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Putin e i BRICS hanno fatto il miracolo: tra Cina e India è scoppiata la pace?

Il plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino ha davvero fatto fare la pace a Xi e Modi? In questo, che si annuncia inevitabilmente come il secolo asiatico, i rapporti bilaterali tra Cina e India sono – almeno nel lungo termine – probabilmente, in assoluto, i più importanti, il gigantesco elefante dentro la stanza che tanto la propaganda atlantista e suprematista quanto il grosso del cosiddetto mondo del dissenso fanno finta di non vedere; e le rare volte che vanno oltre questa rimozione appaiono piuttosto spaesati. Non dovrebbe sorprendere: di fronte a un problema talmente vasto e articolato da apparire sostanzialmente irrisolvibile, la rimozione rimane spesso l’unico escamotage psicologico per non uscire pazzi; accade col rischio di escalation nucleare, come con la crisi climatica. I rapporti tra Cina e India non fanno eccezione; il punto è che se l’ordine globale è stato messo completamente a soqquadro dall’ascesa economica cinese e si sta dimostrando del tutto incapace di assorbire 1,4 miliardi di persone che, in 40 anni, sono passati da vivere di agricoltura di sussistenza ad avere livelli di consumi comparabili con quelli del golden billion dell’Occidente collettivo, immaginare che il popolo indiano possa ambire a raggiungere standard di vita dignitosi rischia di essere platealmente velleitario. Per permettere anche all’India di intraprendere un suo percorso verso una qualche forma di prosperità collettiva, è inevitabile prevedere delle trasformazioni radicali del modello di sviluppo esistente e, quindi, anche del sistema monetario e finanziario globale e del modello di relazioni internazionali che gli fanno da cornice, ma siccome – come affermava Fisher – “È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”, di fronte a questo elefante nella stanza si preferisce girare lo sguardo e buttarla in caciara; e una volta che si è persa la capacità di valutare il contesto generale, anche l’analisi dei singoli episodi diventa, sostanzialmente, infattibile. Ed ecco, così, che quando a Kazan la settimana scorsa si è tenuto uno storico bilaterale tra Xi e Modi che, grazie alla sapiente mediazione di Putin, dopo 5 anni di congelamento dei rapporti ha ufficialmente riavviato le normali relazioni diplomatiche tra i due colossi asiatici, la nostra propaganda s’è riscoperta totalmente priva delle parole e delle categorie necessarie per comprendere la portata dell’evento, le sue cause e le sue conseguenze e ha preferito continuare a concentrarsi sul gossip.

Xi Jinping, Narendra Modi e Vladimir Putin

Con questo pippone a 6 mani, insieme a Clara e Gabriele abbiamo cercato di ricostruire alcuni degli elementi principali che permettono di contestualizzare questo evento storico e di seguire gli sviluppi futuri del rapporto che, con ogni probabilità, più caratterizzerà il prossimo secolo; ma, prima di procedere, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi al servizio della banalizzazione che la propaganda opera nei confronti delle grandi sfide dell’umanità e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un direttore di un qualsiasi media mainstream a convincere i suoi giornalisti che l’annoso problema dei parcheggi in doppia fila per le strade della Capitale deve avere la priorità rispetto ai rapporti tra Cina e India, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a provare a capire qualcosa del mondo reale che, fuori dalle conventicole dei pennivendoli, continua a procedere come un caterpillar, incurante dei loro editoriali.
Partiamo da lontano, con una delle imperdibili Fiabe del Germani.

Gabriele
Piccolo approfondimento storico di uno dei rapporti più complicati di sempre: la storia dei rapporti tra Cina e India. Non bastasse il fatto che si è appena conclusa la settimana dei BRICS e che parliamo di due civiltà millenarie complicatissime e poliedriche, ho deciso di imbarcarmi in un ripassone storico per capire di che stiamo parlando, perché non possiamo capire la storia di questo quadrante di mondo senza prima capire i pregressi recenti: anche in Asia orientale, infatti, il colonialismo ha lasciato tracce indelebili, persino negli attori post-coloniali odierni. Questo è anche il caso dei rapporti tra i due giganti che andremo ad approfondire in questo caso. Avete presente quei video che vedete ogni tanto su YouTube di gente che si prende letteralmente a mazzate ad alta quota, per cui ogni volta pensate di avere un po’ le allucinazioni e un po’ di assistere al prossimo sport estremo con cui milioni di hipsters europei ci ammorberanno il feed di Instagram? Ecco, state tranquilli: nulla di instagrammabile; si tratta del fastidioso e lunghetto contenzioso di confine tra Pechino e Nuova Delhi. Il problema ha radici ben profonde e affonda addirittura al secolo precedente, quando Regno Unito e Russia si contendevano l’Asia Centrale (eh sì: se c’è una crisi nei tempi odierni, state pur sicuri che gli inglesi hanno qualcosa a che vederci); l’India era la perla dell’impero di Londra, grazie alla quale poté avviare la sua accumulazione di ricchezza, e la tutela delle vie – marittime e di terra – all’India era priorità per il Regno Unito. Dalla metà dell’Ottocento Londra sviluppò, così, una sorta di paranoia russofoba fomentata dai tentativi dei vari zar di avere uno sbocco ai mari caldi: avendo a disposizione le terre e le risorse russe tramite comode ferrovie collegate ai mari caldi, chi avrebbe più avuto bisogno dell’Inghilterra? pensavano i saggi analisti della corona di sua maestà a Buckingham Palace. Iniziò quindi quello che, con linguaggio poetico, abbiamo chiamato Il Grande Gioco, cioè la rivalità tra Russia e Regno Unito nei territori dell’Asia Centrale, motivo per cui l’Afghanistan diventò una sorta di Stato cuscinetto tra i possedimenti di Londra e Mosca. E indovinate un po’ chi si trovò in mezzo a questo giochino geopolitico dei tempi antichi? Proprio il confine tra India, Tibet e Cina. Non entreremo qui nel merito della questione tibetana, per carità di Dio: basti qui dire che Lhasa e Pechino hanno una dinamica interna plurisecolare e che serve qualcosa di più che aver letto un libro di Richard Gere o aver visto Sette anni in Tibet per esprimersi al riguardo; quindi, per comodità, ci limiteremo a dire che il confine tra India e Tibet è poi la linea di confine tra India e Cina e che al momento della colonizzazione britannica, pur disponendo il Tibet di una larga autonomia, era comunque soggetto all’amministrazione cinese (seppur assenteista e spesso contestata dai locali). Sul Tibet si concentrarono le ambizioni e – più che altro – le paranoie inglesi che, temendo un imminente arrivo russo, decisero di chiedere continue correzioni di confine; questa continua estensione dei confini, anche oltre il reale confine storico e geografico dell’India, portò a una serie di linee di confine diplomatiche (perlopiù fittizie) che gli stessi inglesi, dopo la Rivoluzione russa, lasciarono cadere nel dimenticatoio.
Ma, come si suol dire, rotte le uova, la frittata è fatta, cari ottoliner; e di tante cose, il colonialismo è proprio una stronzata (permettetemi di dirlo) con conseguenze nefaste e pluridecennali, spesso e volentieri. Così rimasero, tra India e Cina, una serie di confini contesi che dopo la seconda guerra mondiale, cacciati finalmente inglesi e giapponesi dai rispettivi Paesi, arrivarono in eredità agli Stati post-coloniali; così l’area settentrionale, al confine triplo tra Pakistan e India (altro enorme casino dell’eredità coloniale britannica) diventò teatro di ciclici scontri, e altrettanto accadde sul confine indiano nord-orientale, grossomodo sopra l’odierno Bangladesh che, all’epoca, era però parte del Pakistan. Il primo conflitto si ebbe sul finire del 1962: i combattimenti furono dalla Cina all’area orientale del Kashmir e morirono circa 2000 uomini, per concludersi con una piccola vittoria cinese; i belligeranti accettarono quella che rimase come la Linea di Controllo Effettivo, il confine di fatto tra Pechino e Nuova Delhi lungo l’Himalaya. La Cina ottenne avanzamenti nella parte occidentale del Ladakh, mentre non ci furono grandi cambiamenti nel segmento più orientale nel Sikkim e nell’Arunachal Pradesh, l’area forse più preziosa in termini economici e geopolitici: in questa zona, un accordo per delimitare in chiave convenzionale il confine, seppur formalmente provvisoria per ambo le parti, è giunto solo negli anni novanta. L’11 settembre del 1967 altri scontri si verificarono lungo i confini e, così, anche nelle settimane a seguire. Negli anni a seguire, la Cina avviò la sua politica di apertura economica e diplomatica al mondo: quando la Cina, nel 1978, sotto Deng Xiaoping introdusse le riforme per il socialismo di mercato, contava un PIL all’incirca pari a quello indiano; a distanza di meno di cinquanta anni non possiamo non notare i diversissimi sviluppi dei due percorsi.
Nel 1981, il pragmatismo cinese spinse Pechino a chiedere una completa normalizzazione dei rapporti lasciando temporaneamente sospesa la questione dei confini, punto che Nuova Delhi accettò di buon grado; anche nel 1987 si verificarono altri scontri lungo i confini orientali sino-indiani e, dopo alcuni scontri, entrambi i governi decisero di gestire le future crisi diminuendo i contingenti militari e stabilendo delle clausole militari a cui, nel tempo, si cumulò il non utilizzo in questi ambienti delle armi da fuoco (da cui le famose mazzate di cui sopra): per non far degenerare un conflitto armato tra potenze nucleari, indiani e cinesi hanno letteralmente deciso di prendersi a mazzate in testa. Ma se l’area del Ladakh era spopolata e così poco rilevante, all’India che importava che la Cina la prendesse? Per cominciare, parliamo di enormi catene montuose con enormi ghiacciai e fonti di fiumi, risorsa non proprio secondaria; ma, al di là di questo, proprio il controllo di questa regione permise alla Cina di avere un confine diretto con il Pakistan, suo migliore amico nella regione ormai da decenni; pensate oggi, con il corridoio sino-pakistano inserito nella nuova via della seta, quanto si è rivelato importante questo lembo di terra di confine. Quando parliamo di aree contese, poco importanti è sempre relativo e ciò che oggi non è rilevante può rivelarsi fondamentale tra qualche decennio. Intanto il Sikkim, la regione che separa il Nepal dal Buthan – anch’essa contesa a inizio millennio – è stata dichiarata come non più un problema tra India e Cina da Wen Jiabao nel 2005; nonostante i due Paesi siano entrambi membri dei BRICS e collaborino a livello internazionale su più livelli e siano ottimi partner commerciali, hanno avuto più volte incidenti di confine nel 2014, 2015 e 2017. Nel 2020, in una schermaglia di confine, pare siano morti oltre venti soldati e quaranta cinesi, ma i dati sono molto discussi, dato il peso politico che la stampa occidentale può decidere di attribuire e strumentalizzare per questi episodi. Oggi Cina e India sono due giganti in piena ascesa e mentre la Repubblica Popolare punta a proporsi come attore di pacificazione e collaborazione, Modi sembra invece voler sfruttare ogni occasione offerta dal nuovo multipolarismo cavalcando i buoni rapporti con l’Occidente senza trascurare il tradizionale ruolo indiano nei Paesi emergenti; non ultima provocazione, l’adesione dell’India al QUAD nel 2017, l’alleanza indo-pacifica con Giappone, Australia e Stati Uniti dalla chiara funzione anti-cinese. Un parziale calo delle tensioni si è proprio verificato nei giorni passati quando il 21 ottobre, esattamente il giorno prima che si aprisse il vertice dei BRICS di Kazan, India e Cina hanno annunciato un nuovo accordo bilaterale sui confini che prevede l’arretramento reciproco degli eserciti e un pattugliamento concordato.

Giuliano
In questo contesto di competizione strategica, con l’imperialismo a guida USA che ha tutto l’interesse a soffiare sul fuoco, le dispute territoriali al confine tra India e Cina sono il classico esempio di uno dei tanti fronti possibili dove finiscono per scaricarsi tensioni sistemiche di ben altra portata, naturalmente e inesorabilmente alla ricerca di qualche valvola di sfogo; per affrontarle, allora, c’è bisogno di allargare lo sguardo e di costruire una vera e propria nuova modalità di affrontare le relazioni internazionali e le controversie che, inevitabilmente, emergono continuamente. E l’istituzione che, al netto di tutte le contraddizioni che abbiamo sottolineato millemila volte nei giorni scorsi, si sta affermando (in assoluto) come la più promettente da questo punto di vista, è proprio quella dei BRICS+, come ci racconta la nostra Clara.

Clara
Gli atlantisti, come al solito, hanno preso in maniera molto matura la nascita ed il consolidamento del blocco di economie emergenti costituito dalle loro ex colonie e, anziché tentare un dialogo o un’opportunità di crescita economica e della democrazia, hanno costituito (grazie ad un esercito di fedeli intellettuali e think tank) il Club degli scettici dei BRICS attraverso cui le tentano tutte per gettare discredito sul gruppo: l’asse Pechino-Mosca è un’alleanza forzata e mal digerita tra nemici naturali, Putin e Xi Jinping non sono veri best friends foreva, il gruppo BRICS non può funzionare poiché accozzaglia di Paesi unlike minded addirittura in conflitto fra loro, come Cina ed India; anche questa volta, i nostri amici dovranno aver fatto una bella scorta di Maalox dopo il vertice di Kazan. I BRICS sono come l’universo: in continua espansione; altri 13 Stati hanno preso il biglietto per la prossima adesione al gruppo (tra questi Turchia, Cuba e Bolivia). Non solum, sed etiam: anziché esplodere per le controversie interne, il blocco risolve i problemi; non come il signor Wolf, ma con la diplomazia e l’intermediazione degli stessi membri i BRICS diventano il consesso internazionale per affrontare e risolvere i conflitti (anche militari) tra nazioni, oltre che potenziare gli interessi in comune con l’approccio multilaterale. A Kazan, il presidente russo Vladimir Putin ha ospitato un incontro bilaterale cruciale tra il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro indiano Narendra Modi: i rapporti fra i due leader si erano raffreddati a causa delle gravi tensioni sul confine dell’Himalaya, sfociate nel 2020 negli scontri mortali della valle del Galwan; da allora, le due nazioni hanno vissuto costanti attriti lungo la Linea di Controllo Effettivo (LAC), una linea di demarcazione di quasi 3.500 km che separa il territorio controllato da Pechino da quello sotto controllo indiano.
A Kazan si compie il disgelo fra Pechino e Nuova Delhi: l’incontro ha siglato l’accordo approvato lunedì tra India e Cina sul pattugliamento e il disimpegno lungo la Linea di Controllo Effettivo nel Ladakh orientale; i nuovi patti mirano a rilanciare i rapporti diplomatici e garantire la pace, in prospettiva di un mondo multipolare. Incontro di grande significato, commenta con diplomatica soddisfazione Pechino: il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Lin Jian ha dichiarato che Xi e Modi “Hanno raggiunto importanti intese comuni sul miglioramento e lo sviluppo delle relazioni Cina-India e hanno tracciato la rotta per riportare le relazioni bilaterali sulla strada di uno sviluppo costante”. La Cina è pronta a collaborare con l’India per considerare e gestire le relazioni bilaterali da una prospettiva strategica e a lungo termine; la Cina è pronta a intensificare la comunicazione e la cooperazione, a rafforzare la fiducia reciproca strategica, a gestire adeguatamente le divergenze e a riportare le relazioni bilaterali sulla strada dello sviluppo costante il prima possibile. L’accordo è stato immediatamente implementato: venerdì è iniziato il ritiro delle truppe schierate una di fronte all’altra in due punti della frontiera nella regione indiana del Ladakh; il processo si concluderà entro fine mese, hanno riferito a Reuters le autorità indiane e i pattugliamenti riprenderanno come prima dello stallo. E’ stata tracciata la via diplomatica per la risoluzione della disputa sui confini attraverso il meccanismo dei rappresentati speciali, guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Ajit Doval dell’India e dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi; questi passi sono la condizione chiesta dall’India per la normalizzazione dei rapporti fra i due giganti asiatici, fortemente compromessi dallo stallo: in seguito agli scontri sulla Linea di Controllo Effettivo, Nuova Delhi aveva imposto restrizioni agli scambi, aumentando il controllo sugli investimenti cinesi nel Paese. Inoltre sono state bloccate diverse app mobili cinesi popolari, tra cui TikTok, e i voli passeggeri diretti per la Cina; nonostante ciò, la Cina è il principale Paese di importazione dell’India: dal 2020 ad oggi il volume delle importazioni indiane dalla Cina è quasi triplicato.
In un recente video, il nostro amico Dazibao spiega che solo nel periodo del secondo e terzo trimestre di quest’anno fiscale, il volume delle importazioni cinesi è di 56.29 miliardi di dollari, secondo il ministero del Commercio indiano; in particolare, i dati del commercio fra i due Paesi suggeriscono una forte dipendenza dell’industria indiana dalle produzioni cinesi con alto valore aggiunto, come la componentistica: nel 2023 la Cina ha rappresentato circa un terzo delle importazioni indiane di elettronica, macchinari e prodotti chimico-farmaceutici. La quota di importazioni dalla Cina raggiunge il picco di due terzi per le componenti ad alta tecnologia, come dispositivi a semiconduttore: più l’India aumenta la sua produzione di elettronica, rinnovabili e farmaceutica, più aumenta la sua dipendenza dalla Cina. Dall’altro lato, l’India è diventato un partner irrinunciabile per Pechino, necessario per aggirare il derisking (dazi e sanzioni imposte dalla Casa Bianca); entrambe le potenze hanno dunque interesse a normalizzare i rapporti per velocizzare (ancor di più) gli scambi e i flussi di investimenti necessari a rafforzare le rispettive industrie interne. Le parti dell’accordo non sono state rese note, ma sono state emanate direttive per rilanciare i vari meccanismi di dialogo bilaterale attraverso colloqui tra i funzionari del ministero degli Esteri a vari livelli, per rafforzare la comunicazione e la cooperazione e accrescere la fiducia reciproca strategica; nelle prossime settimane e mesi si svolgeranno una serie di visite ad alto livello per migliorare le relazioni su tutti i fronti.
Con il patto di Kazan si conclude una lunga situazione di stallo e si apre una nuova pagina delle relazioni tra Pechino e Nuova Delhi: la ratio sta nella priorità assegnata alla strategia e al lungo periodo rispetto alle questioni regionali nella gestione dei rapporti tra i due Paesi; Xi e Modi “hanno concordato di vedere e gestire le relazioni Cina-India da un punto di vista strategico e da una prospettiva a lungo termine, per impedire che specifici disaccordi influenzino la relazione complessiva e contribuire a mantenere la pace e la prosperità regionali e globali e a far progredire la molteplicità nel mondo” recita il comunicato cinese. “Relazioni bilaterali stabili, prevedibili e amichevoli tra Cina e India avranno un impatto positivo sulla pace e sulla prosperità regionali e globali. Contribuiranno inoltre ad un’Asia multipolare e ad un mondo multipolare” affermano Xi e Modi, secondo il comunicato indiano: Cina e India hanno capito che è necessario abbandonare la competizione regionale e cooperare per competere a livello globale; la costruzione di un mondo multipolare e la democratizzazione delle relazioni internazionali valgono più di una striscia di terra sull’Himalaya. La Russia ha avuto un ruolo di pacificatore, offrendo il luogo dove si è svolto il primo incontro ufficiale tra Xi Jinping e Narendra Modi; Mosca si propone come naturale intermediario strategico – forte del suo rapporto profondo e privilegiato con l’India e dell’amicizia sconfinata e strategica con Pechino – sullo sfondo di un comune obiettivo: la costruzione di un mondo multipolare. Si avvale della sua leva energetica (in quanto fornitore di gas di entrambi i Paesi) e del dialogo trilaterale all’interno di organismi come lo SCO, per mantenere un complesso equilibro, nella consapevolezza che la stabilità della regione e la cooperazione tra Cina e India sono cruciali non solo per gli interessi russi, ma – soprattutto – per l’assetto geopolitico globale. La città multiculturale di Kazan, ponte di civiltà, è il simbolo del nuovo equilibrio, un nuovo equilibrio che non ha bisogno dell’apporto occidentale, un equilibrio fatto di Stati che si sono emancipati da quelle potenze che tracciavano i confini delle loro ex colonie a tavolino: è il simbolo dello spostamento ad Est del centro di gravità del mondo.

