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Scandalo Giorgio Armani: come si diventa il terzo uomo più ricco d’Italia grazie alla schiavitù

“Le borse di pelle firmate Giorgio Armani” scrive Alessandro Da Rold su La Verità “si vendono nelle boutique dello stilista sparse per il mondo a poco meno di 2000 euro l’una”; “per produrle però” svela “di euro ne bastano una novantina. 75, se evadi pure l’IVA”: è il quadro che emerge dall’inchiesta della procura di Milano che ha portato all’”amministrazione giudiziaria della Giorgio Armani Operations spa, nell’ambito dell’indagine sul rapporto tra la holding e i suoi fornitori”. Il fornitore ufficiale italiano di Armani si chiama Manifatture Lombarde che, a sua volta, subappaltava le commesse a subfornitori cinesi, un rapporto che gli inquirenti hanno definito di caporalato di manodopera straniera irregolare e sul quale il gruppo, nella migliore delle ipotesi, “non vigilava”; in realtà, però, vigilava eccome, solo che si concentrava su altro: come ricorda Luigi Ferrarella sul Corriere della sera, infatti, “Un mese fa i carabinieri del Comando Tutela del Lavoro in uno di questi opifici cinesi hanno persino trovato un ispettore della Giorgio Armani Operations spa intento a fare il controllo di qualità dei prodotti”. “Nel corso delle indagini”, insistono gli inquirenti, “si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee e isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa”.
Nel frattempo, il mondo del lusso italiano veniva stravolto da un’altra notizia incredibile: la Kering della famiglia Pinault, infatti, si sarebbe comprata una storica palazzina in via Montenapoleone a Milano per la modica cifra di 1,3 miliardi, 110 mila euro al metro quadrato; è, in assoluto, la più grande operazione immobiliare della storia del nostro paese e servirà a vendere a cifre astronomiche gli oggetti prodotti dai nuovi schiavi che, ormai, si moltiplicano nel nostro paese. E’ la nuova normalità nell’era del declino putrescente del capitalismo finanziarizzato e dell’impero. Buon visione, e buon mal di stomaco.

