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Tag: Taranto

Lo sterminio di aziende italiane e tedesche: come funziona la guerra economica USA contro l’Europa

Nel 2013 perse oltre 100 mila aziende titolava ieri Il Sole 24 ore. Un dato allarmante, e più scavi dentro a quei numeri, e più inquietante diventa; intanto, per la distribuzione geografica: di queste 100 mila aziende, infatti, “54 mila solo nelle Marche e in Piemonte”. “Il tessuto produttivo di un’intera provincia italiana, grande quanto tutta Reggio Emilia” insiste Il Sole: “è questa l’entità delle aziende scomparse nelle sole regioni Marche e Piemonte tra il 2013 e il 2023”; ora, è vero che a guidare la classifica ci sono province come Biella e Vercelli, dove a pesare è stato anche un calo demografico consistente (rispettivamente -7,5 e -6,6%) che, ovviamente, ha avuto ricadute disastrose in particolare sulle attività commerciali, ma il brutto è che nella classifica ci sono anche province come Ancona, dove il calo demografico è stato solo del 3,4 e, invece, la diminuzione di imprese registrate supera il 15%. E qui, a pesare, è la chiusura di attività manifatturiere: -13%, che è comunque niente rispetto al -22% di Pesaro Urbino e – addirittura – il -28% di Fermo, un fenomeno che tocca anche realtà che, a prima vista, sembrano scoppiare di salute. Milano, ad esempio, nel complesso registra una crescita del numero delle attività poco inferiore all’8%; peccato siano tutti servizi: 9.200 attività professionali, 5.500 attività legate ai servizi finanziari e assicurativi e 3.700 legate alle attività ricettive. Ma anche qui, invece, nel manifatturiero si registra un vero tracollo: oltre 5.000 attività in meno, poco meno del 15 per cento; e anche quando i dati sono in controtendenza, nascondono uno scenario tutt’altro che entusiasmante. Tra le province con la maggior crescita di attività risulta infatti Taranto, al quarto posto con una crescita dell’8,1% nonostante un calo demografico superiore al 5: un miracoloso colpo di reni? Ma quando mai! Piuttosto, “Dopo la crisi industriale più grande del decennio, quella dell’ILVA, da acciaieria più grande d’Europa al baratro” sottolinea nel suo commento il caporedattore del Sole Lello Naso, “si è vista una crescita inaspettata di micro-imprese, rifugio per quadri e operai, compresi quelli dell’indotto, espulsi dall’industria”. Insomma, molto banalmente “Chi resta si ingegna con quel che c’è” e per mantenere il reddito che prima ti era garantito da un posto di lavoro stabile con tutti i diritti e la sicurezza che comporta, oggi devi perdere la salute in un’attività che, nella stragrande maggioranza dei casi, sta in piedi per miracolo e rischia di crollare alla prima folata di vento. “L’industria” riassume sempre Lello Naso “è il settore che perde più imprese, mentre i servizi, in tutte le loro declinazioni, sono il comparto che ne guadagna di più. Il segno di una grande manifattura che si sta trasformando in un’economia di servizi, non sempre avanzati. Turismo, accoglienza, ristorazione, manifestazioni ricreative e sportive sono i segmenti che crescono in maniera più decisa”. Insomma: un “paese a deriva Disneyland destinato a perdere ancora competitività e ad avere sempre più il fiato corto”; Naso ricorda come quello a cui stiamo assistendo è ancora in parte “la coda della crisi del debito sovrano del 2011-2023, con le conseguenze della più grande stretta del credito alle imprese della storia economica italiana”. Ma poi è arrivato qualcosa di molto peggio: il ritorno del protezionismo negli USA e la guerra senza frontiere all’economia europea; come ha ricordato entusiasta giovedì scorso Biden nel suo discorso sullo Stato dell’Unione “In realtà, le mie politiche hanno attirato 650 miliardi di dollari in investimenti privati nell’energia pulita e nella produzione avanzata, creando decine di migliaia di posti di lavoro qui in America”. A pagare il prezzo, appunto, siamo stati noi e in particolare la Germania che, come ricorda Naso, “per la prima volta nel dopoguerra” è entrata in recessione e “crisi della manifattura tedesca, significa crisi della fornitura e subfornitura italiana”. Nel pippone di ieri, appunto, abbiamo fatto le pulci all’importante discorso di Biden sullo Stato dell’Unione, nel quale ha annunciato in pompa magna la sua guerra economica senza frontiere agli alleati europei; con il pippone di oggi entreremo nel dettaglio delle conseguenze che questa guerra sta già facendo sentire. Pure troppo.