Giuliano
Lo spostamento ad Est del centro di gravità del mondo, sottolinea giustamente Clara; che, in buona parte, significa soprattutto una cosa: il fatto che la Cina si è andata affermando come l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta, una rivoluzione macroscopica dei rapporti di forza globali che agisce a livello di struttura profonda e, alla resa dei conti, è impermeabile all’impatto della propaganda che si riempie la bocca di formulette magiche poco realistiche – dal decoupling al friend-shoring. Uno scollamento tra narrazione e realtà che l’India ha imparato a conoscere a sue spese; mentre Washington provava a convincere i Paesi non allineati – e alla continua ricerca di una strada per perseguire il loro interesse nazionale – che chi si allontanava da Pechino sarebbe stato premiato con un’ondata enorme di capitali occidentali che l’avrebbero trasformato in una nuova Cina, nella realtà, infatti, accadeva sistematicamente il contrario: i Paesi in via di sviluppo che hanno visto crescere di più gli investimenti diretti proveniente dall’Occidente collettivo (e, in particolare, dagli USA), infatti, sono in realtà proprio quelli che hanno accelerato di più l’integrazione economica con Pechino, dal Marocco alla Malesia, passando per il Messico e il Vietnam. Il motivo è molto semplice: essendo, appunto, la Cina l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta, l’unico modo per essere davvero competitivi nei mercati globali è integrarsi il più possibile con la catena del valore cinese.
Il caso del Marocco è, probabilmente, uno dei più emblematici: prima è diventato una delle principali destinazioni degli investimenti esteri diretti cinesi, che l’hanno eletta a capitale del Mediterraneo dell’industria legata alla transizione ecologica con una lunga serie di investimenti destinati alla produzione di batterie; compreso l’ultimo – gigantesco – da quasi 20 miliardi di dollari, annunciato dalla Huayou Cobalt che dovrebbe portare alla produzione addirittura di 50.000 tonnellate l’anno di materiali catodici, sufficienti per alimentare fino a 500 mila veicoli elettrici. L’interesse cinese, poi, si è portato dietro anche i capitali occidentali, a partire proprio da quelli USA: il Marocco, infatti, nel 2023 è stato il Paese in via di sviluppo che ha registrato la maggior crescita in assoluto di investimenti diretti statunitensi che hanno raggiunto la cifra esorbitante di 34 miliardi, in gran parte destinati a progetti greenfield; quindi di costruzione da zero di nuovi impianti produttivi, ovviamente quasi tutti nel settore delle energie rinnovabili e degli autoveicoli elettrici, una traiettoria diametralmente opposta a quella che, invece, ha vissuto l’India. A partire dalla prima ondata protezionistica inaugurata da Trump – che, tra l’altro, era legato a Modi da ottimi rapporti personali – l’India è cominciata ad emergere nella propaganda come la regina della cosiddetta alt-Asia e, cioè, la parte di continente che avrebbe attratto i capitali USA in fuga dalla Cina a seguito dei dictat politici del decoupling e del friend-shoring; e inizialmente, effettivamente, i capitali sono arrivati: dai 42 miliardi di investimenti diretti esteri del 2018, al record di quasi 85 miliardi nel 2021. Dopodiché, però, la crescita s’è arrestata e, negli ultimi due anni, si è registrata una contrazione che ha riportato sotto quota 70 miliardi; ma non solo, perché, nel frattempo, è cambiata anche la natura di questi 70 miliardi che, invece che servire a costruire nuovi impianti produttivi, sono stati destinati sempre di più a scalare la proprietà dei gruppi già esistenti e, invece che nel settore manifatturiero, si sono concentrati prevalentemente in quello finanziario (dalle banche, alle assicurazioni, ai servizi di telecomunicazione). Il motivo è semplice: proprio a partire dall’incidente di Galwan tra Cina e India del giugno 2020, l’India ha sostanzialmente bloccato gli investimenti diretti cinesi. Insomma: al contrario del Marocco, ha scelto di separarsi sempre di più dalle catene del valore cinesi; il risultato è che ha perso competitività ed è diventata enormemente meno promettente e attrattiva anche per i capitali occidentali che, più che alla propaganda di Washington, mirano – molto banalmente – a fare quattrini. Per l’India s’è trattato di una fregatura al quadrato perché, nel frattempo, ha pure aumentato le importazioni dirette dalla Cina; insomma: svincolarsi dalla superpotenza manifatturiera si è rivelato impossibile, ma almeno prima questa relazione veniva sfruttata anche per avviare un po’ di industrializzazione. Ora si riduce, banalmente, a comprare prodotti finiti. Con questa riappacificazione l’India tenta, così, di invertire la rotta e di recuperare il tempo perso, ma la cosa che sorprende ancora di più è che la Cina, invece che tenere la barra dritta e fare leva sulle difficoltà del vicino, pur di riappacificarsi sembra essere quella che ha fatto le concessioni maggiori: come si spiega?
In realtà, per capirlo basta abbandonare la logica predatoria e aggressiva tipica dell’imperialismo a guida USA e adottare il punto di vista della diplomazia cinese e della centralità che vi riveste la sfera economica e commerciale rispetto a quella finanziaria e militare: tornando a lavorare in direzione di una maggiore integrazione economica con l’India, infatti, la Cina lega il destino economico del vicino al suo; e che questo contribuisca ad accelerare anche lo sviluppo di un Paese che, visto con la nostra ottica, non può che essere considerato (nel lungo periodo) un competitor, agli occhi dei cinesi non sembra rappresentare un pericolo. Per capire come sia possibile, basta capire la profonda differenza che corre tra le finalità cinesi e quelle dell’imperialismo statunitense: fine ultimo dell’imperialismo statunitense, infatti, è garantire a una ristrettissima oligarchia la capacità di rapinare il grosso della ricchezza prodotta da tutti gli altri; il fine ultimo del Partito Comunista Cinese, al contrario, è garantire la maggior prosperità generale possibile attraverso la liberazione delle forze produttive. E se per rapinare è fondamentale mantenere gli altri a un livello di subordinazione tale da non riuscire a opporsi alla rapina, per garantire la liberazione delle forze produttive e la prosperità generale la strada maestra è quella della cooperazione e dello sviluppo; ovviamente, il tutto, a condizione che questa cooperazione (e lo sviluppo che permette di accelerare) non venga poi utilizzato come arma contro il tuo, di sviluppo. E la Cina è convinta che il modo per proteggersi da questi risvolti indesiderati sia, appunto, legare il più possibile la sorte economica dei diversi Paesi tra loro senza eccedere nell’ottimismo e, quindi, procedendo contemporaneamente ad armarsi a sufficienza per garantire la propria sicurezza. Se l’India, rigidamente classista e in preda agli interessi delle sue oligarchie, riuscirà a tenere fede a questa nuova modalità di concepire i rapporti economici (e, quindi, anche diplomatici e di sicurezza) è tutto da vedere; quello che conta, però, è che nel frattempo, a differenza di Washington e della propaganda atlantista, la smetta di vivere in un mondo immaginario parallelo e scenda a compromessi con la realtà concreta che procede, inesorabilmente, verso un nuovo ordine multipolare e, grazie alla Cina, verso un sistema di collaborazioni economiche – per quanto imperfetto e pieno di contraddizioni – sicuramente meno conflittuale e meno avverso alla crescita e allo sviluppo di quello a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie USA, un nuovo sistema che – duole dirlo – non saranno gli organi di propaganda delle oligarchie e i media mainstream ad aiutarci a capire.
Per farlo, serve un media indipendente, ma di parte, che guardi il mondo dal punto di vista degli interessi concreti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

ESCLUSIVA OTTOLINA: mentre gli USA armano il mondo, la Cina costruisce la pace – ft. Fabio Mini

A pochi giorni dall’inizio dello storico summit dei BRICS di Kazan, torniamo a fare una lunga chiacchierata con l’icona sexy di tutti gli Ottoliner: il Generale Fabio Mini. Mentre Zelensky ammette che l’unico modo per non non perdere platealmente la guerra per procura contro la Russia è scatenare la Terza Guerra Mondiale, gli USA – incapaci di produrre armi a sufficienza anche solo per contrastare la Russia – si vanno a impantanare di nuovo in una guerra regionale in Medio Oriente e la Cina, con una delle più grandi esercitazioni di sempre, dimostra chiaramente che la sua sovranità e la sua sicurezza strategica non possono essere messe in discussione da nessuna fantomatica NATO del Pacifico, i Paesi non allineati si apprestano a segnare un passo epocale nella costruzione di un’architettura finanziaria multilaterale in grado di mettere fine per sempre alla dittatura del dollaro e all’unipolarismo dell’imperialismo finanziario USA.

La Cina rispedisce al mittente le dichiarazioni di guerra del partito unico di Trump, Vance e Ursula

“Non permetteremo al Partito Comunista Cinese di costruire la sua classe media sulla pelle dell’America”: con queste parole, il suprematista JD Vance, inspiegabilmente eletto a simbolo della lotta anti-establishment da un pezzo di dissenso confuso, ha voluto inaugurare la sua nomina a vicepresidente in pectore rafforzando il ribaltamento della realtà che caratterizza la propaganda dell’impero. Nel frattempo, in Cina prende il via il Terzo Plenum del Partito Comunista Cinese che rappresenta, probabilmente, il più importante degli appuntamenti istituzionali che caratterizzano ogni mandato presidenziale e dove Xi Jinping ha ribadito con forza la necessità della Cina sotto attacco di cambiare radicalmente il suo modello di sviluppo per concentrarsi sullo sviluppo delle nuove forze produttive e la conquista della totale indipendenza e sovranità tecnologica. Il probabile cambio di guardia alla Casa Bianca e la conferma della vecchia élite di svendipatria in Europa non cambia di una virgola le carte in tavola: da una parte chi lavora giorno e notte per costruire un nuovo ordine globale, dall’altro chi fa ricorso a tutto l’armamentario colonialista per tentare di ostacolare con ogni mezzo necessario l’emancipazione dei popoli.
Con questa puntata, Mondocina sospende per un paio di mesi la programmazione regolare; ci rivediamo a settembre (ma quasi sicuramente anche prima, ma solo se accade qualcosa di particolarmente rilevante).

Auto Cinesi: tariffe al 100%! Serviranno a qualcosa?

video a cura di Davide Martinotti

Biden ha approvato tariffe al 100% sulle auto elettriche cinesi, sulla carta un duro colpo all’industria automobilistica cinese, ma al momento non sembra esserci all’orizzonte una rappresaglia cinese, una contromossa rivolta contro i produttori di auto statunitensi.. come mai? Ne parliamo in questo video, mescolando l’attualità con la storia antica!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

L’asse Russia – Cina per la costruzione di Stati sovrani e indipendenti fa tremare l’imperialismo

Non ha manco finito di mettere in piedi il nuovo governo che ecco che Putin è già in visita a Pechino! D’altronde, che la prima visita ufficiale di Stato dopo una rielezione veda coinvolti i due paesi è ormai un’usanza da oltre 10 anni, da quando cioè Xi, nel 2013, inaugurò la sua presidenza con una visita a Mosca che vide i due leader intrattenersi in un faccia a faccia a porte chiuse durato la bellezza di 5 ore. Ora Putin non vuole certo essere da meno e in una lunga intervista pubblicata dall’agenzia cinese Xinhua – “una delle più importanti e affidabili al mondo” secondo le parole dello stesso Putin – il 5 volte presidente della Russia prova a delineare le direttrici fondamentali di questa amicizia senza limiti tra i due paesi, come viene definita nelle comunicazioni diplomatiche ufficiali. In questa fase di feroce revisionismo storico dove, piano piano, si fa spazio la narrazione che in realtà la seconda guerra mondiale è stata la guerra del mondo libero contro i due totalitarismi alleati tra loro, Putin decide di partire proprio dalla grande alleanza anticoloniale e antinazifascista tra Cina e Unione Sovietica cementata in quegli anni: “I nostri popoli” sottolinea Putin “sono legati da una lunga e forte tradizione di amicizia e cooperazione”; “Durante la seconda guerra mondiale” sottolinea “soldati sovietici e cinesi si opposero insieme al militarismo giapponese e noi oggi ricordiamo e celebriamo il contributo che il popolo cinese ha dato alla vittoria comune, perché fu la Cina a trattenere le principali forze militariste giapponesi, consentendo all’Unione Sovietica di concentrarsi sulla sconfitta del nazismo in Europa”. Ora gli eredi dei nazifascisti in Europa e in Giappone sono impegnati a terminare l’opera interrotta dalla gloriosa resistenza di cinesi e russi, come braccio armato dell’impero. Putin ricorda anche come l’URSS fu, in assoluto, il primo paese al mondo a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese nata dalla guerra anticoloniale; ricorda anche che, in questi tre quarti di secolo, il rapporto tra i due paesi ha attraversato momenti decisamente difficili, ma sottolinea come tutto questo sia servito da insegnamento e come oggi entrambi i Paesi siano pienamente consapevoli che “La sinergia di forze complementari fornisce un potente impulso per uno sviluppo rapido e globale”.
La complementarietà delle economie russe e cinesi, a questo stadio di sviluppo, è piuttosto palese: da una parte il paese più ricco di materie prime al mondo e, dall’altro, l’unica vera grande superpotenza manifatturiera globale che produce, da sola, circa un terzo di tutto quello che viene prodotto oggi in tutto il pianeta e che di quelle stesse materie prime ha una sete inesauribile; attenzione però, perché – ovviamente – questa complementarietà è anche il prodotto di uno squilibrio. Un’economia fondata sull’estrazione delle materie prime si colloca strutturalmente a uno stadio di sviluppo inferiore rispetto a un’economia trasformatrice e, se il rapporto fosse fondato esclusivamente sull’evoluzione spontanea delle dinamiche capitalistiche, con l’approfondirsi dell’integrazione economica questo squilibrio, nel tempo, necessariamente non farebbe che accentuarsi: la ragione è molto semplice e consiste nel fatto che nel capitalismo il più forte vince sempre e cannibalizza il più debole; quindi in regime di libero scambio puro, senza l’intervento di quelli che vengono definiti fattori esogeni (e quindi, in soldoni, della politica e dello Stato), quando due economie che hanno – in virtù delle dimensioni delle rispettive manifatture – due livelli di produttività così lontani come quella cinese e quella russa aumentano il livello di integrazione, alla fine del giro quella che è partita avvantaggiata non farà altro che aumentare il suo vantaggio sempre di più. Che è esattamente il motivo per cui nel mondo, anche dopo i processi di decolonizzazione (e, quindi, una volta terminata la sottomissione di un paese ad un altro tramite l’esercizio della forza bruta), invece di emanciparsi dai rapporti di dipendenza, i paesi sottosviluppati hanno spesso ulteriormente aggravato la loro subordinazione, in particolare laddove alla lotta di liberazione non ha fatto seguito la costruzione di uno Stato sovrano minimamente funzionante in grado, appunto, di intervenire e apportare dei correttivi sostanziosi.

