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Tag: rivoluzione

Dal Bangladesh al Venezuela: gli USA nel panico tornano a puntare tutto sulle Rivoluzioni Colorate

“Farò in modo che l’America disponga sempre della forza militare più forte e letale del mondo”: nel comizio conclusivo della kermesse di Chicago, Kabala Harris non ha usato mezzi termini e, a vedere dalle reazioni, direi che ha fatto bene; da Senza Speranza a Faccia da schiaffi Provenzano, passando per la Ocasio Cortez e Bernie Sanders, come immancabilmente accade ormai da decenni, all’establishment democratico basta sventolare lo spauracchio del ritorno del fascismo immaginario per costruire un blocco compatto a sostegno del fascismo vero della guerra imperialista senza se e senza ma. Purtroppo per la Harris però – al netto dei trionfi passeggeri delle campagne di public relation all’interno della sinistra ZTL – non saranno i sorrisi a 36 denti di Speranza e Provenzano a determinare l’andamento concreto della guerra sul campo; ed ecco così che dall’Ucraina al Pacifico, passando per il Medio Oriente, i 3 fronti della guerra totale dell’imperialismo a guida USA contro il resto del mondo, ultimamente per analfoliberali e finto-sovranisti sono piuttosto avari di buone notizie: la fantomatica offensiva ucraina nell’oblast russo di Kursk, che aveva riacceso i sogni di mezza estate della propaganda di regime, si sta rivelando sempre più chiaramente una mossa disperata e controproducente che spiana la strada all’avanzata del Cremlino nel Donbass.

Kamala Harris

Ultima possibilità di fuga: gli ucraini fuggono da Pokrovsk mentre i russi avanzano titolava a 6 colonne venerdì scorso un rassegnato Washington Post; “Mentre i soldati ucraini lottano per respingere ondate di combattenti russi” recitava il sottotitolo “i civili fuggono da Pokrovsk, una città un tempo ritenuta lontana dalla linea del fronte”. Sul Pacifico, il conflitto – che per ora si combatte prevalentemente a suon di guerra economica e commerciale – non sembra dare frutti migliori: da quando i bretella Rampini di tutto il mondo davano sfoggio del loro analfabetismo economico e scambiavano dati trimestrali tendenziali per dati aggregati annuali (e ne traevano l’idea un po’ eccentrica che “gli USA crescono il doppio della Cina”) sono passati solo pochi mesi, eppure sembra un’era geologica fa; nonostante i 1000 miliardi di debito pubblico in più ogni due mesi, il rallentamento dell’economia USA è talmente evidente che venerdì scorso ha costretto il presidente della Fed Jerome Powell ad annunciare (finalmente) dal summit annuale di Jackson Hole la fine della strategia della corsa al rialzo dei tassi d’interesse che, negli ultimi due anni, ha permesso di fare man bassa di capitali da tutto il mondo e gonfiare a dismisura la bolla finanziaria USA, una sorta di regalo di benvenuto alla candidata ufficiale di BlackRock & co Kamala Harris. I mercati, ovviamente, hanno reagito con una bella botta di entusiasmo, perché quando hai tutta questa liquidità in mano – e di investirla in qualcosa di produttivo non ti passa manco per la testa – ogni scusa è buona per ritornare al tavolo del Casino, ma dire che la coperta è corta è un eufemismo: la prova provata è arrivata poche settimane fa, quando la borsa di Tokyo ha registrato il crollo più imponente degli ultimi 37 anni; per innescarlo è bastato l’annuncio di un rialzo dei tassi della Banca Centrale giapponese di una manciata di punti base. Un’inezia, che però evidentemente è bastata a scatenare il panico in tutti gli speculatori che, negli ultimi anni, hanno guadagnato una montagna di quattrini prendendo in prestito gratis yen in Giappone per poi convertirli in dollari e investirli nella bolla speculativa a stelle e strisce contribuendo a gonfiarla a dismisura, mentre dall’altra parte del Pacifico si continuavano a investire soldi veri in macchine e tecnologie vere.
E i risultati si vedono, anche dagli uffici di quell’ente propagandistico che è il Wall Street Journal; dopo aver sostenuto senza successo per mesi le tesi strampalate alla Rampini sulla crisi immaginaria della Cina, l’organo ufficiale delle oligarchie imperialiste giovedì scorso ha deciso finalmente di ribaltare completamente la narrazione e ha pubblicato un lunghissimo articolo dal titolo allarmante: Perché la Cina sta iniziando una guerra commerciale”. Peccato che la guerra commerciale, com’è noto, l’abbiano iniziata gli USA esplicitamente, perlomeno dai tempi di Trump; il punto, molto banalmente, è che essendo guidati da oligarchie che fanno quattrini speculando sui mercati finanziari, quella guerra commerciale gli USA (ad oggi) sembrano proprio averla persa, ma di brutto brutto brutto. Dopo due anni e mezzo di fuffa su decoupling, derisking e friendshoring, il grafico pubblicato sulle esportazioni cinesi pubblicato dal Journal è impietoso: dopo un primo anno di rallentamento, i prodotti cinesi hanno letteralmente preso il volo e ora l’export registra un impressionante +10% su base annua, un progresso che – come risponde il Global Times perculando i deliri del Journal – “non è esattamente casuale”. “Dal 2000” ricorda l’articolo “gli investimenti cinesi in ricerca e sviluppo sono cresciuti a un tasso medio annuo del 14,2%, quattro volte quello degli Stati Uniti”. Come si sono azzardati i cinesi a lavorare, a incentivare la competizione, ad abbattere i costi e a limitare i profitti invece di permettere a una manciata di oligarchi di arricchirsi a dismisura senza fare una beata minchia di niente come si conviene in tutti i paesi sviluppati e civilizzati? “In Cina tutti producono qualcosa” riporta scandalizzato l’articolo, “ma nessuno fa i soldi” e cioè profitti. Anzi, extra-profitti. Anzi, extra-rendite. Che scandalo, contessa! Quindi, riassumendo, sul fronte ucraino a prendere sberle è l’invincibile macchina bellica USA e su quello del Pacifico è la sua irraggiungibile macchina economica; gli rimane la più grande macchina propagandistica della storia dell’umanità. Peccato però si sia impantanata sul terzo fronte, in Medio Oriente, dove il sostegno incondizionato al primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità rischia di non essere esattamente la campagna di comunicazione più efficace possibile immaginabile, tanto che – per la prima volta in 80 lunghi anni di apartheid e tentativo sistematico di pulizia etnica – anche negli USA ormai sembra sia diventato strutturale un movimento pro Palestina, che senza che la sinistra ZTL italiana (che è accorsa entusiasta per assistere al passaggio di consegne da Genocide Joe a Kabala Harris) se ne accorgesse, ha assediato la convention democratica con una serie infinita di manifestazioni all’insegna dello slogan Abandon Harris, abbandonare Harris: “Intendiamoci chiaro” recita il comunicato ufficiale della campagna; “fare appello alla coscienza dei democratici è una perdita di tempo. Non ne hanno. Sono privi di qualsiasi bussola morale. C’è una sola strada da percorrere: abbandonare il partito del genocidio e della pulizia etnica. Il nostro impegno è garantire che Kamala Harris perda le elezioni del 2024”.