Steffen Cyris è il proprietario e amministratore delegato della Schrutka-Peukert, una storica azienda familiare bavarese specializzata in banconi per la gastronomia refrigerati e in attrezzature per la stagionatura delle carne bovina; ancora lo scorso Natale, durante la rituale festa coi dipendenti, riporta Bloomberg, “si era vantato del libro ordini gremito dell’azienda, e aveva detto ai dipendenti di tenersi pronti per un bel po’ di lavoro extra”, ma nel giro di poche settimane, come d’incanto, tutto quell’ottimismo è svanito nel nulla. “Macellerie e panetterie hanno annullato gli ordini” scrive ancora Bloomberg “e con il paese che scivola sempre più nella recessione, Cyris è sempre più preoccupato per le prospettive a lungo termine della sua attività”; “Le preoccupazioni di Cyris” continua Bloomberg “sono condivise da una bella fetta delle circa 3 milioni di aziende tedesche a conduzione familiare, che rappresentano ancora la spina dorsale dell’economia del paese, e che si trovano vicine a un punto di rottura”. Lo chiamano il mittelstand ed è, appunto, questo incredibile tessuto di piccole medie aziende che incarnano al meglio l’etica protestante e che hanno fatto la grandezza del capitalismo industriale tedesco; una lunga schiera di attività altamente specializzate sparse in tutto il paese e che spesso nascondono veri e propri campioni nazionali che si sono imposti come leader globali nelle nicchie più impensabili e dalle quali, in buona parte, dipendiamo anche noi italiani come fornitori e subfornitori, un tessuto che però l’austerity, il mercato unico europeo e la moderazione salariale degli ultimi 20 anni, alla fine dei giochi, non ha fatto che indebolire.
Invece di essere costrette a investire in innovazione e in aumento della produttività, le PMI tedesche – infatti – hanno potuto continuare a macinare profitti continuando a pagare i loro dipendenti molto meno di quanto producessero e, quando anche questo non era sufficiente, esternalizzando pezzi di produzione prima agli italiani e poi ai vicini dell’est, dalla Repubblica Ceca alla Polonia, passando per l’Ungheria; nel frattempo, grazie alla religione dell’austerity, anche la macchina pubblica tirava il freno a mano degli investimenti riducendo così, anno dopo anno, quello sviluppo delle forze produttive generali che continuava a rendere le imprese tedesche produttive: dalle infrastrutture funzionanti alla manodopera qualificata. E quando, alla fine, è arrivata la fine dell’energia a prezzo ultra scontato che arrivava dalla Russia, per continuare a rimanere competitive le aziende avrebbero dovuto affrontare investimenti consistenti; peccato, però, che da un lato il denaro necessario per questi investimenti abbia raggiunto un costo improponibile e, dall’altro, la recessione lasci temere che fatti questi investimenti poi non ci sarà un mercato sufficiente per giustificarli. Nel frattempo, si è fatta sempre più avanti la consapevolezza che per far fruttare i propri capitali non è necessario investirli in un’attività di successo: basta dedicarsi alla rendita finanziaria che, sempre più, garantisce ritorni stabili e permette di non avere a che fare con quei lavoratori sporchi e cattivi che, dopo 2 anni di inflazione a doppia cifra, sono capaci pure di chiederti l’aumento dei salari. Ed ecco così che quando le aziende familiari arrivano al momento fatidico della successione agli eredi, gli eredi di menarsela ancora con questa grandissima rottura di coglioni che è lavorare per guadagnare non ne vogliono sapere e decidono di vendere per poi, appunto, usare il ricavato per comprarsi qualche azione di Nvidia o di Amazon, o – al limite – qualche bitcoin: “Quasi ogni settimana ricevo chiamate da imprenditori familiari instabili” avrebbe rivelato il fondatore della May Consulting a Bloomberg; “Mi chiedono se dovrebbero vendere, e se vale ancora la pena fare l’imprenditore in Germania”.
