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RAND CORPORATION: ecco perché un eventuale conflitto a Taiwan sarà per forza nucleare

Le teorie della vittoria delle forze armate USA per una guerra con la Repubblica Popolare Cinese
Archiviata definitivamente l’utopia concreta delle democrazie moderne che, come recita la nostra Costituzione, ripudiavano la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il problema non è più se fare la guerra o meno, ma molto più banalmente che tipo di guerra fare per ottenere quali obiettivi: da questo punto di vista, il dettagliato rapporto di oltre 40 pagine recentemente pubblicato dalla solita Rand Corporation, più che per ciò che svela su quale potrebbe essere l’approccio USA alla questione taiwanese, è illuminante per quello che svela con candore sulla psicologia dei pericolosi sociopatici che, di mestiere, consigliano alle massime sfere delle forze armate e delle amministrazioni di ogni colore il da farsi; “Gli autori di questo paper” si legge subito nell’abstract “illustrano come gli Stati Uniti possono prevalere in una guerra limitata con la Repubblica Popolare di Cina, evitando catastrofiche escalation”. Insomma: combattere e vincere sì, ma con moderazione; dov’è che l’ho già sentita? Ma state tranquilli: ormai i tempi sono cambiati e, ormai, parlare di guerra nucleare non è più tabù; moriremo, certo, ma un po’ più consapevoli. Il rapporto, infatti, non lascia molti margini alla fantasia: nel caso gli USA rilancino il cambio radicale di politica nei confronti di Taiwan adottato durante l’amministrazione Biden e culminato, nell’agosto del 2022, con la missione criminale di Nancy Pelosi sull’isola, evitare il conflitto sarà sempre più impossibile; il conflitto tra grandi potenze non potrà che essere prolungato e sempre più cruento, e che un conflitto prolungato e cruento tra grandi potenze non sfoci nel ricorso al nucleare è puro wishful thinking privo di fondamento. Cosa mai potrebbe andare storto?

“Le guerre sono molto più semplici da iniziare che da finire” sottolinea il rapporto della Rand Corporation, anche perché definire esattamente cosa significa vincere una guerra è più complicato di quanto non sembri; un problema che da 30 anni a questa parte gli USA – sostiene il rapporto – non si sono dovuti porre: qualsiasi fosse l’esito sul campo, infatti, dalla Serbia all’Iraq il rischio di ripercussioni in casa era sostanzialmente pari a zero, ma con “una guerra contro una grande potenza dotata di armi nucleari” la storia cambia completamente e quindi, nel caso di un conflitto con la Repubblica di Cina, “gli USA hanno bisogno di avere una visione chiara fin dall’inizio di come pensano di poter porre termine a un conflitto ottenendo vantaggi politici mentre evitano una potenziale escalation catastrofica”. Insomma: gli USA hanno bisogno di quella che, in termini scientifici, viene definita una teoria della vittoria e che, in soldoni, consiste nell’“identificare le condizioni alle quali il nemico accetterà la sconfitta, e quindi pianificare come modellare il conflitto in modo da creare quelle condizioni”; una buona teoria della vittoria, sottolinea il rapporto, deve avere “obiettivi politici chiari, deve essere concisa, prendere in considerazione le reazioni del nemico, sia militari, che politiche, e anche come reagiranno gli altri paesi coinvolti”. Elaborare una buona teoria della vittoria, continua il rapporto, è fondamentale perché “Le scelte che gli Stati Uniti fanno oggi influenzeranno quali teorie della vittoria saranno praticabili tra un decennio”; “Le modifiche delle capacità militari” sottolinea infatti Rand “richiedono tempi lunghi, e gli Stati Uniti si ritrovano ad affrontare limiti delle risorse disponibili che rendono impossibile investire equamente in tutte le opzioni possibili senza determinare una mancanza delle risorse disponibili per la scelta strategica più adeguata”. Ma non solo: elaborare una buona teoria della vittoria in tempo di pace è fondamentale per preparare le alte cariche delle forze armate e dell’amministrazione a essere in grado di fornire alla future presidenze consigli tempestivi adeguati qualora la deterrenza fallisse e scoppiasse improvvisamente il conflitto; “Viste le conseguenze del possibile ricorso all’arsenale nucleare o anche solo di attacchi convenzionali diffusi contro la Patria, alti ufficiali e funzionari devono essere consapevoli dei diversi rischi che le diverse teorie della vittoria comportano, per fornire i consigli migliori possibile al presidente. Non riuscire a centrare un equilibrio efficace tra il desiderio di ottenere un successo operativo e l’imperativo di gestire l’escalation con armi nucleari da parte dell’avversario rappresenta una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti”.