Insomma: da quello che è emerso concretamente dai 3 fronti, in particolare nelle ultime settimane e negli ultimi mesi di distrazione estiva, la promessa della Harris di “fare in modo che l’America disponga sempre della forza militare più forte e letale del mondo”, ancora prima che un aberrante slogan suprematista e guerrafondaio, appare sempre di più come puro e semplice wishful thinking per babbioni. Ed ecco così che anche la propaganda comincia a riflettere sulle possibili exit strategies: “La crescente alleanza tra autocrazie guidate da Cina e Russia” scrive sempre sul Wall Street Journal il celebre inviato, nonché finalista del premio Pulitzer 2023 per la sua infaticabile propaganda pro-ucraina, Yaroslav Trofimov “imporrà scelte strategiche alle democrazie occidentali, indipendentemente da chi vincerà le elezioni presidenziali statunitensi”; “Gli Stati Uniti e i suoi alleati” si chiede Trofimov – abbandonando la retorica dell’invincibilità del mondo libero che ha caratterizzato l’intero suo lavoro fino ad oggi – “possono scoraggiare tutti questi rivali, tra cui Iran e Corea del Nord, allo stesso tempo, dato il decadimento della base militare-industriale dell’Occidente e la riluttanza degli elettori a spendere molto di più per la difesa? E se non lo fanno” insiste Trofimov “si dovrebbe e si potrebbe cercare un accordo con una delle grandi potenze rivali? E se sì, quale? E a quale costo?”. A supporto della sua nuova tesi, Trofimov tira in ballo anche il Generale in pensione – nonché ex vice capo dello staff delle forze armate USA – Jack Keane, che sottolinea come “già adesso che siamo coinvolti in due sole guerre, facciamo fatica a fornire munizioni ed equipaggiamenti sufficienti ai nostri alleati. Nel caso venissimo coinvolti in una guerra globale, confrontarci con i nostri avversari e le loro capacità sarebbe una sfida titanica”. L’unica possibilità che l’imperialismo a guida USA ha di uscire vincitore da questa guerra esistenziale contro la transizione a un nuovo ordine multipolare, allora, è tornare a lavorare sottotraccia per ridisegnare il sistema di alleanze o, comunque, di relazioni internazionali che gli ultimi anni di suprematismo unilaterale hanno contribuito a consolidare; il primo obiettivo lo suggerisce Trofimov stesso: “Mentre Cina, Russia, Iran e Corea del Nord stanno tutti collaborando sempre di più negli affari diplomatici, di intelligence e militari” scrive Trofimov “continuano comunque a nutrire sospetti reciproci”. In particolare, continua Trofimov, “Sebbene sia naturale per Russia, Iran, Corea del Nord e Cina comunicare perché tutti sentono la pressione di Washington, Pechino cerca una relazione più costruttiva con gli Stati Uniti”; inoltre, insiste Trofimov, bisogna considerare il fatto che “il tempo non gioca più necessariamente a favore della Cina, poiché la sua popolazione invecchia, la crescita economica rallenta e gli Stati Uniti mantengono o ampliano il primato nelle tecnologie di difesa chiave, come l’uso militare dell’intelligenza artificiale” e quindi, conclude Trofimov, “Invece di affrontare apertamente Pechino, ora, come diceva Deng Xiaoping negli anni ‘80, potrebbe essere arrivato il nostro momento di nascondere la nostra forza e aspettare il momento giusto”.
Trofimov, evidentemente, ci capisce di economia e di tecnologia come io di arte contemporanea o di nuoto sincronizzato, ma l’idea di prendere tempo per provare a cambiare i rapporti di forza lavorando sottotraccia potrebbe non essere del tutto peregrina, solo che invece che cambiare i rapporti di forza militari – visto che, appunto, la base produttiva industriale per farlo non c’è – o cambiare quelli più generalmente economici – visto che il primato USA nell’ambito dell’economia reale non è ormai più recuperabile – la strada maestra potrebbe essere tornare a investire tutte le energie nella vera specialità USA e, cioè, l’arte dei colpi di Stato ricorrendo a tutto l’armamentario perfezionato in 80 anni di egemonia globale: dalla strategia del terrore, ai golpe giudiziari, alle rivoluzioni colorate. Ed ecco così come si spiega questa grande e improvvisa sete di libertà e di democrazia che ha attraversato mezzo mondo nelle scorse settimane: dal Venezuela al Bangladesh, le ultime settimane sono state caratterizzate da una lunga serie di proteste di varia natura che, con esiti alterni, hanno travolto svariati Paesi alla disperata ricerca di una loro strada verso l’indipendenza e la sovranità. Il copione è sempre lo stesso: le diseguaglianze strutturali che derivano, in buona parte, dall’imperialismo alimentano mille forme di legittimo scontento popolare che poi, però, viene strumentalizzato (quando non proprio eterodiretto) per rafforzare ancora di più lo stesso dominio imperialista che l’ha causato. In un paese che ha deciso deliberatamente di autodistruggersi la propria capacità produttiva per permettere alle sue oligarchie di vincere la lotta di classe e riempirsi a dismisura le tasche di quattrini, l’arte sopraffina del terrorismo di Stato è diventata nel tempo la più efficace delle armi per garantirne il dominio e la sottomissione di tutti gli altri, un’arte che può fare affidamento – oltre che sulla connivenza incondizionata degli organismi internazionale creati a immagine e somiglianza degli interessi del centro imperiale – anche sul primato della propaganda imperialista garantito dalla proprietà dei mezzi di produzione del consenso e, ovviamente, sulla complicità degli attivisti della sinistra ZTL di ogni angolo del pianeta, sempre pronti a bersi ogni vaccata di regime, basta sia confezionata decentemente e piena zeppa di fuffa dirittumanista e politically correct. Che è esattamente quello che è successo, ad esempio, in Bangladesh, dove alla scontrosa e autoritaria Sheikh Hasina è subentrato Muhammed Yunus, una vera e propria icona della peggiore sinistra imperiale liberale degli ultimi decenni; la buona notizia è che se a decretare l’andamento dei conflitti convenzionali sono i rapporti di forza sul campo, e l’andamento della guerra economica dipende da molti fattori che sono fuori dal nostro controllo (e quindi, stringi stringi, non possiamo che limitarci a osservare e cercare di capirci qualcosa), l’esito delle sommosse popolari – e la facilità o meno con le quali vengono manipolate – dipende in buona parte proprio dalle masse popolari stesse. E quindi anche dall’informazione o – meglio – dalla controinformazione; ed ecco perché abbiamo deciso di dedicare il ritorno dei pipponi di Ottolina a una lunga e dettagliata analisi di un caso da manuale di Rivoluzione Colorata come quella avvenuta in queste settimane in Bangladesh. Prima di addentrarci nei dettagli però, dopo questa lunga premessa vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a tornare a combattere in grande stile la nostra battaglia contro la dittatura degli algoritmi e del pensiero unico e, per chi ancora non l’ha fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e attivare tutte le notifiche: a voi costa solo pochi secondi, ma per noi – e per la libertà di informazione in generale – fa davvero la differenza, soprattutto dopo il colpo che la censura imperialista ha affondato ieri sulla libera circolazione delle idee con il vergognoso arresto del fondatore di Telegram Pavel Durov. Teniamo duro.