Giorgio Armani

Quella su Armani non è la prima inchiesta del genere: a gennaio, a venire commissariata era stata l’Alviero Martini che, rispetto ad Armani, c’ha anche l’aggravante di fare prodotti di una bruttezza rara che ancora oggi interrogano tutti i principali psicologi del consumo globale; anche in questo caso l’azienda era stata “ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo” forse anche perché, appunto, le garantivano lauti margini di profitto. In generale, il punto è che i marchi appaltano la produzione ad aziende che non hanno nemmeno lontanamente la struttura produttiva necessaria; sono solo intermediari che servono esclusivamente ad allontanare il luogo dove si concentra l’accumulazione di capitali e il profitto dal luogo ultimo dello sfruttamento più abietto, al di fuori di ogni perimetro di legalità. Gli intermediari, infatti, competono tra loro esclusivamente andando alla ricerca dei subfornitori più economici e, a quel livello, la gara sui prezzi si fa solo in un modo: violando ogni tipo di legge sui diritti del lavoro; non c’è investimento, non c’è know how, solo bruto sfruttamento oltre ogni limite, come nelle fabbriche di Manchester del 1800.
Le testimonianze raccolte dagli inquirenti tra i lavoratori delle aziende subfornitrici indagate sono la descrizione di un girone dantesco, anche se – evidentemente – non abbastanza per scatenare una reazione collettiva che vada oltre l’indignazione da salotto; la schiavitù, come lo sterminio di massa, evidentemente è ormai parte integrante del giardino ordinato e bisogna farsene una ragione senza indulgere troppo nel buonismo.
Tra i vari casi elencati, uno di quelli che mi ha colpito di più è quello della supply chain di Minoronzoni, il gruppo di Ponte San Pietro proprietario dei marchi Toscablu e Minoronzoni 1953, ma che il grosso dei quattrini li fa – appunto – subappaltando a lavoratori rinchiusi in qualche scantinato le commesse milionarie che gli arrivano dai principali brand del lusso internazionali: secondo le dichiarazioni raccolte dagli inquirenti, ricorda sempre Da Rold su La Verità, in buona parte lavoravano a cottimo “con una paga inferiore a un euro al pezzo per lavori che potevano durare fino a quattro ore”; secondo la testimonianza di un lavoratore, l’azienda pagava “più o meno 60 centesimi per manifattura e confezionamento”, spesa che poi fatturava direttamente a nome suo ai vari committenti, “da Guess, a Versace, passando per Armani” a circa 15 euro a cintura, un trentesimo del prezzo di boutique.
La cosa più inquietante è che tutte queste dinamiche (e il fatto che siano sistematiche) lo sappiamo ormai da anni: quando lavoravo a Report, la sempre cazzutissima Sabrina Giannini a un certo punto se ne venne fuori con ore e ore di filmati, girati con la telecamera nascosta dentro le aziende cinesi del pratese; si era spacciata per un’intermediaria in cerca di fornitori adeguati per alcuni brand del lusso. Il quadro che ne era emerso era raccapricciante: decine e decine di capannoni dormitorio con migliaia di lavoratori ammucchiati a farsi il mazzo per 12/14 ore al giorno, festivi compresi, prevalentemente la notte, tutto completamente fuori regola in mezzo a corridoi pieni del meglio del meglio del lusso made in Italy. “Da quanto tempo producete queste borse Gucci?” aveva chiesto la Giannini: “Da una decina di anni” aveva risposto l’imprenditore cinese; era il 2007, 17 anni fa. Da lì in poi, la Giannini s’è appassionata al tema e c’è tornata più e più volte, svelando quanto questo scandalo fosse sistematico e ben noto a tutti i soggetti coinvolti, tra ispezioni fasulle e leggi che – guarda caso – lasciavano sempre aperto uno spiraglino per continuare sempre col business as usual; e se oggi questa situazione raggiunge le aule dei tribunali è solo perché a Milano c’è un procuratore cazzutissimo che ha dichiarato guerra alla nuova schiavitù che la tecnocrazia neoliberista ha serenamente reintrodotto nel nostro paese, dal lusso alla logistica.
Si chiama Paolo Storari e, da qualche anno a questa parte, si è conquistato il ruolo di pm più odiato della penisola (o, almeno, dal partito unico della guerra e degli affari): sempre nell’ambito di un’altra sua inchiesta, ad esempio, nel dicembre del 2022 la guardia di finanza ha sequestrato 102 milioni di euro ai colossi della logistica Brt, che è l’ex Bartolini, e Geodis che, tra l’altro (giusto en passant) sono – come in buona parte del mondo del lusso – altri due esempi di aziende italiane acquisite da megaconglomerati francesi; nel corso delle indagini, Storari era andato a controllare a campione una trentina abbondante di cooperative che lavoravano come fornitori dei colossi della logistica e aveva trovato conferma a tutti i peggiori sospetti. Bartolini truffava sistematicamente Stato e fornitori riconoscendo in busta paga solo ed esclusivamente il minimo, per poi saldare a parte evitando di pagare i contributi; per “non far emergere criticità fiscali che potessero riverberarsi su Brt”, le cooperative venivano sistematicamente chiuse ogni due anni che, tra l’altro, per i lavoratori comportava anche la perdita sistematica degli scatti di anzianità e degli altri diritti maturati e il tutto era sostanzialmente gestito direttamente dall’azienda, con le coop che non avevano nessunissima autonomia organizzativa. In quel caso, nonostante tutti i crimini emersi e le prove che i crimini erano stati perpetrati sistematicamente, volontariamente e consapevolmente, il tutto – alla fine – s’è risolto con un anno di amministrazione giudiziaria, “alla ricerca di una misura efficace”, sottolineava il Corriere, “ma invasiva il meno possibile”: nessun esproprio, nessuna conseguenza penale; solo l’affiancamento per un anno alla solita struttura, che è rimasta al suo posto, di un amministratore esterno che faccia da tutor “per bonificare l’azienda” scriveva ancora il Corriere, “irrobustire i controlli ed evitare che si possano nuovamente verificare ulteriori situazioni agevolatrici di attività illecite”. Insomma: una pacca sulle spalle; d’altronde, in quel caso, era solo sfruttamento, non vera e propria schiavitù.
Nel caso dello scandalo Armani di sicuro le conseguenze saranno state più drastiche. Colcazzo; anche qua infatti, nonostante tutte le prove accumulate dagli inquirenti, le conseguenze dal punto di vista strettamente legale, al momento, sono minime: “La società” ricorda infatti il Corriere “non è indagata, né lo è l’89enne stilista terzo uomo più ricco d’Italia” e i vertici dell’azienda, che vede nel CdA tutti e tre i nipoti di Re Giorgio, sono sempre comodamente al loro posto. Il tutto, infatti, si limita – appunto – ad affiancare alla struttura aziendale, per un anno, il commercialista Piero Antonio Capitini per “bonificare i rapporti con tutti i fornitori”; ovviamente si tratta di casi eclatanti di giustizia dei ricchi: agisci per anni e anni impunemente mettendo in opera comportamenti illeciti eclatanti, alla fine vieni perseguito esclusivamente perché, nel mare magnum dell’esercito dei passacarte formati ad hoc per permettere al sistema di replicarsi sempre identico a se stesso, ogni tanto una scheggia impazzita comunque sfugge. E quando, dopo mesi di indagine, finalmente si riescono a provare in modo circostanziato e inoppugnabile tutte le zozzerie possibili immaginabili, il massimo che ti tocca è che per un anno ti viene affiancato un altro amministratore che deve controllare che non lo farai più, almeno fino a che non se ne va. E’ la conferma eclatante che nel giardino ordinato se hai un conto in banca a 6 zeri il massimo che ti puoi aspettare per i crimini più efferati è un po’ di toto’ sul culetto, ma oltre a questa vergogna che grida evidentemente vendetta, sarebbe anche il caso di andare oltre il moralismo e provare a capire le ragioni strutturali di tutta questa monnezza.
Iniziamo da un piccolo riassunto delle puntate precedenti: una sorta di micro-bignamino dell’idea ottolina di come s’è evoluto il capitalismo negli ultimi decenni. Facciamo un salto indietro, negli anni ‘70: la logica ferrea del capitalismo industriale ha comportato la concentrazione della produzione in fabbriche sempre più grandi e sempre più automatizzate; questo processo, però, aveva due problemini non da poco. Da un lato, gradualmente, riduceva i margini di profitto, come diceva Marx: la caduta tendenziale del saggio di profitto, che avviene inesorabilmente mano a mano che aumentano gli investimenti in quello che si chiama capitale fisso, (e cioè, appunto, grandi stabilimenti pieni zeppi di macchinari); dall’altro, che nella grande fabbrica, sempre più automatizzata, numeri crescenti di persone che hanno ruoli sempre più standardizzati si ritrovano a condividere la stessa identica condizione di sfruttamento e questo favorisce la creazione di grandi organizzazioni di massa in grado di contendere ai grandi capitalisti e ai loro docili servitori il monopolio del potere politico. Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 questo processo aveva raggiunto una dimensione tale da gettare nel panico le élite economiche globali che, per sopravvivere, hanno organizzato la loro controrivoluzione: la controrivoluzione neoliberista, che viene ufficialmente teorizzata, a partire dal 1975, con il famoso studio dal titolo La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie che un gruppo di ricercatori al servizio della dittatura del capitale capitanato dal famigerato Samuel Huntington ha redatto su richiesta della Commissione Trilaterale; nello studio si sottolinea, appunto, come la dittatura del capitale nei paesi più industrializzati è messa a rischio da un “eccesso di democrazia” che, appunto, deriva dalla capacità organizzativa dei lavoratori ai tempi della grande fabbrica. Da allora, l’obiettivo del grande capitale diventa, appunto, rimuovere la causa principale che aveva permesso ai lavoratori di guadagnare così tanto potere politico e cioè, appunto, la grande fabbrica taylorista; le strategie sono principalmente due: nei settori dove questo è possibile, frammentare il più possibile il processo produttivo, passando dalla grande fabbrica alle reti di piccoli produttori, un fenomeno che in Italia – in particolare – ha preso le sembianze della famosa distrettualizzazione che, incredibilmente, da certa sinistra è stato visto addirittura come un processo positivo, mentre, in realtà, non era appunto che uno degli strumenti della guerra di classe dall’altro contro il basso. Per quei settori dove, invece, questa frammentazione non era possibile, la strada maestra diventava la delocalizzazione; in entrambi i casi, ovviamente, era fondamentale introdurre meccanismi di concentrazione del potere economico che impedissero ai padroncini dei distretti, tanto quanto ai fornitori del Sud globale, di diventare indipendenti e quindi, alla fine, di fregare le oligarchie capitalistiche occidentali: tra questi meccanismi, i più importanti sono stati il monopolio del know how tecnologico, il monopolio – diciamo così – “culturale” (e quindi della creazione dell’immaginario attraverso il marketing con l’affermazione dei grandi brand) e, soprattutto, il monopolio finanziario, che è il vero cuore del potere politico.
Il cuore del potere politico, infatti, è sostanzialmente il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa e questo potere si è concentrato sempre di più nei grandi monopoli finanziari occidentali e, in particolare, statunitensi: prima con le grandi banche e, negli ultimi anni, in particolare, con gli asset manager che gestiscono patrimoni di ordini di grandezza superiori ai prodotti interni lordi della stragrande maggioranza dei paesi del globo; grazie alla concentrazione dei capitali nei grandi monopoli finanziari, la proprietà del grosso delle principali corporation globali – per la stragrande maggioranza basate negli USA – è oggi, sostanzialmente, tutta in mano a un manipolo di fondi che hanno completamente stravolto il meccanismo originario con il quale, nel capitalismo industriale, ci si arricchiva. Invece di investire per produrre merci e poi rivenderle per fare profitti, mettere i soldi nei mercati finanziari e riscuotere una rendita; il principale prodotto di questo nuovo capitalismo monopolistico completamente finanziarizzato non sono più le merci, ma le azioni – dal feticismo delle merci, al feticismo delle azioni quotate in borsa.

