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Lo sterminio di aziende italiane e tedesche: come funziona la guerra economica USA contro l’Europa

Nel 2013 perse oltre 100 mila aziende titolava ieri Il Sole 24 ore. Un dato allarmante, e più scavi dentro a quei numeri, e più inquietante diventa; intanto, per la distribuzione geografica: di queste 100 mila aziende, infatti, “54 mila solo nelle Marche e in Piemonte”. “Il tessuto produttivo di un’intera provincia italiana, grande quanto tutta Reggio Emilia” insiste Il Sole: “è questa l’entità delle aziende scomparse nelle sole regioni Marche e Piemonte tra il 2013 e il 2023”; ora, è vero che a guidare la classifica ci sono province come Biella e Vercelli, dove a pesare è stato anche un calo demografico consistente (rispettivamente -7,5 e -6,6%) che, ovviamente, ha avuto ricadute disastrose in particolare sulle attività commerciali, ma il brutto è che nella classifica ci sono anche province come Ancona, dove il calo demografico è stato solo del 3,4 e, invece, la diminuzione di imprese registrate supera il 15%. E qui, a pesare, è la chiusura di attività manifatturiere: -13%, che è comunque niente rispetto al -22% di Pesaro Urbino e – addirittura – il -28% di Fermo, un fenomeno che tocca anche realtà che, a prima vista, sembrano scoppiare di salute. Milano, ad esempio, nel complesso registra una crescita del numero delle attività poco inferiore all’8%; peccato siano tutti servizi: 9.200 attività professionali, 5.500 attività legate ai servizi finanziari e assicurativi e 3.700 legate alle attività ricettive. Ma anche qui, invece, nel manifatturiero si registra un vero tracollo: oltre 5.000 attività in meno, poco meno del 15 per cento; e anche quando i dati sono in controtendenza, nascondono uno scenario tutt’altro che entusiasmante. Tra le province con la maggior crescita di attività risulta infatti Taranto, al quarto posto con una crescita dell’8,1% nonostante un calo demografico superiore al 5: un miracoloso colpo di reni? Ma quando mai! Piuttosto, “Dopo la crisi industriale più grande del decennio, quella dell’ILVA, da acciaieria più grande d’Europa al baratro” sottolinea nel suo commento il caporedattore del Sole Lello Naso, “si è vista una crescita inaspettata di micro-imprese, rifugio per quadri e operai, compresi quelli dell’indotto, espulsi dall’industria”. Insomma, molto banalmente “Chi resta si ingegna con quel che c’è” e per mantenere il reddito che prima ti era garantito da un posto di lavoro stabile con tutti i diritti e la sicurezza che comporta, oggi devi perdere la salute in un’attività che, nella stragrande maggioranza dei casi, sta in piedi per miracolo e rischia di crollare alla prima folata di vento. “L’industria” riassume sempre Lello Naso “è il settore che perde più imprese, mentre i servizi, in tutte le loro declinazioni, sono il comparto che ne guadagna di più. Il segno di una grande manifattura che si sta trasformando in un’economia di servizi, non sempre avanzati. Turismo, accoglienza, ristorazione, manifestazioni ricreative e sportive sono i segmenti che crescono in maniera più decisa”. Insomma: un “paese a deriva Disneyland destinato a perdere ancora competitività e ad avere sempre più il fiato corto”; Naso ricorda come quello a cui stiamo assistendo è ancora in parte “la coda della crisi del debito sovrano del 2011-2023, con le conseguenze della più grande stretta del credito alle imprese della storia economica italiana”. Ma poi è arrivato qualcosa di molto peggio: il ritorno del protezionismo negli USA e la guerra senza frontiere all’economia europea; come ha ricordato entusiasta giovedì scorso Biden nel suo discorso sullo Stato dell’Unione “In realtà, le mie politiche hanno attirato 650 miliardi di dollari in investimenti privati nell’energia pulita e nella produzione avanzata, creando decine di migliaia di posti di lavoro qui in America”. A pagare il prezzo, appunto, siamo stati noi e in particolare la Germania che, come ricorda Naso, “per la prima volta nel dopoguerra” è entrata in recessione e “crisi della manifattura tedesca, significa crisi della fornitura e subfornitura italiana”. Nel pippone di ieri, appunto, abbiamo fatto le pulci all’importante discorso di Biden sullo Stato dell’Unione, nel quale ha annunciato in pompa magna la sua guerra economica senza frontiere agli alleati europei; con il pippone di oggi entreremo nel dettaglio delle conseguenze che questa guerra sta già facendo sentire. Pure troppo.
Steffen Cyris è il proprietario e amministratore delegato della Schrutka-Peukert, una storica azienda familiare bavarese specializzata in banconi per la gastronomia refrigerati e in attrezzature per la stagionatura delle carne bovina; ancora lo scorso Natale, durante la rituale festa coi dipendenti, riporta Bloomberg, “si era vantato del libro ordini gremito dell’azienda, e aveva detto ai dipendenti di tenersi pronti per un bel po’ di lavoro extra”, ma nel giro di poche settimane, come d’incanto, tutto quell’ottimismo è svanito nel nulla. “Macellerie e panetterie hanno annullato gli ordini” scrive ancora Bloomberg “e con il paese che scivola sempre più nella recessione, Cyris è sempre più preoccupato per le prospettive a lungo termine della sua attività”; “Le preoccupazioni di Cyris” continua Bloomberg “sono condivise da una bella fetta delle circa 3 milioni di aziende tedesche a conduzione familiare, che rappresentano ancora la spina dorsale dell’economia del paese, e che si trovano vicine a un punto di rottura”. Lo chiamano il mittelstand ed è, appunto, questo incredibile tessuto di piccole medie aziende che incarnano al meglio l’etica protestante e che hanno fatto la grandezza del capitalismo industriale tedesco; una lunga schiera di attività altamente specializzate sparse in tutto il paese e che spesso nascondono veri e propri campioni nazionali che si sono imposti come leader globali nelle nicchie più impensabili e dalle quali, in buona parte, dipendiamo anche noi italiani come fornitori e subfornitori, un tessuto che però l’austerity, il mercato unico europeo e la moderazione salariale degli ultimi 20 anni, alla fine dei giochi, non ha fatto che indebolire.
Invece di essere costrette a investire in innovazione e in aumento della produttività, le PMI tedesche – infatti – hanno potuto continuare a macinare profitti continuando a pagare i loro dipendenti molto meno di quanto producessero e, quando anche questo non era sufficiente, esternalizzando pezzi di produzione prima agli italiani e poi ai vicini dell’est, dalla Repubblica Ceca alla Polonia, passando per l’Ungheria; nel frattempo, grazie alla religione dell’austerity, anche la macchina pubblica tirava il freno a mano degli investimenti riducendo così, anno dopo anno, quello sviluppo delle forze produttive generali che continuava a rendere le imprese tedesche produttive: dalle infrastrutture funzionanti alla manodopera qualificata. E quando, alla fine, è arrivata la fine dell’energia a prezzo ultra scontato che arrivava dalla Russia, per continuare a rimanere competitive le aziende avrebbero dovuto affrontare investimenti consistenti; peccato, però, che da un lato il denaro necessario per questi investimenti abbia raggiunto un costo improponibile e, dall’altro, la recessione lasci temere che fatti questi investimenti poi non ci sarà un mercato sufficiente per giustificarli. Nel frattempo, si è fatta sempre più avanti la consapevolezza che per far fruttare i propri capitali non è necessario investirli in un’attività di successo: basta dedicarsi alla rendita finanziaria che, sempre più, garantisce ritorni stabili e permette di non avere a che fare con quei lavoratori sporchi e cattivi che, dopo 2 anni di inflazione a doppia cifra, sono capaci pure di chiederti l’aumento dei salari. Ed ecco così che quando le aziende familiari arrivano al momento fatidico della successione agli eredi, gli eredi di menarsela ancora con questa grandissima rottura di coglioni che è lavorare per guadagnare non ne vogliono sapere e decidono di vendere per poi, appunto, usare il ricavato per comprarsi qualche azione di Nvidia o di Amazon, o – al limite – qualche bitcoin: “Quasi ogni settimana ricevo chiamate da imprenditori familiari instabili” avrebbe rivelato il fondatore della May Consulting a Bloomberg; “Mi chiedono se dovrebbero vendere, e se vale ancora la pena fare l’imprenditore in Germania”.