Prima di addentrarci nella ricostruzione del golpe che ha travolto il Bangladesh ormai 3 settimane fa, una piccola nota di metodo: le rivoluzioni colorate raramente – per non dire mai – avvengono per caso; non è che c’è un paese paradisiaco, con bassissimo livello di conflittualità, con un’economia che crea ricchezza e un assetto istituzionale che ne garantisce una redistribuzione decentemente equa e poi arrivano dei supervillain a stelle e strisce e riescono a metterlo a ferro e fuoco nell’arco di qualche giorno grazie ai loro superpoteri. Una cosa che dovremmo aver imparato dalle infinite scoppole che l’imperialismo ha raccattato negli ultimi anni è che di supereroi con i superpoteri a disposizione di Washington ce ne sono pochini; d’altro canto, pensare che esista nel mondo un paese con una qualche rilevanza economica e/o geopolitica dove avviene un qualche stravolgimento politico di rilievo e che gli USA non abbiano l’intenzione (e anche i mezzi) per andare a rimestare nel torbido è forse ancora più surreale. Le rivoluzioni colorate affondano le radici in grandi proteste di massa, spesso più che fondate, che poi le varie parti in causa cercano di egemonizzare per ottenere l’esito a loro più favorevole e, tra queste parti in causa, ci sono sempre sia forze autenticamente popolari che poteri forti, a partire ovviamente da quelli collegati in varie forme alle mille diramazioni di quella che fino ad oggi, per decenni, è stata l’unica vera grande superpotenza globale. Il Bangladesh, ovviamente, non fa eccezione – e con questa spero di evitarmi quella gigantesca rottura di coglioni che sono gli immancabili commenti su quanto era cattiva e autoritaria Sheikh Hasina e su quanto sia drammatica la condizione delle masse popolari del Bangladesh; in questo video parliamo di altro e cioè di come gli USA, che stanno clamorosamente perdendo sia la guerra convenzionale che quella economica, cercano di approfittare di conflitti generati in buona parte proprio dal loro sistema di dominio per ostacolare la lotta per l’indipendenza di alcuni paesi e rallentare così il loro ineluttabile declino.
Le tensioni in Bangladesh non sono certo una novità, a partire dalla sua travagliata nascita quando, nel 1972, ottenne l’indipendenza dal Pakistan occidentale dopo che (col sostegno dell’amministrazione Nixon) il governo di Islamabad aveva compiuto una carneficina che ha causato oltre 2 milioni di vittime; dopo l’indipendenza, elezioni democratiche decretarono l’ascesa al potere del principale leader della lotta di liberazione, Sheikh Mujibur Rahman, padre di Sheikh Hasina e fondatore del suo partito, la Lega Popolare Bengalese, e la scintilla che è tornata a incendiare il Bangladesh nelle ultime settimane ha proprio a che fare con l’eredità della lotta di liberazione. In Bangladesh, infatti, sin dall’indipendenza esiste una legge che prevede che il 30% dei posti di lavoro pubblici siano riservati agli eredi di chi ha partecipato direttamente alla guerra di liberazione; già nel 2018, mentre al governo c’era sempre Sheikh Hasina – che prima del golpe era al governo ininterrottamente da 15 anni – c’erano state manifestazioni oceaniche che avevano spinto il governo a ridurre sensibilmente il meccanismo delle quote. Nel giugno scorso, però, una decisione della Corte Suprema del Bangladesh aveva annullato proprio quella riforma e aveva reintrodotto il sistema delle quote originale e da lì sono ripartite le prime proteste. Ma gli scontri attuali affondano le radici nella lotta d’indipendenza anche da un altro punto di vista, perché il primo governo democraticamente eletto del Bangladesh indipendente non finì esattamente nel migliore dei modi possibili, ma con un bel golpe militare architettato, dopo appena 3 anni, dalle fazioni delle forze armate rimaste più legate al Pakistan (e quindi anche agli USA) e che hanno dato vita al principale partito di opposizione, che ancora oggi guida le piazze, flirtando con l’Islam radicale; si chiama Partito Nazionalista del Bangladesh e alle ultime elezioni, visto che non aveva nessunissima possibilità di vincere, ha scelto la via più semplice: non si è presentato e poi si è lamentato perché la coalizione che sosteneva Sheikh Hasina ha fatto il pieno di voti.
Nonostante le accuse di comportamenti antidemocratici nei confronti della Hasina non siano completamente campate in aria, il punto è che il Bangladesh, nonostante tutte le innumerevoli contraddizioni, negli ultimi anni ha potuto vantare “l’economia in più rapida crescita nell’Indo-Pacifico, che” come ricordava Foreign Policy alla vigilia delle ultime elezioni “gli ha permesso di superare in termini di prodotto interno lordo pro capite sia l’India che il Pakistan”; pensare che questo sia anche solo lontanamente sufficiente a garantire una vita dignitosa alle oltre 170 milioni di persone stipate in questo paese privo di risorse e grande meno della metà dell’Italia sarebbe pura follia, ma per un paese che Kissinger amava definire un caso disperato, è comunque un risultato incoraggiante che Sheikh Hasina è riuscita a ottenere anche grazie a una vecchia formuletta magica che funziona sempre: un bel pizzico di indipendenza nazionale. In questi 15 anni il Bangladesh infatti, senza indugiare mai troppo in (spesso) inutile e controproducente retorica anti-occidentale, ha rafforzato i suoi legami con la Cina e con il Sud globale attirando investimenti (in particolare cinesi), aderendo alla New Development Bank e facendo richiesta di ingresso formale nei BRICS, una linea che a Washington non sembra abbiano apprezzato poi tantissimo, tanto che dal 2021 sono cominciate ad arrivare le prime sanzioni e, a quanto pare, le prime intimidazioni: è quanto ha affermato nel giugno del 2023, durante una celebre conferenza stampa, la stessa Hasina; nei mesi precedenti gli USA avevano ufficialmente invitato il governo del Bangladesh a rafforzare i rapporti militari bilaterali prima proponendo l’adesione a un protocollo per lo scambio di informazioni tra forze armate (sulla falsariga di quello che lega Giappone e Corea del Sud), e poi attraverso la sigla di un accordo di servizio incrociato e, cioè, l’accordo bilaterale che gli Stati Uniti hanno solitamente con gli alleati NATO e che consente alle forze statunitensi di scambiare liberamente (senza passare dal Congresso) alcune tipologie di munizioni e di attrezzature belliche. In entrambi i casi il Bangladesh aveva cortesemente declinato; quello che però fino ad allora era rimasto segreto è che, stando alle affermazioni della Hasina, gli USA avessero chiesto che gli venisse concessa la minuscola isola di Saint Martin per installarci l’ennesima base. Come scrive la testata indiana The Print, “Nonostante le sue dimensioni minuscole, l’isola di Saint Martin permette di avere una presenza strategica in funzione del controllo dello stretto di Malacca, da dove passa il 90% del petrolio destinato alla Cina”, ma non solo: l’isola, infatti, sarebbe anche in posizione strategica rispetto a Cox Bazar, che oltre ad essere la destinazione turistica più popolare del paese, ospita un porto per sottomarini costruito dai cinesi e inaugurato poco tempo fa e che, a quanto pare, preoccupa non poco Washington. “I legami della Cina con la base” si legge in un rapporto del Center for Strategic and International Studies di Washington intitolato La diplomazia dei sottomarini “potrebbero andare ben oltre la sua costruzione”: “Un alto funzionario del Bangladesh” continua il rapporto “ha riconosciuto che personale cinese sarebbe coinvolto nell’addestramento per l’utilizzo dei sottomarini da parte della marina bengalese”; “Inoltre” insiste ancora il rapporto “nel suo intervento all’inaugurazione della base, il Primo Ministro Hasina ha osservato che la struttura potrebbe essere utilizzata come punto di servizio per le navi che navigano nel Golfo del Bengala, un potenziale segnale che la marina dell’esercito di liberazione nazionale potrebbe un giorno fare scalo in quel porto”. “L’isola quindi” conclude The Print “sarebbe strategica per varie attività di sorveglianza, e non solo per le attività cinesi e del Myanmar, ma anche indiane”. Durante la conferenza stampa del 2023, la Hasina ha affermato esplicitamente che se avesse “concesso l’isola di Saint Martin, le sarebbe stato garantito che avrebbe potuto continuare a governare senza problemi”; l’11 agosto scorso, 6 giorni dopo che la Hasina è fuggita in fretta e furia dal golpe in Bangladesh per riparare in India, la testata indiana Economic Times ha pubblicato un articolo (che ha fatto il giro del mondo) dove dichiarava di essere entrata in possesso di una dichiarazione della premier bengalese attraverso uomini del suo entourage, dove la Hasina avrebbe affermato che “Avrei potuto rimanere al potere se avessi ceduto la sovranità dell’isola di Saint Martin e avessi permesso all’America di dominare il Golfo del Bengala”. Intorno a questo articolo si è sviluppato un vero e proprio giallo dal momento che uno dei figli della Hasina, che ha ricoperto importanti ruoli di governo al suo fianco, ha categoricamente escluso l’ipotesi che si tratti di un messaggio autentico; quello che sicuramente sappiamo è che già nel dicembre scorso, prima della sua rielezione, il ministro degli esteri russo Maria Zakharova durante una conferenza stampa aveva affermato che nel caso Sheikh Hasina fosse nuovamente salita al potere, l’America avrebbe utilizzato “tutti i suoi poteri per rovesciare il suo governo”: “Se i risultati della volontà popolare non saranno soddisfacenti per gli Stati Uniti, sono probabili tentativi di destabilizzare ulteriormente la situazione in Bangladesh sulla falsariga delle ‘Primavere arabe” ha aggiunto. “Al momento” scrive Asia Times “l’interesse primario degli Stati Uniti nel paese è quello di creare un porto di servizio per navi militari statunitensi di medie dimensioni che potrebbe aiutare l’America a gestire i rischi delle operazioni navali causati dall’accesso della Cina ai porti del vicino Myanmar e offrire servizi logistici alle potenze amiche nella regione senza bisogno di alcuna approvazione o partecipazione da parte dell’India”; l’altra cosa che sappiamo senz’altro è che il 17 maggio scorso si è recato a Dhakka il vicesegretario di Stato USA per l’Asia meridionale e centrale Donald Lu che, come riporta l’ex diplomatico indiano MK Bhadrakumar su Consortium News, avrebbe “incontrato alti funzionari governativi e leader della società civile”. Pochi giorni dopo la sua visita, Sheikh Hasina avrebbe convocato i leader delle forze politiche della sua coalizione di governo, rivelando che “un paese di persone bianche mi ha proposto di stabilire una base militare nel Golfo del Bengala”; “Non voglio arrivare al potere affittando parti del paese o cedendolo a qualcun altro” avrebbe affermato Hasina: “Non ho bisogno del potere. Se la gente mi vorrà al potere, ci sarò; altrimenti non lo farò”.
Come ricorda Jeffrey Sachs su Consortium News, Donald Lu è sospettato di aver ricoperto un ruolo di primo piano anche nel golpe bianco che ha messo fine al governo sovranista e populista di Imran Khan in Pakistan: “Nel caso del Pakistan” scrive Sachs “Donald Lu ha incontrato Asad Majeed Khan, ambasciatore del Pakistan negli Stati Uniti, il 7 marzo 2022”; subito dopo l’ambasciatore ha comunicato con Islamabad “trasmettendo l’avvertimento di Lu secondo cui il Primo Ministro Khan aveva minacciato le relazioni USA – Pakistan a causa della posizione aggressivamente neutrale di Khan nei confronti di Russia e Ucraina”. “Penso che se il voto di sfiducia contro il Primo Ministro avrà successo” scriveva nella nota l’ambasciatore “tutto sarà perdonato a Washington. Altrimenti penso che sarà dura andare avanti”; “Il giorno successivo” ricorda Sachs “i membri del Parlamento hanno adottato misure procedurali per estromettere il primo ministro Khan”. E il Pakistan sarebbe solo uno dei tanti casi: come ricorda sempre Bhadrakhumar “Lu ha svolto un ruolo proattivo simile durante il suo passato incarico in Kirghizistan dal 2003 al 2006, che è culminato in un’altra tentata rivoluzione colorata. Come d’altronde è avvenuto anche in Georgia e Azerbaijan”.