Bernard Arnault

Ora, in questo scenario macro il mondo del lusso presenta una lunga serie di anomalie: la prima, macroscopica, è che è uno dei pochissimi settori dove i gruppi principali non sono controllati dai giganti dell’asset management, a partire proprio dal principale dei gruppi, la LVMH capitanata da Bernard Arnault che, con i suoi 430 miliardi e oltre di capitalizzazione, pesa da sola per quasi metà del valore in borsa di tutto il settore, soprattutto se ci si aggiungono i quasi 150 miliardi di capitalizzazione di Dior, sempre della famiglia Arnault; in entrambi questi colossi del lusso, a guidare – con una maggioranza schiacciante – la compagine azionaria non sono i soliti fondi prenditutto made in USA, ma la cassaforte di famiglia del buon vecchio Bernard che l’ha trasformato nell’uomo in assoluto più ricco del pianeta, surclassando la nuova aristocrazia del tecnofeudalesimo made in USA. Ma tenere il passo dei grandi monopoli finanziari a stelle e strisce è un’opera titanica; i monopoli finanziari privati, infatti, sono in grado di garantire due cose: uno, che essendo i principali azionisti di tutti i principali gruppi in un determinato settore, quel settore è sostanzialmente monopolistico e, quindi, è in grado di imporre sulla società i margini di profitto che desidera. E’ esattamente quello a cui abbiamo assistito negli ultimi 2 anni, dove l’inflazione non era certo dovuta a una crescita della domanda, ma proprio alla capacità delle aziende di imporre prezzi sempre crescenti in quanto monopolisti privi di concorrenza. Due, che hanno una liquidità tale che sono in grado di garantire la crescita del prezzo delle azioni a prescindere da cosa succede nell’economia reale. Sostanzialmente, almeno fino a che regge l’impero e la dittatura globale del dollaro, sono in una botte di ferro che non può essere destabilizzata dagli alti e bassi del mondo reale.
Per tenere testa alla pressione di questi colossi, Arnault deve garantire sostanzialmente le stesse condizioni: che il mercato del lusso sia sostanzialmente un monopolio e che abbia abbastanza liquidità da sostenere il prezzo delle azioni a prescindere. Ed ecco così che, nel tempo, Arnault si è letteralmente comprato tutto: da Bulgari a Fendi, passando per Loro Piana e, giusto il mese scorso, pure Tod’s, così ricavi e profitti dovrebbero essere in una botte di ferro. La capacità, invece, di sostenere il prezzo delle azioni a prescindere, un po’ meno: le azioni di LVMH, a differenza di molte di quelle dove puntano BlackRock e Vanguard, sembrano – infatti – piuttosto dipendenti dai conti economici reali; dopo il covid, quando la gente è tornata a spendere i soldi che si era messa da parte durante l’emergenza pandemica, il titolo, infatti, ha guadagnato circa il 70% nell’arco di un anno. Poi, però, la stagnazione economica ha fatto credere ai mercati che anche il lusso ne avrebbe risentito e il titolo ha cominciato a scendere, nonostante Arnault abbia cercato di fare la piccola BlackRock de noantri; il meccanismo, ovviamente, per chi non gestisce migliaia di miliardi altrui come i fondi, è sempre quello del buyback; nel luglio scorso LVMH s’è ricomprata 1,5 miliardi delle sue azioni e, siccome non è bastato, il mese dopo Arnault da solo, di tasca sua, s’è comprato altri 250 milioni delle sue aziende, ma rispetto alla potenza di fuoco dei fondi, per una società che capitalizza quasi 450 miliardi, sono spiccioli. E il titolo è continuato a scendere fino al febbraio scorso, quando LVMH pubblica i risultati economici del 2023: se non ha abbastanza cash per imitare la strategia di sostenimento artificiale del prezzo delle azioni dei fondi, ha abbastanza controllo del mercato per incassare i dividendi della sua posizione semi-monopolistica. LVMH comunica una crescita delle vendite vicina al 10% e i mercati reagiscono istantaneamente: nell’arco di poche ore il titolo guadagna oltre il 10% e, nel mese successivo, guadagnerà un altro 20%.
A contribuire, nel frattempo, un altro fattore; LVMH ha capito che c’è un’altra speculazione finanziaria che è più alla sua portata che non la manipolazione del prezzo delle azioni: la speculazione immobiliare. Nell’arco di pochi mesi investe 500 milioni di dollari per ingrandire e rinnovare il gigantesco e leggendario negozio di Tiffany sulla 5th avenue – quello, appunto, di Colazione da Tiffany; poi si è comprato i negozi dove i suoi brand erano rimasti fino ad allora in affitto sugli Champs Elysèes e sulla londinese Bond Street. E LVMH non è un’eccezione; come titolava l’Economist il mese scorso, Gucci, Prada e Tiffany scommettono sugli immobili: a guidare le danze, in particolare, c’è il principale concorrente di Arnault, Kering, l’altro megaconglomerato del lusso francese. Kering è, in tutto e per tutto, il precursore di LVMH: a partire da fine anni ‘90, ha cercato di costruire un monopolio del lusso facendo shopping forsennato – da Gucci a Yves Saint Laurent, da Bottega Veneta a Balenciaga e sempre rimanendo saldamente in mano alla famiglia Pinault, un progetto che però, a un certo punto, si è arenato. L’ultima grande acquisizione di Kering (e che poi manco è così grande) è stata quella di Balenciaga nel 2001; nell’era dei monopoli, troppo poco: ed ecco ,così, che Kering non solo, come Arnault, non ha abbastanza cash per sostenere le sue azioni, ma manco abbastanza quote di mercato per garantirsi ricavi e profitti. Ed ecco, così, che a marzo, mentre LVMH era tornato a correre grazie a un anno record, Kering doveva dichiarare il crollo dei ricavi del suo brand principale, Gucci, che ha segnato un bel -20% di ricavi. Risultato: al contrario di LVMH, il declino delle azioni di Kering, iniziato col post covid, continua ancora. Ed ecco, allora, che – più di ogni altro – il buon vecchio Pinault decide di dedicarsi all’altro ramo della speculazione: quella immobiliare; a gennaio s’è comprato, per oltre 800 milioni, il negozio sulla 5th avenue dove Gucci era stato, fino ad allora, in affitto e giovedì scorso è arrivato a casa nostra. Per 1,3 miliardi di euro, infatti, il compagno Pinault s’è comprato il palazzo storico di via Montenapoleone a Milano dove ci sono le boutique di Saint Laurent e Prada: è, in assoluto, la più grande operazione immobiliare di sempre nel nostro paese – che uno si immagina chissà quanti metri quadrati saranno 1,3 miliardi… Macché: la superficie complessiva, infatti, è di poco meno di 12 mila metri quadrati – di cui soltanto 5 mila sono commerciali. Tradotto: sono 110 mila euro al metro quadrato.
Ora, capite bene che, rispetto a queste follie, Giorgio Armani, con i suoi 9 mila dipendenti, poco più di 2 miliardi di fatturato e meno di 150 milioni di utili, sia sostanzialmente un morto che cammina e che cerca di rimandare la sua resa definitiva con ogni mezzo necessario, compresa la schiavitù. Per ora sdoganare la schiavitù pubblicamente fa ancora brutto, forse, ma state tranquilli che ci arriveremo; li vedo già i giornali nei prossimi anni: Buonisti radical chic condannano la schiavitù e fanno chiudere le aziende italiane. Anzi: in realtà, anche se non formulata esattamente così, ci sono già stati; per anni abbiamo sostenuto che la controrivoluzione neoliberista avrebbe necessariamente portato all’impoverimento e alle svolte autoritarie; eravamo ottimisti. La controrivoluzione neoliberista ci scaraventa direttamente in una entusiasmante nuova era di genocidi, stermini di massa e schiavitù. Forse sarebbe il caso di organizzarsi e reagire come si deve a questa nuova età di barbarie senza fine; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che smonti pezzetto per pezzetto la narrazione delle oligarchie affamapopoli e dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donatella Versace

