la Thailandia e la Malesia”. L’unico paese che ha costituito un altro canale prezioso per le triangolazioni e che si è detto disposto a introdurre norme più restrittive sarebbero gli Emirati Arabi; purtroppo però, sottolinea Bloomberg, “non forniscono dati commerciali tempestivi, rendendo difficile valutare i progressi”.
Contro le scappatoie che hanno reso le sanzioni totalmente inefficaci – allora – la Commissione ha proposto di provare a stringere la cinghia, proponendo una nuova serie di regole “che impedirebbero agli importatori di rivendere alla Russia i cosiddetti articoli ad alta priorità”, ma non solo: la proposta prevede infatti anche di obbligare le aziende importatrici a depositare dei soldi in un conto ad hoc dal quale la Commissione sia in grado di prelevare automaticamente qualora venissero contestate delle violazioni.

Andrew Korybko

“Almeno metà dei soldi depositati” riporta Bloomberg “verrebbe trasferita a un fondo fiduciario per l’Ucraina” e vederseli sottrarre potrebbe essere estremamente facile perché le aziende non risponderebbero soltanto per se, ma anche nel caso non avessero prontamente segnalato comportamenti illeciti da parte di aziende terze con le quali sono in affari; un pacchetto di manovre che – commenta l’analista Andrew Korybko – rischiano di “uccidere la competitività delle aziende tecnologiche europee” – un problema che sarebbe stato sollevato, riporta Bloomberg, anche da “inviati diplomatici di un gruppo dei principali stati membri”. A preoccupare, in particolare, la potenziale arbitrarietà dell’applicazione della regola sul congelamento dei beni depositati, dal momento che non passerebbe preventivamente da un tribunale, ma non solo: a preoccupare i potenziali partner commerciali, infatti, sarebbe anche il fatto che “chiunque si ritrovasse a fare affari con le società tecnologiche dell’Unione” commenta Korybko “dovrebbe essenzialmente permettere alla Commissione di spiare le sue attività al fine di monitorare il rispetto delle sanzioni”. Di fronte a tutti questi rischi – sottolinea Korybko – i clienti potrebbero essere scoraggiati “e optare invece per accordi molto più semplici e senza vincoli con aziende cinesi”. D’altronde che je frega?
A spingere per questa nuova ondata di restrizioni e ovviare, così, al fallimento di tutte le sanzioni con sanzioni ancora più nocive sono paesi che hanno poco da perdere perché – a parte una bella montagna di ideologia pro Washington – di aziende tecnologiche che producono “articoli ad alta priorità” semplicemente non ne hanno. A partire, ad esempio, dai paesi baltici – la punta di lancia degli USA contro gli interessi dei concorrenti europei: “Il loro interesse” sottolinea Korybko “è esclusivamente quello di limitare l’accesso della Russia a tutti i costi, compreso far perdere quote di mercato ai partner europei a favore della Cina”. L’industria tecnologica che – già di per sé – in Europa non è che sia particolarmente in forma, non sarebbe comunque l’unica ad essere penalizzata da questo dodicesimo pacchetto di sanzioni: un’altra mossa geniale, infatti, consisterebbe nell’aggiungere alla lista delle importazioni dalla Russia sottoposte a sanzioni anche i diamanti; Washington lo ha già fatto da mo’, l’Unione europea – invece – per ora ha declinato. Tutta colpa del Belgio: come ricorda il Brussels Time, infatti, “Si stima che circa l’86% dei diamanti grezzi del mondo passino ancora da Anversa almeno una volta”. Quello dei diamanti è un mercato che, a livello globale, vale oltre 100 miliardi e oltre un terzo dei diamanti di tutto il mondo arrivano proprio dalla Russia; tagliare le gambe così ad Anversa non sarebbe esattamente un ottimo affare e – soprattutto – sarebbe totalmente inutile. Gli indiani, infatti, non aspettano altro: già oggi la cittadina di Surat, 300 chilometri a nord di Mumbai, è la capitale mondiale della lavorazione dei diamanti e – in attesa di scippare ad Anversa tutto quello che proviene dalla Russia – al commercio e alla lavorazione dei diamanti ha dedicato quello che è stato descritto dai media l’edificio in assoluto più grande del mondo: 5 mila uffici che occupano la bellezza di 700 mila metri quadrati di superficie, collegati da oltre 130 ascensori; tanto a pagarlo saremo noi, sempre pronti a martellarci i coglioni quando si tratta di fare un regalino a zio Biden.
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E chi non aderisce è Paolo Gentiloni