Muhammed Yunus

E così veniamo ai giorni nostri: nonostante – come abbiamo già sottolineato – tra chi è sceso in piazza sono numerose le organizzazioni studentesche genuinamente democratiche e popolari, una parte rilevante è invece legata a fazioni dell’esercito legate al Pakistan e all’Occidente, al principale partito d’opposizione di matrice ultraconservatrice e alle organizzazioni studentesche riconducibili all’islam radicale che, come da tradizione (e come in parte è anche inevitabile) sono ricorse con spregiudicatezza alle maniere forti, tanto da far parlare di una sorta di pulizia etnica nei confronti della minoranza Hindu; ora, come faccio a raccogliere il consenso delle anime belle della sinistra progressista globale nei confronti di un colpo di Stato violento, in buona parte eterodiretto da questa miscela rivoltante di agenti stranieri e islamisti inferociti? Fortunatamente c’era proprio l’uomo giusto al momento giusto: si chiama Muhammed Yunus; nel 2006 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura, come Obama, e come Obama da allora è diventato una vera e propria icona globale della sinistra ZTL. Il suo merito è stato quello di introdurre il concetto di microcredito e, cioè, l’idea che se eri così povero da non poterti indebitare, la soluzione migliore era trovare il modo di farti diventare, oltre che povero, anche indebitato (ovviamente, con tassi spropositati tra il 15 e il 20%); d’altronde, se sei povero, ovviamente c’è il rischio che ti ammazzi prima di ripagare il debito: su queste basi Yunus ha fondato la sua Grameen Bank che, da allora, ha elargito oltre 5 miliardi di dollari di prestiti a oltre 5 milioni di richiedenti e lo ha reso piuttosto ricco e potente e soprattutto, appunto, oggetto di culto da parte di un pezzo di mondo più o meno progressista. Fino al delirio, come quello di Emilio Carelli, l’ex deputato 5 stelle in quota Di Maio che dal maggio scorso dirige l’Espresso e che già nel giugno scorso si era fatto in quattro per preparare la discesa in campo del suo guru con una lunga intervista a Yunus sul suo giornale: “Con il microcredito” è la presentazione di Carelli “ha salvato un miliardo di persone dalla miseria”. Scrive proprio così, un miliardo di persone, e non è un refuso (o meglio, se lo è, è al ribasso); l’intervista infatti inizia così: “Lei ha inventato il microcredito. Oggi miliardi di persone riescono a sopravvivere solo grazie a questo sistema nato fuori dal sistema bancario tradizionale”. Quindi non un miliardo. Miliardi, svariati miliardi. Ma che dico miliardi: fantastiliardi! E questo non è un semplice giornalista, eh? E’ il direttore, il direttore di quello che è stato per 40 anni il più importante settimanale italiano. Ovviamente, si è leggermente sbagliato e non solo perché – ovviamente – non ci sono “miliardi di persone che oggi vivono esclusivamente grazie a questo sistema”, ma perché – com’era ampiamente prevedibile – questo sistema è di per se un grandissimo pacco, pura fuffa neoliberale che ha fatto più danni della grandine.
Le pubblicazioni scientifiche che decretano il fallimento totale del microcredito ormai non si contano più, da oltre 10 anni; questa è una delle più complete: risale ormai al 2014 e le conclusioni dell’autore non lasciano adito a dubbi. “Yunus” scrive Bateman “ha promesso al mondo – e soprattutto ai poveri – che il microcredito avrebbe inaugurato un’era di riduzione della povertà e di sviluppo sostenibile dal basso verso l’alto. Purtroppo, aveva torto. Yunus ha frainteso totalmente i fattori che danno il via a sviluppo economico e sociale, e così abbiamo finito per dare vita a un processo che alla fine ha portato alla creazione di una trappola della povertà di proporzioni storiche”. Due anni fa, a rinverdirci la memoria ci pensava una lunga inchiesta di Bloomberg: “Grandi somme di denaro” era il titolo “sostengono piccoli prestiti che portano al debito, alla disperazione e persino al suicidio”; “Oggi” si legge nell’articolo “miliardi di dollari si riversano in un sistema che promette ai poveri del mondo una vita migliore, ma in realtà non fa che aggravare la loro miseria”. Altro che miliardi di persone che oggi vivono esclusivamente grazie a questo sistema: fossi presidente dell’ordine dei giornalisti farei una multa a Carelli a 6 zeri e la userei per ripagarci un po’ di questi debiti. L’ascesa di Yunus è stata fortemente sponsorizzata dai democratici USA: furono i Clinton a proporlo per la prima volta per il Nobel per la pace dopo aver visitato insieme a lui un villaggio in Bangladesh dove aveva aperto una delle prime filiali della Grameen Bank; da allora Yunus ha costantemente cercato di utilizzare il suo legame con l’establishment dell’impero per portare avanti i suoi interessi e per destabilizzare il governo della Hasina. Secondo questo cablogramma diffuso da Wikileaks e risalente al maggio del 2009, Yunus avrebbe richiesto espressamente all’ambasciatore USA a Dhakka di fare pressioni sulla Hasina per ottenere un cambio di legge che avrebbe beneficiato la sua banca e il suo ruolo al suo interno: “Yunus e i suoi sostenitori, a partire dagli Stati Uniti” conclude la comunicazione l’ambasciata “devono convincere il Primo Ministro che una Grameen Bank indipendente è nel suo stesso interesse. Lavoreremo con Yunus per sollevare questi punti con il Primo Ministro e i suoi consiglieri. E faremo anche notare le conseguenze potenzialmente negative di qualsiasi tentativo di marginalizzare una figura internazionalmente rispettata come quella di Yunus”. Insomma: un vero e proprio protégé dell’impero, che infatti è immediatamente accorso a benedire il suo governo ad interim; manco il tempo di essere nominato, ed ecco subito Anthony Blinken dal suo profilo Twitter che gli fa gli auguri di benvenuto e garantisce il suo supporto “per il suo richiamo alla calma e alla pace”, un richiamo che però sembra essere caduto abbastanza nel vuoto. Dal giorno dell’ufficializzazione del suo incarico, la caccia all’uomo in Bangladesh contro la minoranza Hindu e contro i militanti della Lega Popolare è diventato lo sport nazionale più praticato: decine di militanti sono stati linciati dalla folla o massacrati dalle forze di polizia senza che le informazioni circolino nel paese; Yunus, infatti, nel frattempo ha provveduto alla chiusura degli ultimi due canali televisivi vicini alla Hasina rimasti e giovedì scorso a Dhakka è stato arrestato il presidente del Partito dei Lavoratori del Bangladesh, l’81 enne storico leader della sinistra bengalese Rashed Khan Menon. Nonostante facesse parte della coalizione di 14 partiti che avevano sostenuto la presidenza Hasina, Menon e il Partito dei Lavoratori inizialmente erano scesi in piazza a protestare contro il ripristino della legge delle quote.
Insomma: quale fazione e quali interessi stiano prevalendo in questa rivoluzione colorata pare purtroppo piuttosto evidente; come conclude amaramente lo stesso Vijay Prashad “La primavera del Bangladesh sembra avviarsi rapidamente verso l’inverno”. Senza organizzazioni politiche strutturate e senza la capacità di leggere scientificamente cosa muove i diversi attori, anche le proteste che nascono da aspirazioni più che legittime sono spesso destinate ad essere strumentalizzate e manipolate e rischiano di ottenere l’esatto contrario di quello che si erano prefissate; per questo serve organizzarsi e studiare e, per farlo, serve prima di ogni altra cosa un vero e proprio media che, invece che alla fuffa della propaganda imperiale, dia voce ai bisogni concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Luigi di Maio

