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Tag: hamas

Bambini decapitati e intelligence impreparata? Cosa è veramente accaduto il 7 ottobre?

Presentazione del libro di Roberto Iannuzzi, che sarà presente anche a Fest8lina domenica 7 luglio a Putignano. Il libro di Iannuzzi fornisce un eccellente resoconto di ciò che è accaduto tra Hamas e Israele il 7 ottobre e del perché è accaduto e dimostra come la narrazione di Israele degli eventi di quel tragico giorno, ripetuta all’infinito dai media occidentali, sia profondamente falsata.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Il golpe militare in Israele – ft. Alberto Fazolo

In Israele arrivano i colonnelli? Oggi torna, per il consueto appuntamento del sabato mattina attorno al mondo, Alberto Fazolo intervistato dal nostro Gabriele Germani. Gli argomenti affrontanti sono il fallimento della conferenza di pace in Svizzera, la controproposta di pace presentata da Putin e quella in sei punti presentata da Brasile e Cina, la visita di Putin in Corea del Nord e Vietnam, il processo di dedollarizzazione in atto nel mondo e simboleggiato dalle recenti azioni dell’Arabia Saudita e, infine, lo scontro istituzionale all’interno di Israele, dove l’esercito ha sconfessato le parole del governo. Uno scenario complesso e in cui tenteremo di fare maggiore chiarezza. Buona visione!

#Svizzera #Pace #Russia #G7 #BRICS #Cina #Ucraina #Libano #Israele #golpe #Hamas #Hezbollah

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

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Hamas fa un passo verso la tregua, ma Israele ribolle – con Clara e Gabriele

Edizione bizzarra della rassegna stramba a cura del nostro Dynamic duo composto da Clara Statello e Gabriele Germani. Buona visione.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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L’Occidente scarica Netanyahu, ma importa l’apartheid

La guerra di Israele contro i bambini palestinesi è probabilmente arrivata a una svolta: gli avvenimenti sono in rapida e continua evoluzione e quindi, per gli ultimi aggiornamenti, vi rimandiamo alle live che stiamo preparando sul tema; ma mentre registriamo questo video, un paio di considerazioni intanto possiamo farle. Durante tutta la scorsa settimana, Israele, col sostegno di Washington, ha provato a fregare Hamas: avevano proposto un accordo inaccettabile che, sostanzialmente, sarebbe equivalso a una resa incondizionata, mentre il regime genocida di Tel Aviv, dopo aver riscattato i suoi prigionieri, avrebbe avuto carta bianca per finire di radere al suolo Gaza e mettere così definitivamente fine all’ipotesi di uno Stato palestinese autonomo e sovrano; per convincere Hamas a suicidarsi e portarsi nella bara con se l’intero popolo palestinese, Tel Aviv usava il ricatto dell’invasione di Rafah, ma – a ben vedere – lo giocava malino. Sin da subito infatti, per tenere buone le fazioni più fondamentaliste del governo, Netanyahu è stato costretto ad ammettere che in un modo o nell’altro, o prima o dopo, l’invasione di Rafah sarebbe avvenuta comunque; Hamas, quindi, non aveva nessun motivo di firmare l’accordo trappola.
Nel frattempo però, con la mediazione di Egitto e Qatar, si stava lavorando a una riformulazione dell’accordo stesso: questa volta le garanzie erano decisamente più sostanziose; le varie tappe che scandivano lo scambio dei prigionieri avrebbero permesso ad Hamas di verificare, passo dopo passo, che Israele rispettasse i patti e, tra i patti, c’era sin da subito anche il ripristino delle infrastrutture essenziali e – alla fine del percorso – non solo un cessate il fuoco stabile, ma addirittura un’ambiziosa fine totale dell’assedio della Striscia. Insomma: la rivolta degli schiavi del carcere a cielo aperto di Gaza, per quanto tragica, quantomeno avrebbe determinato una riforma del regime carcerario; a queste condizioni, alla fine quindi Hamas ha ceduto. Israele, sostanzialmente, a quanto pare manco è stato coinvolto; come abbiamo detto più volte, a tratti ormai sembra essere universalmente considerato il bimbo scemo e viziato che va trattato con un po’ di tatto perché, nel frattempo, gli abbiamo regalato un’arma automatica bella carica, ma che nel frattempo va tenuto un po’ alla larga dalla stanza dove stanno gli adulti perché non può che fare danni. E infatti i danni, immancabilmente, sono arrivati: poche ore dopo che Hamas aveva pubblicamente dichiarato di accettare l’accordo, Tel Aviv decide di violarlo e di dare un segnale chiaro che è pronta a invadere Rafah; prima con l’intensificarsi degli attacchi aerei e, poi, anche con una piccola incursione via terra che, mentre registriamo questo video, potrebbe essere sia solo l’inizio dell’invasione vera e propria, sia – invece – l’ennesima bizza omicida del bimbo scemo e viziato.