Quelli che, invece, non vogliono mollare la presa hanno un’unica possibilità: l’America, a partire proprio dal nostro Cyris che “per mitigare parte degli affari che sta perdendo in Germania” – riporta Bloomberg – “ha iniziato a trasferire parte della sua attività negli Stati Uniti con il marchio The Aging Room” (la stanza dell’invecchiamento) e “ora” continua Bloomberg “sta vendendo locali per la stagionatura della carne bovina a ristoranti e macellerie raffinati in stati come la California o la Florida”. “Inventato in Germania, prodotto negli Stati Uniti” avrebbe affermato Cyris: questa “potrebbe essere la strada da seguire”ed è, più o meno, la strategia che stanno adottando sempre di più anche i gruppi più grandi. Porsche ha da poco annunciato che starebbe valutando l’idea di annullare il progetto di un nuovo stabilimento per la produzione di batterie nel Baden-Wuerttemberg in favore dell’altra sponda dell’Atlantico; un altro esempio paradigmatico è quello di Viessman, il leader tedesco delle pompe di calore: in questo caso, il timore della debolezza del mercato interno ai tempi della grande stagnazione non c’entra. A creare il mercato, infatti, c’ha pensato direttamente il governo che, in nome della transizione ecologica, ha fatto della sostituzione dei riscaldamenti a gas con le pompe di calore un cavallo di battaglia: nonostante i costi proibitivi, l’anno scorso il governo tedesco ha approvato una legge che prevede il divieto di nuovi sistemi di riscaldamento a gas a partire da quest’anno; inevitabilmente la gente s’è incazzata nera. Secondo la propaganda antipoveri s’è trattato, ovviamente, di una strumentalizzazione dei fasciocomplottisti perché in realtà – sostengono – per sostituire le pompe di calore ai vecchi sistemi ci sono ricchi incentivi: peccato che, come riporta anche Deutsche Welle, nonostante gli incentivi, i sistemi a gas costino 10 mila euro; le pompe di calore 17 mila. L’hanno etichettata come l’ennesima rivolta dei negazionisti, ma erano semplicemente poveri (anche se, ovviamente, per l’ecologismo delle ZTL sono sinonimi); comunque sia, il mercato era assicurato e per un leader del settore come Viessman si prospettava un futuro di profitti stratosferici. Evidentemente non basta: ad aprile dell’anno scorso Viessmann, infatti, comunica ufficialmente l’acquisizione da parte di Carrier, il colosso globale del riscaldamento di Palm Beach, Florida. Costo dell’operazione: 12 miliardi di dollari che gli eredi Viessmann hanno annunciato utilizzeranno per “espandere le attività del family office”, riporta Bloomberg (tradotto: per dedicarsi alla speculazione finanziaria alla borsa di New York).
I nuovi investimenti produttivi, invece, di fronte a un mercato in enorme espansione si sposteranno tutti negli USA, attratti dagli enormi incentivi fiscali dell’Inflation reduction act, l’arma di distrazione di massa dell’economia produttiva europea che costituisce il cuore pulsante della Bidenomics; in questo modo, gli USA ci guadagnano due volte: da un lato rilanciano il loro manifatturiero grazie a un debito che, alla fine, in buona parte paghiamo noi e, dall’altro, attirano sempre più quattrini sui loro mercati finanziari, necessari per continuare a sostenere a oltranza lo schema Ponzi, a meno che tutti gli eredi Viessmann che stanno svendendo il continente non decidano di darsi alla speculazione finanziaria, ma, invece che a New York, sotto casa.
I mercati europei, effettivamente, da qualche tempo a questa parte stanno andando alla grande, ma c’è qualche problemino; primo di tutto, sono minuscoli: nonostante il GDP dell’Unione Europea sia solo di circa il 25% più basso di quello USA, la capitalizzazione in borsa di tutti i paesi messi insieme è poco più di un quinto di quella della sola New York, ed è anche estremamente concretata. Il 50% della crescita negli ultimi 12 mesi di tutto l’indice Stoxx 600 che, come suggerisce il nome, racchiude i 600 principali titoli europei per capitalizzazione, è dovuto interamente a un microgruppo di 11 società: sono le così dette GRANOLAS, un acronimo che indica i colossi farmaceutici GalxoSmithKline e Roche, la leader dei macchinari per la produzione di chip ASML, le svizzere Nestlè e Novartis, la leader mondiale dei farmaci per il diabete Novo Nordisk, le francesi l’Oreal e LVMH, la britannica Astra Zeneca, l’azienda di software tedesca SAP e la francese Sanofi; esattamente come per i 7 colossi del big tech a stelle e strisce che, da soli, pesano per il 28% dello Standard&Poor 500, fatta 100 la capitalizzazione totale a gennaio 2021, oggi l’indice è schizzato ben oltre quota 160. Tutte assieme le GRANOLAS, però, superano di poco la capitalizzazione della sola Nvidia nonostante, ancora nel 2023, abbiano generato 3 volte i suoi profitti e fatturino 8 volte di più.