La filosofia contro il pensiero unico – con Matteo Saudino (BarbaSophia)

La filosofia nasce come pratica rivoluzionaria ed è la disciplina che, più di tutte, oggi potrebbe aumentare la consapevolezza degli individui sul conformismo e sull’alienazione contemporanea e risvegliare in loro un po’ di spirito critico e di volontà di trasformare il mondo. Proprio per questi motivi, da anni – sia a scuola che all’università – la filosofia viene insegnata quasi sempre in modo da disinnescare sua la carica potenzialmente rivoluzionaria; non si insegna, cioè, a fare filosofia nel senso in cui lo intendevano Platone, Hegel o Marx, ma come una materia specialistica tra le altre, come semplice storia della filosofia o prediligendo comunque autori in linea con l’ideologia e l’egemonia culturale dominante. Di tutto questo parleremo con Matteo Saudino, alias Barbasophia.

La famiglia e la donna sovietica: storia di un processo di liberazione – ft. Alessandra Ciattini

Torna la mitica Alessandra Ciattini per parlarci di storia e antropologia sovietica, assieme al nostro Gabriele, nella rubrica settimanale Antrop8lina. Rivoluzione socialista e libertà sessuale: alleati o nemici? Quali erano le posizioni di Lenin e altri eroi sovietici sul tema? Scopriamolo in questa chiacchierata. Buona visione

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

8POP: Bella fratellì – ft. SusettoErDuro & RealLollino

Oggi per il consueto appuntamento con i famosi del web, abbiamo con noi ad 8POP Susetto er Duro e The Real Lollino, i due giovanissimi militanti social che attraverso l’ironia parlano di socialismo, rivoluzione, diritti dei lavoratori, decostruzione e veganismo.
Buona visione!

Trump apre all’industria cinese, mentre Xi prepara la Rivoluzione Industriale: cosa sta accadendo?

video a cura di Davide Martinotti

“Se mi stai ascoltando, presidente Xi, tu ed io siamo amici”. Così ha detto Donald Trump parlando al cielo e rivolgendosi a Xi Jinping durante una manifestazione elettorale in Ohio di sabato scorso. Mentre in Cina si parla di rivoluzione industriale, Trump invita i cinesi a portare le loro industrie negli Stati Uniti. Ne parliamo in questo video!

“Sono Ottimista. L’Europa collasserà” – lo scoppiettante esordio di MICHAEL HUDSON su Ottolina Tv [INTEGRALE]

Cerca qualcuno che ti guardi come Il Marru guardava Michael Hudson durante l’ora e mezza abbondante di intervista. “Sei ottimista sul ruolo che potrebbero ricoprire l’Europa e l’Italia in questa costruzione di un nuovo ordine multipolare nel quale tutti speriamo?” gli abbiamo chiesto: “Certo,” ha risposto “sono molto ottimista…” “… perché l’Europa collasserà e dopo dovrà scegliere: Socialismo o Barbarie. E io sono ottimista che sceglierà il Socialismo e dimostrerà che quando Margaret Thatcher affermava che non esiste nessuna alternativa si sbagliava. L’alternativa esiste e si chiama SOCIALISMO”. La prima volta del più grande economista vivente doppiato in italiano per costruire non solo un MEDIA, ma una vera e propria RIVOLUZIONE CULTURALE dalla parte del 99%. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è MARGARET THATCHER ?‍♀️

CONTRO LE ELEZIONI – Come il sorteggio salverà la democrazia

Il 2024 sarà un anno esplosivo e a dirlo non sono gli astri o le bombe sganciate da Biden e vassalli un giorno sì e l’altro pure, ma i dati elettorali: più di cinquanta paesi, con oltre quattro miliardi di cittadini alle urne, segnano l’anno con maggiore partecipazione democratica di sempre. E se noi di Ottosofia rimaniamo sempre scettici sull’equazione elezioni = democrazia, non siamo tanto gonzi da sminuire la portata di questa gigantesca tornata elettorale: oltre agli USA e all’Unione Europea, infatti, saranno coinvolti diversi soggetti del Sud globale, inclusi ad esempio India, Pakistan, Sud Africa, Messico. Tutto l’entusiasmo per la partecipazione democratica nasconde, però, un paradosso: in Europa, che nella vulgata mainstream è da sempre decantata come la culla della Democrazia, l’affluenza al voto nazionale ed europeo è in calo, e da diverso tempo: l’Italia, per dire, alle elezioni politiche del 2022 ha toccato il record negativo di votanti – un italiano su tre non pervenuto; se poi guardiamo alle recenti elezioni europee, sfondare il tetto del 50% è già grasso che cola. Ecco quindi il paradosso: un sistema elettorale sempre più diffuso su scala mondiale cui corrisponde una crisi di partecipazione democratica; da questo nodo, apparentemente inspiegabile, parte la riflessione di David van Reybrouck, filosofo e drammaturgo olandese, nel suo eloquente saggio Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico.

David van Reybrouck

Come ricorda l’autore dati alla mano, infatti “La percentuale della popolazione mondiale favorevole al concetto di democrazia non è mai stata così elevata come ai giorni nostri.” (p. 7); nonostante questo, “nel mondo intero, il bisogno affermato di leader forti, che non necessitino di tenere conto di elezioni o di un Parlamento, è considerevolmente aumentato negli ultimi dieci anni e (…) la fiducia nei parlamenti, nei governi e nei partiti politici ha raggiunto un livello storicamente basso. È come se avessimo aderito all’idea della democrazia, ma non alla sua pratica, per lo meno non alla sua pratica attuale.” (p. 8). Abbiamo tutti sottomano una risposta semplice e facilona a questo fenomeno: è tutta colpa delle nuove generazioni e dei cittadini apatici che non si interessano di politica!. Peccato, ricorda Reybrouck, che le cose non stiano così: tutti i dati statistici, infatti, registrano un aumento di interesse per le tematiche politiche trasversale alle età e alle classi sociali; il problema, quindi, sta da un’altra parte e in particolare nella sfiducia dei cittadini verso i loro rappresentanti politici e nella frustrazione derivata dall’incapacità di incidere nelle politiche economiche e sociali; molti cittadini percepiscono la loro istanza come un flatus vocis destinato a perdersi nell’infinità di paletti, mediazioni e magnamagna che investono la politica su più livelli. “La politica è sempre stata l’arte del possibile, ma oggi è diventata l’arte del microscopico. Perché l’incapacità di affrontare i problemi strutturali s’accompagna a una sovraesposizione del triviale, incoraggiata da un sistema mediatico che, fedele alle logiche di mercato, preferisce ingigantire conflitti futili piuttosto che analizzare problemi reali, soprattutto in un periodo di calo delle quote di mercato dell’audiovisivo.” (p. 17); non è quindi il sistema democratico a essere un problema in sé, quanto l’idea che si realizzi esclusivamente tramite l’elezione di rappresentanti. La democrazia, potremmo dire, è bella ma non balla: è intelligente, ma non si applica; il populismo, la tecnocrazia e l’antiparlamentarismo non sono altro che tentativi politici di fornire risposta a questo enorme problema, tutti con l’obiettivo dichiarato di salvare la democrazia. Il populismo, ad esempio, punta a ridurre la distanza tra eletti ed elettori cercando di imporre comportamenti virtuosi ai politici vincolandoli alla volontà elettorale; la tecnocrazia, al contrario, sacrifica la volontà dell’elettorato puntando tutto sulla presunta efficienza di governi tecnici, di coalizione, multicolor: in entrambe queste risposte alla crisi democratica – nota Van Reybrouck – il problema non è mai la pratica elettorale, quanto i suoi risultati, siano essi politici corrotti o tecnocrati spietati. 
E se, invece, per gestire il problema della democrazia bella che non balla la soluzione fosse cambiare musica? Il nuovo spartito proposto da Van Reybrouck consiste nel dare ossigeno alla partecipazione democratica affiancando le istituzioni parlamentari presenti con una forma alternativa di decisione collettiva: la democrazia partecipativa aleatoria, un sistema decisionale composto da assemblee di cittadini estratti a sorte in grado di proporre leggi e soluzioni politiche ai problemi più attuali. A prima vista, rimaniamo perplessi: il sistema del sorteggio sembra quanto di più alieno alle democrazie parlamentari; come la mettiamo con la rappresentatività della maggioranza, Il controllo degli elettori sugli eletti, la competenza dei sorteggiati? Sembra assurdo pensare che una comunità politica possa mai accettare di farsi governare da qualcosa di imprevedibile come la pura sorte, eppure, allargando lo sguardo oltre i nostri confini geografici e temporali, scopriamo che in Occidente per diversi secoli il sorteggio non solo è stato utilizzato, ma ha pure rivestito un ruolo cruciale nelle decisioni politiche collettive. Nella culla della democrazia occidentale, l’Atene del quinto secolo a.C., la maggior parte dei membri delle istituzioni di governo erano scelti tramite sorteggio, col risultato che “dal 50 al 70 per cento dei cittadini di età superiore ai trent’anni” avevano ricoperto il ruolo di legislatori nel Consiglio dei Cinquecento: fu questa situazione di complesso equilibrio a stimolare la famosa riflessione di Aristotele, quando nella Politica afferma che “uno dei tratti distintivi della libertà è l’essere a turno governati e governanti”.