Quelli che, invece, non vogliono mollare la presa hanno un’unica possibilità: l’America, a partire proprio dal nostro Cyris che “per mitigare parte degli affari che sta perdendo in Germania” – riporta Bloomberg – “ha iniziato a trasferire parte della sua attività negli Stati Uniti con il marchio The Aging Room” (la stanza dell’invecchiamento) e “ora” continua Bloomberg “sta vendendo locali per la stagionatura della carne bovina a ristoranti e macellerie raffinati in stati come la California o la Florida”. “Inventato in Germania, prodotto negli Stati Uniti” avrebbe affermato Cyris: questa “potrebbe essere la strada da seguire”ed è, più o meno, la strategia che stanno adottando sempre di più anche i gruppi più grandi. Porsche ha da poco annunciato che starebbe valutando l’idea di annullare il progetto di un nuovo stabilimento per la produzione di batterie nel Baden-Wuerttemberg in favore dell’altra sponda dell’Atlantico; un altro esempio paradigmatico è quello di Viessman, il leader tedesco delle pompe di calore: in questo caso, il timore della debolezza del mercato interno ai tempi della grande stagnazione non c’entra. A creare il mercato, infatti, c’ha pensato direttamente il governo che, in nome della transizione ecologica, ha fatto della sostituzione dei riscaldamenti a gas con le pompe di calore un cavallo di battaglia: nonostante i costi proibitivi, l’anno scorso il governo tedesco ha approvato una legge che prevede il divieto di nuovi sistemi di riscaldamento a gas a partire da quest’anno; inevitabilmente la gente s’è incazzata nera. Secondo la propaganda antipoveri s’è trattato, ovviamente, di una strumentalizzazione dei fasciocomplottisti perché in realtà – sostengono – per sostituire le pompe di calore ai vecchi sistemi ci sono ricchi incentivi: peccato che, come riporta anche Deutsche Welle, nonostante gli incentivi, i sistemi a gas costino 10 mila euro; le pompe di calore 17 mila. L’hanno etichettata come l’ennesima rivolta dei negazionisti, ma erano semplicemente poveri (anche se, ovviamente, per l’ecologismo delle ZTL sono sinonimi); comunque sia, il mercato era assicurato e per un leader del settore come Viessman si prospettava un futuro di profitti stratosferici. Evidentemente non basta: ad aprile dell’anno scorso Viessmann, infatti, comunica ufficialmente l’acquisizione da parte di Carrier, il colosso globale del riscaldamento di Palm Beach, Florida. Costo dell’operazione: 12 miliardi di dollari che gli eredi Viessmann hanno annunciato utilizzeranno per “espandere le attività del family office”, riporta Bloomberg (tradotto: per dedicarsi alla speculazione finanziaria alla borsa di New York).
I nuovi investimenti produttivi, invece, di fronte a un mercato in enorme espansione si sposteranno tutti negli USA, attratti dagli enormi incentivi fiscali dell’Inflation reduction act, l’arma di distrazione di massa dell’economia produttiva europea che costituisce il cuore pulsante della Bidenomics; in questo modo, gli USA ci guadagnano due volte: da un lato rilanciano il loro manifatturiero grazie a un debito che, alla fine, in buona parte paghiamo noi e, dall’altro, attirano sempre più quattrini sui loro mercati finanziari, necessari per continuare a sostenere a oltranza lo schema Ponzi, a meno che tutti gli eredi Viessmann che stanno svendendo il continente non decidano di darsi alla speculazione finanziaria, ma, invece che a New York, sotto casa.
I mercati europei, effettivamente, da qualche tempo a questa parte stanno andando alla grande, ma c’è qualche problemino; primo di tutto, sono minuscoli: nonostante il GDP dell’Unione Europea sia solo di circa il 25% più basso di quello USA, la capitalizzazione in borsa di tutti i paesi messi insieme è poco più di un quinto di quella della sola New York, ed è anche estremamente concretata. Il 50% della crescita negli ultimi 12 mesi di tutto l’indice Stoxx 600 che, come suggerisce il nome, racchiude i 600 principali titoli europei per capitalizzazione, è dovuto interamente a un microgruppo di 11 società: sono le così dette GRANOLAS, un acronimo che indica i colossi farmaceutici GalxoSmithKline e Roche, la leader dei macchinari per la produzione di chip ASML, le svizzere Nestlè e Novartis, la leader mondiale dei farmaci per il diabete Novo Nordisk, le francesi l’Oreal e LVMH, la britannica Astra Zeneca, l’azienda di software tedesca SAP e la francese Sanofi; esattamente come per i 7 colossi del big tech a stelle e strisce che, da soli, pesano per il 28% dello Standard&Poor 500, fatta 100 la capitalizzazione totale a gennaio 2021, oggi l’indice è schizzato ben oltre quota 160. Tutte assieme le GRANOLAS, però, superano di poco la capitalizzazione della sola Nvidia nonostante, ancora nel 2023, abbiano generato 3 volte i suoi profitti e fatturino 8 volte di più.
L’unica delle GRANOLAS che, benché capitalizzi meno della metà del più piccolo dei giganti tecnologici USA, potrebbe mirare ad registrare performance simili è proprio la Novo Nordisk, un’azienda decisamente sui generis: il 28% della proprietà e il 77% dei diritti di voto sono infatti in mano a una fondazione no profit; la più grande fondazione caritatevole del pianeta, con un patrimonio che è più del doppio di quella di Bill e Melinda Gates; come la fondazione Gates, ovviamente, non può essere confusa con una sorta di cugino, manco di dodicesimo grado, del socialismo, ma forse qualche differenza c’è. Per dirne una, nel 2022 Meta in borsa ha perso il 70% di capitalizzazione; ciononostante, i suoi 5 top executive si sono portati a casa 106 milioni di dollari. Nello stesso periodo, Novo Nordisk – invece – ha guadagnato oltre il 30%, ma i suoi top executive si sono portati a casa 35 milioni, mentre, secondo Glassdoor, i salari medi sono più alti di circa il 10%. Negli ultimi 3 anni Novo Nordisk ha più che quadruplicato il valore delle sue azioni e, con quasi 600 miliardi di dollari di capitalizzazione, è di gran lunga la leader indiscussa del mercato azionario del vecchio continente, una fortuna fondata tutta sui farmaci contro il diabete che, guarda caso, hanno rappresentato una fetta consistente del discorso di Biden sullo Stato dell’Unione: “Finalmente abbiamo battuto Big Pharma. Invece di pagare 400 dollari al mese o giù di lì per l’insulina contro il diabete, quando al produttore ne costa solo dieci, abbiamo fatto sì che ne vengano pagati solo 35 al mese”. Dal discorso di Biden il titolo ha perso il 3,6%; ho come l’impressione che se qualcuno crede di poter replicare il gran casino a stelle e strisce sul continente europeo, dovrà presto ricredersi: manco le briciole questi ti lasciano. Il bello è che, di fronte a ogni evidenza, continuano comunque a provare a intortarci: secondo il Financial Times, infatti, gli USA attraggono gli investimenti non perché è in corso la più grande rapina a mano armata della storia dell’umanità, ma perché “hanno ampliato il loro vantaggio in termini di produttività rispetto all’Europa”; “Nuovi dati pubblicati venerdì” continua l’articolo “mostrano che la produttività dell’Eurozona è scesa dell’1,2% nel quarto trimestre rispetto all’anno precedente, mentre negli Stati Uniti è aumentata del 2,6”. E graziarcazzo: al di là delle leggende metropolitane degli analfoliberali, la produttività da una cosa dipende, e solo da quella: gli INVESTIMENTI; il resto è fuffa.
D’altronde, fare parte del giardino ordinato del mondo libero ha un prezzo: senza il cappello di Washington, chi avrebbe mai il coraggio di mandare oltre 100 imbarcazioni di armi a Tel Aviv mentre sta compiendo il più grande massacro di civili del XXI secolo sapendo che, prima o poi, qualcuno ce ne verrà a chiedere conto e, probabilmente, non lo farà con un mazzo di rose in mano?
Perché, alla fine, è di questo che si tratta: ci lasciamo derubare sistematicamente per finanziare un regime criminale intento a provare ad arrestare la storia con le armi e con la finanza; e poi il matto era Aaron Bushnell. Contro la propaganda che copre la più grande rapina della storia dell’umanità dopo il colonialismo di fine ‘800, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che faccia i conti in tasca alle nostre élite di svendipatria e difenda gli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è David Parenzo