L’unica delle GRANOLAS che, benché capitalizzi meno della metà del più piccolo dei giganti tecnologici USA, potrebbe mirare ad registrare performance simili è proprio la Novo Nordisk, un’azienda decisamente sui generis: il 28% della proprietà e il 77% dei diritti di voto sono infatti in mano a una fondazione no profit; la più grande fondazione caritatevole del pianeta, con un patrimonio che è più del doppio di quella di Bill e Melinda Gates; come la fondazione Gates, ovviamente, non può essere confusa con una sorta di cugino, manco di dodicesimo grado, del socialismo, ma forse qualche differenza c’è. Per dirne una, nel 2022 Meta in borsa ha perso il 70% di capitalizzazione; ciononostante, i suoi 5 top executive si sono portati a casa 106 milioni di dollari. Nello stesso periodo, Novo Nordisk – invece – ha guadagnato oltre il 30%, ma i suoi top executive si sono portati a casa 35 milioni, mentre, secondo Glassdoor, i salari medi sono più alti di circa il 10%. Negli ultimi 3 anni Novo Nordisk ha più che quadruplicato il valore delle sue azioni e, con quasi 600 miliardi di dollari di capitalizzazione, è di gran lunga la leader indiscussa del mercato azionario del vecchio continente, una fortuna fondata tutta sui farmaci contro il diabete che, guarda caso, hanno rappresentato una fetta consistente del discorso di Biden sullo Stato dell’Unione: “Finalmente abbiamo battuto Big Pharma. Invece di pagare 400 dollari al mese o giù di lì per l’insulina contro il diabete, quando al produttore ne costa solo dieci, abbiamo fatto sì che ne vengano pagati solo 35 al mese”. Dal discorso di Biden il titolo ha perso il 3,6%; ho come l’impressione che se qualcuno crede di poter replicare il gran casino a stelle e strisce sul continente europeo, dovrà presto ricredersi: manco le briciole questi ti lasciano. Il bello è che, di fronte a ogni evidenza, continuano comunque a provare a intortarci: secondo il Financial Times, infatti, gli USA attraggono gli investimenti non perché è in corso la più grande rapina a mano armata della storia dell’umanità, ma perché “hanno ampliato il loro vantaggio in termini di produttività rispetto all’Europa”; “Nuovi dati pubblicati venerdì” continua l’articolo “mostrano che la produttività dell’Eurozona è scesa dell’1,2% nel quarto trimestre rispetto all’anno precedente, mentre negli Stati Uniti è aumentata del 2,6”. E graziarcazzo: al di là delle leggende metropolitane degli analfoliberali, la produttività da una cosa dipende, e solo da quella: gli INVESTIMENTI; il resto è fuffa.
D’altronde, fare parte del giardino ordinato del mondo libero ha un prezzo: senza il cappello di Washington, chi avrebbe mai il coraggio di mandare oltre 100 imbarcazioni di armi a Tel Aviv mentre sta compiendo il più grande massacro di civili del XXI secolo sapendo che, prima o poi, qualcuno ce ne verrà a chiedere conto e, probabilmente, non lo farà con un mazzo di rose in mano?
Perché, alla fine, è di questo che si tratta: ci lasciamo derubare sistematicamente per finanziare un regime criminale intento a provare ad arrestare la storia con le armi e con la finanza; e poi il matto era Aaron Bushnell. Contro la propaganda che copre la più grande rapina della storia dell’umanità dopo il colonialismo di fine ‘800, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che faccia i conti in tasca alle nostre élite di svendipatria e difenda gli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è David Parenzo

ARIDATECE L’ACCIAIO DI STATO – perchè lo scandalo Ex Ilva dimostra che i privati non servono

Carissimi ottoliner, anche oggi abbiamo un altro scoop incredibile: l’ex ILVA è nella merda. E’ veramente una notizia incredibile: cioè, per rimediare ai terribili sprechi dei carrozzoni pubblici, negli ultimi 30 anni abbiamo dato le chiavi di casa della siderurgia italiana al meglio del meglio della grande imprenditoria privata, sempre così smart e meritocratica, e non è servito a una seganiente. Il modo in cui, negli anni, c’è stata raccontata la vicenda dell’ILVA sarebbe una vera barzelletta se non fosse una gigantesca tragedia, doppia, anzi tripla: una tragedia per i 20 mila lavoratori coinvolti direttamente, tra Acciaierie d’Italia e indotto, un’altra per tutta la popolazione che vive nei paraggi, decimata da tumori e leucemie che non sono il frutto del destino cinico e baro ma di un vero e proprio furto ad opera di una manciata di oligarchi, e un’altra ancora per l’intera economia italiana che si condanna ancora una volta al declino, all’irrilevanza e alla sudditanza.