Si tratta, quindi, di capire come condurre una guerra in grado di raggiungere determinati obiettivi politici evitando il ricorso alla possibilità della mutua distruzione reciproca: per farlo “è essenziale stabilire obiettivi politici limitati”; l’era delle vittorie totali, se mai è esistita, sembrerebbe tramontata per sempre. Nel caso specifico di Taiwan, ad esempio – specifica il rapporto – “gli Stati Uniti potrebbero definire in modo restrittivo il proprio obiettivo politico nei termini di prevenire la possibilità che la Repubblica Popolare di Cina riesca ad imporre un controllo fisico totale di Taiwan, senza che la Repubblica Popolare sia comunque costretta a riconoscere l’indipendenza dell’Isola”. Per meglio schematizzare queste diverse gradazioni possibili di vittoria, il rapporto ricorre a una scala che va dalla distruzione alla vittoria totale: con vittoria totale si intende la vittoria che “consente al vincitore di dettare i termini della pace unilateralmente, anche se tali termini violano gli interessi vitali della parte sconfitta”, come ad esempio è avvenuto nei confronti di Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale. Questo tipo di vittoria però, sottolinea il rapporto, “contro una grande potenza nucleare, semplicemente non è plausibile, perché caratteristica distintiva dell’era nucleare è proprio che anche la parte perdente, anche se le forze convenzionali sono state totalmente annientate, è ancora in grado di annientare il vincitore”. Una vittoria limitata, invece, implica il raggiungimento di obiettivi politici limitati, inferiori rispetto a quelli ai quali il vincitore ambirebbe se avesse il controllo completo sui termini della pace; questo, ad esempio – specifica il rapporto – è quello che ha ottenuto la Gran Bretagna nella guerra delle Falkland contro l’Argentina, alla fine della quale “la Gran Bretagna ha riguadagnato il controllo delle isole, ma il regime argentino è sopravvissuto al conflitto e non ha rinunciato alle sue rivendicazioni politiche sulle isole”. Una sconfitta limitata, invece, è l’esatto inverso di una vittoria limitata, come un’ampia sconfitta è l’inverso delle vittoria totale. Rand aggiunge poi un’ulteriore gradazione, e cioè la distruzione, che “va oltre la sconfitta più ampia e comprende la completa distruzione dei fondamentali di una società”, come successe a Cartagine durante la terza guerra punica. Ora, ribadisce Rand, proprio a causa della sproporzione dei contendenti nelle guerre combattute negli ultimi 30 anni, “I leader statunitensi si sono abituati a perseguire obiettivi massimi e combattere in modi che sarebbero estremamente pericolosi in un conflitto tra grandi potenze”, “ma se pensiamo a un conflitto tra USA e Cina nel 2030, il quadro appare completamente diverso”.