Benjamin Netanhyau

Nel frattempo, la resistenza però non è rimasta a guardare: War Monitor, giusto un’ora fa, ha riportato la notizia (tutta da verificare) di 30 razzi che da Gaza sono partiti alla volta del Consiglio regionale di Eshkol; in precedenza, altri razzi erano usciti da Gaza in direzione Karem Abu Salem. La cosiddetta comunità internazionale pure non ha reagito benissimo alla bravata dei fasciosionisti: Guterres ha intimato a Israele di bloccare immediatamente ogni escalation; anche Borrell ha parlato di una catastrofe umanitaria da evitare a ogni costo e le voci, tutte da confermare, che sostengono che l’amministrazione Biden avrebbe imposto uno stop temporaneo all’esportazione di armi per mandare un segnale politico chiaro si sono continuate a rincorrere. Fatto sta che, al momento di questa registrazione, la situazione sul campo sembra essere in una fase di attesa; nel frattempo, i vertici israeliani sono volati al Cairo per riaprire il dialogo e Kirby, portavoce della Casa Bianca, ha affermato di essere ottimista che l’invasione può essere evitata e un accordo definitivo raggiunto. Insomma: se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno e rimanere cautamente ottimisti, la trappola che Israele aveva teso ad Hamas sembra essere definitivamente fallita e, al suo posto, Tel Aviv si ritroverebbe a dover sottoscrivere un accordo che finalmente, per la prima volta, non le dà carta bianca sul destino del conflitto.
Ciononostante, vista più da lontano, per quanto Israele sia in mezzo a un empasse, però, e per quanto non sia mai stato così isolato rispetto alle opinioni pubbliche di tutto il pianeta, il regime genocidario sionista – da un certo punto di vista – ha anche palesemente ottenuto un successo straordinario: tra le forze antipopolari, infatti, il suo sistema fondato sull’apartheid ha cominciato a esercitare una potente egemonia culturale; se fino a qualche anno fa il problema erano gli USA che esportavano il loro modello oligarchico e finto-liberale a suon di bombe, ora siamo al quadro successivo, con Israele che esporta nel mondo il suo modello fondato sull’apartheid a suon di mazzate, di agguati squadristi, di repressione e anche di minacce in stile mafioso. Le istituzioni dell’Occidente collettivo infatti, senza eccezione, è come se avessero adottato all’unisono una sorta di circolare virtuale universale che garantisce la totale impunità dei suprematisti sostenitori del genocidio, qualsiasi atto di aggressione compiano, e che vieta categoricamente ai media di parlarne. Una piccola preview l’avevamo vista un paio di settimane fa; sicuramente vi ricorderete. Era il 25 aprile e un’inviata della RAI era a Roma, dove si stavano confrontando due manifestazioni contrapposte: una di persone normali che, come inevitabile, avevano pensato di omaggiare gli eroi della resistenza italiana manifestando la loro vicinanza alla resistenza palestinese unite dal contrasto a ogni forma di genocidio; e l’altra di persone confuse che, invece, volevano approfittare delle celebrazioni per rivendicare la legittimità dello sterminio dei bambini palestinesi. Piena zeppa di infiltrati fascisti che, tra governo Meloni e sostegno incondizionato dei governi dell’Occidente collettivo a ogni forma di neonazismo in circolazione – dai lettori di Kant del battaglione Azov ai coloni criminali sionisti – stanno vivendo una vera e propria golden age, la seconda manifestazione ha letteralmente aggredito l’altro gruppo; e la povera inviata che, evidentemente, nonostante lavori per un servizio pubblico totalmente appiattito sulla narrazione della propaganda sionista, anche lei aveva le idee un po’ confuse e non aveva interpretato benissimo l’agenda pro – sterminio dei suoi datori di lavoro, aveva riportato l’accaduto parlando, appunto, di aggressione e dallo studio la sua capa, invece di censurare l’aggressione fascista del fan del genocidio, l’ha redarguita sottolineando che non c’era stata nessuna aggressione, come ovviamente lei, dallo studio in mezzo alle luci sparate a palla e le truccatrici, poteva testimoniare direttamente.
Ma era solo l’antipasto: il lasciapassare alle aggressioni dei sostenitori del genocidio, infatti, ha assunto dimensioni veramente inedite pochi giorni dopo, sull’altra sponda dell’Atlantico, quando delle squadracce di picchiatori suprematisti hanno aggredito un pacifico accampamento di manifestanti anti – sterminio con tanto di spranghe in mano e maschere sul volto: mentre le squadracce aggredivano i manifestanti con spray al peperoncino, bastoni e anche oggetti esplosivi pirotecnici di ogni tipo, le forze dell’ordine rimanevano in un angolo impassibili. Probabilmente erano un po’ stanchine; d’altronde, da tempo ormai erano impegnati giorno e notte a menare ed arrestare indiscriminatamente centinaia di giovani studenti pacifici per aver osato dubitare della missione purificatrice dei fondamentalisti sionisti: erano così anchilosati che non sono intervenuti neanche quando gli squadristi, davanti ai loro occhi, si sono scagliati in massa su uno studente, l’hanno buttato per terra e l’hanno preso allegramente a calci nella testa tutti assieme (immagino per favorire l’apprendimento delle sacre scritture). Come ha dichiarato su al Jazeera il giornalista investigativo Joey Scott (che ha assistito all’attacco squadrista), temporeggiando, le forze dell’ordine hanno voluto mandare un segnale chiaro alle squadracce che si aggirano per il paese che non rischiano ritorsioni ed anzi sono ben viste perché, così, aiutano l’amministrazione nella sua battaglia di civiltà: combattere l’antisemitismo, che viene tirato in ballo anche quando a protestare sono gli stessi ebrei che, nelle mobilitazioni anti – sterminio degli USA, hanno avuto sin da subito un ruolo di primissimo piano.
Negli USA, ormai, sono considerati antisemiti anche ebrei ortodossi come questi che sono stati aggrediti mentre erano tranquilli nella loro auto da questa simpatica signora indemoniata e palesemente alterata che gli è saltata addosso cercando di strappargli la bandiera palestinese e che poi s’è messa pure a minacciare le forze dell’ordine che sono intervenute per separarli, ma che – in base alla circolare sul diritto incondizionato dei sionisti di fare un po’ come cazzo vogliono – l’hanno lasciata andare via serenamente. Questa strumentalizzazione delirante del pericolo antisemita è anche la formula magica che l’amministrazione USA ha cercato di usare per giustificare gli arresti di massa delle ultime settimane, che stanno trasformando la terra della libertà in un regime teocratico filo – sionista, una palese e inquietante involuzione antidemocratica che, pochi giorni fa, è diventata legge grazie all’Antisemitism Awareness Act, approvato dal congresso a larghissima maggioranza; una legge totalmente delirante che impone allo Stato di adeguarsi automaticamente alla definizione di antisemitismo che viene elaborata da un’associazione intergovernativa priva di qualsivoglia legittimità democratica: è la International Holocaust Remembrance Alliance che, ad esempio, considera antisemitismo anche accusare Israele di genocidio o anche genericamente di razzismo. Grazie a questa legge, sostanzialmente si riconosce a una minoranza eletta un diritto che non viene riconosciuto a nessun altro: quello di non essere criticata, a prescindere. E attenzione: non è un diritto che si riconosce agli ebrei, ma è un diritto che si riconosce ai sionisti, quindi non a una minoranza etnica, ma ai sostenitori di una determinata ideologia. In base a questa definizione di antisemitismo, secondo l’amministrazione USA anche la Corte internazionale di giustizia, giusto per fare un esempio, è antisemita e ora rischia di diventarlo anche la Corte penale internazionale che, a differenza della Corte di giustizia – che è comunque un organismo ufficiale dell’ONU e quindi ha sempre avuto un qualche occhio di riguardo anche per il Sud globale – è sempre stata, a ragione, accusata di essere un vero e proprio braccio armato dell’imperialismo e che infatti ha sempre e solo emesso mandati di cattura verso nemici dell’imperialismo – da Putin a Gheddafi – e mai, nemmeno una volta, contro i peggiori criminali che l’agenda imperialista, invece, l’hanno portata avanti a suon di palesi e plateali crimini di guerra.