L’ILVA e le sue emissioni

La storia di odio e amore tra Taranto e l’acciaio ha inizio ormai oltre 60 anni fa e – al netto di tutte le contraddizioni – vista con gli occhi di oggi sembra una storia di fantascienza e odora di socialismo da mille miglia di distanza: il più grande e moderno impianto siderurgico dell’intero vecchio continente nel cuore di una delle aree più arretrate in assoluto di tutto il vecchio continente; una vittoria storica della sinistra democristiana di Fanfani, delle sinistre e del sindacato contro il grande capitale privato – da FIAT a Falck – che quel polo l’avrebbero voluto privato e a Vado Ligure perché, nella logica capitalistica di allora, i soldi dovevano essere investiti solo laddove c’erano già abbastanza soldi e gli altri dovevano accompagnare solo.
l’ILVA di Taranto è una vera e propria eresia, una delle massime espressioni dello stato sviluppista che la controrivoluzione neoliberista ha smantellato, lasciandoci tutti con le pezze al culo; i primi anni dell’allora Italsider sono una specie di piccolo sogno idilliaco del migliore socialismo reale: l’acciaieria, tra lavoro diretto e indotto, garantisce un lavoro sicuro e un tenore di vita dignitoso a oltre 40 mila famiglie, più di quante ve ne siano complessivamente in città e, soprattutto, garantisce all’Italia tutto l’acciaio che serve per sostenere quell’incredibile miracolo economico che ha trasformato l’intero paese nell’arco di meno di trent’anni. Ma le belle storie, purtroppo, durano sempre troppo poco.
Quindi, riassumendo, lo Stato ha fatto un gigantesco investimento per portare sviluppo economico in un’area del paese che il capitale privato schifava completamente; ha permesso a tutto il paese di crescere a ritmi cinesi anche alle aziende private che avevano l’opportunità di comprare tutto l’acciaio di qualità che gli serviva a prezzi d’occasione. Poi il ciclo dell’acciaio è entrato in crisi per fattori che non c’entravano niente con la gestione pubblica, e la gestione pubblica non solo ha tenuto botta, ma ha pure continuato a investire; poi il ciclo dell’acciaio ha cambiato corso, ma purtroppo ha cambiato ciclo pure la politica: alla democrazia moderna fondata su sviluppo e redistribuzione è subentrata la dittatura neoliberale fondata sul furto di ricchezza da parte di un manipolo di oligarchi. E così dopo aver assorbito perdite per anni, quando c’era da passare all’incasso quell’incasso si decide di regalarlo tutto a una famiglia di prenditori, e a rimetterci non è solo il sistema paese in generale ma, molto in concreto, le persone che l’acciaieria ce l’hanno come vicina di casa perché, nonostante l’azienda macinasse fatturati, gli investimenti per adeguarsi alle leggi ambientali che mano a mano venivano fuori non ci sono mai stati. Chiara la differenza? Anche l’Italsider – come si chiamava quando era ancora pubblica – inquinava, non emetteva fiorellini, ma all’epoca le leggi non c’erano e non gliene fregava un cazzo a nessuno. E quando le leggi sono continuate a non esserci ma a qualcuno un po’ più sveglio è cominciato a fregargliene qualcosa, non c’erano i quattrini perché il mercato mondiale dell’acciaio era in crisi nera. Quando da pubblica è diventata privata, invece, c’erano sia le leggi che i quattrini ma, appunto, era privata e i privati i quattrini se li intascano e le leggi le aggirano, soprattutto se lo Stato è connivente.