P.S.: per i più determinati, visto che un po’ di tempo fa – quando, per la prima volta, Arnault venne ufficialmente incoronato da Forbes uomo più ricco del pianeta scavalcando allora Elon Musk – gli avevamo dedicato un simpatico video biografico, adesso ve lo riproponiamo. Buona ri-visione.

Guerra al lavoro: sciopero ferrovie

Ottolina torna a parlare di lavoro, oggi ci concentriamo sulla situazione delle ferrovie.
A pochi giorni dello sciopero dei manutentori ferroviari, abbiamo deciso di parlare con lavoratori di tutta Italia (Bologna, Firenze, Milano, Roma) del settore per avere un quadro della protesta, cause e partecipazione. Ancora una volta le compagnie private prediligono comprimere salari e qualità del lavoro, invece di investire e aprire al dialogo; ancora una volta nel silenzio generale dei media, si combatte una battaglia di quella guerra tra capitale e lavoro che ci riguarda tutta nel nostro quotidiano.
Buona visione!

Lo sterminio di aziende italiane e tedesche: come funziona la guerra economica USA contro l’Europa

Nel 2013 perse oltre 100 mila aziende titolava ieri Il Sole 24 ore. Un dato allarmante, e più scavi dentro a quei numeri, e più inquietante diventa; intanto, per la distribuzione geografica: di queste 100 mila aziende, infatti, “54 mila solo nelle Marche e in Piemonte”. “Il tessuto produttivo di un’intera provincia italiana, grande quanto tutta Reggio Emilia” insiste Il Sole: “è questa l’entità delle aziende scomparse nelle sole regioni Marche e Piemonte tra il 2013 e il 2023”; ora, è vero che a guidare la classifica ci sono province come Biella e Vercelli, dove a pesare è stato anche un calo demografico consistente (rispettivamente -7,5 e -6,6%) che, ovviamente, ha avuto ricadute disastrose in particolare sulle attività commerciali, ma il brutto è che nella classifica ci sono anche province come Ancona, dove il calo demografico è stato solo del 3,4 e, invece, la diminuzione di imprese registrate supera il 15%. E qui, a pesare, è la chiusura di attività manifatturiere: -13%, che è comunque niente rispetto al -22% di Pesaro Urbino e – addirittura – il -28% di Fermo, un fenomeno che tocca anche realtà che, a prima vista, sembrano scoppiare di salute. Milano, ad esempio, nel complesso registra una crescita del numero delle attività poco inferiore all’8%; peccato siano tutti servizi: 9.200 attività professionali, 5.500 attività legate ai servizi finanziari e assicurativi e 3.700 legate alle attività ricettive. Ma anche qui, invece, nel manifatturiero si registra un vero tracollo: oltre 5.000 attività in meno, poco meno del 15 per cento; e anche quando i dati sono in controtendenza, nascondono uno scenario tutt’altro che entusiasmante. Tra le province con la maggior crescita di attività risulta infatti Taranto, al quarto posto con una crescita dell’8,1% nonostante un calo demografico superiore al 5: un miracoloso colpo di reni? Ma quando mai! Piuttosto, “Dopo la crisi industriale più grande del decennio, quella dell’ILVA, da acciaieria più grande d’Europa al baratro” sottolinea nel suo commento il caporedattore del Sole Lello Naso, “si è vista una crescita inaspettata di micro-imprese, rifugio per quadri e operai, compresi quelli dell’indotto, espulsi dall’industria”. Insomma, molto banalmente “Chi resta si ingegna con quel che c’è” e per mantenere il reddito che prima ti era garantito da un posto di lavoro stabile con tutti i diritti e la sicurezza che comporta, oggi devi perdere la salute in un’attività che, nella stragrande maggioranza dei casi, sta in piedi per miracolo e rischia di crollare alla prima folata di vento. “L’industria” riassume sempre Lello Naso “è il settore che perde più imprese, mentre i servizi, in tutte le loro declinazioni, sono il comparto che ne guadagna di più. Il segno di una grande manifattura che si sta trasformando in un’economia di servizi, non sempre avanzati. Turismo, accoglienza, ristorazione, manifestazioni ricreative e sportive sono i segmenti che crescono in maniera più decisa”. Insomma: un “paese a deriva Disneyland destinato a perdere ancora competitività e ad avere sempre più il fiato corto”; Naso ricorda come quello a cui stiamo assistendo è ancora in parte “la coda della crisi del debito sovrano del 2011-2023, con le conseguenze della più grande stretta del credito alle imprese della storia economica italiana”. Ma poi è arrivato qualcosa di molto peggio: il ritorno del protezionismo negli USA e la guerra senza frontiere all’economia europea; come ha ricordato entusiasta giovedì scorso Biden nel suo discorso sullo Stato dell’Unione “In realtà, le mie politiche hanno attirato 650 miliardi di dollari in investimenti privati nell’energia pulita e nella produzione avanzata, creando decine di migliaia di posti di lavoro qui in America”. A pagare il prezzo, appunto, siamo stati noi e in particolare la Germania che, come ricorda Naso, “per la prima volta nel dopoguerra” è entrata in recessione e “crisi della manifattura tedesca, significa crisi della fornitura e subfornitura italiana”. Nel pippone di ieri, appunto, abbiamo fatto le pulci all’importante discorso di Biden sullo Stato dell’Unione, nel quale ha annunciato in pompa magna la sua guerra economica senza frontiere agli alleati europei; con il pippone di oggi entreremo nel dettaglio delle conseguenze che questa guerra sta già facendo sentire. Pure troppo.
Steffen Cyris è il proprietario e amministratore delegato della Schrutka-Peukert, una storica azienda familiare bavarese specializzata in banconi per la gastronomia refrigerati e in attrezzature per la stagionatura delle carne bovina; ancora lo scorso Natale, durante la rituale festa coi dipendenti, riporta Bloomberg, “si era vantato del libro ordini gremito dell’azienda, e aveva detto ai dipendenti di tenersi pronti per un bel po’ di lavoro extra”, ma nel giro di poche settimane, come d’incanto, tutto quell’ottimismo è svanito nel nulla. “Macellerie e panetterie hanno annullato gli ordini” scrive ancora Bloomberg “e con il paese che scivola sempre più nella recessione, Cyris è sempre più preoccupato per le prospettive a lungo termine della sua attività”; “Le preoccupazioni di Cyris” continua Bloomberg “sono condivise da una bella fetta delle circa 3 milioni di aziende tedesche a conduzione familiare, che rappresentano ancora la spina dorsale dell’economia del paese, e che si trovano vicine a un punto di rottura”. Lo chiamano il mittelstand ed è, appunto, questo incredibile tessuto di piccole medie aziende che incarnano al meglio l’etica protestante e che hanno fatto la grandezza del capitalismo industriale tedesco; una lunga schiera di attività altamente specializzate sparse in tutto il paese e che spesso nascondono veri e propri campioni nazionali che si sono imposti come leader globali nelle nicchie più impensabili e dalle quali, in buona parte, dipendiamo anche noi italiani come fornitori e subfornitori, un tessuto che però l’austerity, il mercato unico europeo e la moderazione salariale degli ultimi 20 anni, alla fine dei giochi, non ha fatto che indebolire.
Invece di essere costrette a investire in innovazione e in aumento della produttività, le PMI tedesche – infatti – hanno potuto continuare a macinare profitti continuando a pagare i loro dipendenti molto meno di quanto producessero e, quando anche questo non era sufficiente, esternalizzando pezzi di produzione prima agli italiani e poi ai vicini dell’est, dalla Repubblica Ceca alla Polonia, passando per l’Ungheria; nel frattempo, grazie alla religione dell’austerity, anche la macchina pubblica tirava il freno a mano degli investimenti riducendo così, anno dopo anno, quello sviluppo delle forze produttive generali che continuava a rendere le imprese tedesche produttive: dalle infrastrutture funzionanti alla manodopera qualificata. E quando, alla fine, è arrivata la fine dell’energia a prezzo ultra scontato che arrivava dalla Russia, per continuare a rimanere competitive le aziende avrebbero dovuto affrontare investimenti consistenti; peccato, però, che da un lato il denaro necessario per questi investimenti abbia raggiunto un costo improponibile e, dall’altro, la recessione lasci temere che fatti questi investimenti poi non ci sarà un mercato sufficiente per giustificarli. Nel frattempo, si è fatta sempre più avanti la consapevolezza che per far fruttare i propri capitali non è necessario investirli in un’attività di successo: basta dedicarsi alla rendita finanziaria che, sempre più, garantisce ritorni stabili e permette di non avere a che fare con quei lavoratori sporchi e cattivi che, dopo 2 anni di inflazione a doppia cifra, sono capaci pure di chiederti l’aumento dei salari. Ed ecco così che quando le aziende familiari arrivano al momento fatidico della successione agli eredi, gli eredi di menarsela ancora con questa grandissima rottura di coglioni che è lavorare per guadagnare non ne vogliono sapere e decidono di vendere per poi, appunto, usare il ricavato per comprarsi qualche azione di Nvidia o di Amazon, o – al limite – qualche bitcoin: “Quasi ogni settimana ricevo chiamate da imprenditori familiari instabili” avrebbe rivelato il fondatore della May Consulting a Bloomberg; “Mi chiedono se dovrebbero vendere, e se vale ancora la pena fare l’imprenditore in Germania”.