Yoav Gallant

Ma, evidentemente, è un braccio che comincia a presentare qualche insofferenza nei confronti del cervello impazzito: un paio di settimane fa, infatti, senza che la Corte si sia mai espressa in merito, sui media israeliani è cominciata a circolare l’ipotesi che, a breve, sarebbero arrivati mandati d’arresto internazionali contro figure israeliane di primissimo piano, a partire addirittura proprio da Netanyahu stesso e dal comandante in capo dello sterminio, il ministro della difesa Yoav Gallant; Netanyahu ha reagito subito a questi rumors dichiarando pubblicamente che l’emissione di mandati di arresto equivaleva al tentativo di minare il diritto di Israele all’autodifesa e che questo è inaccettabile perché “costituirebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie”. “Non crediamo che ne abbiano la giurisdizione” ha rincarato subito dopo la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre, annunciando come gli USA non avrebbero mai sostenuto un’indagine da parte dellaCorte; oggi sappiamo che questo alterco era solo la punta dell’iceberg. Lunedì sera, infatti, il buon vecchio Kim Dotcom ha pubblicato sul suo account X questa lettera: risale al 24 aprile, è indirizzata al procuratore della Corte penale internazionale dell’Aja ed è accompagnata dalla firma di 12 senatori statunitensi (probabilmente il grado più basso dell’evoluzione umana attualmente presente nella politica internazionale). La prima firma è quella di Tom Cotton, già celebre per questa figura di merda epica di fronte al CEO di TikTok; seguono le firme, tra gli altri, del gotha della destra reazionaria e suprematista del Tea Party, da Ted Cruz a Marco Rubio. Insomma: promette benissimo, ma – ciononostante – il contenuto della lettera è superiore anche alle più rosee aspettative. “Caro signor procuratore” scrivono, “le scriviamo riguardo alla notizia che la Corte penale internazionale starebbe valutando l’ipotesi di emettere un mandato di cattura internazionale nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu e altri ufficiali israeliani”; con un’azione del genere, sottolineano i nostri 12 cavalieri dell’apocalisse, la Corte internazionale “punirebbe Israele per essersi legittimamente difeso contro l’aggressore sostenuto dall’Iran” e questo allineerebbe la Corte “con il principale stato sponsor del terrorismo e il suo proxy”. “Emettere un mandato d’arresto per i leader di Israele” continua la lettera “non sarebbe solo ingiustificato, ma tradirebbe la vostra ipocrisia e i vostri doppi standard” dal momento che “non avete mai emesso un mandato di cattura nei confronti di quel genocida del Segretario Generale della Repubblica Popolare di Cina, Xi Jinping, o di nessun altro funzionario cinese”. Ma il bello deve ancora venire: “Se emetterete un mandato di arresto per la leadership israeliana, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità israeliana, ma anche a quella statunitense”, che è come dire, appunto – come abbiamo sempre sostenuto – che Israele non è altro che un’exclave dell’impero USA incaricata di mantenere l’ordine coloniale in Medio Oriente; e qui, poi, c’è una chicca che, sinceramente, avevo rimosso: “Il nostro paese, con l’American Service-Members’ Protection Act” scrivono “ha dimostrato fin dove siamo disposti ad arrivare per proteggere quella sovranità”.
Ma cosa è l’American Service-Members’ Protection Act? Se non lo sapete, non vi preoccupate; anch’io, che quando c’è da dire male di Washington sono sempre in prima linea, l’avevo completamente rimosso, probabilmente perché è un atto così vergognoso e platealmente criminale che la propaganda ha fatto letteralmente di tutto per tenerlo al di fuori del dibattito pubblico: la legge, approvata dal Congresso nel 2002 ai tempi dell’amministrazione Bush jr che si accingeva, nell’ambito della war on terror, a commettere una serie infinita di crimini di guerra, dà al presidente il potere di usare “tutti i mezzi necessari e appropriati per ottenere il rilascio di qualsiasi membro del personale statunitense o alleato detenuto o imprigionato da, per conto o su richiesta della Corte penale internazionale”. Non a caso l’atto è stato soprannominato The Hague Invasion Act – la legge sull’invasione dell’Aja – perché, appunto, incredibilmente dà automaticamente il potere al presidente anche di invadere l’Olanda, se solo questo venisse ritenuto il modo migliore per liberare dalla grinfie della Corte soldati e funzionari USA – come di qualsiasi altro paese ritenuto alleato. Forse ora è chiaro perché la Corte ha sempre e solo perseguito nemici di Washington; un atto talmente folle che quando ancora l’Europa aveva qualche velleità di autonomia, nei primi anni 2000, lo condannò apertamente. Ora i 12 senatori dell’apocalisse lo ritirano in ballo per minacciare esplicitamente la Corte e non si fermano qui; anche nel linguaggio, l’ultimo paragrafo della lettera sembra scritto direttamente da Totò Riina: “Prendete di mira Israele” minacciano “e noi prenderemo di mira voi”. “Se andate avanti con la vostra azione, sanzioneremo tutti i vostri impiegati e tutti i vostri associati, e bandiremo voi e le vostre famiglie dagli Stati Uniti. Siete stati avvisati”.
Secondo quanto riportato in questa infografica prodotta da Track Aipac, un’iniziativa indipendente che cerca di ricostruire tutti i finanziamenti della lobby israeliana ai membri del Congresso, i 12 senatori dell’apocalisse, per autoconvincersi dell’opportunità di questa loro iniziativa leggermente sopra le righe, hanno ricevuto nel tempo dall’Aipac circa 6 milioni di buone motivazioni; questo episodio, se l’autenticità del contenuto della lettera venisse confermato ufficialmente (cosa che, in cuor mio, tutto sommato voglio ancora nutrire una minima speranza non accada) ci racconta un paio di cose importanti: la prima è che, se ancora avevamo dei dubbi, l’ordine internazionale fondato sulle regole di cui parlano gli imperialisti occidentali e i loro pennivendoli può essere considerato – dalla struttura al retroterra culturale che traspare anche nel linguaggio – un ordine, a tutti gli effetti, di carattere mafioso dove l’unica regola che, quando serve, vale davvero è sempre e solo quella del sopruso e del ricorso alla violenza fisica e al puro arbitrio. La seconda è che aspettarsi che gli USA, di loro sponte, impediscano davvero a Israele di portare a termine il suo genocidio è totalmente velleitario: sarebbe un po’ come pretendere che un serial killer, di sua sponte, si seghi un braccio per impedire alla sua mano di continuare a premere il grilletto; con questo, però, non voglio dire che lo sterminio totale e definitivo del popolo palestinese sia inevitabile e che, quindi, tanto vale smetterla di logorarsi e tornare agli spritz. Anzi! Voglio, invece, dire proprio che se oggi traspare qualche titubanza è solo ed esclusivamente merito delle forze che, nella società, si stanno opponendo al massacro: dall’asse della resistenza agli altri Stati che sono in conflitto con l’imperialismo, ma, soprattutto, alle masse popolari che si stanno mobilitando sempre di più contro la complicità dei rispettivi governi.
La mobilitazione e la lotta contro l’esportazione dell’apartheid, quindi, non sono che all’inizio e per portarle a termine abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece di tappare la bocca ai giornalisti che chiamano aggressione un’aggressione, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuseppe Cruciani

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Genocidio di Gaza e Diluvio di Al-Aqsa: il punto di vista di Hamas che tutti dovrebbero conoscere

La nostra narrativa – e cioè il nostro punto di vista: così si intitola il piccolo dossier sull’operazione diluvio di al-aqsa pubblicato sabato scorso dalla divisione media ufficiale di Hamas; lo abbiamo letto per voi perché, ovviamente, siamo perfettamente consapevoli che si tratta di pura propaganda. Funziona sempre così, inevitabilmente: a ogni guerra fatta con le armi corrisponde sempre anche una guerra tra due propagande. Il punto però, esattamente come in Ucraina, è che i detentori dei mezzi di produzione del consenso del cosiddetto mondo libero fanno finta di non saperlo e assumono come verità insindacabile la propaganda di uno, e come menzogna da oscurare con ogni mezzo possibile quella dell’altro; potrebbe non essere esattamente una strategia illuminata, diciamo, e non solo perché è ovviamente una palese violazione del diritto a un’informazione un minimo equilibrata su cui si dovrebbe fondare quell’idea di democrazia in nome della quale i nostri governi si sentono autorizzati ad andare in giro per il mondo a bombardare chiunque si azzardi a dissentire, ma anche perché impedisce – anche tra le élite – quel minimo di dialettica fondata sui fatti reali che è indispensabile per non prendere cazzi per mazzi. Ed ecco così che, a botte di propaganda unilaterale, ci siamo autoconvinti che la Russia era sull’orlo del baratro e che grazie alla gloriosa resistenza e alla superiorità tecnologica dell’uomo bianco avrebbe trovato in Ucraina il suo Vietnam, o che Ansar Allah non era che un gruppetto di ribelli sprovveduti e scalmanati e che sarebbe bastato mandargli due razzetti a caso per farli sconigliare e riportare l’ordine: ecco perché, qualsiasi sia l’opinione che avete su Hamas, è comunque fondamentale conoscere e riflettere sul loro punto di vista. Buona visione.