Emilio Riva

E qui lo Stato ai Riva gli ha sempre steso tappeti rossi, a partire dal nostro Silvione nazionale, che il patron dell’ILVA – noto falco liberista – premiava lautamente con donazioni al partito: 245 mila euro solo nel 2007, anche se va detto che 100 mila euro, giusto per cadere sempre in piedi, li aveva dati anche al PD di Bersani, e la cosa più brutta è che so pure pochi; la sudditanza agli interessi privati questi te la garantiscono pure gratis, tutto sommato, e non è che dovessero chiedere l’impossibile, eh? Bastava copiare: 10 anni prima infatti, per fare un esempio, a Duisburg la ThyssenKrupp era stata costretta a trasferire tutti i forni a coke, che trasformano il carbon fossile nel combustibile per gli altiforni, lontano dalla città; costo dell’operazione 800 milioni, tutti a carico dell’azienda. Ma non solo: il governo regionale, infatti, impone all’azienda anche di fare tutti gli interventi necessari per risolvere il problema del benzopirene, che è il principale responsabile dei tumori; tutti problemi che a Taranto oltre 20 anni dopo sono ancora lì, dopo anni e anni di cassa integrazione a spese dello Stato e una quantità di vittime da crimine di guerra.
Ciononostante, quando alla fine i Riva se ne sono dovuti andare per l’intervento della magistratura, al governo mica hanno detto “rega’, amo fatto ‘na cazzata” e sono tornati sui loro passi: macché. Hanno rilanciato, e l’ILVA l’hanno data a un’azienda che ha interessi di ogni genere tranne che rilanciare la siderurgia italiana; un’azienda che ha il cuore in India e la sede centrale in Lussemburgo: il suo capo si chiama Lakshmi Mittal, famoso per il braccino corto negli investimenti e per la manica larga nei matrimoni dei figli; sommando, tutti e tre gli sarebbero costati circa 150 milioni di dollari, più di quanto abbia mai investito a Taranto per risolvere la questione ambientale e quindi, a cascata, anche quella produttiva. Doveva riportare Taranto a 8 milioni di tonnellate di acciaio l’anno: nel 2023 si è fermato abbondantemente a meno di 4. Forse una soluzione potrebbe essere mandare quelli che si sono succeduti al governo in questi 12 anni a lavorare un po’ agli altiforni e gli operai dell’ex ILVA mandarli a Palazzo Chigi; sembra abbiano le idee più chiare: quando circa un anno fa sono stati chiamati a esprimersi sull’ipotesi nazionalizzazione non hanno avuto molti dubbi: hanno votato a favore 98 su 100.
Adolfo Urso, che ieri si è presentato al Senato cercando di passare come uno che era stato nominato poche ore prima, aveva qualche dubbio in più. Durante tutto questo anno il governo è rimasto a guardare impassibile mentre Arcelor Mittal accumulava bollette energetiche non pagate per 300 milioni, e non si capisce bene quanti debiti con i fornitori dell’indotto che, fino a ieri, sono rimasti in piedi solo grazie ai soldi anticipati dalle banche a fronte delle fatture da riscuotere da Acciaierie d’Italia (che però ora sono considerate carta straccia) e gli anticipi non arrivano più, e a rischiare lo stipendio sono circa in 3000. Nonostante l’attività ridotta, i livelli di benzene rilevati dall’ARPA sono fuori controllo e la sicurezza sul lavoro è al limite per la mancata manutenzione; e ora che solo per tirare avanti la carretta ci vogliono subito 320 milioni e, fra poco, un altro miliardo, ecco che – finalmente – fuori tempo massimo il governo si sveglia. La proposta di Arcelor Mittal è esilarante: sostanzialmente chiede al governo di metterci tutti i soldi lui, di tornare ad essere azionista di maggioranza, ma di lasciare a Arcelor Mittal il 50% del diritto di voto; un affarone!