Xi Jinping e Vladimir Putin

Che è, appunto, il nocciolo della faccenda: cresciuti ed educati in un sistema dove gli Stati, scientemente, sono Stati privati della loro capacità di intervenire per apportare dei correttivi – e, anzi, dopo la parentesi democratica del dopoguerra sono tornati ad essere sempre di più essi stessi veri e propri agenti del capitale (e cioè strutture il cui unico scopo è velocizzare e rendere ancora più efficaci e inarrestabili i meccanismi interni del capitalismo), i pennivendoli della propaganda neoliberista, spesso anche in perfetta buona fede, non possono che vedere nel rafforzamento dei rapporti tra due economie così diverse, come quella russa e quella cinese, un inevitabile processo di subordinazione dell’una nei confronti dell’altra. Ed ecco così che da anni, un giorno sì e l’altro pure, le pagine dei giornalacci cercano di convincerci che la Russia ha ben poco da festeggiare perché se, dopo essere stata isolata dall’Occidente democratico e liberale, è costretta ad andare in ginocchio a Pechino alla ricerca di un’alternativa, questo non potrà che renderla un paese vassallo, col petto gonfio di retorica, ma totalmente incapace di esercitare una qualsivoglia sovranità reale; d’altronde, se cane mangia cane e sono scomparse tutte le museruole in circolazione, che alla fine quello più grosso e allenato prevalga è del tutto normale e inevitabile. Fortunatamente, però, in realtà esistono parecchie più variabili di quelle che solitamente è in grado di prendere in considerazione il pensiero binario dell’uomo neoliberale ed è su questo che insiste Putin che, nell’intervista, torna più volte in particolare su due semplici ma essenziali concetti: il perseguimento dei rispettivi interessi nazionali e il rispetto della sovranità. “Vorrei sottolineare” dichiara ad esempio Putin subito all’inizio dell’intervista, che il rapporto tra i nostri due Paesi “si è sempre basato sui principi di uguaglianza e fiducia, di rispetto reciproco della sovranità e di considerazione degli interessi reciproci”.
Al di là della retorica e del politichese, cosa significa in soldoni? Per capirlo bene facciamo un controesempio: i trattati di libero scambio e di libera circolazione dei capitali promossi dall’Occidente, in piena osservanza dei dogmi neoliberali; in questo caso si tratta, appunto, di limitazioni della sovranità degli Stati, che rinunciano a controllare la fuga dei capitali verso l’estero e l’ingresso di merci verso l’interno. Risultato: invece che gli interessi nazionali, a trionfare sono gli interessi specifici dei capitalisti. Il giochino lo conosciamo tutti (è il funzionamento di base della globalizzazione neoliberista): il primo punto è che i capitalisti possono andare liberamente a caccia dei posti più redditizi per i loro investimenti scatenando, così, una concorrenza al ribasso tra i vari paesi per offrire le condizioni migliori per attrarli, sforzandosi di contenere i salari dei propri lavoratori oppure adottando regole sempre più permissive in termini di standard ambientali o di sicurezza – che, in soldoni, significa sempre meno soldi che vanno in salari e sempre di più in profitti; il secondo è che i Paesi (o i pezzi di oligarchia) che partono avvantaggiati dividono il processo produttivo in tanti pezzetti diversi e mentre relegano il lavoro povero ai paesi che offrono vantaggi salariali e regolativi, si tengono la testa per loro. Si va così a consolidare una divisione internazionale del lavoro con una gerarchia ben precisa dove i paesi periferici perdono completamente il controllo della filiera produttiva a favore di quelli più avanzati, che continuano ad ampliare la loro superiorità tecnologica; insomma: prima magari producevi dei trattori che non si possono vedere, ma li producevi come volevi te e potevi decidere quanti produrne, come e quanto pagare i lavoratori, quante tasse far pagare ai proprietari della fabbrica o magari, addirittura, la fabbrica nazionalizzarla. Ora, magari, i trattori che contribuisci a costruire possono anche essere il top di gamma, ma della tua vecchia indipendenza non c’è più traccia e a determinare tutti i fattori è la concorrenza imposta da chi sta in cima alla piramide, tra tutti i suoi sottoposti: sei una specie di gladiatore in un’arena che si deve prendere a sciabolate con gli altri, mentre chi detiene la testa di tutta la catena sta sugli spalti a godersi lo spettacolo e a incassare il cash; e da questa spirale, finché ti affidi alle magnifiche sorti e progressive del mercato, non c’è verso di uscire.
E non abbiamo manco ancora introdotto il terzo punto, che è forse quello più rilevante in assoluto e, cioè, l’aspetto finanziario: chi ha il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa. Ecco: quella è, in assoluto, la cima della piramide e che – grazie alla globalizzazione neoliberista – si stacca sempre di più da tutto il resto diventando irraggiungibile; grazie alla piena libertà di circolazione dei capitali garantita dalla globalizzazione neoliberista, i capitali hanno subìto un processo di concentrazione senza precedenti e chi detiene questi monopoli finanziari privati (e, quindi, decide dove vanno i soldi per farci cosa) ha il vero potere, ben al di sopra dei singoli Stati. Ecco: una cooperazione e un’integrazione economica fondata sul riconoscimento dei rispettivi interessi nazionali e della sovranità è, sostanzialmente, l’opposto di questo meccanismo; uno Stato sovrano, quindi, è uno Stato che decide politicamente le condizioni alle quali le merci possono entrare e i capitali uscire. Ed è per questo che nella neolingua dell’Occidente neoliberale, al termine sovrano abbiamo sostituito autoritario: per l’Occidente democratico, è autoritario ogni Stato abbastanza forte da limitare la libertà delle oligarchie di concentrare nelle loro mani il potere finanziario e trasformarlo, poi, in un potere politico superiore a quello dello Stato stesso; democratico, invece, è ogni Stato che lascia alle oligarchie il potere di fare un po’ cosa cazzo gli pare e le istituzioni possono accompagnare solo.
Da questo punto di vista, la Cina (di sicuro) e la Russia (in buona misura) sono senz’altro Stati autoritari e, quindi, la loro relazione è una relazione tra Stati autoritari, con nessuno dei due che è in grado di imporre niente all’altro e, men che meno, le rispettive oligarchie; per questo è un tipo di relazione che non ha niente a che vedere con quelle a cui siamo abituati nel giardino ordinato, sia perché – a differenza del rapporto tra impero e vassalli che regola le relazioni all’interno dell’Occidente collettivo – non c’è un rapporto gerarchico a livello militare e i due Paesi sono autonomi e indipendenti dal punto di vista prettamente geopolitico (e questo viene riconosciuto anche dagli analfoliberali), ma soprattutto perché, appunto, entrambi hanno mantenuto un discreto livello di sovranità rispetto allo strapotere delle rispettive oligarchie e quindi, di conseguenza, ognuno rispetto alle oligarchie dell’altro. Insomma: sotto tanti punti di vista, nonostante le enormi differenze e gli enormi squilibri che abbiamo già sottolineato, si tratta molto banalmente di un rapporto tra pari che per noi, nati e cresciuti nelle periferie dell’impero, è una cosa quasi inconcepibile ed ha molte conseguenze, anche contraddittorie. A differenza dei rapporti dove vige una gerarchia precisa, ad esempio, i rapporti tra pari sono incredibilmente complicati; lo sono all’interno di una coppia o tra amici: figurarsi tra Stati – e ancor di più tra due superpotenze del genere. E gli esempi abbondano: basti pensare a Forza della Siberia II, il gasdotto da 2600 chilometri che dovrebbe trasportare 50 miliardi di metri cubi di gas russo ogni anno in Cina, un’infrastruttura strategica che più strategica non si può; eppure, nonostante l’aria che tira e l’amicizia senza limiti, i negoziati sono ancora abbastanza in alto mare (come è giusto e normale che sia quando due enti autonomi e indipendenti devono trovare una quadra per una partita così complessa). Per fare un confronto, basta pensare alla vicenda dei due Nord Stream, quando uno Stato formalmente sovrano ha accettato che un suo supposto alleato compisse un atto terroristico di portata gigantesca sul suo territorio senza battere ciglio; oppure quando, in seguito allo scoppio della seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, i Paesi europei hanno aderito a delle sanzioni economiche progettate più per distruggere la loro economia che non quella dell’avversario. Ecco: se come parametro per capire la solidità di un’alleanza prendiamo questo, effettivamente no, l’alleanza tra Russia e Cina non è minimamente comparabile, ma da quando in qua il rapporto tra un imperatore e i suoi sudditi si chiama alleanza? E che fine hanno fatto tutte le filippiche degli analfoliberali sulla democrazia che è sì faticosa, ma, alla fine, è l’unica strada per stabilire legami sociali stabili e duraturi?
Ora, è proprio questo modello di rapporti democratici tra Stati autonomi e indipendenti che Russia e Cina stanno proponendo al resto del mondo; e uno degli organi multilaterali che dovrebbe servire da piattaforma per questo nuovo modello di relazioni internazionali sono ovviamente i BRICS che, quest’anno, vedono la presidenza di turno affidata proprio alla Russia che – afferma Putin – vuole utilizzare, appunto, il suo ruolo per “promuovere un’architettura più democratica, stabile ed equa delle relazioni internazionali”: Putin sottolinea che “la cooperazione all’interno dei BRICS si basa sui principi di rispetto reciproco, uguaglianza, apertura e consenso” ed è proprio per questo che, insiste, “i Paesi del Sud e dell’Est del mondo vedono nei BRICS una piattaforma in cui le loro voci possono essere ascoltate e prese in considerazione e trovano la nostra associazione così attraente”. La creazione di enti multilaterali fondati sulle relazioni paritarie e democratiche tra Paesi, però, è più complicata da fare che da dire perché il presupposto – appunto – è che gli Stati coinvolti siano davvero sovrani e quindi, appunto, autoritari (e, cioè, abbastanza forti da tenere a bada il potere delle loro oligarchie); ma molti dei paesi coinvolti hanno tutt’altro che terminato questo processo di emancipazione dal potere delle oligarchie, come è il caso – ad esempio – del Brasile o dell’India che, di fronte alle loro oligarchie perfettamente integrate nella finanza globale, sono in grado di esercitare soltanto una sovranità parziale. Per non parlare, poi, dei Paesi come l’Arabia Saudita, che sono premoderni e che esercitano una loro sovranità soltanto nella misura in cui lo Stato coincide esattamente con le loro oligarchie.
Se quindi, da un lato, l’imperialismo – che è, appunto, il sistema su cui si fonda il dominio dell’Occidente collettivo sul resto del pianeta e che annienta ogni sovranità in nome dello strapotere delle oligarchie finanziarie – è un sistema, oltre che barbaro e inaccettabile, anche oggettivamente in declino (e contro il quale la rivolta è ormai inarrestabile), la costruzione dell’alternativa è ancora lunga e piena di ostacoli; l’amicizia senza limiti tra Russia e Cina, però, costituisce un nucleo centrale per questo nuovo modello di relazioni internazionali più democratico, di una potenza senza precedenti, ed è per questo che rappresentano (e continueranno a rappresentare) il nemico principale dell’imperialismo, che vede nella loro disfatta l’unica possibilità di continuare a rimanere in piedi, costi quel che costi. A noi non rimane che fare la nostra parte contro la guerra finale dell’imperialismo e, per trasformare anche l’Italia e l’Europa in un insieme di Stati sovrani e indipendenti, pronti a dare il loro contributo per la costruzione di un mondo nuovo senza il quale la distruzione reciproca, più che un’ipotesi, diventa – giorno dopo giorno – una certezza; per farlo, nel nostro piccolo, come minimo ci serve un media che non faccia da megafono alla propaganda dell’impero, ma che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Victoria Nuland

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Xi Jinping in viaggio in Europa per dividere l’Europa?

video a cura di Davide Martinotti

La prossima settimana Xi Jinping andrà in Europa, con un’agenda piuttosto particolare: Francia, Serbia e Ungheria, tre paesi che normalmente non associamo l’uno con l’altro, ma che evidentemente per i cinesi rappresentano un priorità. Il tentativo è quello di inserirsi come cuneo nelle relazioni tra USA ed Europa, uno sforzo per cercare di attirare parti dell’Europa che la Cina ritiene potrebbero essere più in sintonia con la sua posizione. Ne parliamo in questo video!

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Gli USA dichiarano guerra alla Cina e alla concorrenza (e Parabellum, nel suo piccolo, a Ottolina TV)

“Non esiste nessuna alternativa alla vittoria. La competizione dell’America con la Cina deve essere vinta, non gestita”; in mezzo a un profluvio di fake news sull’overcapacity e le pratiche commerciali cinesi, che fanno impallidire le pale usate dai russi come ultima arma dopo aver finito i missili (ormai quasi due anni fa) e i bambini decapitati da Hamas, Foreign Affairs, la testata ufficiale del think tank più guerrafondaio del pianeta, ha il merito, finalmente, di dire chiaramente le cose come stanno: l’impero in declino, per mantenere la sua egemonia, ha dichiarato la sua guerra ibrida contro il resto del mondo. Ora deve avere il coraggio di dichiarare apertamente non solo che quella contro la Cina è una guerra commerciale a tutti gli effetti che non richiede teorie strampalate per essere giustificata, ma che, in generale, gli USA hanno deciso di dichiarare guerra alla concorrenza e al mercato tout court; e, a proporlo, non sono due personaggi a caso. Ma prima di farveli conoscere e di descrivervi il loro delirante articolo col quale dichiarano guerra a tutto campo contro la Cina fino alla caduta definitiva del feroce regime comunista di Xi Jinping, una piccola, edificante storiella dal Tubo italiano.
Ieri c’eravamo un po’ sbizzarriti a perculare Parabellum per un video di pochi giorni prima dell’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, dove il bimbone pacioccone livornese incredibilmente esprimeva concetti di buon senso ampiamente condivisibili: che a comportarsi da aggressore era stata la NATO che aveva provocato per decenni la Russia; che da un eventuale conflitto con la Russia l’Europa aveva solo da perdere; che l’Euromaidan era stato un colpo di stato architettato dagli USA. Insomma: l’abc di tutte le persone minimamente ragionevoli che non hanno né quello strano morbo che si chiama analfoliberalismo, né vengono in nessun modo retribuite per dire il contrario della realtà facendo un po’ la figura degli ebeti (che è, comunque, sempre meglio che lavorare) e che, però, è l’esatto contrario di quello che abbiamo sempre sentito sostenere proprio dallo stesso Parabellum, che non manca mai di condire qualche osservazione arguta e qualche dato interessante con una quantità di retorica propagandistica filo occidentale abbastanza imbarazzante e anche un po’ stucchevole. Un’ora dopo di me, ha pubblicato un video simile anche il nostro amico Dazibao, tra l’altro senza che nessuno dei due si accorgesse del video dell’altro (anche se spesso, proprio per non accavallarci, ci sentiamo e ci confrontiamo sui temi da affrontare), ma si vede che era destino: dopo la pubblicazione del suo video, qualche ottoliner ci gira uno screenshot che arriva dal gruppo Telegram di Parabellum e che dimostra come gli amici di Parabellum abbiano un po’ questa mentalità da protezione paramafiosa nei confronti del loro guru. Invece di chiedergli com’è che la Russia era passata, magicamente, da essere da aggredita ad aggressore (proprio mentre lui, a 40 anni suonati, da piccolo genio incompreso era diventato magicamente uno dei sedicenti analisti geopolitici più citati dal baraccone della propaganda ultra atlantista), si chiedevano come fare a mettere insieme un numero sufficiente di segnalazioni per spingere Youtube a buttare giù il video di Dazibao; d’altronde, le bimbe di Bandera e i lettori di Kant ragionano così: è assolutamente coerente.
Decenni fa erano temprati dal lavoro manuale ed erano reattivi e muscolosi e si dedicavano al manganello e all’olio di ricino; ora, gli agi dell’era postmoderna li hanno ridotti a bimbiminkia brufolosi e si limitano alle infamate, ma lo spirito è esattamente quello. Lì per lì, io me la sono anche un po’ presa – devo dire la verità – che per quanto mi impegni a essere sempre il più sguaiato di tutti poi non mi caca mai nessuno (ancora attendo di essere messo nelle liste di proscrizione dei banderisti del Corriere della serva); purtroppo però, a questo giro, dopo poco l’attenzione è arrivata e non è stata proprio piacevolissima: Youtube, infatti, ha cancellato il mio video e non su segnalazione dei follower brufolosi di Parabellum, ma di Mirko Campochiari di persona personalmente. Dev’essere stato quell’amore spassionato per l’open society e il dibattito franco, aperto e libero che l’ha portato, magicamente, da riconoscere che l’aggressore era la NATO a dedicare tutta la vita a dirci quanto è cattivo Putin e quanto è essenziale continuare a fargli la guerra fino all’ultimo ucraino. Oggi, ovviamente, ripubblicheremo il video tagliando quel microframmento che ha permesso a Campochiari di dimostrare, ancora una volta, la genuinità dei suoi valori e la trasparenza dei suoi fini facendoci cancellare il video dalla piattaforma. Ma ora basta parlare della propaganda di basso cabotaggio e torniamo a parlare della propaganda che conta davvero.