Quelli che, invece, non vogliono mollare la presa hanno un’unica possibilità: l’America, a partire proprio dal nostro Cyris che “per mitigare parte degli affari che sta perdendo in Germania” – riporta Bloomberg – “ha iniziato a trasferire parte della sua attività negli Stati Uniti con il marchio The Aging Room” (la stanza dell’invecchiamento) e “ora” continua Bloomberg “sta vendendo locali per la stagionatura della carne bovina a ristoranti e macellerie raffinati in stati come la California o la Florida”. “Inventato in Germania, prodotto negli Stati Uniti” avrebbe affermato Cyris: questa “potrebbe essere la strada da seguire”ed è, più o meno, la strategia che stanno adottando sempre di più anche i gruppi più grandi. Porsche ha da poco annunciato che starebbe valutando l’idea di annullare il progetto di un nuovo stabilimento per la produzione di batterie nel Baden-Wuerttemberg in favore dell’altra sponda dell’Atlantico; un altro esempio paradigmatico è quello di Viessman, il leader tedesco delle pompe di calore: in questo caso, il timore della debolezza del mercato interno ai tempi della grande stagnazione non c’entra. A creare il mercato, infatti, c’ha pensato direttamente il governo che, in nome della transizione ecologica, ha fatto della sostituzione dei riscaldamenti a gas con le pompe di calore un cavallo di battaglia: nonostante i costi proibitivi, l’anno scorso il governo tedesco ha approvato una legge che prevede il divieto di nuovi sistemi di riscaldamento a gas a partire da quest’anno; inevitabilmente la gente s’è incazzata nera. Secondo la propaganda antipoveri s’è trattato, ovviamente, di una strumentalizzazione dei fasciocomplottisti perché in realtà – sostengono – per sostituire le pompe di calore ai vecchi sistemi ci sono ricchi incentivi: peccato che, come riporta anche Deutsche Welle, nonostante gli incentivi, i sistemi a gas costino 10 mila euro; le pompe di calore 17 mila. L’hanno etichettata come l’ennesima rivolta dei negazionisti, ma erano semplicemente poveri (anche se, ovviamente, per l’ecologismo delle ZTL sono sinonimi); comunque sia, il mercato era assicurato e per un leader del settore come Viessman si prospettava un futuro di profitti stratosferici. Evidentemente non basta: ad aprile dell’anno scorso Viessmann, infatti, comunica ufficialmente l’acquisizione da parte di Carrier, il colosso globale del riscaldamento di Palm Beach, Florida. Costo dell’operazione: 12 miliardi di dollari che gli eredi Viessmann hanno annunciato utilizzeranno per “espandere le attività del family office”, riporta Bloomberg (tradotto: per dedicarsi alla speculazione finanziaria alla borsa di New York).
I nuovi investimenti produttivi, invece, di fronte a un mercato in enorme espansione si sposteranno tutti negli USA, attratti dagli enormi incentivi fiscali dell’Inflation reduction act, l’arma di distrazione di massa dell’economia produttiva europea che costituisce il cuore pulsante della Bidenomics; in questo modo, gli USA ci guadagnano due volte: da un lato rilanciano il loro manifatturiero grazie a un debito che, alla fine, in buona parte paghiamo noi e, dall’altro, attirano sempre più quattrini sui loro mercati finanziari, necessari per continuare a sostenere a oltranza lo schema Ponzi, a meno che tutti gli eredi Viessmann che stanno svendendo il continente non decidano di darsi alla speculazione finanziaria, ma, invece che a New York, sotto casa.
I mercati europei, effettivamente, da qualche tempo a questa parte stanno andando alla grande, ma c’è qualche problemino; primo di tutto, sono minuscoli: nonostante il GDP dell’Unione Europea sia solo di circa il 25% più basso di quello USA, la capitalizzazione in borsa di tutti i paesi messi insieme è poco più di un quinto di quella della sola New York, ed è anche estremamente concretata. Il 50% della crescita negli ultimi 12 mesi di tutto l’indice Stoxx 600 che, come suggerisce il nome, racchiude i 600 principali titoli europei per capitalizzazione, è dovuto interamente a un microgruppo di 11 società: sono le così dette GRANOLAS, un acronimo che indica i colossi farmaceutici GalxoSmithKline e Roche, la leader dei macchinari per la produzione di chip ASML, le svizzere Nestlè e Novartis, la leader mondiale dei farmaci per il diabete Novo Nordisk, le francesi l’Oreal e LVMH, la britannica Astra Zeneca, l’azienda di software tedesca SAP e la francese Sanofi; esattamente come per i 7 colossi del big tech a stelle e strisce che, da soli, pesano per il 28% dello Standard&Poor 500, fatta 100 la capitalizzazione totale a gennaio 2021, oggi l’indice è schizzato ben oltre quota 160. Tutte assieme le GRANOLAS, però, superano di poco la capitalizzazione della sola Nvidia nonostante, ancora nel 2023, abbiano generato 3 volte i suoi profitti e fatturino 8 volte di più.
L’unica delle GRANOLAS che, benché capitalizzi meno della metà del più piccolo dei giganti tecnologici USA, potrebbe mirare ad registrare performance simili è proprio la Novo Nordisk, un’azienda decisamente sui generis: il 28% della proprietà e il 77% dei diritti di voto sono infatti in mano a una fondazione no profit; la più grande fondazione caritatevole del pianeta, con un patrimonio che è più del doppio di quella di Bill e Melinda Gates; come la fondazione Gates, ovviamente, non può essere confusa con una sorta di cugino, manco di dodicesimo grado, del socialismo, ma forse qualche differenza c’è. Per dirne una, nel 2022 Meta in borsa ha perso il 70% di capitalizzazione; ciononostante, i suoi 5 top executive si sono portati a casa 106 milioni di dollari. Nello stesso periodo, Novo Nordisk – invece – ha guadagnato oltre il 30%, ma i suoi top executive si sono portati a casa 35 milioni, mentre, secondo Glassdoor, i salari medi sono più alti di circa il 10%. Negli ultimi 3 anni Novo Nordisk ha più che quadruplicato il valore delle sue azioni e, con quasi 600 miliardi di dollari di capitalizzazione, è di gran lunga la leader indiscussa del mercato azionario del vecchio continente, una fortuna fondata tutta sui farmaci contro il diabete che, guarda caso, hanno rappresentato una fetta consistente del discorso di Biden sullo Stato dell’Unione: “Finalmente abbiamo battuto Big Pharma. Invece di pagare 400 dollari al mese o giù di lì per l’insulina contro il diabete, quando al produttore ne costa solo dieci, abbiamo fatto sì che ne vengano pagati solo 35 al mese”. Dal discorso di Biden il titolo ha perso il 3,6%; ho come l’impressione che se qualcuno crede di poter replicare il gran casino a stelle e strisce sul continente europeo, dovrà presto ricredersi: manco le briciole questi ti lasciano. Il bello è che, di fronte a ogni evidenza, continuano comunque a provare a intortarci: secondo il Financial Times, infatti, gli USA attraggono gli investimenti non perché è in corso la più grande rapina a mano armata della storia dell’umanità, ma perché “hanno ampliato il loro vantaggio in termini di produttività rispetto all’Europa”; “Nuovi dati pubblicati venerdì” continua l’articolo “mostrano che la produttività dell’Eurozona è scesa dell’1,2% nel quarto trimestre rispetto all’anno precedente, mentre negli Stati Uniti è aumentata del 2,6”. E graziarcazzo: al di là delle leggende metropolitane degli analfoliberali, la produttività da una cosa dipende, e solo da quella: gli INVESTIMENTI; il resto è fuffa.
D’altronde, fare parte del giardino ordinato del mondo libero ha un prezzo: senza il cappello di Washington, chi avrebbe mai il coraggio di mandare oltre 100 imbarcazioni di armi a Tel Aviv mentre sta compiendo il più grande massacro di civili del XXI secolo sapendo che, prima o poi, qualcuno ce ne verrà a chiedere conto e, probabilmente, non lo farà con un mazzo di rose in mano?
Perché, alla fine, è di questo che si tratta: ci lasciamo derubare sistematicamente per finanziare un regime criminale intento a provare ad arrestare la storia con le armi e con la finanza; e poi il matto era Aaron Bushnell. Contro la propaganda che copre la più grande rapina della storia dell’umanità dopo il colonialismo di fine ‘800, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che faccia i conti in tasca alle nostre élite di svendipatria e difenda gli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è David Parenzo