Italia, Germania e Giappone: quale delle 3 Colonie USA FALLIRÀ PER PRIMA?

Germania in crisi titolava lo scorso 8 febbraio a caratteri cubitali – per l’ennesima volta – Il Sole 24 Ore; “produzione industriale giù del 3%”. A dare la botta definitiva sarebbero stati i dati dell’ultimo dicembre: ci si aspettava un crollo significativo dello 0,4, al massimo lo 0,5% che, spalmato sull’anno, significherebbe comunque un disastroso – 6%; il calo invece, in un solo mese, è stato addirittura dell’1,6%. Altri 12 mesi così e l’industria tedesca, in un solo anno, avrà perso quasi il 20%; “I giorni della Germania come superpotenza industriale stanno inesorabilmente volgendo al termine” sentenzia Bloomberg.

Ciononostante, ci sono altre superpotenze industriali che per andare come la Germania ci metterebbero una bella firma: “Il prodotto interno lordo del Giappone si è inaspettatamente ridotto per il secondo trimestre consecutivo” scrive Asia Nikkei, il Sole 24 Ore giapponese. Un altro fulmine a ciel sereno: la media degli analisti interpellati dal quotidiano economico, infatti, puntava a una crescita dell’1,1%, e la conseguenza immediata ha qualcosa di epocale; con questi ultimi dati, infatti, il Giappone scende definitivamente dal podio delle principali economie globali e, ironia della sorte, si fa scalzare proprio dalla Germania che, come scrive Onida sul Sole, nel frattempo – come negli anni ‘90 – “è tornata ad essere il vero malato d’Europa”.
Eppure, tra le grandi potenze industriali c’è anche chi ha tutto da invidiare pure al Giappone; chi? Ma noi, ovviamente: la nostra amata colonia italiana. La gelata del mattone titolava ieri mattina La Stampa; “Le compravendite di case calano del 16%, e le erogazioni dei mutui del 35%”, specifica. Non so se è chiaro: il 35% di mutui in meno, un’enormità dalle conseguenze devastanti: il patrimonio immobiliare degli italiani, infatti, negli ultimi 30 anni è stato il vero grande ammortizzatore sociale di massa che ha permesso di tenere botta di fronte a una crisi economica infinita e di proporzioni bibliche e che è stata tutta scaricata sulle persone comuni, mentre i super – ricchi incassavano. Il protettorato italiano è ormai, in buona parte, un’economia a zero valore aggiunto fondata su gelaterie e parrucchieri, che durano come un gatto in tangenziale e, ciononostante, proliferano come funghi proprio perché fanno leva sul patrimonio immobiliare accumulato dalle famiglie, che ormai è ridotto al lumicino; come ricordava una decina di giorni fa Il Sole 24 Ore infatti, ancora solo nel 2009 le famiglie italiane erano le più ricche di tutti: 159.700 euro pro capite, ben al di sopra dei francesi che erano fermi a quota 137.400 euro e, addirittura, degli statunitensi, a quota 152.300. E il grosso di questa ricchezza era tutto mattone: circa il 65%.
Ora tra i paesi del G7 siamo il fanalino di coda (e manco di poco) e più poveri eravamo in partenza, più c’abbiamo rimesso: nel 2011 la metà più povera della popolazione, infatti, deteneva il 12% del patrimonio complessivo; ora non arriva all’8, una quota che, però, non è stata redistribuita equamente tra il 50% messo meglio, eh? Se la sono presa tutta i più ricchi: il 10% più ricco del paese, infatti, già all’inizio del secolo deteneva oltre la metà della ricchezza complessiva, il 53%; ora ne detiene il 58. Si sono fregati tutta la ricchezza del 50% più povero e un pochino anche di tutti gli altri.
In buona parte è dovuto a un fattore molto semplice: il patrimonio (misero) dei più poveri sta nel mattone; quello dei più benestanti in buona parte è invece in azioni di aziende quotate e il valore delle azioni quotate è aumentato parecchio di più che la casa di famiglia, il 125% contro il 54, quasi 3 volte. E questo è se rimaniamo a Piazza Affari; quelli più privilegiati tra i privilegiati, infatti, mica investono nelle aziende italiane mezze decotte quotate a Milano: puntano direttamente tutto sui mercati internazionali che sono cresciuti del 200%, quasi il doppio. Con quest’ultima prevedibilissima, scontatissima botta al mercato immobiliare si va verso la resa dei conti finale; ora, una domandina semplice semplice: cosa hanno in comune i tre paesi elencati? Esatto: sono i 3 grandi sconfitti della seconda guerra mondiale e non è un caso; il superimperialismo finanziario statunitense, infatti, ha allungato le sue mani piene zeppe di dollari su tutto il pianeta, ma una cosa è essere semplicemente soggiogati dal potere del dollaro, un’altra cosa è essere occupati militarmente che è, sostanzialmente, la nostra condizione. Negli anni, un pochino questo aspetto fondamentale era rimasto quasi in sordina; certo, c’è stata Gladio, la strategia della tensione, il golpe bianco di tangentopoli, però il peso materiale, concreto, tangibile dell’occupazione militare vera e propria – almeno da un po’ di tempo a questa parte – non emergeva in modo così lampante, anche perché le nostre élite condividevano pienamente l’agenda e nessuno gliene chiedeva particolarmente conto. Ora, nei confronti dei propri protettorati l’impero usa più o meno la mano forte a seconda delle circostanze: quando se lo può permettere – e coincide con i suoi interessi o, almeno, non ci fa a cazzotti – può essere anche un dominio benevolo; lo è stato addirittura quello inglese sul subcontinente indiano dove, a un certo punto, sono state investite anche ingenti risorse, e proprio per liberare forze produttive: sono state costruite infrastrutture, sono stati fatti investimenti industriali enormi, fino a che l’impero non è entrato in difficoltà e, allora, le forze produttive sono state massacrate per estrarre quanto più valore possibile e rinviare il declino, che è esattamente quello che sta succedendo ora a noi con gli USA.
Per far fronte al fatto che una bella fetta del Sud globale di farsi succhiare risorse si è abbondantemente rotto i coglioni, e sta reagendo in modo sempre più perentorio, il superimperialismo finanziario USA sta succhiando risorse da tutti gli alleati e tra gli alleati, in particolare – ovviamente – a quelli letteralmente occupati militarmente, dove può esercitare direttamente e senza tanti compromessi il proprio dominio: l’equivalente del subcontinente del superimperialismo finanziario USA; la buona notizia è che, vedendo al precedente britannico, per quanto ti sforzi di spolpare lo spolpabile (o forse proprio perché ti riduci a spolpare lo spolpabile), alla fine l’impero crolla e i sudditi trovano il modo di andarti abbondantemente nel culo. Quella cattiva, invece, è che – sempre nel caso britannico – per convincerli a mollare definitivamente l’osso c’è voluta un’altra bella guerra mondiale, che non è stata esattamente una pacchia, diciamo. Come andrà a finire?
Autunno 2023, Dusseldorf: “In un cavernoso capannone industriale” “i toni cupi di un suonatore di corno accompagnano l’atto finale di una fabbrica secolare” scrive in un raro slancio poetico Bloomberg: la fabbrica in questione, da una trentina di anni, era diventata la divisione locale della francese Vallourec, il principale concorrente della ex italiana Tenaris nel mercato dei tubi in acciaio senza saldatura indispensabili per l’industria petrolifera e del gas, ma le sue radici affondano più dietro assai; a partire da fine ‘800, infatti, era sempre stata il fiore all’occhiello di Mannesmann, il colosso tedesco che prima di dedicarsi interamente alle telecomunicazioni ed essere inglobato da Vodafone (in quella che rimane ancora oggi la più grande acquisizione di tutti i tempi) aveva la leadership mondiale della lavorazione dell’acciaio e ora, “tra lo sfarfallio di razzi e torce”, ecco che “molte delle 1.600 persone che hanno perso il lavoro rimangono impassibili mentre il metallo incandescente dell’ultimo prodotto dello stabilimento viene levigato fino a diventare un cilindro perfetto su un laminatoio”. “La cerimonia” continua Bloomberg “mette fine a una corsa durata 124 anni, iniziata nel periodo di massimo splendore dell’industrializzazione tedesca e che ha resistito a due guerre mondiali, ma non è riuscita a sopravvivere alle conseguenze della crisi energetica”; cerimonie del genere, continua Bloomberg, sono diventate sempre più frequenti e ormai scandiscono “la dolorosa realtà che la Germania deve affrontare: i suoi giorni come superpotenza industriale potrebbero essere giunti al termine”.
Notare le date: 124 anni, come avrebbe dovuto festeggiare il centoventesimo compleanno anche la Ritzenhorff, la storica fabbrica di bicchieri di Marsberg, nella Renania – Vestfalia, ma per la festa non sono previste candeline; come ricorda Isabella Buffacchi sul Sole 24Ore infatti, la dirigenza ha annunciato “di doverla dichiarare insolvente per evitare la bancarotta, e 430 dipendenti rischiano il posto di lavoro”.
Siamo alla resa dei conti definitiva della seconda guerra dei 100 anni, che anche nella sua prima versione – quando a confrontarsi erano Francia e Inghilterra – ne durò in realtà 116; a questo giro, invece che due paesi in lotta per il controllo del territorio, a confrontarsi sono stati due sistemi economici: l’imperialismo finanziario da un lato e il capitalismo produttivo dall’altro. Potremmo leggerla anche così questa fase terminale della grande avventura industriale dell’asse Italia – Germania – Giappone, l’ultimo atto della guerra dei 100 anni tra il neofeudalesimo delle oligarchie finanziarie e il capitalismo industriale che, come ci ha raccontato Michael Hudson, è iniziata appunto con la prima guerra mondiale. Il tracollo dell’industria tedesca procede spedito oltre ogni più pessimistica previsione e il modo migliore per provare a realizzarne l’entità è attraverso questo grafico:

rappresenta l’andamento della produzione industriale; fatta 100 la produzione nell’ottobre 2015, è passata da un valore di 70 nel 1993 a un picco di 107,5 nel novembre 2017, in una delle più grandi ascese di sempre in un paese a capitalismo già avanzato. Da allora è iniziata la grande discesa che ha portato a perdere 15 punti nell’arco di 6 anni e se gli indici non vi stuzzicano abbastanza la fantasia, ecco qualche esempio concreto: il gigante della componentistica per l’automotive Continental ha da poco annunciato il taglio di oltre 7.000 posti di lavoro, 5.400 in ruoli amministrativi e 1.750 addirittura nelle attività di sviluppo e ricerca e “circa il 40% delle riduzioni” sottolinea Bloomberg “riguarderà i dipendenti in Germania”. Il produttore di pneumatici Michelin ha annunciato la chiusura di due dei suoi stabilimenti e la riduzione di un terzo entro il 2025 “con una mossa” scrive sempre Bloomberg “che interesserà più di 1.500 lavoratori” ai quali vanno aggiunti quelli impiegati in due stabilimenti della concorrente Goodyear che ha annunciato intenzioni simili; e sempre per restare nell’automotive e dintorni, anche Bosch, riporta sempre Bloomberg, “sta cercando di tagliare 1200 posti di lavoro nella sua unità software ed elettronica”.
Va ancora peggio per la chimica dove, sempre secondo Bloomberg, “quasi un’azienda su 10 sta pianificando di interrompere definitivamente i processi di produzione”; a inaugurare le danze intanto c’hanno pensato la Lanxess di Colonia e la BASF, che hanno annunciato rispettivamente un migliaio e 2.600 licenziamenti. D’altronde, non poteva andare molto diversamente: se la produzione industriale tedesca è calata in media del 3% in un anno, nel solo mese di dicembre quella metallurgica è crollata di 5,8 punti; quella chimica addirittura di 7,6, e il tonfo si è sentito benissimo anche in Italia. La crisi tedesca fa calare l’export made in Italy titolava il 16 gennaio Il Sole 24Ore, “a novembre – 4,4% annuo”; “La discesa, in termini assoluti” si legge nell’articolo “vale oltre 2,5 miliardi di euro”, ma se nei mercati extra UE l’export italiano cala di meno di 3 punti e mezzo, in Europa siamo poco sotto i 5 punti e mezzo “con punte più alte proprio a Berlino, primo mercato di sbocco, che ha ridotto nel solo mese di novembre gli acquisti del 6,4%, approfondendo il rosso dall’inizio dell’anno”. Risultato: “Italia e Germania”, riporta sempre Il Sole in un altro articolo, “sono i paesi della zona euro con la quota più alta di aziende vulnerabili” e, cioè, di aziende che rischiano di chiudere i battenti: addirittura 1 su 10; “Nel secondo e terzo trimestre del 2023” continua l’articolo “l’indice delle dichiarazioni di fallimento dell’eurozona ha raggiunto il livello più elevato dal 2015, quando l’indicatore UE è stato reso disponibile per la prima volta” e, ovviamente, il grosso delle aziende vulnerabili sono proprio aziende manifatturiere: l’11% contro il 6% di quelle attive nei servizi. Eh, narra la difesa d’ufficio degli analfoliberali, un po’ però ce lo cerchiamo, con tutte queste piccole aziende inefficienti. Beh, insomma: “La quota di imprese vulnerabili” ricorda infatti Il Sole “è aumentata in misura maggiore tra le grandi imprese rispetto alle PMI”. Eh, continua la difesa analfoliberale, ma un po’ comunque se la sono cercata: sono vecchi dinosauri, ma, anche qui, ari-insomma; “La quota di imprese vulnerabili” continua infatti l’articolo “è cresciuta più tra le imprese giovani rispetto alle più vecchie”, ed ecco così che, anche a questo giro, dura realtà rossobruna batte editorialisti del Foglio 3 a 0. E le stime dell’osservatorio UE potrebbero essere ottimistiche: secondo la società di consulenza Alvarez & Marsal, riporta infatti Bloomberg, “circa il 15% delle aziende tedesche attualmente sono in difficoltà finanziarie”; in soldoni, significa che fanno fatica a ripagare le obbligazioni che hanno emesso e, come sempre accade quando si cominciano ad ammucchiare le carcasse, ecco che spuntano gli avvoltoi. “Secondo i banchieri e i consulenti presenti a Davos” ricorda, infatti, sempre Bloomberg “le società di private equity sono attratte dalla Germania a causa delle difficoltà che molte aziende stanno attraversando, e stanno cercando di acquistare aziende familiari a basso costo e promuovere miglioramenti operativi” che, se lo traduci nella nostra lingua, significa come sempre smembrarle a pezzetti, spolparle per bene e rivenderle con ampio margine fuggendo con la borsa piena e il deserto produttivo alle spalle. Fondi come Ares Management e Blackstone, riporta sempre Bloomberg, hanno aperto uffici a Francoforte e sono a caccia di affari per acquistare a prezzi di saldo, o anche soltanto per concedere prestiti ad alti tassi. E c’è chi scommette nel crollo definitivo: “I venditori allo scoperto” riporta, infatti, sempre Bloomberg “stanno scommettendo 5,7 miliardi di euro contro le aziende del paese”; ad essere presa di mira, in particolare, Volkswagen che in molti, ormai, sospettano non abbia nessuna chance di reggere l’impatto della concorrenza cinese. Ma le scommesse vanno anche oltre l’industria, a