La Rivoluzione Francese

Tutto qui? Manco per scherzo, visto che sistemi di sorteggio spuntano come funghi per tutta l’Europa medievale e rinascimentale: nei comuni e in alcune repubbliche come Venezia, ad esempio, il sistema del sorteggio era ampiamente utilizzato per la nomina di cariche di altissimo livello; certo, il procedimento non era dei più semplici, ma garantiva notevole stabilità e, soprattutto, compensazione delle posizioni più o meno privilegiate dei candidati, tanto da essere oggetto ancora oggi di studi di ricerca informatica. Fino agli albori della Rivoluzione Francese, sorteggio è sinonimo di democrazia, laddove elezione lo è di aristocrazia; ciò che ribadisce, nel 1748, Montesquieu ne Lo Spirito delle Leggi era allora qualcosa di scontato: “La sorte è un modo di eleggere che non affligge nessuno [e] lascia a ciascun cittadino una ragionevole speranza di servire la patria” (Lo Spirito delle Leggi). . Poi, qualcosa nelle esperienze politiche impone una brusca sterzata alle procedure democratiche; con la Rivoluzione Francese e l’Indipendenza americana le élites politiche impongono sempre più la necessità di garantire un unico sistema: l’elezione dei rappresentanti e la netta separazione di questi ultimi dai rappresentati, cioè dal popolo.
A un paradosso, ne segue un altro: tendiamo a pensare che le rivoluzioni francese e americana siano state una svolta democratica fondamentale per l’Occidente; eppure, leggendo le dichiarazioni e gli scritti dei rivoluzionari, scopriamo uno scenario del tutto diverso. James Madison, John Adams e Thomas Jefferson, oltre allo status di padri della rivoluzione americana, condividono il disprezzo per la democrazia come sistema di governo: se Adams e Jefferson ripongono la propria fiducia in una sorta di aristocrazia naturale che guidi la maggioranza dei cittadini americani verso il bene comune, Madison specifica – con vagonate di ottimismo – che i rappresentanti politici eletti saranno per forza i migliori, poiché saranno “tutti i cittadini il cui merito gli avrà valso il rispetto e la fiducia del loro paese. […] Poiché emergeranno grazie alla preferenza dei loro concittadini, siamo in diritto di supporre che si distingueranno anche in genere per le loro qualità.” (James Madison, Federalist papers).

Samuele Nannoni

Dall’altra parte dell’Atlantico, nella Francia giacobina, la svolta politica per una partecipazione popolare senza precedenti andava a infilarsi sullo stesso binario morto; non è un caso, ricorda Van Reybrouck, che nei tre anni di dibattiti sull’estensione del diritto di voto dalla presa della Bastiglia, il termine democrazia sia del tutto assente e non è solo questione di terminologia, visto che da questi lavori parlamentari uscirà la Costituzione del 1791 che blinderà definitivamente l’elezione come unico sistema democratico possibile. L’esperienza plurisecolare della democrazia aleatoria interrotta bruscamente con la Rivoluzione Francese e americana, quindi, non può che condurci a un totale ribaltamento di prospettiva: “è da ormai quasi tremila anni che sperimentiamo la democrazia, e solo da duecento che lo facciamo esclusivamente per mezzo delle elezioni.” (Van Reibrouck, p. 44); certo, potremmo sempre obiettare che la situazione politica odierna non è la stessa del medioevo o dell’età antica e, quindi, che forse il sistema del sorteggio risulta antiquato rispetto alle libere elezioni. Ancora una volta, la risposta è negativa; a smontare definitivamente questo preconcetto è Samuele Nannoni, esperto di democrazia aleatoria, ricordando che a partire dagli anni Duemila la realtà deliberativa delle assemblee estratte a sorte è sempre più diffusa: dalla Francia all’Irlanda, dal Belgio alla Polonia fino al Regno Unito, spuntano iniziative politiche per dare voce ai cittadini sulla legiferazione nei temi più disparati, dalla bioetica alle politiche ambientali. Persino in Italia, dopo due secoli di letargo, si sta risvegliando l’interesse concreto per questa pratica, promossa tra gli altri da realtà associative come Prossima Democrazia allo scopo di cogliere quel rinnovamento necessario prospettato da David Van Reybrouck: “Bisognerà pure trarre una conclusione, anche se non fa piacere ammetterlo: oggigiorno le elezioni sono un meccanismo primitivo. Una democrazia che si limita a questo è condannata a morte. È come se riservassimo lo spazio aereo alle mongolfiere, senza tener conto della comparsa dei cavi ad alta tensione, degli aerei da turismo, delle nuove evoluzioni climatiche, delle trombe d’aria e delle stazioni spaziali.” (p. 64).
Ma come possiamo, concretamente, integrare la democrazia rappresentativa con quella aleatoria? Basterà il sorteggio per ripristinare un’autentica partecipazione democratica? E soprattutto, siamo davvero pronti a superare il meccanismo primitivo delle elezioni? Di questo e molto altro parleremo mercoledì 7 febbraio con la live di Ottosofia. Ospite d’onore Samuele Nannoni, vicepresidente di Prossima Democrazia.

Che cosa è l’ideologia Woke?

In questi mesi sentiamo sempre più spesso parlare di ideologia o cultura Woke. C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione, e c’è chi invece la considera una forma di progresso morale e spirituale dell’umanità. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della sinistra occidentale?In questo video ripercorreremo le sue origini, vedremo i suoi indirizzi politici di fondo e cercheremo di capire se oltre alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice ve ne sono anche altre, più sensate, che ne mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con il potere neoliberale.
Woke, e cioè – letteralmente – “sveglio”, almeno abbastanza per individuare e denunciare le ingiustizie sociali, a partire da quelle razziali: il termine Woke, infatti, entra ufficialmente nei dizionari dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento Black Lives Matter. Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme – spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che, secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche politiche della sinistra occidentale. L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura del linguaggio ritenuto scorretto: meriterebbero un video ciascuno, e ci ripromettiamo di farlo; qua invece ci limiteremo a provare a capire se sia rintracciabile un indirizzo di fondo comune e, soprattutto, le ragioni dell’uso in parte strumentale che di questa ideologia viene fatto oggi.
Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota come postmodernismo emersa negli anni ’70 nelle università francesi e poi diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana; un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste. Ed è infatti soprattutto a partire dagli anni ‘80, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento; dall’altro lato della barricata, ad avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata, si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta.