Mike Gallagher

Chi sono i due autori dell’articolo di Foreign Affairs che chiede alla Casa Bianca di mettere da parte le buone maniere e di dichiarare, finalmente, davvero guerra alla Cina? Il primo si chiama Mike Gallagher, è un parlamentare repubblicano del Wisconsin e, nella scorsa legislatura, ha ricoperto il ruolo di uno dei miei comitati preferiti di tutto quel gigantesco circo che è il congresso USA – il comitato sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito Comunista Cinese. Notare: non tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese, ma proprio tra USA e Partito Comunista; d’altronde “La più grande minaccia contro gli Stati Uniti” aveva affermato proprio Gallagher nel suo discorso di insediamento “è il Partito Comunista Cinese. Il Partito Comunista Cinese” sosteneva “continua a commettere genocidi, nasconde l’origine della pandemia da corona virus, minaccia Taiwan e ruba proprietà intellettuale americana per un valore di svariate centinaia di miliardi di dollari”. Il comitato, aveva sottolineato l’ex speaker della camera Kevin McCarthy, era stato fondato perché “per vincere la Nuova Guerra Fredda, dobbiamo rispondere con forza all’aggressione cinese”.
Negli anni, Gallagher è stato costantemente al centro di tutte le principali battaglie della fazione più spregiudicata dell’imperialismo USA: è stato uno dei promotori della proposta di Trump di comprarsi la Groenlandia e, poi, ha litigato con Trump quando Trump aveva proposto di ritirare le truppe USA dalla Siria; è stato tra i promotori della famosa lettera bipartisan tra guerrafondai di entrambe le sponde per richiedere a Biden l’invio immediato degli F-16 in Ucraina ed ha guidato una delegazione di provocatori a Taiwan per rendere omaggio all’ex presidente Tsai Ing-Wen, giusto per far incazzare un po’ Pechino. Sul fronte economico, ha votato per smantellare la legge Dodd-Frank che aveva introdotto alcune piccole misure restrittive alla speculazione finanziaria e ha votato contro l’innalzamento del salario minimo; ed è stato uno dei promotori della battaglia per vietare TikTok negli USA, che ha definito fentanyl digitale utilizzato per fare brainwashing a favore di Hamas in seguito all’operazione diluvio di al aqsa del 7 ottobre scorso. Nel febbraio 2024, infine, ha annunciato le sue dimissioni da parlamentare; poco dopo si è scoperto che era stato assunto da Palantir, il colosso delle piattaforme digitali per l’intelligence e lo spionaggio fondato da Peter Thiel, il guru dell’alt right psichedelica e anarcocapitalista che spadroneggia tra gli yuppies della Silicon Valley.
L’altra firma dell’articolo è ancora più di peso: si chiama Matthew Pottinger – che suona un po’ tipo Cazzenger; purtroppo, però, qui alla fine c’è poco da ridere. Pottinger, infatti, è nientepopodimeno che l’ex vice consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ruolo che ha ricoperto dal settembre del 2019 fino al gennaio del 2021, dopo aver passato due anni a dirigere la sezione asiatica del consiglio per la sicurezza nazionale; uno dei pochissimi ad essere durato per tutta l’amministrazione Trump, Pottinger è stato tra i principali artefici della fallimentare guerra commerciale inaugurata da Trump contro la Cina. Gallagher e Pottinger hanno fortificato il loro rapporto di collaborazione e il loro odio viscerale per tutto ciò che odora di Cina durante la guerra illegale di aggressione degli USA contro l’Iraq, durante la quale Pottinger dichiara di aver sviluppato “una sorta di senso di disagio per il fatto che la Cina non sarebbe realmente riuscita a convergere con il nostro ordine liberale”; da allora, continua Pottinger, ho realizzato che la democrazia “non è inevitabile e non dovrebbe essere data per scontata, ma è una forma di governo per cui dovremmo essere pronti a combattere”.
Ed ecco così che, nonostante un’ideologia ultra conservatrice profondamente radicata, i nostri due eroi si ritrovano costretti ad ammettere che “in una presidenza afflitta da una lunga serie di fallimenti in termini di deterrenza – dall’Afghanistan all’Ucraina, passando per il Medio Oriente – la politica cinese dell’amministrazione Biden si è distinta come un punto relativamente positivo”: “L’amministrazione” ricordano “ha rafforzato le alleanze statunitensi in Asia, limitato l’accesso cinese alle tecnologie americane critiche e creato una convergenza bipartisan” per le politiche anti cinesi; “Eppure” allertano i nostri due simpatici guerrafondai “l’amministrazione sta sprecando questi primi guadagni cadendo in una trappola familiare: dare priorità a un disgelo a breve termine con i leader cinesi a scapito di una vittoria a lungo termine sulla loro strategia malevola”. “Gli Stati Uniti” sostengono “non dovrebbero gestire la competizione con la Cina; dovrebbero vincerla. Pechino” infatti, allertano “sta perseguendo una serie di iniziative globali progettate” addirittura – pensate un po’ – “per disintegrare l’Occidente e inaugurare” – udite udite – “un nuovo ordine globale antidemocratico”. La Cina infatti, ricordano, “sta sostenendo dittature espansionistiche in Russia, Iran, Corea del Nord e Venezuela”, ma non solo: la Cina, infatti, ha anche “più che raddoppiato il suo arsenale nucleare dal 2020” e, soprattutto, “sta rafforzando le sue forze convenzionali più velocemente di quanto abbia fatto qualsiasi altro paese dalla Seconda Guerra Mondiale”; e, a quanto pare, sono anche bravissimi a farlo a costi contenutissimi, dal momento che riescono a finanziare il rafforzamento delle forze convenzionali più veloce di tutto il secondo dopoguerra continuando, comunque, a mantenere la spesa militare complessiva sotto l’1,6% del PIL, contro il 3,5 degli USA che, tradotto, significa meno di 300 miliardi contro quasi 900. Un terzo; e se, spendendo un terzo, invece che aumentare il gap lo riduco, significa solo una cosa: che il socialismo è oltre 3 volte più efficiente del tuo sistema di rapina legalizzata generalizzata, cosa che, però, non so se i nostri due ultras dell’anarcocapitalismo sarebbero disposti ad ammettere. Ma qui non siamo nel regno della coerenza logica e della realtà; siamo nel regno dei redneck creazionisti millenaristi: c’è una missione divina da compiere e non saranno i conti di voi secchioni nerd miscredenti fissati coi numerini a cambiare il corso della volontà del nostro signore creatore.
Ma cosa intendono, concretamente, quando dicono vincere la competizione con la Cina e non semplicemente gestirla? Essenzialmente due cose; uno: imporre ai governanti comunisti cinesi di “rinunciare a cercare di prevalere in un conflitto caldo o freddo con gli USA e i suoi amici”, che questa, in teoria, è una cosa anche abbastanza fattibile perché basterebbe quel conflitto non continuare a scatenarlo (cosa che ai nostri due simpatici amici suprematisti non sembra, però, convincere tantissimo), ma, soprattutto, due: convincere “il popolo cinese, dalle élite al potere ai cittadini comuni” che si dovrebbero ispirare “a nuovi modelli di sviluppo e di governance che non si basino sulla repressione interna e sull’ostilità compulsiva all’estero” che mi pare già più complicatino, se non altro per il fatto che convincere qualcuno del fatto che un paese che, negli ultimi 80 anni, si è reso protagonista di oltre 200 episodi di guerra ibrida di vario genere in tutto il pianeta, ha un modello di sviluppo che è meno fondato “sull’ostilità compulsiva verso l’estero” di uno che ha fatto solo una guerra 45 anni fa che è durata meno di un mese, potrebbe non essere proprio facilissimo.

Matthew Pottinger

Anche i nostri due esaltati guerrafondai riconoscono che “nessun paese dovrebbe essere felice di intraprendere un’altra guerra fredda”; il punto però, rilanciano con forza, è che “i leader cinesi stanno già conducendo una guerra fredda contro gli Stati Uniti”: come è noto, infatti, i cinesi riempiono di armi tutti gli avversari di Washington – anche se come fanno esattamente è difficile dirlo dal momento che, come ricordava, ad esempio, Business Standard l’”export delle armi cinesi affronta il declino”. Secondo l’International Peace Research Institute di Stoccolma, infatti, l’export di armi cinese tra il 2016 e il 2020 sarebbe diminuito del 7,8% e rappresenterebbe, oggi, appena il 5,2% delle esportazioni globali (dal 6,3 di qualche anno fa) contro il 40 degli Stati Uniti; un dato eclatante? Sì, vabbeh. Per noi persone normali. Per quelli in missione per conto di Dio un po’ meno: il crollo dell’export di armi cinese, infatti, per la propaganda suprematista sarebbe dovuto – quando è giorno dispari – al fatto che se le tengono tutte per se per ingrassare gli arsenali; quando è pari, invece, alla scarsa qualità, come d’altronde di tutto ciò che è cinese, come ricorda sempre Business Standard. Quindi, secondo questa logica, i cinesi rinunciano a degli ottimi affari per riempirsi gli arsenali di armi che funzionano di merda e che li condannano alla sconfitta militare. Geniali!
La realtà, ovviamente, è un po’ diversa – e molto più semplice: gli USA danno la caccia con le sanzioni a chiunque si azzardi a vendere armi ai paesi che non sono al 100% al servizio degli interessi di Washington e siccome l’economia cinese, a differenza di quella USA, è fondata sulla produzione di oggetti che servono a vivere e non a morire, i cinesi, ad andare incontro a delle sanzioni per un mercato che per loro è del tutto marginale, non ci pensano proprio; ciononostante, suggeriscono i nostri equilibratissimi amici, “Piuttosto che negare l’esistenza di questa guerra, Washington dovrebbe appropriarsene, e vincerla” e “per vincere è necessario dichiarare apertamente che un regime totalitario che commette genocidi, alimenta i conflitti e minaccia la guerra, non sarà mai un partner affidabile”. Che detto da un parlamentare che, ancora il 21 marzo scorso, spingeva “il Dipartimento della Difesa a impegnarsi pubblicamente a sostenere Israele nella distruzione di Hamas” potrebbe suonare non esattamente credibile, diciamo. I nostri due eroi riconoscono che l’amministrazione Biden non solo “ha rinnovato” le misure intraprese già dall’amministrazione Trump, ma le ha anche “significativamente estese” e riconoscono anche quanto l’amministrazione Biden si sia prodigata per rafforzare tutte le alleanze militari costruite nel Pacifico per minacciare la sicurezza cinese, dal QUAD all’AUKUS, per passare dal summit trilaterale USA-Giappone-Corea del Sud e finire con quello inedito che si svolgerà a breve tra USA, Giappone e Filippine; ma tutte le aspettative che queste iniziative lodevoli avevano sollevato sono state poi tradite: Biden, a un certo punto, ha addirittura deciso di stringere la mano a Xi in mondovisione nella villa di Dynasty a San Francisco e, ora, leader politici e grandi uomini d’affari USA si alternano in pellegrinaggi a Pechino che non fanno altro che legittimare un regime che, negli ultimi due anni, non ha fatto altro che mostrare il suo lato peggiore. “Il 1° febbraio” scrivono i nostri due amici senza nessun senso del ridicolo “Gli abitanti del Montana hanno avvistato un’enorme sfera bianca che si spostava verso est. L’amministrazione stava già seguendo il pallone spia cinese, ma aveva intenzione di lasciarlo passare sopra di loro senza avvisare il pubblico. Ed è stato solo grazie alla pressione politica che Biden ha ordinato l’abbattimento del pallone una volta raggiunto l’Oceano Atlantico e che il segretario di Stato Anthony Blinken ha rinviato un viaggio programmato a Pechino” ed era solo l’inizio: “Nel giugno 2023” ricordano infatti i due autori “fughe di notizie alla stampa hanno rivelato che Pechino stava progettando” – pensate un po’ – addirittura “di costruire una base di addestramento militare congiunta a Cuba”, che è una cosa veramente disdicevole. Contro le oltre 1000 basi USA di ogni tipo sparse per il mondo, infatti, la Cina ne conta solo 2, meno anche dell’India o di Singapore, per non parlare della Turchia o della Francia e, men che mai, della Gran Bretagna. Una volta che trovi un paese amico che ti dà un po’ di spazio che fai, costruisci una base sola? E, infatti, era una mezza bufala, come fu costretto a sottolineare anche un portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale che rivelò quanto “le informazioni trapelate sulla stampa fossero imprecise”: “La Casa Bianca minimizzò” denunciano i nostri due autori, mentre in realtà si trattava di “una notevole eco della Guerra Fredda”; cosa volevano di meglio per inscenare una nuova Baia dei Porci?
Evidentemente i nostri due amici non si sono confrontati abbastanza con l’analista militare di fama internazionale, noto col nome di Parabellum, che gli avrebbe potuto spiegare – come fa continuamente dagli autorevoli schermi della prestigiosa miniera di Ivan Grieco – che ogni paese ha il diritto di ospitare tutti i missili a lunga gittata di una potenza ostile che vuole figurarci una base per l’addestramento; d’altronde gli USA hanno fatto sapere di averne una addirittura nelle isole Kinmen, che non solo sono ad appena 10 chilometri dalla Cina, ma che appartengono a una nazione, come Taiwan, che gli USA sono i primi a non riconoscere ufficialmente e che, ufficialmente, fa parte della Cina, che è una sola e indivisibile, anche per la Casa Bianca.
Ma tutta questa accondiscendenza verso crimini plateali come far volare un pallone gonfiabile e addestrare qualche decina di cubani, alla fine – si chiedono i nostri due autori – cosa ha portato di buono? Assolutamente niente, come si è visto nel caso di quello che loro definiscono “Il massacro di Hamas del 7 ottobre in Israele”; quello che sconvolge i nostri due simpatici autori è che la Cina non solo non ha fatto niente per sostenere la pulizia etnica di Gaza, ma addirittura ha messo il veto alle risoluzioni USA, in Consiglio di sicurezza, che permettevano a Israele di perpetrare il genocidio con l’assenso della comunità internazionale e, al loro posto, ne hanno proposte altre che avevano intenzione – per lo meno – di stoppare lo sterminio, alle quali gli USA sono stati costretti a mettere il veto da soli contro tutto il resto del mondo. Ma non solo: quando, poi, gli yemeniti hanno deciso di ricorrere ai mezzi in loro possesso per creare un po’ di deterrenza contro il sostegno allo sterminio, invece di attaccarli illegalmente a casa loro a suon di bombe, come hanno fatto gli USA senza grossi risultati, i cinesi ci si sono messi a parlare e hanno pure trovato un accordo per far passare le loro navi dimostrando che non servivano a portare armi e altre merci al regime genocidario sionista. Tutta questa spavalderia che porta un paese come la Cina a pensare di potersi sottrarre dal sostenere l’ennesimo sterminio colonialista senza pagare dazio è dovuta a questa idea dei buonisti che circondano Rimbambiden che, con la Cina, si debba trattare, un po’ come Nixon e Carter con l’URSS: volevano trovare un nuovo equilibrio, ma non c’era equilibrio possibile; per l’impero USA non esiste altro equilibrio che il dominio totale del globo, cosa che capì perfettamente Reagan che, infatti, “la guerra fredda decise che voleva vincerla, non semplicemente gestirla”.
Reagan si impegnò per tirare giù il muro di Berlino; oggi Washington deve concentrare tutti i suoi sforzi per buttare giù il great firewall, il muro che la Cina ha tirato su per non farsi invadere dalla propaganda delle oligarchie suprematiste occidentali perché, nel frattempo, “Xi ha investito miliardi di dollari” per influenzare le opinioni pubbliche occidentali e creare divisione dentro il giardino ordinato; come si spiegherebbe, altrimenti, che così tanta gente, di fronte a delle belle soldatesse israeliane che fanno degli ingenui balletti su Tiktok di fronte alle macerie dopo aver sterminato 15 mila bambini, continua ad indignarsi? Cosa cazzo gliene frega alla gente normale dello sterminio di bambini che, come dicono i democratici sionisti, sono solo i terroristi di domani? La prima cosa da fare, suggeriscono i due autori, è invertire immediatamente il corso di quello che “con l’amministrazione Biden, al netto dell’inflazione, è diventato un taglio netto alla spesa militare”; “invece di spendere poco più del 3% del PIL per la difesa” sostengono “Washington dovrebbe spendere il quattro, se non addirittura il 5%”: solo “per una deterrenza decente per Taiwan” specificano “gli USA dovrebbero spendere come minimo 20 miliardi aggiuntivi l’anno per i prossimi 5 anni, da mettere in una sorta di fondo deterrenza gestito direttamente dal segretario di Stato”. “Il fondo di deterrenza” continuano “dovrebbe essere il simbolo di uno sforzo generazionale diretto dal presidente per ripristinare il primato degli Stati Uniti in Asia”.
I nostri due amici hanno anche idee piuttosto precise su come impiegare questi soldi: “La priorità” sostengono “dovrebbe essere quella di massimizzare le linee di produzione esistenti e costruire nuova capacità di produzione di munizioni critiche per l’Asia, come missili antinave e antiaerei che possono distruggere obiettivi nemici a grandi distanze”; poi dovrebbero servire, ovviamente, a “produrre migliaia e migliaia di droni per trasformare lo stretto di Taiwan in un fossato ribollente” e poi ci si dovrebbe dare sotto di creatività, ad esempio pensando di “disperdere lanciamissili nascosti in container commerciali o schierare la Powered Joint Direct Attack Munition, un kit a basso costo che trasforma bombe standard da 500 libbre in missili da crociera a guida di precisione”. Poi, siccome i cinesi son pieni di missili a lunga gittata di ogni tipo che possono raggiungere il grosso delle istallazioni militari nell’area, è necessario distribuirle nel modo più diffuso possibile e, quindi, servono tanti accordi con gli attori regionali per ampliare il numero di basi, che le oltre mille che hanno ad oggi (che sono tipo 10 volte le basi straniere di tutti gli altri paesi messi assieme) per gli USA vanno bene in tempo di pace; ora che siamo in guerra dobbiamo averne minimo 50 volte il resto del mondo messo assieme. E ovviamente, poi, tutte queste basi andranno attrezzate a dovere e ci andranno “preposizionate forniture critiche come carburante, munizioni e attrezzature” e questo “in tutto il Pacifico”, ma tutto questo, sottolineano, potrebbe essere inutile se comunque continuassimo a permettere alla Cina “di tenere economicamente in ostaggio l’Occidente”.
Da questo punto di vista, le sanzioni di Trump rafforzate da Biden sono un primo passo importante, ma devono essere solo l’antipasto: gli USA devono stoppare l’esportazione di tutto quello di cui la Cina ha ancora bisogno di importare per continuare a sostenere la sua crescita, ma tutto questo ancora potrebbe non essere sufficiente se non si decide di fare una campagna ideologica come si deve, proprio come quando Reagan decise di fare un salto di qualità e definì l’Unione Sovietica Il fulcro del male nel mondo moderno “e cominciò deliberatamente a danneggiare la sua intera economia” anche perché, sostengono, esattamente come con l’Unione Sovietica “Washington non dovrebbe temere lo sbocco finale che ormai viene auspicato da un numero crescente di cinesi: una Cina in grado di tracciare il proprio percorso libero dalla dittatura comunista.
Il governo draconiano di Xi ha convinto anche molti membri del PCC che il sistema che ha prodotto il recente rapido declino della prosperità, dello status e della felicità individuale della Cina merita un riesame. Il sistema che ha prodotto uno stato di sorveglianza onnicomprensivo, colonie di lavoro forzato e il genocidio di gruppi minoritari all’interno dei suoi confini è un sistema” che ovviamente va contro anche gli interessi e la cultura stessa dei cinesi che, ovviamente, ambirebbero tutti – invece che in Cina – a vivere in India, che solo 40 anni fa aveva un PIL pro capite superiore a quello cinese e ora è ferma a un sesto (che però non dà un’idea chiara della condizioni di vita dell’indiano medio rispetto al cinese, perché quasi metà della ricchezza indiana è concentrata nelle mani dell’1% più ricco e il coefficiente di Gini indiano è il doppio di quello cinese). Risultato: la Cina, nel 2020, ha messo fine alla povertà assoluta in tutto il paese o, come recitava un titolo, Ha costretto tutti i suoi abitanti a uscire dalla povertà, mentre l’India ha lasciato la libertà di continuare a morire di fame a oltre 80 milioni di suoi cittadini; sicuramente Washington avrà vita facile nel convincere i cinesi che a seguire il modello neoliberista USA c’hanno solo da guadagnare.
Abbiamo voluto dedicare così tanto tempo a questo singolo articolo perché riteniamo sia importante capire fino in fondo il livello raggiunto dal dibattito pubblico nel cuore delle sfere più alte della politica statunitense; difficile dire quanto la ferocia inaudita e la totale spregiudicatezza nell’invocare la distruzione totale di un paese da 1,5 miliardi di abitanti sia il delirio di una minoranza rumorosa dell’establishment americano o quanto, piuttosto semplicemente, questi due personaggi abbiano il ruolo di dire ad alta voce quello che gli altri pensano per cominciare a tastare un po’ il terreno, come dei Macron qualsiasi. Fatto sta che qui non parliamo di due blogger esagitati o di un Parabellum qualsiasi che, come ritorsione, al massimo può buttare giù un video da un canale Youtube indipendente con 50 mila follower e poi piangere in un angolino nella cameretta in videocall con Stirpe e Nane Cantatore; qui parliamo di un pezzo dei piani alti della classe dirigente che dice apertamente che l’obiettivo politico è rovesciare uno Stato e spiega, per filo e per segno, passo dopo passo, cosa farebbero se fossero al governo – come è molto probabile che saranno fra non moltissimo – per arrivare a quell’obbiettivo. Come diceva il compianto Giulietto Chiesa, prendendosi del complottista, gli USA l’obiettivo finale l’hanno deciso già da mo’; il dibattito interno è solo per decidere, di volta in volta, quale strada prendere per arrivarci.
Questo video, inizialmente, doveva parlare del viaggio della Yellen a Pechino e delle sue deliranti dichiarazioni sull’overcapacity industriale cinese, una vera e propria barzelletta: l’overcapacity, cioè la sovracapacità, non è un termine generico. Ha un significato specifico e, per dimostrare che c’è overcapacity, si deve verificare almeno una, se non tutte, le tre le seguenti condizioni: gli impianti devono avere un basso livello di impiego; una percentuale elevata di merci deve rimanere accatastata invenduta nei magazzini; il margine di profitto degli operatori del settore deve essere particolarmente basso. Nel caso degli autoveicoli elettrici cinesi, come ricordava anche Bloomberg qualche giorno fa, queste tre condizioni molto banalmente non si presentano, nessuna delle 3; molto banalmente, i cinesi hanno investito di più di noi per sviluppare un settore che richiedeva troppi investimenti che le nostre oligarchie – che sono abituate a fare soldi speculando sulle azioni – non avevano intenzione di fare (che investire è sempre un po’ rischioso). Grazie a questi investimenti, ora le aziende cinesi sono incomparabilmente più efficienti e produttive delle nostre e, quindi, a noi non rimane che impedirgli con ogni mezzo necessario di venirci a fare concorrenza in casa nostra; e siccome la concorrenza è stata, per 40 anni, la nostra religione laica in nome della quale ci hanno rifilato le peggio fregature, andava inventata una cazzata per alzare un po’ un polverone. E quella cazzata si chiama overcapacity, che tanto, nell’Occidente in preda alla sinofobia, la spacci bene (che nessuno sa cosa significa) e genericamente, comunque, non gliene frega abbastanza un cazzo.
Poi, però, ci siamo fatti prendere da questo articolone delirante su Foreign Affairs e ci siamo persi; fortunatamente, su questo tema ieri ha pubblicato un bellissimo video il nostro amico Davide di Dazibao, che ha spiegato tutto come sempre in modo più che chiaro e preciso. Andatevelo a vedere perché merita. Nel frattempo, se ti è piaciuto questo contenuto, ricordati di mettere un like, di iscriverti a tutti i nostri canali e di attivare le notifiche, ma – soprattutto – ricordati che canali come il nostro, senza santi in paradiso (in particolare nel paradiso di chi finanzia fino all’ultimo bamboccione, basta che si allinei alla propaganda guerrafondaia suprematista), per campare hanno bisogno del tuo contributo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mirko Campochiari