Riassumendo una mole imponente di letteratura scientifica sulla strategia militare, Rand ha elencato 5 teorie della vittoria che hanno attraversato il dibattito dei decision makers lungo tutta la storia: la prima viene definita dominanza e consiste nell’”uso della forza bruta per annichilire fisicamente il nemico, incapace di continuare a resistere”; “Questa teoria” sottolinea Rand “ha il fascino della semplicità, ma richiede – appunto – significative asimmetrie di potere, che non sono pensabili nel conflitto tra USA e Cina, e in generale quando ad essere coinvolte sono comunque due potenze nucleari”. La seconda viene definita negazione e consiste nel “convincere il nemico che è improbabile che riesca a raggiungere i suoi obiettivi, e che ulteriori combattimenti non potranno modificare sostanzialmente la situazione”: nel caso del conflitto tra USA e Cina su Taiwan, questo sostanzialmente significherebbe impedire la conquista militare dell’isola da parte della Cina “ad esempio mediante l’interdizione della possibilità del ricorso alle forze aeree e marittime”. La terza viene definita svalutazione e consiste nel “convincere il nemico che anche se riuscisse a raggiungere i propri obiettivi, i benefici sarebbero molto inferiori di quanto inizialmente stimato”; per capire di cosa stiamo parlando, Rand ricorre a un esempio che arriva dal mondo dell’economia, e cioè quando le “aziende si auto – sabotano, ad esempio indebitandosi ulteriormente o svendendo alcuni asset di valore per diventare meno appetibili per un eventuale acquisizione ostile”: nel caso di Taiwan, ad esempio, alcuni analisti hanno suggerito che questo obiettivo potesse essere raggiunto minacciando l’eventuale distruzione totale delle fabbriche del leader mondiale dei microchip TSMC, ma Rand mette in guardia da questo tipo di considerazioni e sottolinea come “non abbiamo individuato misure militari che potrebbero ridurre significativamente l’attaccamento politico della Repubblica Popolare di Cina alla questione taiwanese”, senza considerare il fatto che – in questo caso – anche “Taiwan stessa, probabilmente, si opporrebbe fortemente a tali azioni” e che “distruggere gli interessi vitali dello Stato in difesa del quale ti sei mobilitato” rappresenterebbe, nella migliore delle ipotesi, “una vittoria di Pirro”. La quarta teoria della vittoria viene denominata del rischio calcolato e consiste nel “convincere il nemico a smettere di combattere minacciando una qualche forma di escalation”; in particolare ovviamente, si tratta della minaccia nucleare: “La sfida principale in questo caso” sottolinea però Rand, è “che quando siamo di fronte a un avversario che può ricorrere alla stessa arma, il rischio di escalation aumenta deliberatamente”. La teoria del rischio calcolato, in soldoni, è “una competizione a chi si assume più rischi e persegue la sua strategia con più risolutezza” e, in questo caso, la Cina per Taiwan potrebbe essere decisamente più tollerante ai rischi di quanto non lo siano gli USA stessi. La quinta e ultima teoria della vittoria, invece, viene definita dei costi militari e consiste nel convincere l’avversario che “i costi della continuazione della guerra superano i benefici”; una ipotesi che rientra in questo ambito ed è particolarmente popolare tra gli analisti e gli strateghi a stelle e strisce è quella che prevede “il blocco a distanza del commercio marittimo della Cina in punti di strozzatura come lo stretto di Malacca”. Rand, però, sottolinea come la teoria dei costi militari, per essere realmente efficace, deve soddisfare 3 requisiti fondamentali e, soprattutto, “in primo luogo, gli Stati Uniti devono trovare un punto debole sufficientemente prezioso da influenzare il processo decisionale dell’avversario, ma non così prezioso da risultare inaccettabile e quindi condurre a un’escalation”. Dopo questa lunga disamina introduttiva, il verdetto di Rand è che l’unica opzione realistica è la teoria della negazione, ma è tutt’altro che una passeggiata: “Una valutazione completa della fattibilità concreta della negazione va oltre gli scopi di questo paper” sottolinea RAND, ma quello che è certo è che “Tendenze sfavorevoli nell’equilibrio militare a tre tra la Repubblica Popolare, Taiwan e gli Stati Uniti nel tempo hanno reso più difficile garantire il successo di una strategia di negazione”; “La Modernizzazione e l’espansione militare della RPC hanno creato crescenti preoccupazioni nei confronti della capacità delle forze armate statunitensi di scongiurare un’invasione di Taiwan”. Rand ricorda come, ancora nei primi anni 2000, Taiwan sarebbe probabilmente stata in grado di difendersi da un’invasione della Repubblica Popolare anche con un sostegno limitato da parte degli Stati Uniti: all’inizio degli anni ‘10, i rapporti di forza erano già radicalmente modificati e “un assalto anfibio in larga scala non era più inimmaginabile”, ma ciononostante, rimaneva comunque “una scommessa audace e forse folle da parte di Pechino”, ma verso la metà degli anni ‘10 “le valutazioni iniziarono a rilevare carenze crescenti nella capacità delle forze armate statunitensi di