L’ex sede di Arcelor Mittal in Lussemburgo

Ora, io voglio essere ottimista e voglio pensare che non si arriverà a questo eccesso; quello che invece mi sento abbastanza sicuro di anticipare è che, anche a questo giro, il governo interverrà con i soldi dei cittadini, ma invece che usarli per ridare finalmente all’economia italiana acciaio di qualità e a prezzi ragionevoli per rilanciare l’industria, si limiterà ancora una volta a ripianare i buchi lasciati dai privati e, quando l’azienda tornerà ad essere remunerativa, a ridarla a qualche privato che la spolperà di nuovo nell’arco di qualche anno. E questa, tutto sommato, non è nemmeno l’ipotesi peggiore perché l’ipotesi peggiore è che proprio si rinunci all’acciaio di Taranto; d’altronde che te ne fai dell’acciaio quando puoi affittare il garage su airbnb e aprire la dodicesima gelateria artigianale della tua strada? Inoltre il problema della sicurezza della fornitura d’acciaio per l’industria nazionale potrebbe essere serenamente superato dagli eventi: come riportava Il Fatto Quotidiano ieri, i dati consolidati di novembre confermano un calo della produzione industriale per il decimo mese di fila e a prendere le mazzate più grosse è proprio il mezzogiorno che, a questo punto, dovrebbe davvero separarsi dal resto dell’Italia e fondare la prima repubblica autonoma fondata sui camerieri stagionali al nero.
D’altronde, la guerra di questo governo contro il Sud è ormai a tutto campo; dopo aver consegnato ai padroncini alla continua ricerca di gente disperata pronta ad accettare 5 euro all’ora al nero il trofeo dell’eliminazione del reddito di cittadinanza, finalmente hanno deciso di alzare ulteriormente l’asticella: “Tagliati 3,7 miliardi di euro destinati al Sud” titolava ieri Il Domani. “Salvini sceglie il ponte e abbandona le scuole”; il riferimento è al famoso fondo perequativo infrastrutturale: aveva in dotazione 4,6 miliardi per cosucce da niente come strade, rete idrica e trasporti. Era stato varato nel 2009 nientepopodimeno che da Roberto Calderoli: una mancetta per convincere gli alleati meridionali a ingoiare la pillola del federalismo fiscale. Peccato che, per oltre 10 anni, non sia mai arrivato il decreto attuativo; per vederlo ritirare fuori si è dovuto aspettare Giuseppe Conte, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo e il: i fondi sono comunque rimasti lì bloccati altri 3 anni e, visto che erano bloccati, ora il governo ha deciso di ridurli ad appena 900 milioni.
Comunque non vorrei sembrarvi troppo pessimista: ieri non ci sono state solo brutte notizie; ce ne sono state anche di pessime come quella che è arrivata da Trieste, dove è definitivamente saltato il tavolo delle trattative per la crisi della Wartsila, nel silenzio generale. Se n’è accorto solo Il Manifesto: “Wartsila se ne va: 300 a casa. Buio assoluto per l’indotto”; la produzione di motori marittimi verrà delocalizzata e non in Vietnam, ma in Finlandia. Che poi è strano: “Occupazione record, l’Italia cresce” titolava infatti entusiasta Il Giornanale mercoledì scorso; com’è possibile che qui chiude tutto e l’occupazione vola? Beh, come riporta – sempre con altrettanto entusiasmo – l’organo ufficiale dei trumpiani italiani La Verità “senza il reddito dei 5 stelle è caccia al lavoro, occupati cresciuti di mezzo milione”. Peccato però che occupati non significa anche pagati; ora voi pretendete troppo: come ricordava proprio mercoledì ancora l’ISTAT, infatti, 1,3 milioni di lavoratori italiani guadagnano meno di 7,8 euro lordi e, addirittura, il 30% di chi ha un lavoro part time o a tempo determinato meno di 9,4 euro lordi. Per questi effettivamente l’acciaio non serve.
Ora, chi ci segue sa benissimo che siamo ossessionati dal realismo politico fino alla democristianaggite acuta; le paraculate dei neneisti non ci sono mai piaciute e nemmeno di chi la spara altissima sulla moglie ubriaca e la botte piena e poi, regolarmente, si ritrova cornuto e assetato, ma qui c’è poco da scegliere il male minore. Non ce n’è di male minore: vogliamo l’acciaio e lo vogliamo pulito: già i 20 mila posti di lavoro tra diretti e indotto in una realtà come quella di Taranto, ovviamente, dovrebbero valere più di qualsiasi restrizione di bilancio o fede ideologica, ma qui siamo ben oltre. I 20 mila posti di lavoro non sono manco l’aspetto più importante: l’aspetto più importante è che non esiste potenza industriale senza acciaio e non esiste democrazia moderna senza potenza industriale.
Contro la deriva di un paese fondato sulla pizza al taglio, le concessioni balneari in deroga e gli scantinati affittati su aribnb ci vuole una vera rivolta popolare e un vero e proprio media che sia in grado di darle voce. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Adolfo zerbino Urso