Trump apre all’industria cinese, mentre Xi prepara la Rivoluzione Industriale: cosa sta accadendo?

video a cura di Davide Martinotti

“Se mi stai ascoltando, presidente Xi, tu ed io siamo amici”. Così ha detto Donald Trump parlando al cielo e rivolgendosi a Xi Jinping durante una manifestazione elettorale in Ohio di sabato scorso. Mentre in Cina si parla di rivoluzione industriale, Trump invita i cinesi a portare le loro industrie negli Stati Uniti. Ne parliamo in questo video!

Ma è proprio vero che la Cina ha smesso di crescere e si sta armando fino ai denti per distruggerci?

La Cina investe in difesa, l’economia resta in crisi titolava ieri Il Giornanale. Come ormai d’abitudine, anche di fronte all’appuntamento politico cinese più importante dell’anno i nostri media di regime hanno lanciato la loro gara a chi stravolgeva di più la realtà; and the winner is, appunto, Rodolfo Parietti dalle pagine del Giornanale, l’organo più mainstream della propaganda filogovernativa che di economia, evidentemente, ci capisce il giusto, però a verve poetica dà la via a tutti: “Più che quello del dragone” sottolinea, infatti “in Cina il 2024 sarà l’anno del bradipo. Un andamento lento, quasi una sorta di paresi”. L’andamento lento della Cina consiste negli obiettivi di crescita per il 2024 ufficializzati dal premier Li Qiang nel discorso inaugurale delle così dette liang hui, le due sessioni che si sono aperte lunedì scorso a Pechino: +5%, una vera paresi, in effetti; mica come da noi col governo dei patrioti. Come titola Libero, da noi c’è stato un vero e proprio Colpo di reni del PIL a fine anno: “L’ISTAT” annuncia trionfante l’organo più cringe del fascioliberismo in salsa italica “rivede al rialzo la crescita del quarto trimestre 2023”; invece che lo 0,5%, lo 0,6. Non nel trimestre, eh? Annualizzato. Vabbeh, e grazie tante che i cinesi crescono di più: come sottolinea sempre Il Giornanale “investono in difesa”; “è lì” insiste spudorato il nostro Parietti “dove la Cina manifesta propositi muscolari, rincorrendo l’America sull’aumento delle spese militari”. E’ la stessa tesi sostenuta rigorosamente anche da tutti gli altri giornali: “L’unico investimento imponente” scrive infatti Santevecchi sul Corriere della serva “è quello annunciato per la difesa”. Non sfugge alla retorica nemmeno Il Manifesto: Addio grande crescita titola; “La Cina vuole più militari”.

Li Qiang

Ma, esattamente, a quanto ammonta questo gigantesco investimento nella difesa che, come rilancia Il Giornanale, trasformerebbe l’economia cinese in un’economia di guerra? “Gli investimenti destinati alla difesa” sottolinea con enfasi Parietti “cresceranno” addirittura, udite udite, “del 7,2%”: basterà, come dice Parietti, per rincorrere l’America? Mhhh… insomma. La Cina, infatti, spende in difesa l’1,6% del PIL; gli USA oltre il 3,5 e il PIL USA – quello nominale in dollari, perlomeno – è ancora un bel po’ più grande di quello cinese. Eh, vabbeh, però di questo passo si stanno avvicinando! Mmhh… anche qui, non proprio: se il budget cinese, infatti, per il 2024 aumenterà del 7,2%, quello statunitense, invece, aumenterà dell’8,5, nonostante le stime per la crescita del PIL nel 2024 siano di poco superiori al 2% contro, appunto, il 5 cinese. Risultato: la Cina, nel 2024, spenderà per la difesa 231 miliardi di dollari; gli USA 886. Come abbiamo sottolineato diverse volte, i cinesi lavorano, gli americani bombardano chi lavora; risultato: la Cina è l’unica vera superpotenza produttiva e, da sola, pesa per il 35% della produzione globale, più dei 9 paesi che la seguono messi assieme. Gli USA, invece, sono l’unica vera superpotenza distruttiva, con una spesa militare che supera la somma dei 10 paesi che la seguono; la Cina spende in armi 163 dollari per ogni suo abitante, gli USA poco meno di 2700 dollari – 16 volte tanto – e nel giardino ordinato dell’Occidente collettivo sono sempre più in buona compagnia.
L’anno scorso, dei 26 paesi membri della NATO, 18 hanno raggiunto l’obiettivo del 2% di PIL di spesa militare; erano soltanto 3 appena 15 anni fa, ed è solo l’inizio: recentemente, il ministro della difesa tedesco Borsi Pistorius ha dichiarato che il suo obiettivo sarebbe portare la spesa militare stabilmente sopra il 3% del PIL nonostante la Germania sia in piena recessione e la Polonia, già dal prossimo anno, supererà abbondantemente quota 4%. Che ci vuoi fare, i colonialisti son fatti così: non solo si armano fino ai denti per ingaggiare guerre di aggressione illegale ai 4 angoli del pianeta, ma se poi qualcuno decide di starsene lì a guardare mentre loro programmano l’aggressione, ecco che immediatamente diventa un pericoloso guerrafondaio. Anche a questo giro, per capire qualcosa di uno degli eventi politici mondiali più importanti – se non il più importante – dell’anno, la nostra propaganda suprematista serve decisamente a poco e, allora, proviamo a metterci una piccola pezza noi. Ora, intendiamoci, noi siamo abituati bene perché viviamo nel giardino ordinato dove vige lo stato di diritto, la libertà – e la democrazia – di votare Mario Draghi (senza o con parrucca bionda) o, come negli USA, di scegliere tra le due gang della casa di riposo più importante del pianeta; è quello che involontariamente ha sottolineato, in un articolo esilarante di un mesetto fa, l’incomprensibilmente celebre guru dell’economia USA Paul Krugman su La Stampa: “Sì, è vero, Biden è anziano” ricorda “e sarà ancora più anziano a fine secondo mandato se verrà rieletto. E sì, è vero che parla a voce bassa e un po’ lentamente, ma chi ha avuto modo di chiacchierare direttamente, e io l’ho fatto, vi dirà che è in possesso di tutte le sue facoltà mentali”. Oh, e se lo dice Krugman che c’ha addirittura parlato dal vivo, chi siete voi per giudicare? Ma aspetta: la parte più bella viene dopo, perché se Biden, a prima vista, appare addirittura in possesso delle sue facoltà mentali – che, evidentemente, è un requisito più che sufficiente per guidare la più grande superpotenza globale – lo stesso, sostiene Krugman, non si può dire del suo sfidante che, sottolinea Krugman, “è più giovane di lui di soli quattro anni”. “Forse” argomenta Krugman “alcune persone sono colpite dal fatto che Trump parla a voce alta e in modo aggressivo, ma cosa dice quando parla?”; “A me ricorda” conclude l’autorevole economista “l’ultimo terribile anno di mio padre quando, colpito dall’alzheimer, ebbe attacchi di incoerenza e di aggressività. E noi dovremmo preoccuparci per le condizioni mentali di Biden?” In sostanza quindi, conferma Krugman, la democrazia USA si riduce alla possibilità di poter scegliere qual è il meno rincoglionito tra due vecchietti che reggono l’anima coi denti. In Cina, questo culo non ce l’hanno mica; in Cina c’è un omino che la mattina si sveglia e decide vita, sorte e miracoli di 1,4 miliardi di persone: cioè, sono tutti schiavi sfigatissimi che lavorano 12 ore al giorno e poi c’è lui che li manovra a piacimento come dei bambolotti e, visto che è tutto così semplice, cosa ci potrà mai essere di così interessante da capire?
Il momento del liang hui, e cioè delle due sessioni, rischia però di mettere un po’ in crisi questa caricatura profondamente razzista e neocoloniale; in cosa consiste? Sostanzialmente, è il periodo dell’anno durante il quale oltre 5000 delegati provenienti dagli angoli più remoti del paese si danno appuntamento nei palazzi monumentali della gigantesca piazza Tienanmen: in poco meno di 3 mila partecipano ai lavori dell’assemblea nazionale del popolo e, cioè, il massimo organo legislativo della repubblica popolare; di questi, circa 2000 sono iscritti al Partito Comunista Cinese, ma ci sono anche circa 500 indipendenti e pure altrettanti iscritti ad altri partiti. Sono i partiti del cosiddetto Fronte unito, che vanno dagli eredi degli ex militanti del Kuomintang, che si separarono da Chang Kai Shek durante la guerra civile e che contano ancora oggi oltre 130 mila iscritti, alla Lega Democratica, che di iscritti ne vanta poco meno di 300 mila e che è uno dei tre partiti nati in opposizione al partito comunista nella cosiddetta primavera di Pechino del ‘78 e che è stato tra i protagonisti delle proteste di Tienanmen dell’89. In contemporanea, altri duemila partecipano invece ai lavori della Conferenza politica consultiva del popolo, l’organo consultivo dove, al fianco degli stessi partiti di cui sopra, si riuniscono ampie delegazioni di alcune delle principali organizzazioni popolari del paese – dalla Federazione delle donne all’Associazione cinese per la scienza e la tecnologia e anche una folta rappresentanza di alcune categorie specifiche, divise per settore – da quello artistico a quello sportivo, passando per quello religioso, come quello sanitario o quello dell’informazione: insieme formano il cuore di quella che viene definita la democrazia con caratteristiche cinesi che, per carità, con l’idea che abbiamo noi di democrazia c’entrano un po’ come il cavolo a merenda, ma che – tutto sommato – dubito siano meno degne di attenzione che la faida a chi c’ha il finanziamento miliardario più grosso combattuta da due vecchi rimbambiti dall’altra parte del Pacifico. Come ricorda il Global Times, infatti, “Nelle due sessioni dell’anno scorso, i deputati hanno avanzato 271 proposte e 8.314 suggerimenti, che nel corso dell’anno sono state esaminate da nove comitati speciali e da 204 organizzazioni diverse. Durante questo anno inoltre il comitato consultivo ha organizzato 94 consultazioni, dalle quali sono pervenute 350 raccomandazioni”.
Insomma: la storiella del paese in preda agli umori dell’uomo solo al comando non sembra essere proprio rigorosissima, ecco, anche perché -, al contrario di quello che avviene sempre più spesso tra le diverse forze politiche dell’Occidente collettivo e, in maniera ancora più clamorosa, nella postdemocrazia a stelle e strisce – in queste 5000 persone trovi davvero le posizioni più disparate, come d’altronde anche all’interno del partito comunista stesso che, ricordiamo, vanta 100 milioni di iscritti che lo rendono, di gran lunga, l’organizzazione politica più grande e complessa della storia dell’umanità e dove dentro, appunto, ci trovi letteralmente di tutto. E non nel senso nostro di diverse sfumature del pensiero unico neoliberale e della dittatura thatcheriana del There is no alternative, ma proprio letteralmente di tutto: dai reazionari ultranazionalisti ai liberisti più sfegatati, fino anche, ovviamente, a un sacco di gente normale, e cioè – in varie forme e misure – socialisti. Tra queste varie anime, sia dentro al partito che, più in generale, in questi organi più ampi, c’è una dialettica feroce il cui esito è tutt’altro che scontato e non solo per questioni tutto sommato marginali, come accade nel nostro giardino ordinato dove il potere vero risiede sempre più spesso in strutture tecnocratiche che di democratico non hanno assolutamente niente (come ad esempio le banche centrali) se non, addirittura, direttamente nei consigli d’amministrazione delle principali corporation private e, soprattutto, in quelli dei grandi monopoli finanziari; è quello che, ad esempio, emerge con grandissima forza dal bellissimo libro di Isabella Weber How China escaped shock therapy – come la Cina è sfuggita alla terapia d’urto – che racconta come, in almeno 2 circostanze, la Cina optò per la via del socialismo con caratteristiche cinesi al posto della distruzione programmata dell’economia e della sovranità nazionale sulla falsariga di quanto imposto alla Russia dal regime eltsiniano al photofinish. Il famoso processo di accentramento del potere che, oggettivamente, è avvenuto con la leadership di Xi Jinping, nasce proprio da qui e dall’esigenza di garantire che si mantenesse la barra dritta in una fase di aggressione imperialista a tutto tondo senza precedenti, ma – appunto – da qui alla leggenda dell’uomo solo al comando ce ne corre.
Come sempre, anche quest’anno ad inaugurare la settimana di lavoro delle due sessioni c’ha pensato il premier che ha presentato ai delegati il report sul lavoro del governo e che non si è nascosto dietro a un dito: “Pur sottolineando i risultati ottenuti” ha dichiarato “siamo profondamente consapevoli dei problemi e delle sfide che ci troviamo ad affrontare. La crescita economica globale manca di slancio e la nostra ripresa economica non è sufficientemente solida, come risulta evidente dalla debolezza della domanda effettiva come anche dalla crisi di sovracapacità in alcuni settori industriali”; “a livello globale” insiste “la ripresa economica è lenta, i conflitti geopolitici sono sempre più acuti, il protezionismo e l’unilateralismo sono in aumento, e queste condizioni ambientali hanno esercitato un impatto sempre più negativo sullo sviluppo della Cina” e “a livello nazionale” poi “i problemi già radicati sono diventati più pronunciati, e ne sono emersi di nuovi. Al calo della domanda esterna si è sommata una mancanza di domanda interna e sono emersi problemi sia ciclici che strutturali. I rischi potenziali del settore immobiliare, del debito delle amministrazioni locali e della debolezza delle piccole e medie aziende sono diventati particolarmente severi”.
Le sfide principali che si trova di fronte la Cina per continuare a registrare un tasso di crescita molto superiore a quello statunitense – sostenuto dalla dittatura del dollaro e dal saccheggio sistematico degli alleati vassalli – sono fondamentalmente due: le esportazioni verso i mercati più ricchi dell’Occidente collettivo e la bolla immobiliare e cioè, sostanzialmente, i due tasselli fondamentali della spettacolare crescita cinese nella prima lunga fase di aperture e riforme e che sono tra loro profondamente interconnessi; il settore immobiliare ha rappresentato, negli ultimi 30, anni un traino gigantesco per l’economia cinese, pesando per circa un quarto del suo prodotto interno lordo – quasi il doppio di quanto registrato negli USA, in Gran Bretagna o in Giappone. D’altronde la sfida che si è trovata ad affrontare la Cina da questo punto di vista è stata epocale: trasformare, nell’arco di pochi anni, un gigantesco paese quasi interamente agricolo in una superpotenza industriale urbanizzata; il processo di urbanizzazione cinese è stato, in assoluto, il più grande e rapido della storia dell’umanità e, a differenza di tutti gli altri paesi in via di sviluppo, senza che il paese diventasse un concentrato di slum e di homeless. La Cina ha – in proporzione – ancora oggi meno homeless non solo degli Stati Uniti, ma anche di Francia, Gran Bretagna e Canada, ma ovviamente, un processo di questa portata non poteva non avere anche enormi controindicazioni: la prima consiste, appunto, nel fatto che per finanziarlo si è fatto ricorso ai risparmi dei cittadini, che sono abituati a risparmiare assai e che sono stati convinti attraverso incentivi fiscali succulenti a investire tutto nel mattone, dove viene custodito oltre il 70% dei loro patrimoni. La seconda è che si è creata una gigantesca bolla, non tanto nel senso che, a parte i principali centri urbani, le case in Cina abbiano raggiunto chissà che prezzi, ma più che altro nel senso che alcuni dei principali costruttori, che in Cina hanno raggiunto dimensioni spaventose, per cavalcare l’onda hanno creato una sorta di gigantesco schema Ponzi che riusciva a stare in piedi solo fino a che la gente continuava ad accumulare case su case pagandole in anticipo e facendo affidamento sul fatto che il prezzo delle case sarebbe aumentato all’infinito; fino a quando, come tutti gli schemi Ponzi, a un certo punto il giochino è saltato per aria e, in buona parte, a farlo saltare per aria è stato proprio Xi in persona da quando, nel 2016, ha cominciato ad affermare chiaramente che Le case servono per viverci, non per speculare, e poco dopo sono state introdotte le prime misure restrittive per limitare l’indebitamento dei costruttori. I sapientoni della propaganda occidentale, allora, anche se non sono mai stati in grado di anticipare l’esplosione delle megabolle di casa loro – a partire da quella di svariati ordini di grandezza più grande del 2008 – si sono profusi in consigli non richiesti; la formula è chiara ed è esattamente quella adottata da Obama nel 2008: salvare il grande capitale e rilanciare la bolla speculativa più forte che mai.