partire da Deutsche Bank, particolarmente esposta nel settore immobiliare, dove si è già registrato un calo di prezzi dell’11% nel residenziale che potrebbe essere solo l’antipasto; per gli uffici, infatti, “gli analisti” riporta Bloomberg “prevedono cali di valore in media rispetto al picco del 40%”. L’ultima volta che l’impero finanziario angloamericano cercò di troncare sul nascere l’ascesa industriale del Giappone e della Germania – con l’Italia utile idiota al seguito – le potenze industriali reagirono coltivando il sogno di ridurre in schiavitù mezzo pianeta; ora, fortunatamente, non hanno la potenza militare e politica nemmeno per pensarci e, però, la tentazione rimane: come abbiamo anticipato ieri, infatti, la Germania si è messa alla testa dei paesi europei che stanno cercando di affondare la normativa europea che impone alle grandi aziende di rispettare nientepopodimeno che le leggi sull’ambiente e i diritti umani, e pure di farle rispettare ai fornitori e ai subappaltatori. E’ già un passo avanti: prima, per trovare schiavi, ti invadevano coi carrarmati; ora si accontentano di fare qualche gara al massimo ribasso o di un po’ di caro vecchio caporalato.

Olaf Scholz

Di fronte alla debacle economica e all’assoluta mancanza anche solo di un barlume di reazione da parte della classe dirigente, nel mondo reale i malumori non possono che aumentare esponenzialmente: se oggi la maggioranza di governo tornasse alle urne, tutta insieme supererebbe di poco il 30%; e le piazze tornano a riempirsi di lavoratori dell’industria e dei servizi, ma in queste settimane, sopratutto, di trattori che, nonostante comportino numerosi disagi e spesso portino avanti rivendicazioni non proprio chiarissime – e addirittura a volte non proprio condivisibili – possono vantare un grande sostegno popolare, una miccia che bisogna spegnere in tutti i modi. E in particolare in Germania, dalle proteste contro il sostegno incondizionato a guerre e genocidi a quelle contro il declino economico, non c’è metodo migliore per spegnere una miccia che fare leva sull’atavico senso di colpa per il passato nazista; ed ecco così che come per magia, proprio quando serve, spunta una bella psyop in piena regola: ricordate la vicenda del fantomatico complotto di estrema destra ordito da alcuni dirigenti dell’AfD che avrebbero esternato la volontà di radunare gli immigrati per poi deportarli? Quello che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza contro la deriva nazista, segnando l’unica vittoria in termini di public relations del governo Scholz da 2 anni a questa parte? Beh, a leggere il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, è una vicenda non esattamente limpidissima, diciamo; il tutto, infatti, sarebbe nato da un rapporto di un’organizzazione no profit di nome Correctiv: Piano segreto contro la Germania si intitola. “Era l’incontro di cui nessuno avrebbe mai dovuto venire a conoscenza” recita il rapporto; “A novembre” continua “politici di alto rango del partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), neonazisti e uomini d’affari comprensivi si sono riuniti in un hotel vicino a Potsdam. Il loro programma? Niente di meno che la messa a punto di un piano per le deportazioni forzate di milioni di persone che attualmente vivono in Germania”. Nel rapporto si fa inoltre riferimento alla Conferenza di Wannsee, durante la quale una quindicina di gerarchi nazisti mise a punto la strategia della cosiddetta soluzione finale della questione ebraica; indignarsi, ovviamente, è il minimo indispensabile ed è esattamente quello che succede, e non ci si ferma alle proteste: bisogna trovare una soluzione drastica. E la soluzione è proibire per legge l’AfD che diventa, magicamente, una proposta ragionevole, razionale, almeno fino a quando la vicedirettrice di Correctiv, Anett Dowideit, viene intervistata dalla Tv e indovinate un po’? Afferma, riporta Gallagher, “che in realtà non si era parlato di deportazioni durante l’incontro, né era simile alla conferenza nazista di Wannsee del 1942, dove si si decise di intraprendere l’uccisione di massa degli ebrei”; “Dowideit” continua Gallagher “ha affermato che la stampa tedesca ha interpretato male il rapporto di Correctiv”: due smentite secche che, però, non hanno trovato eco sui media – dove si continua a discutere di quanto sia democratico proibire all’AfD di partecipare alle elezioni. E la cosa buffa è che, nel frattempo, le deportazioni avvengono davvero e non certo a causa dell’AfD; a impartirle, infatti, è stato il democraticissimo Bundestag che ha approvato, nel silenzio dei media, una legge che apre la strada a una semplificazione drastica per la deportazione dei richiedenti asilo.
Quanto a lungo continueremo a permettere alle nostre élite di evitare di pagare le conseguenze delle loro azioni semplicemente spacciando puttanate? Per smetterla una volta per tutte di farci prendere così platealmente per il culo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che invece che spacciare armi di distrazione di massa per rimandare la resa dei conti, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