Baruch Goldstein

“Fin dalla sua fondazione nel 1987” scrive l’ufficio media di Hamas nel suo rapporto sui fatti del 7 ottobre “Hamas si è impegnato a evitare conseguenze sui civili di entrambi gli schieramenti”; il rapporto sottolinea come – in seguito al terribile massacro della moschea di Al-Ibrahimi di Hebron avvenuto nel 1994 per mano del terrorista israelo – statunitense Baruch Goldstein e che causò la morte di 29 civili inermi riuniti in preghiera e il ferimento di altri 125 – “Hamas aveva annunciato un’iniziativa per evitare che i civili di tutte le parti rimanessero vittime dei combattimenti”, ma il governo Israeliano non si degnò neanche di rispondere. In quell’occasione, il governo israeliano guidato da Yitzhak Rabin condannò l’attentato e disarmò i militanti più in vista del movimento Kach, il gruppo dell’estrema destra sionista di Goldstein; non impedì però che a Goldstein – che venne definito dal rabbino dell’insediamento illegale di Kiryat Arba nei pressi di Hebron più santo di tutti i martiri dell’olocausto – venisse dedicato un santuario che, come un’Acca Larentia qualsiasi, divenne subito un importante luogo di pellegrinaggio per i fasciosionisti. Un milione di arabi non vale un’unghia ebrea, dichiarò il rabbino Yaacov Perrin durante il funerale: dalle ceneri del movimento Kach nascerà poi il partito Otzma Yehudit, e cioè il partito di Itamar Ben-Gvir, il famigerato ministro per la Sicurezza Nazionale del governo Netanyahu che viene citato direttamente anche nel dossier come “il ministro fascista israeliano che ha imposto l’inasprimento delle condizioni delle migliaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane dove subiscono ogni forma di abuso dei diritti umani più fondamentali”. Ciononostante, ribadisce il rapporto, negli anni successivi “Hamas ha rinnovato questa offerta numerose volte, ma i vari governi israeliani che si sono succeduti hanno sempre fatto orecchie da mercante, mentre continuavano a prendere di mira e uccidere deliberatamente civili palestinesi”; ancora oggi, insiste il rapporto, “Evitare danni ai civili, in particolare bambini, donne e anziani, è un impegno religioso e morale rispettato da tutti i combattenti delle brigate Al-Qassam”, e durante l’operazione diluvio di al-aqsa “ribadiamo che la resistenza palestinese è stata pienamente disciplinata e ha operato nel rispetto dei valori islamici” e “I combattenti palestinesi che hanno preso di mira solo il soldati dell’occupazione”.
Ma come si spiegano, allora, tutte le vittime civili del 7 ottobre scorso? Molte delle accuse, sostiene il rapporto, sono “menzogne palesi fabbricate ad arte” come la storia dei 40 bambini decapitati, o le accuse di stupri di massa; inoltre, continua, “è un dato di fatto che molti dei coloni coinvolti nell’operazione erano armati e hanno avuto scontri a fuoco con i combattenti palestinesi. Questi coloni sono registrati come civili, ma la realtà è che erano uomini armati che stavano combattendo al fianco dell’esercito israeliano” e, infine, “molti di questi civili israeliani sono stati uccisi dalle forze armate israeliane stesse”. Il riferimento, ovviamente, è in primo luogo ai civili uccisi da un elicottero israeliano nell’area del Festival Musicale di Nova, ma non solo: “Altre testimonianze israeliane” continua infatti il dossier, confermano che “l’esercito di occupazione israeliano avrebbe bombardato diverse abitazioni negli insediamenti israeliani dove si trovavano combattenti palestinesi e israeliani, in una chiara applicazione della famigerata Direttiva Annibale dell’esercito israeliano che sostiene sia meglio un ostaggio civile o un soldato morto che preso vivo, per evitare di impegnarsi in scambi di prigionieri con la resistenza palestinese”.
Fatta la tara delle fake news e della propaganda suprematista, rimane ovviamente il fatto che di civili coinvolti ce ne sono stati decisamente fin troppi: secondo Hamas però, questi episodi sarebbero semplicemente una conseguenza del “rapido collasso del sistema militare e di sicurezza israeliano e il caos che ne è conseguito in tutta la zona di confine con Gaza”; insomma, sarebbero vittime collaterali, e probabilmente – come Occidente collettivo – non siamo esattamente i più titolati per scandalizzarci. “Coloro che difendono l’aggressione israeliana” sottolinea il dossier “sostengono che le vittime civili a Gaza sarebbero danni collaterali di attacchi rivolti ai militanti di Hamas. Tuttavia questa categoria pare non possa essere utilizzata quando si parla delle vittime civili dell’operazione diluvio di al-aqsa”; eppure, insistono “Come riconosciuto da molti, Hamas si è comportato in modo positivo e gentile con tutti i civili che sono stati trattenuti a Gaza e ha cercato sin dai primi giorni dell’aggressione un modo per arrivare al loro rilascio, che è esattamente quello che è successo durante la tregua umanitaria durata una settimana durante la quale quei civili sono stati rilasciati in cambio del rilascio di donne e bambini palestinesi detenuti ingiustamente nelle carceri israeliane”.
Come abbiamo premesso, ovviamente, si tratta di pura propaganda pure questa, e però un modo per vederci più chiaro tra una propaganda e l’altra, volendo, ci sarebbe: una bella inchiesta indipendente internazionale che, a differenza di Israele, è esattamente quello che chiede Hamas. “Siamo fiduciosi” scrivono “che qualsiasi indagine equa e indipendente dimostrerebbe la fondatezza dei nostri argomenti come anche la portata delle bugie e delle informazioni fuorvianti da parte israeliana. A partire dalle accuse israeliane riguardanti gli ospedali palestinesi di Gaza che la resistenza avrebbe usato come centri di comando; un’accusa che non è stata provata e anzi è stata smentita dai resoconti di molte agenzie di stampa occidentali”; “Gli eventi del 7 ottobre” sottolineano “devono essere inseriti in un contesto più ampio, che accomuna tutti i casi di lotta contro il colonialismo e l’occupazione dei nostri tempi. Le varie esperienze dimostrano come più è alto il livello di oppressione imposto dagli occupanti, più sarà violenta la reazione dei popoli che quella occupazione la subiscono”. E qui il livello, sostengono, sembrerebbe essere stato piuttosto altino – diciamo – e fanno un sintetico recap partendo da lontano: ancora nel 1918, ricordano, “il popolo palestinese possedeva il 98,5% della terra palestinese e rappresentava il 92% dell’intera popolazione”; da lì in poi, una campagna di migrazione di massa coordinata tra autorità coloniali britanniche e movimento sionista portò, in meno di 30 anni, a moltiplicare per 4 la popolazione non palestinese prima di dare il via, nel 1948, a una vera e propria pulizia etnica che portò i sionisti a impossessarsi del 77% delle terre dopo aver espulso il 57% della popolazione palestinese, a partire dagli oltre 500 villaggi rasi al suolo. Una seconda fase si ebbe poi nel 1967, quando le forze di occupazione occuparono il resto della Palestina compresa la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, Gerusalemme e altri territori arabi confinanti con la Palestina; soltanto negli ultimi 20 anni le forze di occupazione avrebbero causato la morte di 11.300 palestinesi e il ferimento di altri oltre 150 mila, in larghissima parte civili: “Sfortunatamente però” scrivono “l’amministrazione USA e i suoi alleati non hanno prestato molta attenzione alle sofferenze del popolo palestinese, ma piuttosto hanno fornito copertura all’aggressione israeliana, e hanno cominciato a lamentarsi solo quando il 7 ottobre a cadere sono stati i soldati israeliani”. D’altronde, continuano, “l’amministrazione americana e i suoi alleati occidentali hanno sempre trattato Israele come uno Stato al di sopra della legge; gli forniscono la copertura necessaria per continuare a prolungare l’occupazione e reprimere il popolo palestinese, permettendogli nel frattempo anche di sfruttare la situazione per espropriare ulteriori terre palestinesi e violare impunemente i nostri luoghi sacri”. Il dossier ricorda inoltre come, negli ultimi 75, anni “l’ONU abbia emesso più di 900 risoluzioni a favore del popolo palestinese” con Israele che ha sempre “rifiutato di attenersi a ognuna di esse”, platealmente: “Il 29 ottobre 2021” ricorda ad esempio il dossier “l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan ha insultato il sistema delle Nazioni Unite stracciando un rapporto del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite durante un discorso all’assemblea generale, per poi gettarlo teatralmente nel cestino della spazzatura prima di lasciare il podio. Eppure” ricordano con una nota di ironia “l’anno successivo è stato nominato alla carica di vicepresidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite” e le rare volte che queste questioni hanno raggiunto il tavolo del Consiglio di sicurezza “a impedire qualsiasi condanna nei confronti di Israele è sempre intervenuto il veto degli USA”.