Le vie della seta

La Cina, seppur non senza tentennamenti e con qualche concessione qua e là, sembra però aver scelto una strada fondamentalmente diversa e ovviamente, in termini di crescita del PIL, sta pagando un prezzo e dovrà continuarlo a pagare, ma difficile credere ci possa essere una retromarcia; l’obiettivo fondamentale, infatti, a 8 anni di distanza continua a stare tutto sempre in quell’affermazione: le case servono per viverci, non per speculare. E non è soltanto questione di giustizia e di equità: ancora di più, piuttosto, l’obiettivo – infatti – è fare in modo che i risparmi dei cinesi, dal mattone, si spostino verso qualcosa di più produttivo, un’esigenza strutturale che, negli ultimi anni, è diventata una vera e propria emergenza. Dopo un decennio abbondante di investimenti esteri diretti senza precedenti, infatti, le recenti tensioni geopolitiche hanno fatto precipitare l’arrivo di capitali dall’estero ai minimi storici: dai 350 miliardi del 2021, che è stato un anno record, a poco più di 30 miliardi nel 2023; nel frattempo, gli investimenti cinesi all’estero sono tornati ad aumentare, anche se hanno disertato completamente l’Occidente – che li disincentiva, quando non li vieta tout court – e si sono concentrati tutti nei paesi che hanno aderito alla Belt and road initiative. Questa ritirata dei capitali privati internazionali non è tanto – o, almeno, non solo – un problema quantitativo, ma anche qualitativo: quei capitali, infatti, in buona parte erano legati a investimenti che permettevano alla Cina di colmare gradualmente il gap tecnologico rispetto ai paesi a capitalismo più avanzato che, nonostante tutto, in alcuni settori rimane. La Cina, allora, si è trovata di fronte a un imperativo categorico: sviluppare una vera e propria indipendenza tecnologica, più o meno totale; per farlo, oltre ai grandi progetti guidati dalle aziende di Stato e dai capitali pubblici, ha bisogno di incentivare l’iniziativa privata e la concorrenza e, per farlo, ha bisogno di indirizzare verso questi settori i risparmi privati, che è quello che, ad esempio, è successo con i veicoli elettrici. Da bravo Stato sviluppista, il governo ha sviluppato tutte le forze produttive necessarie ad avviare il settore e poi ha incentivato una concorrenza spietata tra gruppi privati, che ha portato la Cina a essere ordini di grandezza più competitiva del resto del mondo e così oggi – come ha sottolineato lo stesso Elon Musk – “Senza barriere commerciali, le aziende di veicoli elettrici cinesi demoliranno i rivali”; c’ha messo 12 anni ma, alla fine, c’è arrivato: quando, nel dicembre scorso, è uscita la notizia che il colosso BYD aveva superato Tesla nella vendita di veicoli elettrici, Bloomberg infatti ha ritirato fuori questa chicca risalente ormai al lontano 2011:

Giornalista: C’è un concorrente adesso, che sta crescendo. Immagino tu lo conosca, è BYD, che è presente anche sulla West Coast e che sta aumentando la sua produzione di veicoli elettrici.
Musk: <ride>
Giornalista: Perché ridi? Stanno provando a competere, cosa c’è da ridere? Hai visto le loro auto?
Musk: Sì, le ho viste. <ride ancora>
Giornalista: Non li vedi come competitor?
Musk: No.
Giornalista: Perché? Hanno prezzi molto competitivi.
Musk: Non credo abbiano un buon prodotto.


S
impatico eh, Musk, come una gattina attaccata ai coglioni.
Comunque, se c’ha messo 12 anni Musk a capire cosa stava succedendo, potete immaginare quanto ci metteranno i nostri Rampini o la Vestager: la concorrenza spietata tra decine e decine di marchi a colpi di innovazione è stata resa possibile proprio grazie ai risparmi privati che si sono riversati sulle borse di Shenzhen, di Shanghai e di Hong Kong, alla ricerca dell’unicorno del secolo e lo stesso è successo anche con i produttori di batterie e con i produttori di tutto quello che serve per produrre energia da fonti rinnovabili, a partire dal fotovoltaico; sono quelli che i cinesi chiamano i tre nuovi e cioè i tre nuovi pilastri della nuova Cina industriale, che fa qualche passetto indietro sulle vecchie produzioni a basso valore aggiunto e punta tutto sulle produzioni ad altissimo contenuto tecnologico. E i risultati fanno paura, letteralmente: in questo grafico del Financial Times si vede la crescita, a partire dal 2020, in fucsia dei veicoli elettrici e, in blu, delle batterie:

In quest’altro, invece, la crescita delle rinnovabili in termini di gigawatt di capacità installata:

Per quanto riguarda il fotovoltaico, nel 2023 la Cina ha installato più nuova capacità del resto del mondo messo assieme e più di quanto gli USA abbiano fatto negli ultimi 30 anni.
Il problema è che i tre nuovi da soli non sono certo in grado di sostituire il vecchio manifatturiero o il real estate: questo sforzo va moltiplicato per 100 e, per farlo, serve convincere i risparmiatori a mettere i loro soldi in titoli più che in mattoni; ecco perché, da un anno a questa parte, in Cina non si fa altro che parlare di riformare il mercato finanziario. Alcuni osservatori poco pratici hanno confuso questa foga riformatrice con la volontà della Cina di scimmiottare la finanziarizzazione dei paesi a capitalismo avanzato; è l’esatto opposto: la volontà della Cina, infatti, è quella di ridurre ancora di più le rendite improduttive per destinare tutte le risorse allo sviluppo di quelle che chiamano le nuove forze produttive. Per farlo, hanno deciso, appunto – come ricorda il Global Times – “di puntare tutto sulla protezione degli investitori di piccole e medie dimensioni, perché costituiscono la principale fonte di finanziamento a lungo termine per il mercato azionario cinese”. Nella sua prima apparizione davanti ai media proprio nell’ambito delle due sessioni, il neo nominato capo dell’autorità della vigilanza sui titoli cinesi, Wu Qing, ha chiarito che, ovviamente, “Il funzionamento del mercato ha le sue regole e in circostanze normali non si dovrebbe interferire”, ma ciononostante “non esiteremo ad intervenire ogni qualvolta il mercato si discosta dai suoi fondamentali, o vi sono fluttuazioni irrazionali e violente”. Insomma: un mercato finanziario sicuro e accessibile, a misura di piccolo azionista; esattamente l’opposto di quello che – nel frattempo – sta avvenendo in Italia dove, col Decreto capitali da poco definitivamente approvato, si è fatto un passo decisivo verso un mercato dei capitali a immagine e somiglianza degli interessi della finanziarizzazione e dei grandi asset manager che, grazie all’introduzione del voto multiplo, potranno garantirsi il controllo delle aziende con appena il 10/20% delle azioni. E con lo strapotere dei grandi fondi, la direzione non potrà che essere quella intrapresa da tempo negli USA: i mercati finanziari, invece che essere lo strumento per reperire le risorse necessarie alla produzione, sono una cosa a sé che non produce niente se non la speculazione che viene fatta sui titoli azionari stessi.
Il fatto che – grazie a una riforma dei mercati finanziari efficace – la Cina punti a trovare le risorse per replicare in modo allargato il successo ottenuto nei tre nuovi pilastri dell’industria hi tech, terrorizza l’Occidente collettivo anche perché, in tutti questi casi, “Ciò che ha davvero allarmato l’Occidente” sottolinea il Financial Times “è che la tecnologia cinese è spesso superiore a quella degli Stati Uniti e di altre economie avanzate”; come hanno reagito allora? Esattamente come chiedeva Elon Musk: dopo aver sfrantumato la uallera per decenni sulle magnifiche sorti e progressive del libero commercio, hanno ricominciato ad innalzare barriere commerciali; prima l’hanno chiamato decoupling, poi – quando le loro stesse corporation gli hanno spiegato che era una minchiata e non era fattibile – hanno abbassato un po’ i toni e l’hanno ribattezzato derisking. Ma, qualsiasi sia l’etichetta, la sostanza è la stessa: la concorrenza cinese va evitata, costi quel che costi. Ora, appunto, con il mercato immobiliare che continuerà a non essere particolarmente sostenuto (nella speranza di convincere i cinesi a finanziare lo sviluppo hi tech) e l’export che continuerà a faticare perché l’Occidente ha deciso di farla finita con la retorica della libera competizione – al contrario di quanto titolavano i nostri giornalacci – l’obiettivo della crescita al 5% non è certo poca cosa, anzi! E, infatti, le principali testate dei paesi che contano – e che, quindi, non si possono accontentare di fare un po’ di propaganda da bar per affrontare la sfida cinese, ma devono cercare di capire come combatterla – è su questo che si concentrano, non certo sulle segate alla Parietti. Di fronte a tutte queste difficoltà – e il giudizio è unanime, dall’Economist al Financial Times, passando per Bloomberg e il Wall Street Journal – raggiungere una crescita del 5% richiederebbe sforzi giganteschi che però Li Qiang , nell’inaugurazione delle due sessioni, non ha minimamente citato; anzi: l’obiettivo è ridurre ulteriormente il deficit, dal 3,8 al 3%.
Nonostante il debito cinese sia, tutto sommato, piuttosto contenuto, c’è addirittura chi l’ha definita una sorta di austerity con caratteristiche cinesi: non avrebbero tutti i torti, se solo fossimo nati ieri; per chi, invece, ha un minimo di memoria storica, la narrazione – anche a questo giro – non è tanto convincente. Da quando le due sessioni indicano degli obiettivi di crescita precisi, infatti (e, cioè, da almeno una trentina d’anni), la Cina non ha mai tradito le aspettative, con l’unica eccezione della crisi pandemica. Il motivo è piuttosto semplice: il socialismo con caratteristiche cinesi ha lasciato intatti nelle mani del governo tutti gli strumenti che gli permettono di stimolare la crescita più o meno a piacimento; il punto, però, è che ogni intervento anticiclico che viene fatto per raggiungere gli obiettivi di crescita (aumentare il deficit, ridurre il tasso di interesse, introdurre alleggerimenti di carattere fiscale e legislativo che stimolano gli investimenti e i consumi) crea degli squilibri e ha conseguenze che poi si ripercuotono nel medio lungo termine. “La logica” scrive Wiliam Pesek su Asia Times “sembra essere che la Cina si impegna a fare il minimo indispensabile per stabilizzare le azioni e mantenere il PIL il più vicino possibile al 5%”; “Xi”, scrive Neil Thomas dell’Asia Society Policy Institute sul Financial Times, “non sembra farsi prendere dal panico e non sembra voler ricorrere a stimoli massicci per cercare di rilanciare la crescita. Xi vede le attuali vacillazioni economiche della Cina come la sofferenza a breve termine necessaria per ottenere il vantaggio a lungo termine della sua visione di sviluppo di alta qualità”. I primi segnali sembrano dargli ragione; mentre stavamo finendo di scrivere questo pippone, sono usciti i dati aggiornati sulle esportazioni di gennaio e febbraio: gli analisti interrogati da Bloomberg avevano previsto una crescita inferiore al 2%. E’ stata superiore al 7.