È finita la pacchia: la mobilitazione globale per cacciare i parassiti del neocolonialismo

Questa è Milano, sabato scorso. Solo nel capoluogo lombardo è la quarta manifestazione di solidarietà alla lotta di liberazione del popolo palestinese nell’arco di meno di un mese. Per il terzo weekend di fila, anche questa settimana l’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi ha invaso le piazze di una bella fetta del bel paese.
Questa è Napoli, davanti al consolato USA.

Addirittura a Varese sono scesi in piazza, che non è che ce l’abbiano proprio di abitudine, come d’altronde a Verona, ad Ancona, a Modena, a Mestre, a Trento, a Brescia, a Parma, ad Ancona; addirittura ad Aosta e anche – pensate un po’ – in Molise, sia ad Isernia che a Campobasso. E a Trieste avevamo addirittura un’inviata per Ottolina:

Insomma: non c’è aggregato di più di 20 edifici adibiti ad abitazione civile che non abbia messo insieme un numero sufficiente di persone da occupare qualche strada o qualche piazza e dire chiaramente che a questo giro non ci stiamo, e l’Italia è una goccia nell’oceano; tutto il mondo islamico è in subbuglio da oltre un mese, dal Marocco all’Indonesia. A Londra, sabato scorso, si è tenuta la più grande manifestazione dai tempi della guerra in Iraq nel 2003. Negli USA, sempre nella sola giornata di sabato, si sono tenute centinaia di manifestazioni in tutto il paese, compresa un’irruzione nella sede del New York Times e pure in quella di BlackRock.