Auto elettrica: come l’Europa vuole fregare i quattrini dei consumatori per regalarli agli oligarchi

I mercati globali sono stati inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi da enormi sussidi statali”. Quando il 13 settembre ho sentito la nostra Ursulona (von der Leyen, ndr) pronunciare queste parole, mi sono subito fiondato alla ricerca di una di queste fantomatiche macchine elettriche cinesi supereconomiche che  avrebbero drammaticamente “invaso i mercati globali”

Contrario allo sfruttamento del lavoro geriatrico, anche per la mia audi a4 del 2002 è decisamente arrivata l’ora del meritato pensionamento. Quale migliore occasione di una nuova auto che non solo è cinese, ma pure elettrica, e pure supereconomica? Ma quando mi sono trovato davanti al listino prezzi, tutto l’entusiasmo iniziale è stato, diciamo così, leggermente ridimensionato. Ovviamente, visto che l’avrei dovuta pagare con i quattrini di chi generosamente sostiene questo strambo canale, sono partito dal modello base: BYD Dolphin, si chiama.

L’auto elettrica più economica sul mercato, avevo sentito dire. Con in più la garanzia di un marchio che vede come primo azionista niente popo’ di meno che la Berkshire Hathaway del signor Warren Buffet. uno che di investimenti, così a occhio, al netto di tutto, ci capisce.

Peccato però che in realtà costi quanto un SUV: a partire da 30.790 euro, riporta “quattroruote”. Ci sono rimasto male…Quando è stata lanciata in Cina, ricordo, il singolo punto su cui si era concentrata tutta la campagna pubblicitaria, era che sarebbe stata la prima auto elettrica della BYD a stare sotto la soglia dei centomila yuan. più o meno, tredici mila euro. Nel frattempo è un po’ aumentata, effettivamente e il prezzo di partenza nei listini cinesi oggi è di 116 mila yuan. 15 mila euro.

E non è un caso isolato. la versione elettrica della MG ZS, secondo “quattroruote”, in Italia parte dalla modifica cifra di 34.500 euro. in Cina, secondo bloomberg, da 15.600 euro

Non è questione soltanto di marchi cinesi.

Come riporta sempre bloomberg infatti, l’auto elettrica più economica attualmente sul mercato in realtà sembrerebbe essere la versione elettrica della Dacia Spring, che in Italia partirebbe da 21.450 euro. Anche lei però, nonostante sia del gruppo Renault, viene prodotta nella provincia dell’Hubei, in Cina, dove è stata ribattezzata Nano Box, e il prezzo di partenza è inferiore, udite udite, agli ottomilacinquecento euro. Ma com’è mai possibile che lo stesso identico oggetto in Cina costi meno della metà che in Europa? E sopratutto, listini alla mano, Ursula sette cervelli von der Leyen, esattamente, questa fantomatica invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche, da dove se l’è tirata fuori? Anche lei come il suo bestie sleepy Joe ha degli amichetti immaginari che gli suggeriscono cose?

Da quando Henry Ford s’è inventato quel meraviglioso bussolone a pedali che era la model-t, l’industria automobilistica si è affermata come il singolo settore più importante dell’intera industria globale. Oggi l’industria automobilistica europea è sottoposta a un attacco concentrico devastante e la nostra impresentabile classe dirigente, non sa che pesci prendere. “Le nostre industrie più sviluppate adorano la competizione”, ha affermato la Von der Leyen durante la seduta del parlamento europeo del 13 settembre scorso, all’inizio di un intervento che rischia di passare alla storia come uno degli esempi più eclatanti di quanto ormai le elite europee vivano in un mondo immaginario tutto loro. “Loro sanno che la competizione fa bene agli affari”, ha continuato ursulona, “e che crea e protegge i posti di lavoro qui in europa”.

Non fa una piega.

Secondo ursulona, le nostre aziende la concorrenza non si limitano a subirla, attrezzandosi come possono per tentare di sopravvivergli, ma proprio la amano. Se te vai dagli azionisti di un’azienda qualsiasi e gli dici di prenotarsi alla caritas perchè a breve li distruggerai mettendo sul mercato un prodotto simile o migliore del loro, ma a metà del prezzo, loro proprio danno fondo a tutte le bottiglie di crystal rimaste in cantina, invitano le migliori escort della loro agenda e ti improvvisano una festa di buon auspicio come non ne hai mai viste.

È proprio per amore della concorrenza, infatti, che le nostre aziende investono più in lobbying che in ricerca e sviluppo. Ed è sempre per amore della concorrenza che nel tempo, con la complicità delle istituzioni, hanno creato un mercato così aperto e concorrenziale, che quando un paio di anni fa è cominciata ad arrivare la spinta inflazionistica, sostanzialmente in tutti i settori si sono formati cartelli più o meno organizzati che non solo hanno potuto serenamente scaricare all’unisono tutto quell’aumento dei costi sui consumatori, senza rimetterci un centesimo, ma ci hanno pure ricaricato sopra e pure parecchio, con il paradosso che mentre tutta l’economia andava a scatafascio e il potere d’acquisto di chi lavora precipitava, i loro profitti decuplicavano.

Più amore per la concorrenza di così…

Ogni tanto però, sottolinea la Von Der Leyen, arriva qualche bricconcello che che sul nostro amore incondizionato per la libera concorrenza ci specula un po’. Troppo spesso”, ha affermato la nostra ursulona, “le nostre aziende sono escluse dai mercati esteri o sono vittime di pratiche predatorie e spesso devono vedersela con concorrenti che beneficiano di ingenti sussidi statali”.

Finalmente! dopo due anni che gli USA non solo ci hanno costretti a infilarci in una guerra per procura in Ucraina contro la Russia che per noi è economicamente  suicida, ma hanno pure rincarato la dose rispolverando un protezionismo economico ultra-aggressivo che ci sta scippando da sotto il culo ogni investimento possibile immaginabile a suon di incentivi multimiliardari alle aziende, finalmente ci siamo decisi a rialzare la testa.

Brava Ursula, era l’ora!