contrapporsi a un’invasione”, fino a quando – nelle simulazioni effettuate a partire dal 2018 – “le forze aeree statunitensi hanno cominciato a fallire disastrosamente”. Ciononostante, Rand invita a non perdere la speranza; gli attacchi anfibi infatti, sottolinea, sono estremamente complessi: “La Storia” infatti, sottolinea il rapporto, “suggerisce che, affinché l’invasione abbia successo, l’attaccante ha bisogno del controllo aereo e marittimo locale totale, mentre a chi difende basta negare all’avversario quel controllo, il che è molto più semplice da conseguire”. Inoltre, continua il rapporto, “gli USA hanno un vantaggio significativo nella guerra sottomarina grazie a investimenti decennali”; “Una nostra ricerca”, sottolineano, “ha dimostrato che i sottomarini d’attacco statunitensi sarebbero particolarmente ben posizionati per affondare un gran numero dei trasporti anfibi dell’esercito di liberazione” e su questo non mi esprimo, che non ho elementi. I passaggi dopo, però, mi puzzano di whisfhul thinking da un chilometro di distanza: Rand, infatti, sottolinea come gli USA abbiano anche una grande esperienza con attacchi di precisione da lunga distanza in grado, di nuovo, di colpire i mezzi anfibi, e come inoltre siano in netto vantaggio per quanto riguarda i jet di quarta e, sopratutto, di quinta generazione. C’è un però: sia gli eventuali missili, sia i jet, dovrebbero partire da portaerei o altre imbarcazioni di grandi dimensioni che, per quanto avevo capito io, non sarebbero proprio obiettivi difficilissimi per i cinesi. E, in effetti, lo ricorda anche Rand: “La capacità della Republica Popolare di attaccare le basi aeree statunitensi” ricorda infatti lo stesso rapporto “è molto cresciuta, il che minaccia di compensare i vantaggi degli Stati Uniti riducendo il numero di sortite possibili”; Rand, d’altronde, ricorda come “Gli USA da questo punto di vista stanno implementando diversi programmi di modernizzazione che cominceranno a dare i loro frutti tra la fine di questo decennio e l’inizio del prossimo”. Dubito però che nel frattempo, invece, l’esercito popolare di liberazione stia a guardare, e dubitano anche quelli di Rand che sottolineano come – se la Repubblica Popolare continuasse ad avere una crescita economia robusta e una certa stabilità interna – le risorse dell’esercito popolare di liberazione aumenterebbero e “la Repubblica Popolare continuerebbe a guadagnare terreno nella competizione militare”; e – a parte quello che scrivono Il Foglio e Rampini – difficile credere che la Cina non continuerà a crescere e la leadership di Xi Jinping ad avere tutto il consenso popolare che le serve.
Di fronte a tutto questo, gli USA potrebbero semplicemente accettare il fatto che “C’è un rischio sempre più grande di fallimento”, ma “Alla fine potrebbe essere nell’interesse degli Stati Uniti accettare un rischio maggiore di una sconfitta limitata su Taiwan piuttosto che coltivare un rischio molto maggiore di escalation nucleare”: si ha come l’impressione che Rand cerchi, in qualche modo, addirittura di fare da pompiere, come se si rivolgesse a funzionari che, presi dall’entusiasmo, non vedono l’ora di menare le mani e, però, non hanno valutato bene il cespuglio di schiaffi che li attende. E la sensazione aumenta andando avanti col rapporto: Rand, infatti, sottolinea come, di fronte a tutte queste difficoltà che la strategia della negazione dovrebbe affrontare, in molti sostengono vada un po’ rafforzata con elementi mutuati dalla strategia sui costi militari. Il rapporto, però, sottolinea come deviare alcune risorse per perseguire la teoria della vittoria dei costi militari aumenterebbe ulteriormente il rischio di fallimento della strategia della negazione: “Usare bombardieri pesanti per imporre costi militari, ad esempio, potrebbe deviare queste risorse già scarse dalla campagna di negazione”. Un modo realistico per integrare le due strategie piuttosto, sostiene Rand, potrebbe consistere nell’utilizzare navi di superficie, che sono troppo vulnerabili per dare un contributo concreto alle operazioni di negazione vicino a Taiwan per imporre una qualche forma di blocco navale più a largo: per imporre alla Cina di desistere, forse è un po’ pochino e il brodo s’allungherebbe come in Ucraina, e anche a questo giro “Il vantaggio demografico cinese, più la sua ampia base industriale, più la maggior posta in gioco nel conflitto, conferiscono alla Repubblica Popolare capacità e motivazioni più forti di quelle degli Stati Uniti”; d’altro lato, il protrarsi del conflitto “non necessariamente risolverebbe i problemi operativi centrali che deve affrontare l’esercito di liberazione popolare, che essenzialmente consiste nella necessità di trasportare e poi sostenere un ampio numero di forze verso Taiwan”. Secondo Rand, infatti, l’esercito di liberazione popolare ha una capacità di trasporto marittimo relativamente modesta; sicuramente la Cina avrebbe sufficiente capacità di costruzione navale per rifornire con continuità la sua flotta anfibia ma, a conflitto in corso, questi siti produttivi sulla costa sarebbero esposti agli attacchi del nemico.