Gilad Erdan

Certo, di fronte a queste ingiustizie ci sono anche modi più pacifici e meno violenti di portare avanti la propria causa. Certo, come no! “Dopo 5 guerre di aggressione unilaterale da parte di Israele e 17 anni di assedio totale che ha trasformato Gaza nella più grande prigione a cielo aperto del paese” ricorda il dossier, nel 2018 “il popolo di Gaza ha dato vita a una serie di grandi e pacifiche proteste denominate la Grande Marcia del ritorno. Purtroppo” ricordano “le forze di occupazione israeliane hanno risposto a queste proteste causando tra i manifestanti 360 vittime e 19 mila feriti, compresi 5 mila bambini”. “Dopo tutto questo” si chiede alla fine il dossier “cosa ci si aspettava dal popolo palestinese? Che continuasse ad aspettare inerme riponendo la sua fiducia sull’impotenza dell’ONU?”; in realtà – concludono – “sulla base di quanto detto fino ad ora, l’operazione diluvio di al-aqsa è stata una risposta necessaria e un atto difensivo nei confronti dell’occupazione israeliana, nel quadro della lotta di liberazione e di indipendenza del popolo palestinese, esattamente come tutti i popoli del mondo hanno sempre fatto”. “Il popolo palestinese” concludono “si è sempre opposto all’oppressione, alle ingiustizie e ai massacri contro i civili, indipendentemente da chi li commette. E in base alla nostra religione e valori morali, abbiamo dichiarato chiaramente il nostro rifiuto a cosa gli ebrei furono esposti dalla Germania nazista. Dobbiamo però ricordare che il problema ebraico era essenzialmente un problema europeo, mentre il mondo arabo e islamico era un rifugio sicuro per il popolo ebraico come, d’altronde, anche per altri popoli di altre credenze ed etnie. Il mondo arabo è stato un esempio di convivenza, interazione culturale e libertà religiose. Il conflitto è causato dal comportamento aggressivo sionista e la sua alleanza con le potenze coloniali occidentali; e quindi rifiutiamo categoricamente la strumentalizzazione della sofferenza che è stata inflitta al popolo ebraico in Europa al fine di giustificare l’oppressione contro il nostro popolo in Palestina”.
Bon. Questo è quanto. Questa è la posizione di Hamas; non ci abbiamo aggiunto mezzo giudizio: a questo giro, l’onere di farvi una vostra idea lo lasciamo tutto a voi. E’ quello che dovrebbero fare i giornali mainstream che si riempono la bocca di fuffa liberaloide e poi fanno solo becera propaganda come in un regime teocratico qualsiasi; in questi tempi infami, a noi vecchie zecche rosse tocca pure fare il loro mestiere. Aiutaci a farlo sempre meglio, per sempre più persone: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Mieli

La Reazione di Iran e Yemen l’Asse della Resistenza scopre il bluff di USA e Israele

“Quando il tuo nemico ti induce ad aggravare i tuoi errori, senza raggiungere i tuoi obiettivi militari” scrive John Helmer sul suo sempre utilissimo blog “ti sta conducendo a un’escalation di forza che, prima o poi, ti sconfiggerà” e, continua, “più a lungo si protrae la faccenda, più costosa e rovinosa sarà la sconfitta”. Ed è con questa massima in testa che dobbiamo cercare di interpretare “la lunga guerra Arabo – Iraniana contro Israele e gli Stati Uniti che fino ad oggi non erano mai stati ritenuti capaci di combattere”. Helmer ricorda come tutti i manuali dell’esercito americano quando si parla di vincere una battaglia concordano su una cosa e cioè, come scriveva il celebre capitano britannico Liddell Hart, che “Per avere successo è necessario risolvere due problemi principali: dislocazione e sfruttamento. Uno precede e l’altro segue il colpo vero e proprio, che in confronto è un atto semplice”. Ma dopo gli attacchi aerei USA e UK dei giorni scorsi e continuati ancora martedì, sottolinea Helmer, a sfruttarli sembra siano sempre gli yemeniti, che avrebbero mantenuto l’iniziativa: lo ribadisce in una bella intervista di Andrea Nicastro sul Corriere della Serva di ieri Nasr al-Din Amer, presidente dell’agenzia di stampa yemenita Saba e anche vice capo della comunicazione di Ansar Allah. “Gli Usa dicono di aver già distrutto il 30% delle vostre capacità militari” commenta Nicastro; “Fesserie” sentenzia Amer: “Hanno colpito vecchie basi già bombardate durante la guerra con la coalizione internazionale che ci ha combattuto per 9 anni”.
Allora, ricorda Amer, “a metterci la faccia erano i sauditi”, ma a sostenerli erano sempre gli americani, che “spesso partecipavano direttamente anche con i loro aerei”. “Quindi”, continua, “niente di nuovo, avevano quelle geolocalizzazioni e le hanno usate. Uno show! Non ci hanno fatto nulla”.

Francesco dall’Aglio

Ovviamente, anche la sua è propaganda: i nuovi attacchi missilistici degli yemeniti di martedì pomeriggio contro una nave mercantile di proprietà greco – americana nel golfo di Aden però sono reali, come anche quelli della notte contro un’altra imbarcazione USA; come è reale anche il fatto – riportato dal nostro Francesco Dall’Aglio sulla sua pagina Facebook – che, sempre marted,ì “Omar al-Ameri, maggiore dell’esercito regolare yemenita” e protagonista di primissimo piano per 15 anni della guerra civile sostenuta da sauditi e occidentali contro gli Houthi, abbia cambiato casacca e sia “passato dalla loro parte con le sue truppe, accolto con entusiasmo e perdono generale per le passate colpe”. “Dal 2011 noi yemeniti ci siamo divisi su tutto” afferma sempre Amer nell’intervista sul Corriere “ma ora siamo uniti contro Israele per difendere Gaza. Ci sostiene persino chi ci ha ucciso nella guerra civile, e anche l’opposizione espatriata ci ha teso la mano”. Anche i missili che l’Iran ha lanciato martedì non sono solo propaganda: come ricorda il blog Moon of Alabama, avrebbero distrutto il quartier generale dell’ISIS a Idlib, in Siria, e anche quello delle milizie affiliate all’Al Qaida siriana di Hayat Tahrir al-Sham; come sottolinea sempre Moon of Alabama “La traiettoria più breve dall’Iran a Idlib in Siria è di almeno 1.200 chilometri. L’Iran ha così dimostrato di poter colpire in modo affidabile obiettivi a quella distanza. I missili utilizzati, denominati Kheibar Shekan hanno una portata massima di 1.450 chilometri”; come ha sottolineato con grande enfasi la stampa israeliana, era la prima volta che un missile iraniano copriva una distanza del genere.
Ma l’attacco che necessariamente avrà più conseguenze è quello che dall’Iran ha puntato dritto su Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno; il corpo delle guardie della rivoluzione islamica, come riportato dal canale Telegram Colonnel Cassad, avrebbe annunciato di aver colpito ben 4 obiettivi sensibili: la base americana presso l’aeroporto, il consolato americano, la sede locale del servizio di sicurezza curdo e soprattutto l’abitazione di quello che il New York Times definisce semplicemente “un uomo d’affari qualsiasi”, uccidendo lui e sua figlia. Peccato che l’uomo d’affari in questione sia nientepopodimeno che Peshraw Dizayee, il fondatore della Falcon Security Services, che dal 2003 – dopo l’invasione USA dell’Iraq – si occupa di commerciare petrolio iracheno in Israele; secondo Al Mayadeen, nella sua abitazione si stava svolgendo un incontro tra agenti del Mossad e alcuni leader di alcune fazioni separatiste iraniane presenti in Iraq, un incontro che sarebbe servito “a pianificare le modalità per minare la sicurezza iraniana, sia a livello interno, sia in senso più ampio, il ruolo regionale dell’Iran” riporta sempre Al Mayadeen. Prima di commentare l’attacco, riporta John Helmer, i media statunitensi hanno temporeggiato per qualche ora per poi affermare che “ci sono state esplosioni vicino al consolato americano a Erbil, ma nessuna struttura statunitense è stata colpita”. Boris Rozhin, caporedattore di Colonnel Cassad, non è proprio convintissimo: “Secondo un amico che vive nel centro di Erbil” scrive “il colpo non è caduto sull’attuale consolato, ma su quello nuovo, che è in costruzione”. Il New York Times ci tiene a sottolineare che, in questo modo, gli iraniani si sono dati la zappa sui piedi; se negli ultimi giorni, finalmente, era arrivata la richiesta ufficiale da parte irachena che, dopo 20 anni abbondanti di occupazione, per gli americani forse era finalmente arrivata l’ora di levarsi di torno, ora l’attenzione si sarebbe spostata su Teheran, con Baghdad che ha addirittura presentato una protesta formale all’ONU contro “l’aggressione”.
“Come finirà la cosa ?” chiede un utente sulla pagina di Dall’Aglio; “Ascolteranno pensosamente” risponde il Bulgaro, “poi la Russia metterà il veto a qualsiasi decisione, Cina astenuta. USA, UK, Francia condannano, arrivederci e grazie”. Il punto vero, piuttosto, è che l’equilibrio in Iraq è parecchio instabile e anche i curdi – che sono alleati fedeli di USA e Occidente collettivo – giocano un ruolo importante: con il recente voto del parlamento che aveva chiesto ufficialmente alle truppe USA di sloggiare, erano stati messi in minoranza; ora, ovviamente, sono ben contenti di poter sfruttare questo attacco per sottolineare che l’Iraq non è ancora al sicuro e ha bisogno dell’aiuto delle forze di occupazione. Vedremo nelle prossime settimane se tutto questo li ha effettivamente rafforzati.