Perchè ovviamente parlavi degli USA, no? Voglio dire, a sto giro l’hanno fatta davvero grossa. Per trent’anni in nome della libera concorrenza e dell’apertura dei mercati non hanno fatto altro che architettare colpi di stato, cambi di regime, devastanti crisi del debito e veri e propri stermini di massa e ora che si sono accorti che la libera concorrenza e l’apertura dei mercati alla lunga li condanna a un’inesorabile declino dal giorno alla notte si sono rimangiati tutto e sono tornati al caro vecchio protezionismo e agli aiuti di stato. Il tutto a nostro discapito. Prima o poi era inevitabile che qualcuno gliene cantasse quattro…macché.

Per mettere fine alla mia breve illusione, è bastato aspettare la frase successiva: non abbiamo dimenticato”, ha tuonato infatti ursulona, “come le pratiche commerciali sleali della Cina hanno influenzato il nostro settore fotovoltaico. Molte giovani imprese sono state espulse da concorrenti cinesi fortemente sovvenzionati”. Ma te guarda, ed io che credevo che si chiamasse, molto banalmente, politica industriale. La Cina infatti si è limitata a fare esattamente la stessa cosa che hanno sempre fatto tutte le potenze industriali quando hanno deciso che la crescita di un determinato settore fosse strategica per l’insieme dell’economia. Attraverso investimenti pubblici hanno creato le condizioni affinché il capitale privato si indirizzasse verso un determinato settore e attraverso altre regole ad hoc, hanno impedito che si sperdesse in settori ritenuti secondari se non addirittura controproducenti. In questo modo, il settore privilegiato ha raggiunto un livello tecnologico e una scala tale da abbattere in maniera drastica i costi e trovarsi così nelle condizioni di sbaragliare la concorrenza, almeno laddove la libertà della concorrenza veniva garantita. Non esiste nell’intera storia del capitalismo settore industriale di una certa consistenza che non si sia sviluppato così. Basti pensare appunto, all’industria automobilistica europea, le cui esigenze hanno dettato per decenni la politica industriale di tutti i principali Paesi del continente, che si sono prodigati in aiuti e sgravi di ogni genere, hanno fatto guerre coloniali e neocoloniali per assicurare l’accesso alle materie prime e con i soldi pubblici hanno costruito le infrastrutture necessarie affinché le auto che venivano prodotte servissero concretamente a qualcosa. L’idea che le aziende private si inventano un prodotto e si affermano sul mercato vincendo contro la concorrenza, senza il sostegno degli Stati, non è semplicemente distorta, è proprio pura fantasia.

Un mondo immaginario.

Tramite “giganteschi sussidi dello stato” ad esempio è nata e cresciuta la Silicon Valley, con i suoi colossi che poi hanno colonizzato digitalmente tutti quei Paesi che non avevano messo sul piatto una politica industriale altrettanto ambiziosa per il settore delle piattaforme tecnologiche. Ovviamente lo stesso è successo con la tecnologia per la produzione di energia da fonti rinnovabili, dove a imporsi invece sono stati appunto i cinesi. Con la differenza che l’abbattimento vertiginoso dei costi per produrre energia da fonti rinnovabili, cara Ursula, a quanto mi risulta, sei la prima a sostenere che sia cosa buona e giusta. Mentre su quanto sia davvero positivo il ruolo che svolge per la collettività l’oligopolio di google, facebook e microsoft, se non ricordo male, anche l’Unione Europea stessa ha sollevato qualche lieve perplessità. Ma se c’è un aspetto che caratterizza sempre le classi dirigenti di una civiltà in declino, è la coazione a ripetere sempre gli stessi errori. Ed ecco così che oggi il focus si sposta su un altro settore, chiacchieratissimo: i veicoli elettrici.

Un settore cruciale per l’economia pulita”, come lo definisce la stessa ursulona, “con un enorme potenziale in Europa”. Che però, teme la nostra ursulona, rischia di rimanere inespresso. Sarà mica per colpa delle case automobilistiche che non ci hanno investito il becco di un quattrino, dal momento che erano troppo occupate a intascarsi i dividendi e andarli a investire nelle bolle speculative negli USA?

No, macchè…sarà allora mica colpa degli Stati che a causa delle loro politiche neocoloniali stanno sul cazzo a tutto il resto del mondo e non sono riusciti a costruirsi una filiera stabile ed efficiente per reperire le materie prime in modo sicuro e sostenibile?

No, ma figurati…sarà allora forse mica perché i governi in preda al misticismo dell’austerità non hanno fatto i compiti a casa in termini di ricerca di base e di costruzione delle infrastrutture necessarie per rendere quel prodotto realmente utilizzabile, a partire banalmente dalle colonnine per la ricarica?

Ma no, ma cosa ti viene in mente mai…e allora vedrai il problema che ha in mente Ursula non può che essere quello che dicevamo all’inizio: il ritorno del protezionismo negli USA, e la politica aggressiva di incentivi che decreta la morte del libero mercato e spinge le nostre aziende a salutare con l’altra manina il vecchio continenti e andare a cercare fortuna in America.

Macchè, manco questo…e di chi sarà mai allora la colpa?

Ma dei cinesi ovviamente!

Secondo la Ursula infatti, il potenziale delle nostre aziende è messo a rischio dal fatto che “i mercati adesso sono inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi grazie a enormi sussidi statali”. È lo stesso identico ragionamento distorto fatto per il fotovoltaico, ma con un aggravante in più parecchio grossina, sinceramente. e imbarazzante. Nel caso dei pannelli fotovoltaici infatti, per lo meno, il dato di base è verissimo: quelli cinesi, a parità di caratteristiche, costavano parecchio ma parecchio meno e si sono divorati il resto del mercato.

Per le auto elettriche, invece, molto banalmente, come dice il nostro amico David Puente: No! le auto elettriche cinesi in Europa non costano meno dei concorrenti. Non è solo questione di contesto mancante, che è la formula che usa David Puente per segnalare a caso come inattendibili tutte le notizie che molto semplicemente non gli piacciono: è proprio una bufala; palese; evidente.

Come vi abbiamo raccontato all’inizio di questo pippone infatti, è assolutamente vero che le auto elettriche cinesi costano enormemente meno di quelle della concorrenza. Questo, come per i pannelli, è il frutto di una politica industriale di lungo periodo, che nel corso degli ultimi dieci anni ha permesso di creare in Cina un ecosistema produttivo che non ha neanche lontanamente pari nel resto del pianeta e anche di generosi incentivi Statali che continuano ad essere concessi sia a chi le macchine le produce, sia a chi le compra, a partire dall’esenzione almeno fino al 2025 dall’IVA. Ma questo appunto, riguarda la Cina e solo la Cina. In Europa, come d’altronde in tutto il resto del mondo, le auto elettriche cinesi costano in media circa il doppio che in patria, e quindi molto banalmente non c’è nessunissima “invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche”, che ammazzano il mercato a causa di intollerabili incentivi Statali. Ma d’altronde, siamo nell’era della post verità e queste semplici considerazioni basate sui numeri, evidentemente, lasciano il tempo che trovano.

Quello che conta è la narrazione.