Vincenzo Costa

Ma al di là del generale Vannacci e compagnia bella, in questi anni anche tanti intellettuali di ben altro spessore hanno preso posizione contro alcune delle tesi antropologiche e politiche Woke più superficiali e antiscientifiche e contro l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti: nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio, anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova cultura; maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con ostilità e sospetto: come scrive la giornalista Florinda Ambrogio “La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.”
Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde; nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono “diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da abbattere; dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99 per cento, quindi, con l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni popolari, ritenute – senza appello – verminaio di sessismo, razzismo, omofobia. Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”: diventa quindi chiaro perché, dalla prospettiva degli ultimi, la nuova sinistra alla moda politicamente corretta appaia spesso come una tribù di sedicenti illuminati con il culo parato che, demonizzandone lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie idee e valori di nicchia; ma, come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire. È evidente come nelle rivendicazioni della classe operaia in Inghilterra, ad esempio, le classi popolari non chiedevano di essere rieducate da un’aristocrazia morale e intellettuale perlopiù estranea alle loro condizioni di vita, ma giustizia sociale e diritto alle proprie forme di legame; “Sceneggiatori, registi, attrici e attori” scrive il filosofo sloveno in un articolo chiamato Wokeness is here to stay “cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”. Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, questi nuovi intellettuali di sinistra non sembrano interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di uguaglianza di diritti” continua Costa in Le categorie della politica “rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli ultimi”.
Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il filosofo Andrea Zhok, nel suo libro La profana inquisizione e il regno dell’Anomia, commenta così questo curioso caso di ingegneria linguistica: “Contro ogni evidenza è stata gabellata l’idea che gli usi tradizionalmente al maschile di certe parole creino l’aspettativa che a rivestirle sia un maschio, operando perciò come ostacolo all’emancipazione femminile. L’evidenza linguistica primaria che il significato sia determinato dall’uso è stata rimossa. Si è preferito pensare che i rapporti sociali effettivi (da cui dipendono gli usi linguistici), possano essere mutati riformando le desinenze. […] che nessuno chiamando una “guardia giurata” si aspetti un’apparizione muliebre con rossetto e tacchi a spillo è ritenuto accidentale. Che nessuno si stupisca se la “maschera” a teatro sia un giovanotto nerboruto è ritenuto trascurabile. Che fino all’altro ieri quando si parlava di “valutazione degli studenti” tutti avessero in mente l’insieme del corpo studentesco, a prescindere da questioni di genere, è invece certamente segno della rimozione di un inconscio segno di superiorità maschile”. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di discriminazione ed emancipazione appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia.
Partiamo intanto dal presupposto che è ampiamente dimostrato come, nelle società capitaliste, il principale motore di diseguaglianza e discriminazione sociale sia il “capitale pregresso”, ossia la disponibilità economica familiare e individuale; questa disparità di capitale si ripercuote su tutti i livelli: sulla formazione, sul riconoscimento pubblico, sull’accesso a posizioni di potere politico ecc. ecc. Anche tutte le differenze di genere, etnia, colore, ecc. diventano praticamente impalpabili e irrilevanti per chi possiede significative disponibilità economiche e, più in generale, più in alto si sale nella scala sociale; questo dato conclamato viene però sistematicamente rimosso dal tavolo facendo finta che non esistano variabili economiche e creando una guerra tra poveri su questioni di genere, etnia, orientamento sessuale o altro. Insomma: mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di distribuzione della ricchezza – e già la cosa comincia un po’ a puzzare; per dirla con una battuta “Ci si emancipa con successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Zhok. Si spiega così come sia stato possibile che un movimento culturale minoritario legato alla mancata rivoluzione del ’68 sia potuto diventare una componente egemonica della società contemporanea, e la ragione sta nella sua compatibilità con le funzionalità al regime neoliberale: per prima cosa, la funzionalità dello wokismo sta nel fatto che, nella gerarchia dei temi da trattare, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo strapotere della finanza internazionale, la perdita di sovranità democratica vengono surclassate, nella presentazione e nell’agenda pubblica, dallo scandalo di cronaca su questo o quell’abuso patriarcale e discriminatorio e può pertanto ben funzionare da distrazione di massa; in secondo luogo, l’impianto Woke promuove una politica dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una comunità locale ecc. viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con, ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati più fanatici della nuova sinistra Woke “l’altro è l’inferno.”

Carl Rhodes

Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali? Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes – Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente, le cause LGBT, l’antirazzismo, i diritti delle donne e simili: dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”; l’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e antisociali dei grandi gruppi economici. E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio, le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i primi a praticarla. L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme sistemiche di sfruttamento che portano avanti.
Per concludere vorrei infine citare Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici dell’ideologia Woke ante-litteram; nel 1975, pochi mesi prima di essere ammazzato, avendo capito che sotto la copertura delle giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del consumismo individualistico, così scriveva sul Corriere della Sera: “Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili; borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”.
I diritti civili e la lotta contro ogni forma di discriminazione sono una parte fondamentale del processo di emancipazione dei subalterni: serve come il pane un vero e proprio media che ci aiuti a sottrarle dalle strumentalizzazioni operate dalle oligarchie, per riportarle ad essere strumenti di lotta a favore del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il Generale Vannacci

[LIVE OTTOSOFIA] Perché in Italia falliscono sempre le rivoluzioni?

Live del 18/10/2023 ore 21.00 – Questa sera approfondiremo il tema della rivoluzione in Italia, tratto dal video pubblicato questa mattina.
Ospite della serata Stefano Brugnolo, autore del libro “Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo”.

Perché in Italia non c’è mai stata una rivoluzione?

Rivoluzioni mancate, una lunga tradizione italiana. Ce ne fosse mai riuscita una: dalla rivoluzione scientifica alla riforma religiosa, dalle rivoluzioni di fine ‘700 al  risorgimento, dal biennio rosso fino alla guerra partigiana: la storia del nostro paese è in buona parte storia del fallimento sistematico di ogni tentativo di rivoluzionare alla radice i rapporti sociali, morali e politici.  Perché?
Io sono Valentina Morotti, e questa è la nuova puntata di “Ottosofia” e oggi parliamo di una delle più importanti e durature tradizioni italiane: le rivoluzioni mancate.
Biennio rosso (1919-1920): mai come allora l’Italia è stata davvero sull’orlo di una rivoluzione. Duemila scioperi, oltre 3 milioni di lavoratori mobilitati dal sindacato – per la stragrande maggioranza di fede socialista – e con il Partito Socialista che alle elezioni del novembre del 1919 raggiunge la quota astronomica del 32% e triplica in un balzo i propri seggi in Parlamento. Sull’onda lunga della Rivoluzione d’Ottobre, tra gli operai europei era emerso il bisogno di organizzare in modo nuovo la lotta per “fare dappertutto come in Russia”. Nelle industrie torinesi spuntano come funghi i consigli di fabbrica, guidati da uno degli intellettuali più importanti della storia del nostro paese: Antonio Gramsci. E’ lui a investire l’avanguardia operaia di un ruolo rivoluzionario fondamentale: quello di costituire la base di una nuova “democrazia proletaria” che si opponga alla democrazia parlamentare borghese, scossa alle fondamenta e terrorizzata dal contagio della “febbre bolscevica” dalle pianure dell’est. Tutto sembra pronto a un cambiamento esplosivo, il tritolo è ben posizionato, ma proprio sul più bello ecco che qualcosa si inceppa nell’innesco; il Partito Socialista, infatti, incapace di porsi alla testa delle masse, non riesce a dare alle occupazioni e alle esperienze dei consigli di fabbrica una degna traduzione politica. Un’incapacità strategica e addirittura, potremmo dire, filosofica che finisce per disinnescare il Biennio Rosso, trasformandolo in un’altra delle tante rivoluzioni mancate del nostro paese.