Qasem Soleimani

In realtà – ma magari è solo una deformazione mia – più che l’Iraq, a me quello che mi preoccupa, come sempre, è il Pakistan: anche qui, infatti, sono arrivati razzi iraniani; l’obiettivo, ovviamente, sono sempre le roccaforti dei gruppi affiliati all’ISIS Khorasan, che ha rivendicato il sanguinoso attacco terroristico di un paio di settimane fa a Kerman durante l’anniversario della morte di Qasem Soleimani, e i pakistani non l’hanno presa proprio benissimo, diciamo. “Questa violazione della sovranità pakistana” hanno tuonato in un comunicato ufficiale del governo “è del tutto inaccettabile e potrebbe avere serie conseguenze”: la prima è stata che hanno detto all’ambasciatore iraniano in Pakistan, che si trovava in quel momento casualmente a Teheran, di rimanersene dov’era e di non azzardarsi a tornare a Islamabad. Magari è proprio questo attrito ad essere piaciuto agli indiani; sempre martedì, infatti, il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar si è incontrato a Teheran con il presidente iraniano Ebrahim Raisi per poi intrattenersi a lungo anche con il ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian: “La nostra discussione bilaterale” ha twittato poi Jaishankar “si è concentrata sul quadro a lungo termine per il coinvolgimento dell’India con il porto di Chabahar e il progetto di connettività dell’International North – South Transport Corridor”, il corridoio infrastrutturale che dovrebbe collegare Bombay a Mosca passando proprio attraverso l’Iran.
Anche quelli che consideriamo nostri alleati ormai hanno troppi interessi in comune con i nostri nemici; figuriamoci quelli che alleati non lo sono per niente: poche ore prima, infatti, a scambiare una lunga chiacchierata telefonica con Abdollahian era stato Lavrov. Secondo John Helmer, avrebbero confermato l’intenzione di procedere a “un coordinamento a tutti i livelli” tra i due paesi, “sottolineando il costante impegno reciproco nei confronti dei principi fondamentali delle relazioni russo – iraniane, compreso il rispetto incondizionato della sovranità e dell’integrità territoriale”. Insomma: l’Iran si è finalmente sbilanciato a favore dell’asse della resistenza e non sembra pagare chissà quale dazio; certo, “un blocco navale” ricorda Nicastro ad Amer nella solita intervista sul Corriere “potrebbe impedirvi di ricevere armi”, ma secondo Amer, tutto sommato, “non sarebbe un problema, perché sappiamo fabbricarle completamente in Yemen”. “La tesi che riceviamo aiuti dall’Iran è falsa” sostiene Amer, che argomenta “Durante i 9 anni di guerra, il mare era chiuso, il confine con l’Arabia Saudita anche, ma i nostri depositi si sono riempiti con armi sempre più efficienti”. Ora, magari detta così è un po’ esagerata, ma un fondo di verità c’è, eccome! Come ricorda Moon of Alabama, infatti, “L’asse della resistenza è un insieme di gruppi vagamente collegati all’Iran. Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane ha contribuito al loro addestramento, ma ha fatto molto di più di quanto avrebbe fatto il normale addestramento militare statunitense. Ha incoraggiato questi gruppi a mettersi in contatto tra loro e a scambiare conoscenze e ora collaborano a tutti i livelli. L’Iran ha introdotto nuove tecnologie e armi, ha insegnato a ciascun gruppo come crearne delle copie. E Oggi Houthi e iracheni si scambiano piani per la costruzione di missili e droni”. “L’asse della resistenza” continua Moon of Alabama “è diventato così un insieme di entità del tutto autonome che non dipendono più dalle consegne o dagli ordini provenienti dall’Iran, che però seguono tutte la stessa ideologia anticoloniale”. “Tutti i gruppi dell’asse della resistenza sono sciiti e vicini all’Iran” afferma Nicastro sempre nella solita intervista: “è una guerra religiosa?” “Hamas è sunnita” risponde Amer; “La jihad islamica è sunnita. I palestinesi sono sunniti. Non è una questione di sette, ma di essere schiavi degli americani oppure no”.
Il conflitto regionale in Medio Oriente dura da 50 anni, una serie infinita di divisioni di ogni genere fomentate ad hoc dall’impero nella più classica delle applicazioni del caro vecchio principio del divide et impera; tutte queste divisioni continuano a pesare, ma forse finalmente – per la prima volta da decenni – l’obiettivo comune di liberarsi dall’insostenibile pesantezza del dominio coloniale e postcoloniale ha costretto qualcuno ad andare oltre le divisioni settarie e a condurre una battaglia unitaria, ricorrendo alla religione come collante ideologico. In molti in Occidente storcono la bocca e più si definiscono progressisti, e più la storcono; preferiscono parlare di democrazia e di socialismo in astratto e vedere i popoli scannarsi tra loro in concreto. Forse è arrivata l’ora di mettere da parte un po’ di hubris eurocentrica e riconoscere umilmente che dei giudizi e dei consigli di chi vive nella colonia europea ed è stato letteralmente spazzato via dalla battaglia politica, i popoli in cerca di autodeterminazione probabilmente se ne fanno pochino.
Forse è arrivata l’ora di avere un vero e proprio media che sta dalla parte dell’anti – imperialismo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.


E chi non aderisce è Elly Schlein 

SAMIR AL QARYOUTI: perchè lo sterminio di Gaza sarebbe avvenuto anche senza l’attacco di Hamas

Ottoliner buongiorno e bentornati all’appuntamento con le interviste di OttolinaTv.

Oggi torniamo a parlare dell’operazione diluvio di Al Aqsa e lo facciamo con una tesi piuttosto radicale: anche senza l’attacco di Hamas, lo sterminio dei bambini arabi di Gaza sarebbe avvenuto comunque.

in foto: Samir Al Qaryouti

A sostenerlo non è ammiocuggino, ma Samir Al Qaryouti, giornalista di vecchio corso, e uno degli esponenti più autorevoli della comunità palestinese in Italia. Secondo Al Qaryouti infatti, mentre la fantomatica intelligence israeliana era in tutt’altre faccende affaccendata e s’è lasciata cogliere clamorosamente impreparata, nonostante le svariate segnalazioni provenienti in particolare dal regime collaborazionista di Al Sisi, quella di Hamas e della resistenza palestinese avrebbe funzionato benissimo.
Secondo Al Qaryouti, infatti, Hamas stava lavorando da tempo alla preparazione di un’operazione eclatante che sarebbe dovuta avvenire nell’arco di uno, due anni. Nel frattempo però, come confermerebbero alcuni documenti riservati israeliani dei quali la resistenza sarebbe entrata in possesso proprio durante il diluvio di Aqsa, sostiene sempre Al Qaryouti, anche il Governo Netanyahu stava preparando un’operazione in grande stile su Gaza, a prescindere dai fatti del 7 ottobre. approfittando magari di un casus belli qualsiasi. tanto il mainstream internazionale un modo per sostenere i crimini di israele alla fine lo trova sempre. Hamas però avrebbe scoperto questo disegno, e avrebbe deciso di anticipare l’azione, cogliendo così di sorpresa l’intelligence e l’esercito israeliano che erano si stati informati sui preparativi di Hamas, ma appunto si aspettavano che l’attacco sarebbe arrivato mesi e mesi dopo.

Ovviamente noi non abbiamo minimamente gli strumenti per confermare questa tesi e tutto sommato, le dietrologie ci appassiona fino a un certo punto. Il punto però è che i sostenitori del genocidio sin dall’inizio hanno cercato di imporre la narrazione gisutificazionista secondo la quale lo sterminio dei bambini arabi a Gaza non sarebbe altro che un inevitabile, per quanto drammatico, effetto collaterale dell’esercizio del sacrosanto diritto alla difesa e invece, come la giri la giri, altro non è che il tentativo disperato dell’ultima vera esperienza coloniale di rimandare il suo inesorabile appuntamento con la storia, sulla pelle di bambini e civili.