L’unica cosa che manca per avere la certezza assoluta del successo è solo il solito immancabile editoriale di Rampini che, come ogni anno, annunci il crollo della Cina: se entro la prossima settimana non dovesse arrivare, allora sì che ci sarebbe da preoccuparsi; in tal caso, l’unica consolazione sarebbe comunque che – vada come vada il mercato azionario cinese – noi tanto non c’abbiamo un euro da investire e sempre i soliti poveracci resteremmo. E i poveracci, per sognare di costruire – finalmente – un vero e proprio media che permetta anche a noi italiani di non vivere sempre e solo nel fantastico mondo incantato della nostra propaganda cialtrona e suprematista, una possibilità sola c’hanno: il tuo sostegno. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuliano Ferrara

RAND CORPORATION: ecco perché un eventuale conflitto a Taiwan sarà per forza nucleare

Le teorie della vittoria delle forze armate USA per una guerra con la Repubblica Popolare Cinese
Archiviata definitivamente l’utopia concreta delle democrazie moderne che, come recita la nostra Costituzione, ripudiavano la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il problema non è più se fare la guerra o meno, ma molto più banalmente che tipo di guerra fare per ottenere quali obiettivi: da questo punto di vista, il dettagliato rapporto di oltre 40 pagine recentemente pubblicato dalla solita Rand Corporation, più che per ciò che svela su quale potrebbe essere l’approccio USA alla questione taiwanese, è illuminante per quello che svela con candore sulla psicologia dei pericolosi sociopatici che, di mestiere, consigliano alle massime sfere delle forze armate e delle amministrazioni di ogni colore il da farsi; “Gli autori di questo paper” si legge subito nell’abstract “illustrano come gli Stati Uniti possono prevalere in una guerra limitata con la Repubblica Popolare di Cina, evitando catastrofiche escalation”. Insomma: combattere e vincere sì, ma con moderazione; dov’è che l’ho già sentita? Ma state tranquilli: ormai i tempi sono cambiati e, ormai, parlare di guerra nucleare non è più tabù; moriremo, certo, ma un po’ più consapevoli. Il rapporto, infatti, non lascia molti margini alla fantasia: nel caso gli USA rilancino il cambio radicale di politica nei confronti di Taiwan adottato durante l’amministrazione Biden e culminato, nell’agosto del 2022, con la missione criminale di Nancy Pelosi sull’isola, evitare il conflitto sarà sempre più impossibile; il conflitto tra grandi potenze non potrà che essere prolungato e sempre più cruento, e che un conflitto prolungato e cruento tra grandi potenze non sfoci nel ricorso al nucleare è puro wishful thinking privo di fondamento. Cosa mai potrebbe andare storto?

“Le guerre sono molto più semplici da iniziare che da finire” sottolinea il rapporto della Rand Corporation, anche perché definire esattamente cosa significa vincere una guerra è più complicato di quanto non sembri; un problema che da 30 anni a questa parte gli USA – sostiene il rapporto – non si sono dovuti porre: qualsiasi fosse l’esito sul campo, infatti, dalla Serbia all’Iraq il rischio di ripercussioni in casa era sostanzialmente pari a zero, ma con “una guerra contro una grande potenza dotata di armi nucleari” la storia cambia completamente e quindi, nel caso di un conflitto con la Repubblica di Cina, “gli USA hanno bisogno di avere una visione chiara fin dall’inizio di come pensano di poter porre termine a un conflitto ottenendo vantaggi politici mentre evitano una potenziale escalation catastrofica”. Insomma: gli USA hanno bisogno di quella che, in termini scientifici, viene definita una teoria della vittoria e che, in soldoni, consiste nell’“identificare le condizioni alle quali il nemico accetterà la sconfitta, e quindi pianificare come modellare il conflitto in modo da creare quelle condizioni”; una buona teoria della vittoria, sottolinea il rapporto, deve avere “obiettivi politici chiari, deve essere concisa, prendere in considerazione le reazioni del nemico, sia militari, che politiche, e anche come reagiranno gli altri paesi coinvolti”. Elaborare una buona teoria della vittoria, continua il rapporto, è fondamentale perché “Le scelte che gli Stati Uniti fanno oggi influenzeranno quali teorie della vittoria saranno praticabili tra un decennio”; “Le modifiche delle capacità militari” sottolinea infatti Rand “richiedono tempi lunghi, e gli Stati Uniti si ritrovano ad affrontare limiti delle risorse disponibili che rendono impossibile investire equamente in tutte le opzioni possibili senza determinare una mancanza delle risorse disponibili per la scelta strategica più adeguata”. Ma non solo: elaborare una buona teoria della vittoria in tempo di pace è fondamentale per preparare le alte cariche delle forze armate e dell’amministrazione a essere in grado di fornire alla future presidenze consigli tempestivi adeguati qualora la deterrenza fallisse e scoppiasse improvvisamente il conflitto; “Viste le conseguenze del possibile ricorso all’arsenale nucleare o anche solo di attacchi convenzionali diffusi contro la Patria, alti ufficiali e funzionari devono essere consapevoli dei diversi rischi che le diverse teorie della vittoria comportano, per fornire i consigli migliori possibile al presidente. Non riuscire a centrare un equilibrio efficace tra il desiderio di ottenere un successo operativo e l’imperativo di gestire l’escalation con armi nucleari da parte dell’avversario rappresenta una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti”.
Si tratta, quindi, di capire come condurre una guerra in grado di raggiungere determinati obiettivi politici evitando il ricorso alla possibilità della mutua distruzione reciproca: per farlo “è essenziale stabilire obiettivi politici limitati”; l’era delle vittorie totali, se mai è esistita, sembrerebbe tramontata per sempre. Nel caso specifico di Taiwan, ad esempio – specifica il rapporto – “gli Stati Uniti potrebbero definire in modo restrittivo il proprio obiettivo politico nei termini di prevenire la possibilità che la Repubblica Popolare di Cina riesca ad imporre un controllo fisico totale di Taiwan, senza che la Repubblica Popolare sia comunque costretta a riconoscere l’indipendenza dell’Isola”. Per meglio schematizzare queste diverse gradazioni possibili di vittoria, il rapporto ricorre a una scala che va dalla distruzione alla vittoria totale: con vittoria totale si intende la vittoria che “consente al vincitore di dettare i termini della pace unilateralmente, anche se tali termini violano gli interessi vitali della parte sconfitta”, come ad esempio è avvenuto nei confronti di Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale. Questo tipo di vittoria però, sottolinea il rapporto, “contro una grande potenza nucleare, semplicemente non è plausibile, perché caratteristica distintiva dell’era nucleare è proprio che anche la parte perdente, anche se le forze convenzionali sono state totalmente annientate, è ancora in grado di annientare il vincitore”. Una vittoria limitata, invece, implica il raggiungimento di obiettivi politici limitati, inferiori rispetto a quelli ai quali il vincitore ambirebbe se avesse il controllo completo sui termini della pace; questo, ad esempio – specifica il rapporto – è quello che ha ottenuto la Gran Bretagna nella guerra delle Falkland contro l’Argentina, alla fine della quale “la Gran Bretagna ha riguadagnato il controllo delle isole, ma il regime argentino è sopravvissuto al conflitto e non ha rinunciato alle sue rivendicazioni politiche sulle isole”. Una sconfitta limitata, invece, è l’esatto inverso di una vittoria limitata, come un’ampia sconfitta è l’inverso delle vittoria totale. Rand aggiunge poi un’ulteriore gradazione, e cioè la distruzione, che “va oltre la sconfitta più ampia e comprende la completa distruzione dei fondamentali di una società”, come successe a Cartagine durante la terza guerra punica. Ora, ribadisce Rand, proprio a causa della sproporzione dei contendenti nelle guerre combattute negli ultimi 30 anni, “I leader statunitensi si sono abituati a perseguire obiettivi massimi e combattere in modi che sarebbero estremamente pericolosi in un conflitto tra grandi potenze”, “ma se pensiamo a un conflitto tra USA e Cina nel 2030, il quadro appare completamente diverso”.
Riassumendo una mole imponente di letteratura scientifica sulla strategia militare, Rand ha elencato 5 teorie della vittoria che hanno attraversato il dibattito dei decision makers lungo tutta la storia: la prima viene definita dominanza e consiste nell’”uso della forza bruta per annichilire fisicamente il nemico, incapace di continuare a resistere”; “Questa teoria” sottolinea Rand “ha il fascino della semplicità, ma richiede – appunto – significative asimmetrie di potere, che non sono pensabili nel conflitto tra USA e Cina, e in generale quando ad essere coinvolte sono comunque due potenze nucleari”. La seconda viene definita negazione e consiste nel “convincere il nemico che è improbabile che riesca a raggiungere i suoi obiettivi, e che ulteriori combattimenti non potranno modificare sostanzialmente la situazione”: nel caso del conflitto tra USA e Cina su Taiwan, questo sostanzialmente significherebbe impedire la conquista militare dell’isola da parte della Cina “ad esempio mediante l’interdizione della possibilità del ricorso alle forze aeree e marittime”. La terza viene definita svalutazione e consiste nel “convincere il nemico che anche se riuscisse a raggiungere i propri obiettivi, i benefici sarebbero molto inferiori di quanto inizialmente stimato”; per capire di cosa stiamo parlando, Rand ricorre a un esempio che arriva dal mondo dell’economia, e cioè quando le “aziende si auto – sabotano, ad esempio indebitandosi ulteriormente o svendendo alcuni asset di valore per diventare meno appetibili per un eventuale acquisizione ostile”: nel caso di Taiwan, ad esempio, alcuni analisti hanno suggerito che questo obiettivo potesse essere raggiunto minacciando l’eventuale distruzione totale delle fabbriche del leader mondiale dei microchip TSMC, ma Rand mette in guardia da questo tipo di considerazioni e sottolinea come “non abbiamo individuato misure militari che potrebbero ridurre significativamente l’attaccamento politico della Repubblica Popolare di Cina alla questione taiwanese”, senza considerare il fatto che – in questo caso – anche “Taiwan stessa, probabilmente, si opporrebbe fortemente a tali azioni” e che “distruggere gli interessi vitali dello Stato in difesa del quale ti sei mobilitato” rappresenterebbe, nella migliore delle ipotesi, “una vittoria di Pirro”. La quarta teoria della vittoria viene denominata del rischio calcolato e consiste nel “convincere il nemico a smettere di combattere minacciando una qualche forma di escalation”; in particolare ovviamente, si tratta della minaccia nucleare: “La sfida principale in questo caso” sottolinea però Rand, è “che quando siamo di fronte a un avversario che può ricorrere alla stessa arma, il rischio di escalation aumenta deliberatamente”. La teoria del rischio calcolato, in soldoni, è “una competizione a chi si assume più rischi e persegue la sua strategia con più risolutezza” e, in questo caso, la Cina per Taiwan potrebbe essere decisamente più tollerante ai rischi di quanto non lo siano gli USA stessi. La quinta e ultima teoria della vittoria, invece, viene definita dei costi militari e consiste nel convincere l’avversario che “i costi della continuazione della guerra superano i benefici”; una ipotesi che rientra in questo ambito ed è particolarmente popolare tra gli analisti e gli strateghi a stelle e strisce è quella che prevede “il blocco a distanza del commercio marittimo della Cina in punti di strozzatura come lo stretto di Malacca”. Rand, però, sottolinea come la teoria dei costi militari, per essere realmente efficace, deve soddisfare 3 requisiti fondamentali e, soprattutto, “in primo luogo, gli Stati Uniti devono trovare un punto debole sufficientemente prezioso da influenzare il processo decisionale dell’avversario, ma non così prezioso da risultare inaccettabile e quindi condurre a un’escalation”. Dopo questa lunga disamina introduttiva, il verdetto di Rand è che l’unica opzione realistica è la teoria della negazione, ma è tutt’altro che una passeggiata: “Una valutazione completa della fattibilità concreta della negazione va oltre gli scopi di questo paper” sottolinea RAND, ma quello che è certo è che “Tendenze sfavorevoli nell’equilibrio militare a tre tra la Repubblica Popolare, Taiwan e gli Stati Uniti nel tempo hanno reso più difficile garantire il successo di una strategia di negazione”; “La Modernizzazione e l’espansione militare della RPC hanno creato crescenti preoccupazioni nei confronti della capacità delle forze armate statunitensi di scongiurare un’invasione di Taiwan”. Rand ricorda come, ancora nei primi anni 2000, Taiwan sarebbe probabilmente stata in grado di difendersi da un’invasione della Repubblica Popolare anche con un sostegno limitato da parte degli Stati Uniti: all’inizio degli anni ‘10, i rapporti di forza erano già radicalmente modificati e “un assalto anfibio in larga scala non era più inimmaginabile”, ma ciononostante, rimaneva comunque “una scommessa audace e forse folle da parte di Pechino”, ma verso la metà degli anni ‘10 “le valutazioni iniziarono a rilevare carenze crescenti nella capacità delle forze armate statunitensi di contrapporsi a un’invasione”, fino a quando – nelle simulazioni effettuate a partire dal 2018 – “le forze aeree statunitensi hanno cominciato a fallire disastrosamente”. Ciononostante, Rand invita a non perdere la speranza; gli attacchi anfibi infatti, sottolinea, sono estremamente complessi: “La Storia” infatti, sottolinea il rapporto, “suggerisce che, affinché l’invasione abbia successo, l’attaccante ha bisogno del controllo aereo e marittimo locale totale, mentre a chi difende basta negare all’avversario quel controllo, il che è molto più semplice da conseguire”. Inoltre, continua il rapporto, “gli USA hanno un vantaggio significativo nella guerra sottomarina grazie a investimenti decennali”; “Una nostra ricerca”, sottolineano, “ha dimostrato che i sottomarini d’attacco statunitensi sarebbero particolarmente ben posizionati per affondare un gran numero dei trasporti anfibi dell’esercito di liberazione” e su questo non mi esprimo, che non ho elementi. I passaggi dopo, però, mi puzzano di whisfhul thinking da un chilometro di distanza: Rand, infatti, sottolinea come gli USA abbiano anche una grande esperienza con attacchi di precisione da lunga distanza in grado, di nuovo, di colpire i mezzi anfibi, e come inoltre siano in netto vantaggio per quanto riguarda i jet di quarta e, sopratutto, di quinta generazione. C’è un però: sia gli eventuali missili, sia i jet, dovrebbero partire da portaerei o altre imbarcazioni di grandi dimensioni che, per quanto avevo capito io, non sarebbero proprio obiettivi difficilissimi per i cinesi. E, in effetti, lo ricorda anche Rand: “La capacità della Republica Popolare di attaccare le basi aeree statunitensi” ricorda infatti lo stesso rapporto “è molto cresciuta, il che minaccia di compensare i vantaggi degli Stati Uniti riducendo il numero di sortite possibili”; Rand, d’altronde, ricorda come “Gli USA da questo punto di vista stanno implementando diversi programmi di modernizzazione che cominceranno a dare i loro frutti tra la fine di questo decennio e l’inizio del prossimo”. Dubito però che nel frattempo, invece, l’esercito popolare di liberazione stia a guardare, e dubitano anche quelli di Rand che sottolineano come – se la Repubblica Popolare continuasse ad avere una crescita economia robusta e una certa stabilità interna – le risorse dell’esercito popolare di liberazione aumenterebbero e “la Repubblica Popolare continuerebbe a guadagnare terreno nella competizione militare”; e – a parte quello che scrivono Il Foglio e Rampini – difficile credere che la Cina non continuerà a crescere e la leadership di Xi Jinping ad avere tutto il consenso popolare che le serve.
Di fronte a tutto questo, gli USA potrebbero semplicemente accettare il fatto che “C’è un rischio sempre più grande di fallimento”, ma “Alla fine potrebbe essere nell’interesse degli Stati Uniti accettare un rischio maggiore di una sconfitta limitata su Taiwan piuttosto che coltivare un rischio molto maggiore di escalation nucleare”: si ha come l’impressione che Rand cerchi, in qualche modo, addirittura di fare da pompiere, come se si rivolgesse a funzionari che, presi dall’entusiasmo, non vedono l’ora di menare le mani e, però, non hanno valutato bene il cespuglio di schiaffi che li attende. E la sensazione aumenta andando avanti col rapporto: Rand, infatti, sottolinea come, di fronte a tutte queste difficoltà che la strategia della negazione dovrebbe affrontare, in molti sostengono vada un po’ rafforzata con elementi mutuati dalla strategia sui costi militari. Il rapporto, però, sottolinea come deviare alcune risorse per perseguire la teoria della vittoria dei costi militari aumenterebbe ulteriormente il rischio di fallimento della strategia della negazione: “Usare bombardieri pesanti per imporre costi militari, ad esempio, potrebbe deviare queste risorse già scarse dalla campagna di negazione”. Un modo realistico per integrare le due strategie piuttosto, sostiene Rand, potrebbe consistere nell’utilizzare navi di superficie, che sono troppo vulnerabili per dare un contributo concreto alle operazioni di negazione vicino a Taiwan per imporre una qualche forma di blocco navale più a largo: per imporre alla Cina di desistere, forse è un po’ pochino e il brodo s’allungherebbe come in Ucraina, e anche a questo giro “Il vantaggio demografico cinese, più la sua ampia base industriale, più la maggior posta in gioco nel conflitto, conferiscono alla Repubblica Popolare capacità e motivazioni più forti di quelle degli Stati Uniti”; d’altro lato, il protrarsi del conflitto “non necessariamente risolverebbe i problemi operativi centrali che deve affrontare l’esercito di liberazione popolare, che essenzialmente consiste nella necessità di trasportare e poi sostenere un ampio numero di forze verso Taiwan”. Secondo Rand, infatti, l’esercito di liberazione popolare ha una capacità di trasporto marittimo relativamente modesta; sicuramente la Cina avrebbe sufficiente capacità di costruzione navale per rifornire con continuità la sua flotta anfibia ma, a conflitto in corso, questi siti produttivi sulla costa sarebbero esposti agli attacchi del nemico.
Insomma, ariecco il caro vecchio pantano e il solito vecchio quesito esistenziale: “Possono, realisticamente, grandi potenze dotate di armi nucleari combattere una guerra lunga, dura e dolorosa senza degenerare verso l’uso del nucleare?” Rand, per prima, nutre qualche perplessità: “C’è una tensione tra, da una parte, il fatto che le guerre tra grandi potenze storicamente tendono a protrarsi nel tempo e, dall’altra, i limiti imposti dall’avvento dell’era nucleare su quanto cruento un conflitto può diventare prima che sfoci inevitabilmente in un’escalation catastrofica”; “La minaccia della mutua distruzione potrebbe scoraggiare l’escalation nucleare, anche se i due schieramenti sono impegnati nelle classiche operazioni di provocazione convenzionale che caratterizzano sempre guerre prolungate, come ad esempio attaccare direttamente la base industriale del nemico e i centri abitati. Teoricamente è possibile che questo timore possa prevenire un’escalation nucleare anche in presenza di attacchi convenzionali su grande scala. Ma, nella pratica, sembra improbabile”. Sembrerebbe perlomeno azzardato, ad esempio, pensare che “la RPC sia abbastanza propensa al rischio da iniziare una guerra con gli Stati Uniti, e allo stesso tempo così avversi al rischio da escludere a priori il ricorso al nucleare anche nel caso venissero minacciati i suoi interessi vitali”; allo stesso modo, se la Repubblica Popolare decidesse di reagire attaccando la base industriale USA con attacchi convenzionali di ampia portata, è “perlomeno plausibile che gli USA considererebbero come minimo l’ipotesi di minacciare una risposta nucleare contro Pechino per fermare gli attacchi”. E visto che il prolungarsi di un conflitto inevitabilmente, a un certo punto, pone una minaccia esistenziale alla parte più in difficoltà, chi sta perdendo ha un incentivo razionale ad azzardarsi a ricorrere a un uso limitato del nucleare, nonostante la possibilità di sfuggire presto di mano: “Con il procedere della guerra, entrambi i lati diventerebbero sempre più pronti ad accettare i rischi mentre cercano un modo per portare un conflitto sempre più costoso verso la fine”.