in foto: Antonio Gramsci

Ma com’è potuto accadere? Dove si nasconde l’anello debole nella guida politica del PSI che ha impedito la creazione di un laboratorio rivoluzionario? E’ a partire da queste dolorose domande che si snoda la riflessione di Gramsci sull’incapacità del suo partito di organizzare politicamente le sollevazioni operaie. Nei “Quaderni dal carcere” Gramsci giunge all’apice della sua ricerca sul fallimento delle rivoluzioni in Italia, ampliando il discorso alla storia italiana passata e ricollegandosi all’elefante nella stanza del Risorgimento: la mancata rivoluzione agraria. Laddove il Risorgimento avrebbe potuto prendere una direzione popolare e rivoluzionaria, camminando sulle gambe della classe contadina per riscattarla socialmente ed economicamente, quella maledetta riforma agraria non arrivò; anche e soprattutto, sottolinea Gramsci, per l’ostilità culturale più o meno esplicita delle élites liberali del tempo. Nella classe politica borghese e cittadina, sottolinea il filosofo, “c’è l’odio e il disprezzo contro il “villano”, un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna”. (Gramsci, “Quaderni dal carcere”, p. 2035).
E ovviamente, come in ogni contro-rivoluzione che si rispetti, quel “fronte unico” implicito diventa esplicito, riesumando le forze sociali uscite bastonate e frastornate dai cambiamenti in corso nel tentativo di stabilizzare lo status quo. Nasce così la forza reazionaria post-risorgimentale, fondata sull’alleanza eclettica tra borghesi del Nord e grandi latifondisti del Sud, con uno scopo ben preciso, divenuto fatto storico: il soffocamento dei contadini del meridione, delle loro rivendicazioni e della loro forza organizzativa. Per Gramsci, dunque, il problema del Mezzogiorno esplode nella pancia dello Stato unitario come una lacerante contraddizione: non solo l’organizzazione dello stato unitario privilegiava una piccola fetta della società, trascurando le classi popolari e i loro bisogni, ma era anche incapace di percepirle e interpretarle come un soggetto di trasformazione storica. La soluzione, per la minoranza di latifondisti e borghesi, non poteva essere che schiacciare – non solo fisicamente ma anche ideologicamente – la grande maggioranza contadina. E’ questo mix di condizioni socio-economiche e mancato riconoscimento culturale che, nella riflessione di Gramsci, unisce la possibilità di rivoluzione nel presente con i mancati cambiamenti nel passato, poiché per lui “il passato non era solo ciò che doveva essere, bensì anche, se non soprattutto, ciò che avrebbe potuto essere e non era stato; ciò che è rimasto irrealizzato e che però ancora chiede di svolgersi, di attuarsi”. (Brugnolo, p. 266).
Con i Quaderni si lancia così uno spunto di riflessione sulle condizioni economiche, sociali e culturali che permettono a una rivoluzione di passare dall’utopia alla realtà, ed è il filo rosso al quale prova a ricollegarsi Stefano Brugnolo, professore di teoria della letteratura all’università di Pisa, e autore di “Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo”.

in foto: Stefano Brugnolo

Nella sua riflessione, Brugnolo individua proprio nei “Quaderni dal carcere” “il testo fondamentale per chiunque voglia indagare il rapporto che gli italiani hanno avuto con quel grande non-evento che è stata la rivoluzione mancata”. Il libro parla del modo in cui gli intellettuali italiani hanno interpretato quella lunga tradizione di rivoluzioni mancate in Italia, perché “qui da noi la rivoluzione si è rivelata un disperante appuntamento mancato, costringendo gli scrittori e gli intellettuali a ritornare tante e tante volte su quel nodo irrisolto, a ripensarlo e elaborarlo”. Un j’accuse, quello di Brugnolo, che mette sulla graticola tutte le figure di spicco del panorama intellettuale italiano storicamente associate alle grandi rivoluzioni, come quella scientifica contro il sistema tolemaico. Mettendo a fuoco la figura storica di Galileo Galilei, ad esempio, Brugnolo tratteggia il profilo di un intellettuale che non c’entra nulla col rivoluzionario protagonista dell’opera di Brecht “Vita di Galileo”: i testi di Galileo, piuttosto, ci raccontano di un’altra straordinaria rivoluzione culturale mancata che affonda le sue radici nell’incapacità dello scienziato toscano di comunicare al popolo la sua innovativa visione del mondo. Per Galilei, infatti, la verità semplicemente non è adatta per il popolo, ma solo “per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe”. Le sue opere in volgare sono rivolte a loro e di certo non alla massa.
Sospetto e diffidenza, ecco ciò che Galileo prova verso il popolo: non desidera coinvolgerlo nella sua rivoluzione culturale e, a differenza della sua controparte immaginata da Brecht, non cerca di intaccare con le sue teorie le fondamenta del sistema politico-culturale in cui vive. “Uno dei primi grandi esponenti della ragione moderna”, scrive Brugnolo, proprio “nel mentre lancia il suo progetto, esprime la sfiducia nella possibilità di socializzare quel nuovo modo di pensare, trasformandolo in una forza sociale capace di cambiare il mondo”. Un’occasione mancata.
La stessa sfiducia nelle masse si rintraccia in un peso massimo del Risorgimento, Alessandro Manzoni. Anche lui, sia nei “Promessi sposi” che nel “Saggio sulla rivoluzione francese”, dà voce a tutta la sua diffidenza verso i cambiamenti rivoluzionari democratici. Ad esempio, nel capitolo XXVIII dei “Promessi Sposi” sulla rivolta dei forni, Manzoni spara a zero sulla rivoluzione giacobina: riprendendo i saccheggi compiuti durante le rivolte popolari, lo scrittore paragona le politiche economiche di Ferrer e Robespierre affermando che la colpa per entrambe è della pressione esercitata dalle masse incolte: scrive Manzoni che in Francia “si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti ad onta de’ tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa […] e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge”.

in foto: Alessandro Manzoni

Per Manzoni è il popolo bestia che forza – con la violenza e senza avere alcuna cognizione di politica economica – la mano al decisore politico, che arriva ad adottare misure sciagurate per compiacere demagogicamente il vulgus profanum. Del resto, si parla di quello stesso “volgo disperso” che circa vent’anni prima, nelle pagine di “Adelchi”, aveva sollevato il capo e in maniera miope, secondo il demofobico Manzoni, si era illuso di liberarsi dal giogo longobardo confidando nel ‘disinteressato’ liberatore franco. Sono solo due esempi, ma sono sufficienti se pensiamo a quanto Manzoni sia importante per la letteratura e la cultura italiana. Non è difficile intuire, perciò, l’influenza che ha avuto Manzoni sul nostro dibattito intellettuale e a quanto questi giudizi hanno contribuito a formare la nostra cultura. Il romanzo italiano nasce così – attraverso la penna del suo più illustre pioniere – nel segno del realismo inteso come giudizio negativo sulla rivoluzione democratica. Quando la nostra classe intellettuale si è trovata di fronte la rivoluzione, o ne è stata terrorizzata o è stata incapace di comprenderne la portata; diventa chiaro come il sole che la paura del potere delle masse per le sue manifestazioni estreme (Manzoni e Verga) e la paura di “sporcare” il progresso culturale tramite la sua divulgazione (Galilei), sono due facce della stessa medaglia ideologica. E’ questa cappa culturale controrivoluzionaria che, nei termini gramsciani, si è tradotta in un’ideologia egemone nel corso dei secoli, schiacciando e delegittimando ogni pretesa di cambiamento. La soluzione, per il pensatore sardo, non può che essere una: costruire una classe intellettuale che sia al contempo parte della classe popolare e capace di porsi come sua avanguardia e rappresentante. Un partito parte della classe quindi, che sappia condurre una battaglia essenzialmente culturale per ribaltare i rapporti di forza ed esercitare una nuova egemonia. In sostanza: tutto ciò che è mancato e manca in Italia per dare il giusto peso e rappresentanza alle classi lavoratrici subalterne.
Nel libro, Brugnolo osserva che il pensiero della rivoluzione è “un pensiero capace di concepire il mondo come radicalmente “altro” da quel che è attualmente” e la forza della letteratura è quella di poter immaginare i possibili, quello che non è o non è stato, il negativo dell’esistente attuale, come il mondo dopo la rivoluzione. Se la rivoluzione è stata il grande represso della letteratura moderna, di una letteratura che provava a dare voce a come le cose non sono e potrebbero essere, questo provare a immaginare la rivoluzione nella letteratura di oggi è scomparso: oggi non c’è nemmeno più la capacità di immaginare la rivoluzione. Riusciamo a pensare la fine del mondo ma non il suo cambiamento, la catastrofe di questo pianeta piuttosto che la fine del capitalismo. Il capitalismo ci ha privato dei sogni: lo diceva già Pasolini, che vedeva in quei ragazzi di vita che erano ancora fuori da certe logiche consumistiche i semi del futuro conformismo, di un’omologazione che avrebbe spento le loro energie vitali. L’ultimo Pasolini parla dei giovani sottoproletari che sono stati conquistati dagli ideali borghesi perché la borghesia è ancora la classe dominante e egemone, mentre gli operai erano già da anni stati conquistati dagli ideali piccolo-borghesi del benessere economico. Anche il potenziale rivoluzionario del sottoproletariato urbano viene conquistato dai valori consumistici della classe borghese, che è sempre la classe egemone che impone non solo il proprio sistema di produzione ma anche i propri valori, il proprio immaginario, il proprio sistema di immaginare il mondo.
La conclusione del libro è che il tardo capitalismo, dopo la fine delle utopie novecentesche e il trionfo del neoliberismo, avrebbe atrofizzato la capacità di immaginare la rivoluzione. “Il sogno si è rattrappito”, come diceva Gaber.
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