Israele ha il diritto di difendersi!

Mentre per la felicità della nostra classe dirigente lo sterminio dei civili palestinesi non sembra più suscitare grande interesse nei media, la scorsa settimana con la fine della tregua sono ufficialmente ripresi i bombardamenti e le stragi nella striscia. L’esercito israeliano sta avanzando verso sud, ma il suo obiettivo dichiarato di “sradicare Hamas” si rivela ogni giorno che passa più falso e pretestuoso. Tutti i principali leader dell’organizzazione infatti non vivono in Palestina, e se anche accettassimo per Hamas la definizione di terrorismo nessuna cellula terroristica della storia è mai stata sconfitta bombardando indiscriminatamente città e civili, anzi. Come ci insegna la sconfitta americana nella guerra al terrorismo in Afghanistan, con ogni probabilità l’uccisione di miglia di civili innocenti non farà che rinfocolare il già giustificato odio della popolazione palestinese contro i propri assassini. Quali siano i veri obiettivi del governo sionista non è quindi possibile saperlo, e possiamo solo cercare di formulare delle ipotesi con i dati a nostra disposizione. I numeri sulle distruzioni e sulle morti di civili sono impietosi, e dimostrano come fosse dai tempi della Seconda guerra mondiale che non si assisteva a una furia omicida di questa portata. Nell’articolo If I were going to committe a genocide la giornalista australiana Caitlin Jhonson si chiede quali misure adotterebbe uno Stato che avesse come obiettivo il genocidio di un popolo vicino. Purtroppo, le similitudini con quanto sta avvenendo in questi giorni in Palestina, come afferma anche l’ex ambasciatore a Tehran Alberto Bradanini in un articolo uscito sul La Fionda, sono tante e davvero inquietanti. Dal 7 ottobre ad oggi, anche rivedendo a ribasso le cifre fornite dal ministero della salute palestinese, nell’esercizio del proprio diritto a difendersi Israele ha ucciso oltre 16 mila palestinesi e costretto più di 2 milioni di persone ad abbandonare le proprie case.Tra questi, il numero dei miliziani armati, secondo i dati dell’esercito israeliano, oscillerebbe tra i due e i cinquemila:

“Niente accade in modo accidentale” hanno dichiarato un’intervista fonti anonime dell’Esercito israeliano a Sikha Mekomit, un giornale israeliano di orientamento progressista. “Quando una bambina di tre anni viene uccisa dentro casa sua, nel corso di un raid su Gaza, è perché qualcuno nell’Esercito aveva precedentemente stabilito che poteva essere il prezzo da pagare per l’eliminazione di un target militare. Non siamo Hamas, non usiamo razzi imprecisi, tutto è intenzionale. Conosciamo esattamente la misura del danno collaterale”.

“Metteremo l’enfasi sulla distruzione, non sull’accuratezza”, aveva infatti annunciato il 9 ottobre Daniel Hagari, portavoce dell’esercito “L’ammontare dei morti tollerati come danni collaterali nel corso di un’operazione che prenda di mira un leader militare è passato dalle decine alle centinaia, anche quando si tratta di colpire un singolo membro di Hamas”.

In un’interessante e coraggioso articolo ripreso anche dall’ex ambsciatore a Tehran Alberto Bradanini, la giornalista australiana Caitlin Jhonstone si è chiesta come agirebbe un governo che decidesse di dare inizio al genocidio di un popolo vicino. Con una strategia destinata a durare nel tempo, scrive la Jhonstone, comincerebbe con l’eliminazione del maggior numero possibile di donne e bambini. Ecco, nell’esercizio del proprio diritto a difendersi, gli israeliani hanno ammazzato ad oggi circa 11 mila donne e bambini, il settanta per cento delle uccisioni totali e più del doppio donne e dei bambini morti in due anni di guerra in Ucraina. Quel governo genocida, continua la Jhonstone, prenderebbe poi di mira le infrastrutture civili per rendere assai difficile o impossibile la sopravvivenza della popolazione da eliminare. Esercitando il proprio diritto a difendersi, ad oggi Israele ha distrutto o danneggiato quasi l’80 per cento degli edifici di gaza, e questo grazie all’uso di bombe, come quelle di fabbricazione americana da 2 mila libbre, circa una tonnellata, di cui non era praticamente mai stato fatto impiego in contesti urbani densamente popolati. “Va oltre qualunque cosa che io abbia mai visto,” ha dichiarato a questo proposito Marc Garlasco, ex analista dell’intelligence USA. Per trovare un paragone storico per l’utilizzo di bombe così grandi in un’area così piccola e densamente popolate “bisogna tornare indietro al Vietnam o alla Seconda Guerra Mondiale.” Sempre quel governo genocida, continua la Jhonstone, punterebbe poi ai centri culturali con il fine di distruggere le radici storiche di quella popolazione, demolendo luoghi di cultura, musei ed edifici religiosi. Sarà anche questa una coincidenza, ma esercitando il proprio diritto a difendersi e contravvenendo il diritto internazionale e la convenzione UNESCO del 1954, Israele sta deliberatamente prendendo di mira Archivi, bliblioteche, musei, monumenti e luoghi di culto.

In un articolo del Washinghton post la giornalista Karen Attiah scrive: “L’anno scorso, quando la Russia iniziò l’invasione su vasta scala dell’Ucraina, io e molti altri lanciammo l’allarme sulla distruzione del patrimonio culturale e sul saccheggio dei manufatti da parte dei soldati russi. All’epoca”, continua la Attiah, “le organizzazioni internazionali e le istituzioni accademiche discutevano e formavano task force per cercare di aiutare a salvare i beni culturali ucraini e offrire supporto ai ricercatori ucraini. “Per la protezione del patrimonio culturale palestinese”, conclude amareggiata la Attiah, “non c’è stato assolutamente niente di tutto questo”. Infine, come ultimo passo, prosegue la Johnstone, quel medesimo governo genocida aggredirebbe la popolazione indesiderata con ogni mezzo forzandola a dirigersi verso il confine con altre nazioni e ponendole davanti alla tragica scelta di accoglierla o di assistere inermi al suo sterminio. Nell’ esercizio del proprio diritto a difendersi, gli Israeliani stanno spingendo in queste ore tutta la popolazione di Gaza verso sud al confine con l’Egitto.

Proviamo un attimo a chiudere gli occhi e a immaginarci se questi stessi crimini li stessero commettendo la Cina, la Russia, l’Iran o qualsiasi altro antagonista degli interessi imperiali americani. Da due mesi a questa parte staremmo assistendo una pesantissima campagna diplomatica e mediatica contro questo paese, con tanto di squalificazione ontologica degli esponenti del suo governo, interruzione di ogni tipo di rapporto militare, pesantissime sanzioni economiche volte a distruggerne l’economia, onnipresenti immagini nei giornali e nei telegiornali delle sofferenze del popolo brutalmente aggredito, esclusione dello stato aggressore da tutte le competizioni sportive internazionali, braccialetti commemorativi, concerti di solidarietà, minuti di silenzio durante le partite di calcio e tanto altro ancora. Ma visto che Israele ha il sacrosanto diritto di difendersi, e i palestinesi invece non ne hanno alcuno, se non quello di scomparire per sempre dalla loro terra, è bene su tutto questo stendere un velo pietoso; anzi, prima l’esercito israeliano porterà a termine la sua opera di sterminio e prima ci leveremo questo fastidioso peso dalla coscienza. Fortunatamente, l’agenda dei media di regime ormai fa sempre più fatica a dettare l’agenda anche alle persone comuni. Dopo due mesi, in tutto il pianeta le popolazioni continuano a mobilitarsi per affermare che di fronte a un evento di questa violenza, non sarà mai più possibile tornare ai soliti vecchi affari come nulla fosse.

Quello che manca da noi, è un vero e proprio media che invece di fare da megafono alla propaganda israeliana, dia voce a tutti quelli che resistono

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E chi non aderisce, è Bruno Vespa.