Il dottor Stranamore

Insomma: quale sia l’esito inevitabile del cambiamento della politica USA nei confronti di Taiwan per ostacolare l’ascesa cinese, gli statunitensi lo sanno benissimo e non si sforzano manco tanto per nasconderlo, a partire dai più guerrafondai tra i think tank; se la palla fosse in mano alle persone comuni la questione non si porrebbe nemmeno. Rimane da capire quanto le oligarchie siano disposte a catapultarci nell’armageddon pur di non vedere per la prima volta il loro conto in banca diminuire un pochino invece che continuare a crescere – come ha fatto invariabilmente negli ultimi 30 anni sulle spalle di tutti noi. Contro la normalizzazione del ricorso all’arma fine del mondo che la propaganda ci sta piano piano tentando di suggerire, sarebbe il caso di risvegliare non dico tanto un qualche senso di giustizia – che magari siamo fuori tempo massimo – ma, almeno, di sopravvivenza sì: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di raccontare senza peli sulla lingua alla gente comune di che morte hanno deciso che sono destinati a morire se non interveniamo prima di subito. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il dottor Stranamore

L’INTERVISTA DI CARLSON: come Putin ha asfaltato la fuffa di Trump e il Suprematismo USA

La politica americana non smette mai di stupirci e anche la scorsa settimana ci ha regalato due perle preziose: la prima sono le dichiarazioni di Donald Trump che, durante un discorso pubblico in South Carolina, ha detto che se fosse rieletto presidente gli Stati Uniti non difenderebbe militarmente un paese europeo da un attacco russo a meno che il paese in questione non abbia speso almeno il 2 per cento del PIL nella difesa, “Anzi, incoraggerei i russi a fare quello che vogliono” ha intimato minaccioso agli europei; “Dovete saldare i vostri debiti!”. Queste dichiarazioni apparentemente folli rivelano in verità uno dei tasselli fondamentali della strategia politica di Trump e del partito Repubblicano: disimpegnarsi il più possibile in Europa in modo da poter concentrare tutte le risorse necessarie nel Pacifico nell’ottica di una futura guerra alla Cina. Naturalmente, all’idea che Trump possa addirittura smantellare la NATO costringendo gli Stati europei a difendersi da soli, tanti giornalisti italiani si sono lasciati andare ad urla isteriche e imprecazioni disperate; la reazione degli ottoliner, invece, pare che sia stata più o meno questa.

Vladimir Putin e Donald Trump

L’altro scandalo lo ha scatenato il giornalista americano Tucker Carlson il 6 febbraio scorso recandosi a Mosca per intervistare Vladimir Putin; era la prima volta che un giornalista occidentale faceva un’intervista al presidente russo dallo scoppio della guerra in Ucraina e, tanto per cambiare, dopo la pubblicazione dell’intervista le reazioni dell’opinione pubblica occidentale hanno dato prova di grande superficialità: tra chi ha dipinto Carlson come un traditore della democrazia e scagnozzo di Putin e chi, invece, guarda al giornalista americano come al nuovo messia della libera informazione e della lotta alla propaganda occidentale, è praticamente una gara a chi la spara più grossa. Basterebbe, infatti, aver studiato un attimo la biografia di Carlson, aver letto qualche sua dichiarazione precedente e aver seguito un minimo la geopolitica americana negli ultimi anni per sapere cosa politici e giornalisti di area repubblicana – come lui – stanno cercando di fare; è chiarissimo che a Carlson non interessi un bel nulla delle centinaia di migliaia di morti in Ucraina, né delle ragioni dei pacifisti, né della libera informazione: Carlson è, infatti, lontano mille miglia dalla sacrosanta lotta all’imperialismo e al suprematismo americano nel mondo. Semplicemente, in questo periodo il giornalista si limita a fare da megafono alle posizioni politiche di Donald Trump – e la posizione di Trump sulla guerra per procura della NATO in Ucraina è sempre stata chiarissima: bisogna fermarla al più presto, perché oggi il vero nemico del dominio globale americano non è la Russia, ma la Cina, e per poter vincere la guerra contro Pechino la Russia deve essere assolutamente riportata nell’orbita occidentale. “La più grande minaccia per questo Paese non è Vladimir Putin; è ridicolo. La minaccia più grande, ovviamente, è la Cina” dichiarava Carlson quando ancora faceva il conduttore a Fox News, e rincarava: “Gli Stati Uniti dovrebbero avere buoni rapporti con la Russia per combattere meglio la Cina; se la Russia dovesse mai unire le forze con la Cina, l’egemonia globale americana, il suo potere, finirebbe all’istante” e da quando l’anno scorso è stato licenziato da Fox News, Carlson non ha fatto altro che portare avanti esattamente questa narrazione guerrafondaia e sinofobica tanto cara a Trump e a tutti trumpiani americani ed europei. In questa puntata parleremo delle diverse visioni strategiche imperiali di democratici e repubblicani americani e, in particolare, del conflitto su quale debba essere considerato il nemico principale tra Russia e Cina e sul ruolo dell’Europa in questo scacchiere; vedremo inoltre come Putin, durante l’intervista con Carlson, abbia sfatato molte delle falsità della propaganda russofobica occidentale e come abbia platealmente deriso la retorica razzista e suprematista anticinese di Trump e Carlson ribadendo la propria solidissima alleanza con Pechino.

Henry Kissinger

Negli anni ’70, durante l’amministrazione di Richard Nixon, Kissinger utilizzò la diplomazia triangolare per mettere la Cina contro l’Unione Sovietica; nel 2018, Kissinger consigliò alla politica americana di tornare a questa diplomazia triangolare, ma nella direzione opposta: “Henry Kissinger” come riportava, infatti, il Daily Beast “ha suggerito al presidente Donald Trump che gli Stati Uniti dovrebbero collaborare con la Russia per contenere una Cina in ascesa”. I supporter dell’ala trumpiana dei Repubblicani e la destra reazionaria europea vedono infatti nella Russia un paese pur sempre bianco, europeo, cristiano e capitalista – e quindi un potenziale alleato contro la minaccia cinese, patria del comunismo, dell’ateismo e di un’etnia diversa dalla nostra; FuckBiden e i democratici, invece, la vedono diversamente. Da una parte sanno benissimo che, a lungo termine, l’unico vero grande competitor al loro dominio è la Cina e lo hanno anche scritto nero su bianco nel documento ufficiale che riassume la loro Strategia per la Sicurezza Nazionale; a differenza dei trumpiani, però, non confidano troppo sulla possibilità di spezzare l’alleanza che si sta consolidando tra Russia e Cina e hanno cercato di consolidare l’alleanza con i partner europei, nel tentativo di delegargli l’opera di contenimento del nemico russo e potersi concentrare sul Pacifico. Da una parte, quindi, l’Europa è vista come un continente ormai in inesorabile declino per la cui sicurezza e controllo non vale spendere soldi preziosi; dal lato democratico, invece, la NATO e – in generale – il controllo politico e militare sulle provincie atlantiche dell’impero rappresenta ancora una priorità. Ma al netto di queste differenze, come ha insistito più volte anche Ben Norton nell’intervista che ci ha rilasciato, quello che molti europei fanno ancora così fatica a comprendere – troppo presi da pseudo – dibattiti sul grado di bon ton di questo o quell’altro presidente americano – è che sia democratici che repubblicani sono profondamente imperialisti e il loro scontro non riguarda se gli Stati Uniti debbano o meno essere un impero, ma piuttosto su quale sia la migliore strategia per preservarlo; e quale delle due strategie, quella repubblicana o quella democratica, sia effettivamente la più lungimirante sarà solo la storia a dircelo, perché se è vero che, a prima vista, un avvicinamento russo alla Cina sembra un disastro per gli americani, è anche vero che il capo della CIA William J. Burns ha recentemente definito l’assistenza militare degli Stati Uniti all’Ucraina “un investimento relativamente modesto con significativi ritorni geopolitici per gli Stati Uniti e notevoli ritorni per l’industria americana”. In ogni caso, gran parte delle attuali politiche statunitensi, così come la famigerata intervista di Carlson a Putin, devono essere lette alla luce del conflitto tra queste due diverse visioni strategiche, cosa che – manco a dirlo – politici e giornalisti italiani si guardano bene dal fare.
Ma Chi è Tucker Carlson? Il giornalista americano è diventato famoso negli ultimi anni vendendosi come populista, a difesa dell’America profonda dagli attacchi delle oligarchie radical chic democratiche; naturalmente, con gli ultimi Carlson non ha mai avuto nulla a che fare: rampollo di una famiglia potente, ricca e politicamente ben integrata, Carlson ha iniziato la sua carriera mediatica come falco neoconservatore, sfornando articoli razzisti e guerrafondai per il Weekly Standard, la bibbia dell’ala più reazionaria dei repubblicani. Negli anni Duemila è stato promosso a conduttore di programmi alla CNN per poi, infine, passare a Fox News; tra le altre cose, ha sostenuto con entusiasmo l’invasione illegale dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, definendo gli iracheni “scimmie primitive semianalfabete”. Nel maggio del 2006, durante una discussione sulla guerra in Iraq in un popolare programma radiofonico, ha dichiarato con modi gentili di non avere troppo rispetto della cultura irachena: “Una cultura in cui la gente non usa la carta igienica o le forchette, non merita considerazione” ha detto, aggiungendo infine che “Gli iracheni dovrebbero chiudere quella cazzo di bocca e obbedire agli Stati Uniti perché non sono in grado di governarsi da soli”; dopo essere stato licenziato da Fox News, Carlson si avvicina ancora di più a Trump e oggi rappresenta uno dei suoi più efficaci strumenti di propaganda.

Tucker Carlson

E veniamo ora ai punti più interessanti dell’intervista con Putin: nell’intervista, il presidente russo ha parlato della storia del suo paese, dei rapporti con l’Ucraina, della Seconda Guerra mondiale e dei miti su cui in questi anni in Occidente è stata montata questa ondata di russofobia; il più diffuso di questi miti, naturalmente, è che la Russia rappresenterebbe una costante minaccia esistenziale per gli europei. Questo terrorismo psicologico – smentito clamorosamente dagli ultimi due secoli di storia in cui, a ben vedere, sono sempre stati gli europei occidentali a invadere i territori russi e non il contrario – è stata funzionale ai nordamericani una volta conclusa la guerra fredda, così da poter tenere in vita la NATO e legittimare la propria presenza militare sul nostro territorio; finita la guerra fredda, racconta infatti Putin, la Russia aveva tutte le intenzioni di avere ottimi rapporti con l’Occidente, come dimostra anche il tentativo di entrare nella NATO e il progetto di dar vita a una difesa missilistica congiunta, respinto da Clinton e Bush Jr. Ma i buoni rapporti con i paesi europei, con i quali era stata costruita anche una forte interdipendenza economica ed energetica, è sempre stata avversata dagli USA, i quali hanno sempre temuto di perdere il controllo sul vecchio continente e, soprattutto, che si potesse formare una grande alleanza politica euroasiatica; in questo clima di ostilità, dunque, la costante espansione della NATO ad est non poteva che essere considerata una minaccia per la sicurezza della Russia, ha sottolineato Putin: un po’ come se oggi Messico e Canada stringessero un’alleanza militare con la Cina con la possibilità di ospitare testate nucleari cinesi a pochi passi con il confine statunitense. Quale sarebbe la reazione nord-americana. Difenderebbero il diritto di Messico e Canada, in quanto Stati sovrani, ad entrare in tutte le alleanze militari che vogliono? Ho come l’impressione di no. In ogni caso, se su tutte queste riflessioni di Putin Carlson annuiva soddisfatto e tra i due sembrava ci fosse totale sintonia, quando si è parlato di Cina le cose sono improvvisamente cambiate: “La domanda è” chiede Carlson “cosa viene dopo gli USA? Si scambia una potenza coloniale con un’altra, molto meno sentimentale e indulgente. I BRICS, ad esempio, rischiano di essere completamente dominati dai cinesi, dall’economia cinese, in un modo che non è positivo per la loro sovranità. È preoccupato per questo?”; “Abbiamo già sentito queste storie sull’uomo nero” replica laconico Putin, “La filosofia della politica estera cinese non è aggressiva” continua, “La sua idea è quella di cercare sempre un compromesso. E questo lo vediamo. Ci viene raccontata sempre la stessa storia dell’uomo nero, ed eccola di nuovo, in forma eufemistica, ma è sempre la stessa storia dell’uomo nero”. Ma mentre si continua a fare propaganda sinofoba con le favolette, continua Putin, la realtà è che “La cooperazione con la Cina continua ad aumentare. Il ritmo di cooperazione della Cina con l’Europa sta crescendo. È più alto e maggiore di quello della crescita della cooperazione sino – russa”; “Chiedete agli europei” continua Putin: “Hanno paura? Forse sì. Non lo so. Ma cercano comunque di accedere al mercato cinese a tutti i costi. Soprattutto ora che stanno affrontando problemi economici. In America” conclude Putin “volete limitare la cooperazione con la Cina. Ma è a vostro danno, signor Tucker, che state limitando la cooperazione con la Cina. State danneggiando voi stessi.” Putin ha poi sottolineato soddisfatto come la politica repubblicana non sia affatto riuscita a isolare la Cina dalla Russia e a dividere i BRICS, e che sono state proprio le politiche di Biden e del Partito Democratico in Ucraina in questi anni a condurre al definitivo fallimento di questa strategia.
Come sappiamo, il nuovo obiettivo americano è ora quello di dividere i BRICS, in particolare facendo leva sui propri buoni rapporti con l’India, cercando così di creare quanti più conflitti possibili tra cinesi e indiani che, storicamente, non godono di ottimi rapporti. Secondo una recente inchiesta del Washington Post, una volta rieletto Trump si starebbe preparando ad imporre una tariffa del 60% su tutti i prodotti cinesi importati: praticamente una dichiarazione di guerra; la speranza è che, sia in campo economico che su Taiwan, Xi Jinping non caschi in queste provocazioni imperialistiche occidentali e continui a dare prova di grande saggezza razionalità politica. E se anche tu sogni un’Europa fuori dalla NATO e una grande alleanza euroasiatica tra Stati sovrani che porti pace e benessere su tutto il supercontinente, bisogna prima di tutto costruire media libero e indipendente che combatta la propaganda americana. Adesso anche tu puoi fare la tua parte e costruirlo insieme a noi: iscriviti al nostro canale in inglese (OttolinaTV – English – YouTube) e aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tucker Carlson