Ed ecco così che ursulona continua imperterrita per la sua strada, e da assunti completamente inventati, trae inevitabilmente conclusioni decisamente pericolose: questo sta distorcendo il nostro mercato”, tuona, “e quindi oggi sono qua per annunciare che la commissione aprirà una indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici cinesi”.

Grande ursula, questo si che è parlare chiaro! La sala del Parlamento Europeo è tutta uno scrosciare di applausi. Ormai funziona così: più grossa è la puttanata, più grossa è la hola.

L’indagine anti sussidi, dovrebbe fornire la legittimazione per introdurre dazi più sostanziosi rispetto alla tassa del 10% sulle auto importate che è già oggi in vigore. L’Unione Europea infatti ci tiene molto a continuare a recitare la parte di quella che rispetta le regole e si rifiuta di alzare i dazi senza giustificazione come ad esempio hanno fatto gli USA, dove ora sono addirittura al 27.5%. Quindi, prima di procedere, vuole far finta di avere una pezza d’appoggio. Peccato però che come sottolinea addirittura Politico, che certo non può essere accusato di avere simpatie filocinesi, “per avviare un’indagine antidumping deve prima verificare che l’oggetto della sua indagine sia effettivamente venduto in Europa a un prezzo inferiore a quello applicato nel paese di origine. E guardando i prezzi sarà piuttosto difficile sostenere questa tesi”. Ma allora, perché mettere in piedi tutta questa ennesima clamorosa buffonata? Sempre secondo Politico, sarebbe tutta farina del sacco dei francesi, che temono per la tenuta dei loro campioni nazionali. In tutta sincerità, ne hanno ben donde. Non so chi di voi ha mai avuto un auto francese: io ho avuto una scenic per qualche anno, ormai una ventina di anni fa. Da allora ho deciso che piuttosto che un auto francese, vado più volentieri a piedi. I tedeschi invece, sottolinea sempre Politico, ma anche Bloomberg, in realtà vedrebbero questa buffonata di cattivo occhio. Loro le auto le sanno fare davvero e non sono troppo preoccupati dalla concorrenza cinese. Mentre sono preoccupatissimi dall’idea che queste buffonate possano far incazzare i cinesi, e spingerli a reagire restringendo la libertà di manovra che i marchi tedeschi hanno sul loro mercato, che è quello che li tiene in piedi. A questo giro, sostiene bloomberg, i cinesi per reagire, molto onestamente, avrebbero motivi in abbondanza. Infatti, ancora non abbiamo risposto alla semplice domanda da cui era partito tutto questo pippone infinito: come minchia è possibile che le auto elettriche cinesi in Europa costino più del doppio che in patria?

Un bel po’ di ottoliner si sono scervellati per tutto il week end alla ricerca di una risposta più o meno plausibile, ma senza grossi risultati. Solo lo stupore di constatare come nessuno, e intendo proprio NESSUNO sui nostri media si sia posto questa domanda fino ad oggi. Sulla stampa internazionale, invece, qualche considerazione si trova.

Mettiamole in fila.

Ai prezzi cinesi, tanto per iniziare, ci vanno sicuramente aggiunti i costi di logistica, che possono arrivare a pesare anche per il 15%; poi c’è la tassa sulle importazioni, che persa per un altro 10%; poi c’è il fatto che nei listini cinesi, visto che fino al 2025 sulle auto elettriche è stata abbattuta, non c’è l’IVA, che pesa per un altro bel 22%; poi c’è il fatto che i marchi cinesi da noi non hanno una rete di distribuzione strutturata, e anche questo produce sovra costi notevoli.

Metti tutto assieme e un bel 50/60% del sovra costo eccolo spiegato. A questo però dobbiamo togliere qualcosa, perché di solito, ovviamente, quando vuoi affacciarti su un nuovo mercato, sopratutto se è un mercato ostile per motivi ideologici e culturali come lo è quello europeo nei confronti del made in china, dovresti essere disposto a sopportare un periodo di margini piuttosto risicati, e questo dovrebbe portare a diminuire un po’ la percentuale di sovra costo spiegabile. Invece qui il rincaro è del 100% o oltre. Da dove arrivi quel 50% abbondante in più, nessuno lo sa spiegare e tendenzialmente, manco c’hanno provato.

A parte Bloomberg, di sfuggita, quasi per sbaglio. Bloomberg infatti, con nonchalance, ribadisce quanto sia strambo che la von der Layen affermi che “il mondo è inondato di auto cinesi a basso costo quando, almeno finora, le case automobilistiche cinesi hanno generalmente evitato di vendere veicoli elettrici a prezzi molto bassi in Europa, forse”, conclude, proprio per timore “di questo tipo di ritorsioni”

T’è capi’?

Lo dice una delle più importanti testate delle oligarchie finanziarie occidentali eh, mica il global times. Quella gigantesca parte di costo aggiuntivo delle auto elettriche cinesi che non siamo riusciti in nessun modo a giustificare, non sarebbe altro che una politica deliberata delle case automobilistiche stesse, con ogni probabilità su indicazioni del Governo, per evitare di mettere troppa pressione sulla decotta industria automobilistica europea e giustificare così l’intervento a gamba tesa delle istituzioni che sono per il libero mercato solo quando fa guadagnare quattrini agli oligarchi che li tengono artificialmente al governo. Se qualcuno di voi ha intenzione di comprarsi una Dolphin, quando staccherà l’assegno, se lo ricordi: dei trentamila euri che sta sganciando, almeno sette sono dovuti alla compagna von der Layen e a chi le permette di avere il ruolo che ha.

Già questo grida vendetta, ma è solo l’inizio.

Il prezzo delle auto elettriche in Cina, infatti, ci dimostra in modo incontrovertibile che si possono produrre auto elettriche a prezzi addirittura inferiori all’endotermico. Come ricorda l’analista del mercato automobilistico indiano Vijay Govindaraju infatti, mentre “negli USA le auto elettriche costano in media il 27% in più di quelle a benzina, e in europa addirittura il 43, in Cina costano la bellezza del 33% in meno”. Chiudersi ai prodotti cinesi quindi ha una sola motivazione: permettere ai nostri colossi automobilistici di continuare a non investire una lira per raggiungere la scala e l’efficienza dell’industria cinese, mentre nel frattempo si costringono i consumatori a comprare le loro inefficienti e costosissime auto. L’ennesima rapina condotta dalle istituzioni per arricchire l’1% ai danni del 99% e che offre così anche una graditissima sponda al complottismo dei negazionisti climatici. Pur partendo da un assunto completamente sbagliato e cioè la negazione della matrice antropica di almeno una parte consistente del surriscaldamento globale, arrivano a conclusioni paradossalmente più lucide delle nostre tanto istruite élite politiche: per le oligarchie occidentali, la transazione ecologica non è altro che l’ennesima scusa per fregarci un’altra gigantesca montagna di quattrini. Con la complicità delle istituzioni e senza manco avvicinarci lontanamente agli obiettivi climatici. Come sempre, i fintoprogressisti immaginari, sono i migliori amici della peggio destra reazionaria: una vera e propria partnership di ferro, nei secoli dei secoli.

Per combatterla, abbiamo bisogno di un media che non si inventi storielle, ma che guardi il mondo dal punto di vista del 99%, aiutaci a costruirlo:

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e chi non aderisce è Ursula von der Leyen