Insomma, ariecco il caro vecchio pantano e il solito vecchio quesito esistenziale: “Possono, realisticamente, grandi potenze dotate di armi nucleari combattere una guerra lunga, dura e dolorosa senza degenerare verso l’uso del nucleare?” Rand, per prima, nutre qualche perplessità: “C’è una tensione tra, da una parte, il fatto che le guerre tra grandi potenze storicamente tendono a protrarsi nel tempo e, dall’altra, i limiti imposti dall’avvento dell’era nucleare su quanto cruento un conflitto può diventare prima che sfoci inevitabilmente in un’escalation catastrofica”; “La minaccia della mutua distruzione potrebbe scoraggiare l’escalation nucleare, anche se i due schieramenti sono impegnati nelle classiche operazioni di provocazione convenzionale che caratterizzano sempre guerre prolungate, come ad esempio attaccare direttamente la base industriale del nemico e i centri abitati. Teoricamente è possibile che questo timore possa prevenire un’escalation nucleare anche in presenza di attacchi convenzionali su grande scala. Ma, nella pratica, sembra improbabile”. Sembrerebbe perlomeno azzardato, ad esempio, pensare che “la RPC sia abbastanza propensa al rischio da iniziare una guerra con gli Stati Uniti, e allo stesso tempo così avversi al rischio da escludere a priori il ricorso al nucleare anche nel caso venissero minacciati i suoi interessi vitali”; allo stesso modo, se la Repubblica Popolare decidesse di reagire attaccando la base industriale USA con attacchi convenzionali di ampia portata, è “perlomeno plausibile che gli USA considererebbero come minimo l’ipotesi di minacciare una risposta nucleare contro Pechino per fermare gli attacchi”. E visto che il prolungarsi di un conflitto inevitabilmente, a un certo punto, pone una minaccia esistenziale alla parte più in difficoltà, chi sta perdendo ha un incentivo razionale ad azzardarsi a ricorrere a un uso limitato del nucleare, nonostante la possibilità di sfuggire presto di mano: “Con il procedere della guerra, entrambi i lati diventerebbero sempre più pronti ad accettare i rischi mentre cercano un modo per portare un conflitto sempre più costoso verso la fine”.

Il dottor Stranamore

Insomma: quale sia l’esito inevitabile del cambiamento della politica USA nei confronti di Taiwan per ostacolare l’ascesa cinese, gli statunitensi lo sanno benissimo e non si sforzano manco tanto per nasconderlo, a partire dai più guerrafondai tra i think tank; se la palla fosse in mano alle persone comuni la questione non si porrebbe nemmeno. Rimane da capire quanto le oligarchie siano disposte a catapultarci nell’armageddon pur di non vedere per la prima volta il loro conto in banca diminuire un pochino invece che continuare a crescere – come ha fatto invariabilmente negli ultimi 30 anni sulle spalle di tutti noi. Contro la normalizzazione del ricorso all’arma fine del mondo che la propaganda ci sta piano piano tentando di suggerire, sarebbe il caso di risvegliare non dico tanto un qualche senso di giustizia – che magari siamo fuori tempo massimo – ma, almeno, di sopravvivenza sì: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di raccontare senza peli sulla lingua alla gente comune di che morte hanno deciso che sono destinati a morire se non interveniamo prima di subito. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il dottor Stranamore

OttolinaTV

27 Febbraio 2024

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