Ormai non c’è angolo del pianeta dove non si manifesti quotidianamente contro la politica genocida di Israele e del suo bodyguard globale a stelle e strisce: un movimento globale gigantesco che non si vedeva da oltre 20 anni, durante i quali abbiamo assistito all’escalation di violenza dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo senza battere ciglio diventandone, per quanto involontariamente, complici. Oggi è un po’ come se i martiri di Gaza ci stessero fornendo l’ultima possibilità per prendere le distanze – come società civile – dai colpi di coda dell’impero in declino, disposto a distruggere il pianeta piuttosto di concedere finalmente a vecchie e nuove colonie il ruolo che gli spetta nel pianeta. Riusciremo ad approfittarne?

Le manifestazioni più imponenti, ovviamente, hanno riguardato tutto il mondo islamico a partire proprio dai paesi che più sono stati tentati dalla strategia USA – inaugurata da Trump e perseguita senza distinguo da Biden – di avvicinamento tra forze di occupazione israeliane e gli storici client state di Washington. A partire, ovviamente, dalla Giordania dove, da oltre un mese, è in corso un braccio di ferro all’ultimo sangue tra folle inferocite e forze dell’ordine in preda al panico, che è sfociato nell’arresto di migliaia di manifestanti. Manifestazioni imponenti si sono svolte anche in Marocco e in Bahrein, firmatari del famigerato Accordo di Abramo e avanguardie nella svendita del popolo arabo ai progetti egemonici made in USA. Manifestazioni senza precedenti si sono svolte dal Pakistan alla Malesia, passando per l’Indonesia, e questa invece è l’incredibile scena che si è trovato di fronte chi domenica scorsa Al Cairo pensava di andare allo stadio per godersi una normale partita: un intero stadio che all’unisono gridava “Daremo la nostra vita e la nostra anima per la Palestina”. Ma il mondo islamico non è certo isolato: manifestazioni oceaniche si sono registrate in Brasile, in Sudafrica, in Nigeria, in Thailandia. Tra i pochissimi fuori dall’Occidente collettivo ad essersi azzerbinati totalmente alla politica genocida di Israele c’è l’India di Modi, che sulla repressione violenta di tutto ciò che odora anche solo lontanamente di Islam ha fondato la sua intera carriera politica; potrebbe non essere stata una scelta proprio oculatissima. Questa, ad esempio, è Trivandrum, la capitale del piccolo stato meridionale del Kerala. Hanno addirittura azzardato a imbastire un collegamento virtuale nientepopodimeno che con Khaled Mashel, leader storico di Hamas. Ma se l’indignazione per la carneficina israeliana foraggiata da Washington ha unito ulteriormente il Sud globale, quello che forse conta ancora di più è che sta aprendo una breccia gigantesca anche sull’altro lato della barricata; in Francia, a un certo punto, avevano avuto la brillante idea le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei bambini trucidati a Gaza addirittura di vietarle. Hanno arrestato un sindacalista e una storica attivista franco – palestinese, ma alla fine hanno dovuto fare marcia indietro e questa era Parigi sabato. E questa invece era Berlino, nonostante – al giro prima – le forze dell’ordine avevano fatto sapere di non gradire molto con cariche indiscriminate e centinaia di arresti:

Questa invece era Londra, sempre sabato scorso: 300 mila secondo la polizia, 800 mila secondo gli organizzatori ma poco importa. Il punto è che non si vedeva una roba del genere dal 2003 quando, come oggi, eravamo tutti contenti di dare il nostro contributo allo sterminio indiscriminato di bambini arabi – però in quel caso, nello specifico, iracheni:

A Barcellona i portuali si sono rifiutati di far transitare armi destinate al genocidio come d’altronde anche a Genova, da dove hanno lanciato un appello agli altri colleghi sparpagliati nei porti europei che hanno subito aderito, dalla Grecia alla Turchia, passando per l’Australia:

A Sidney, infatti, si è tenuta una delle dimostrazioni più pittoresche di questi giorni quando, al porto di Botany, si sono radunati centinaia di manifestanti, molti dei quali a cavallo di moto d’acqua: l’obiettivo di tutte queste manifestazioni è ostacolare l’attività del gigante israeliano delle spedizioni internazionali ZIM, accusata di trasportare una fetta delle armi utilizzate per sterminare i bambini arabi della striscia. “Il membro del sindacato Paddy Gibson” riporta l’australiana ABCNews “ha detto che gli organizzatori convocheranno una protesta simile ogni volta che una nave ZIM proverà ad attraccare al porto di Botany”. Sempre secondo ABC News si tratterebbe, in realtà, già della sesta protesta del genere soltanto a Sidney dove, la settimana precedente, gli attivisti avevano già bloccato una colonna di camion con merci destinate a finire nelle imbarcazioni della ZIM. A Oslo, invece – patria dello storico accordo tra Rabin e Arafat sistematicamente violato dalle forze di occupazione -, alcune centinaia di attivisti hanno occupato la stazione centrale e hanno giocato a fare gli abitanti di Gaza per qualche ora, sdraiati, immobili e con un lenzuolo bianco insanguinato indosso.

Va anche detto che ci sono state anche manifestazioni di segno opposto; a Parigi, ad esempio, dove si è svolto questo grosso corteo:

Oddio, grosso fino a un certo punto… Diciamo grosso, se pensiamo qual era la piattaforma contro l’antisemitismo, che è l’etichetta che la propaganda affibbia a chiunque si azzardi ad ipotizzare che anche Israele – nonostante la missione divina di cui è investito – tutto sommato ogni tanto qualche norma del diritto internazionale la potrebbe pure rispettare. Così, se gli capita, eh?
Tra le celebrities presenti anche Marine le Pen, rappresentante di una forza politica che si rifà all’esperienza della Francia collaborazionista che gli ebrei ha contribuito a schedarli, ghettizzarli e poi spedirli nei campi di concentramento per la soluzione finale: più che contro l’antisemitismo, mi sa che quello che l’attrae è proprio la pratica dello sterminio in se, a prescindere da chi tocca. Oggi a te, domani a me. Il top del ribaltamento della realtà, poi, si raggiunge quando i vari eredi di quelli che gli ebrei li volevano sterminare sul serio danno degli antisemiti agli ebrei stessi. Ormai è pane quotidiano perché, in tutto il mondo, una bella fetta della comunità ebraica che ha molto spesso inclinazioni pacifiste – se non addirittura compiutamente antimperialiste – nelle manifestazioni di condanna alle azioni criminali dello stato di Israele è in primissima fila. La manifestazione più eclatante è avvenuta poco dopo l’inizio della carneficina, quando a Washington gli attivisti anti – guerra della Jewish Voice for Peace hanno occupato nientepopodimeno che il Campidoglio stesso: la polizia ne ha arrestati circa 400. Ma gli antisemiti immaginari sono comparsi direttamente anche dentro Israele stessa: prima è stato il turno dei soliti gruppi ortodossi, che ritengono il sionismo blasfemo. Per combattere l’antisemitismo, la polizia israeliana li ha presi beatamente a mazzate. Ma la protesta, poi, si è estesa a fasce di popolazione che ortodosse non sono per niente, molti dei quali contro Netanyahu protestavano ben prima dell’inizio della carneficina ma senza necessariamente avere chissà quali simpatie per la causa palestinese, che era stata beatamente espulsa dalle piazze. La follia omicida di Netanyahu ha fatto superare anche questo tabù e in centinaia si sono raggruppati direttamente subito fuori dalla casa di Bibi al grido “Jail now”… IN GALERA!!!
Sono solo la punta dell’iceberg: secondo un sondaggio del canale televisivo Channel 13, il 76% dei cittadini israeliani pensa che Netanyahu si dovrebbe dimettere; l’asse del male a sostegno del genocidio rappresenta una minoranza esigua della popolazione mondiale. Se fossero democratici anche solo per un decimo di quanto professano, dovrebbero ritirarsi tutti a vita privata e dedicarsi a zappare le proda.
Netanyahu non è stato l’unico a ritrovarsi folle inferocite sotto casa: è successo anche a Biden, nel suo soporifero Delaware, dove migliaia di attivisti hanno manifestato al suono di “President Biden, you can’t hide! We charge you with genocide!” (Presidente Biden, non puoi nasconderti! Ti accusiamo di genocidio!), lo stesso slogan che hanno intonato gli attivisti di New York che hanno fatto 1 + 1 e, alla fine, hanno deciso di irrompere negli uffici di BlackRock. A poche miglia di distanza, intanto, un nutrito gruppo di operatori dei media irrompeva nella hall del New York Times; ci sono rimasti fino a che non hanno finito di leggere l’elenco completo delle vittime rimaste uccise dalle armi americane usate dagli israeliani a Gaza. Sono solo 2 delle oltre 500 proteste di ogni genere che si sono svolte sabato scorso in tutti gli Stati Uniti. La settimana prima, a Washington, si era svolta la più grande manifestazione a sostegno della Palestina della storia degli USA e, dopo quella gigantesca dimostrazione di forza unitaria, la strategia ora è cambiata: non ci deve essere un angolo degli USA dove i cittadini rimbambiti dalla propaganda filo – genocida non si debbano confrontare con l’indignazione dei manifestanti.
“Dimostrazioni si sono svolte in ogni città principale del paese: a Detroit c’è stata una protesta di fronte agi uffici della senatrice Debbie Stabenow, una marcia all’università della Georgia, un picchetto di fronte a Textrone – un’azienda militare di Providence -, una protesta fuori dall’ufficio della parlamentare Deborah Ross a Raleigh, marce a Pittsburgh, Tucson, la chiusura totale degli uffici federali a San Francisco. A Washington i manifestanti hanno circondato il Dipartimento di Stato” (fonte: BT).
Insomma: siamo di fronte alla più grande mobilitazione di massa a livello globale dagli anni della carneficina irachena. Quanto servì allora è difficile da dire con precisione; la mobilitazione sicuramente contribuì alla scelta di alcuni paesi europei, dalla Francia alla Germania che, una volta tanto, si rifiutarono di essere tra i complici. Ma il destino dei bambini e dei civili iracheni era segnato: fu una strage di dimensioni bibliche e, alla fine dei giri, il grosso del pianeta decise di chiudere un occhio e tornare al business as usual. Perché mai, a questo giro, dovrebbe andare diversamente? Semplice: perché, nel frattempo, il mondo è cambiato parecchio. In questi 20 anni il declino relativo dell’impero è proceduto a passo spedito: la Cina è diventata, di gran lunga, la prima potenza produttiva del pianeta e anche il primo partner commerciale della maggioranza dei paesi del mondo e, ispirati dal suo esempio, gli stati sovrani del Sud del mondo stanno rialzando la testa. Gli assi portanti dell’unipolarismo a guida USA – dallo strapotere militare a quello finanziario fondato sul dollaro – stanno collassando alla velocità della luce e alcuni effetti più eclatanti si riscontrano proprio in Medio Oriente che, di quel disegno egemonico, è sempre stato uno dei tasselli fondamentali. Un tassello che, a sua volta, si basava sullo strapotere militare degli USA e dei suoi proxy nell’area e sul divide et impera su base settaria tra mondo sunnita e sciita, un equilibrio precario fondato sul terrore e sulla riduzione in semi – schiavitù della stragrande maggioranza delle masse popolari e che, da un po’ di tempo a questa parte, è entrato definitivamente in crisi.
Non sarà un pranzo di gala; sarà un percorso lungo e faticoso, lastricato di battute d’arresto, passi indietro e fiumi di sangue di vittime innocenti, ma mai come oggi pensare che l’esito sia scontato e che contro l’asse del male del Nord globale la partita sia persa in partenza è oggettivamente una cazzata colossale. Dopo la favoletta per allocchi della fine della storia, che non faceva altro che dissimulare una fase transitoria dove l’unica superpotenza imponeva con la violenza la sua volontà al resto del mondo e lo chiamava ordine, la storia è tornata a farsi sentire più forte che mai e, quando la storia si rimette in moto, ogni azione sposta – in un modo o nell’altro – i rapporti di forza e niente è futile o inutile. Con la sfacciataggine della loro prepotenza sanguinaria i vecchi egemoni in declino c’hanno dato la sveglia: tra mille contraddizioni, il mondo nuovo troverà il modo di farsi strada – con o senza il nostro sostegno. L’unica cosa che Israele e gli USA possono davvero ottenere concretamente è, nel frattempo, sterminare quanti più bambini inermi possibili e più ne sterminano, più il declino si velocizza e più saranno tentati di sterminarne in futuro ottenendo NIENTE, assolutamente ZERO. Questa mobilitazione globale è forse l’ultima opportunità che abbiamo: possiamo decidere di essere complici, seguire ignavi le nostre classi dirigenti criminali nel declino inesorabile, passare alla storia come sudditi inermi e condannarci ad essere la feccia del nuovo ordine che verrà. Oppure possiamo cogliere la palla al balzo, liberarci definitivamente dal’1% di parassiti dell’ordine neocoloniale e ritagliarci nel mondo nuovo il posto che ci spetta, di popolo libero tra popoli liberi. Per la nostra stessa sopravvivenza, è arrivata l’ora di unirsi alla resistenza: per farlo, abbiamo bisogno di un media che ci dia voce. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Marine Le Pen