JIHAD E IMPERIALISMO – Come USA e Israele hanno imparato ad amare l’ISIS

“La guerra all’Isis è una necessità per tutti i Paesi civili, non solo di questo o di quello Stato, perché è uno scontro tra la nostra civiltà da una parte e chi invece come l’Isis rappresenta l’odio, la superstizione, il terrorismo”. Siamo nel novembre del 2015; pochi giorni prima Parigi era precipitata nel panico a causa di una serie di attentanti portati a termine da un commando di una decina tra uomini e donne che causeranno oltre 400 feriti e ben 130 vittime, a partire dalle 90 rimaste uccise nel solo agguato presso il teatro del Bataclan, e a catechizzare le folle era nientepopodimeno che Silvio Berlusconi, che ammoniva: “Non è una singola nazione ad essere minacciata, ma tutto il mondo civile” e lanciava un appello accorato: “Mi auguro che il sangue che è stato versato a Parigi serva non solo ad Hollande, ma a tutti i leader europei per capire la necessità di estirpare il male alla radice”.
“Non è una guerra all’Islam” scandiva Barack Obama solo un anno prima, dalla tribuna del Palazzo di Vetro dell’ONU, ma “non si può negoziare con il male”. Quello dell’ex presidente statunitense era un vero e proprio allarme: “Sono 15.000 i jihadisti stranieri da oltre 80 Paesi andati in Siria negli ultimi anni. E’ la vendetta per l’aggressione francese al Califfato”. Ciò che accomuna queste dichiarazioni è considerare l’Isis, o più in generale il fondamentalismo islamico, come un prodotto della perversione di qualche debosciato che vuole abbattere la democrazia occidentale. L’Isis, Al Qaida e il vasto mondo del jihadismo sarebbero un frutto andato a male dell’Islam, fuoriuscito dai binari rassicuranti delle libertà individuali del Nord globale.

A noi di Ottosofia – amanti della storia e della filosofia – questa ricostruzione non convince molto, ma quando una ricostruzione è problematica occorre trovare la domanda giusta per offrire una lettura alternativa. E’ tempo di chiedersi: “Come si è affermato il jihadismo e che funzione gioca nel grande scacchiere mondiale?” Per abbozzare una prima risposta ci è venuto in aiuto questo testo di Maurizio Brignoli: “Jihad e Imperialismo. Dalle origini dell’islamismo ad Al Qaida e Isis”. La premessa dell’autore è chiara: “Non è la religione la questione principale da prendere in esame per spiegare le cause del fenomeno Isis, Al Qaida, ecc., bensì l’imperialismo nella sua dimensione economica, politica, militare e ideologica”. Per comprendere le principali organizzazioni jihadiste, secondo Brignoli, sarebbe necessario inserire questi fenomeni “all’interno del grande scontro inter – imperialista in atto per il controllo delle fonti energetiche, dei corridoi commerciali e delle aree valutarie” che è proprio quello che cercheremo di fare brevemente in questo video. La chiamano galassia islamista, mettendo tutto nello stesso calderone; eppure, sottolinea Maurizio Brignoli in Jihad e Imperialismo, “non si tratta di qualcosa di omogeneo”. Tutt’altro; secondo Brignoli le famiglie del jihadismo, spesso e volentieri in aperto conflitto tra loro, sono per lo meno 5: al primo posto ci sono quelli che Brignoli definisce i tradizionalisti, e cioè quelli che, fra il XIX e il XX secolo, hanno utilizzato la religione per combattere il colonialismo; poi ci sono quelli che definisce i reazionari, e cioè i sauditi, trasformati in una specie di “papi” dell’Islam con l’aiuto degli Stati Uniti; la terza forma è la galassia dei Fratelli musulmani che, a sua volta, è composta da una miriade di sottogruppi; poi ci sono gli islamo-nazionalisti che, dagli Hizballah libanesi al palestinese Hamas, sono impegnati in una lotta di liberazione nazionale; e infine i jihadisti veri e propri, che hanno preso le distanze dai Fratelli musulmani per dedicarsi interamente alla lotta armata.
Per capire davvero questo complesso universo – suggerisce Brignoli – più che intrafunarsi in mille diatribe di carattere etnico e religioso sarebbe necessario osservarli attraverso la lente del concetto di imperialismo così come sviluppato da Lenin, e cioè “una fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico” – riassume Brignoli – “caratterizzata da una concentrazione monopolistica della produzione e del capitale, dalla nascita del “capitale finanziario”, dall’esportazione di capitale e dalla spartizione del mondo fra le diverse imprese monopolistiche e le grandi potenze imperialistiche”. In questa prospettiva lo jihadismo contemporaneo deve essere riletto nella logica di imposizione degli USA del proprio dominio imperialista, che ha conosciuto una nuova configurazione all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica. Come troviamo scritto nella National Security Strategy USA del 1991, infatti, “Un nuovo ordine mondiale non è un fatto acquisito, ma un’aspirazione e un’opportunità. Abbiamo a portata di mano una possibilità straordinaria, costruire un nuovo sistema internazionale in accordo con i nostri valori e ideali. Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza realmente globali in ogni dimensione. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana (…)”. A partire, appunto, dal Medio Oriente: “Nel Medio Oriente e nell’Asia sud-occidentale” continua il documento “il nostro obiettivo generale è quello di rimanere la potenza esterna predominante nella regione e preservare l’accesso statunitense e occidentale al petrolio della regione. Per sostenere le vitali relazioni politiche ed economiche che abbiamo lungo tutto l’arco del Pacifico, dobbiamo mantenere nella regione il nostro status di potenza militare di prima grandezza”. Ecco così – in tutto il suo splendore – il mantra dell’eccezionalità USA, poliziotto del mondo per preservare l’accesso del Nord globale al petrolio della regione, ma soprattutto per controllare l’accesso del più temuto tra i potenziali competitor: la Cina, che è diventata ancora più minacciosa da quando ha deciso di ampliare la sua sfera di influenza con le Nuove Vie della Seta – attraverso le quali non ambisce solo a spingere sull’acceleratore dell’integrazione economica e regionale dell’area a partire da un’ondata massiccia di infrastrutture fisiche, ma anche a sfruttare questa integrazione per portare avanti un’agenda di emancipazione dalla dittatura del dollaro. “Nella realizzazione delle Vie della Seta” sottolinea infatti Brignoli “si sta potenziando anche la forza della moneta cinese, difatti diversi dei numerosi accordi bilaterali siglati dai cinesi con i paesi interessati prevedono l’utilizzo dello yuan quale valuta per i pagamenti (…)”. “Circa il 90% del commercio mondiale di prodotti petroliferi coinvolge il dollaro” ricorda il Global Times che, però, sottolinea come la situazione stia “gradualmente cambiando” a partire dagli “sforzi della Russia per spezzare il dominio del dollaro come valuta principale nel commercio mondiale di prodotti petroliferi. La fine del dominio del dollaro nel commercio di energia” conclude il Global Times “è una buona scelta per opporsi alle azioni unilaterali degli Stati Uniti”. Per gli Stati Uniti si tratta di una linea rossa, dal momento che – sottolinea Brignoli – “l’enorme duplice debito statunitense commerciale e di bilancio non sarebbe più sostenibile se il dollaro cessasse di essere la moneta dominante negli scambi delle principali materie prime e valuta di riserva mondiale, dal momento che gli USA non riuscirebbero più a vendere un sufficiente numero di buoni del tesoro per finanziare il loro debito”.
Per ostacolare l’integrazione economica dell’area e la spinta alla dedollarizzazione – che comporterebbe una crisi dell’egemonia degli USA – ecco allora che va consolidato il ruolo del paese come poliziotto del mondo e, per farlo, è necessario tessere una fitta rete di alleanze con i partner regionali, a partire dallo stato di Israele. Non è un caso che il progetto di dominio imperialistico a stelle e strisce si unisce – continua Brignoli – con il “piano Yinon” del 1982, che prevedeva di ridisegnare le frontiere arabe in stati più piccoli, deboli e quindi incapaci di opporsi alle mire espansionistiche sioniste. “Quello che gli israeliani stanno pianificando non è un mondo arabo” scriveva l’antropologo palestinese Khalil Nakhleh “ma un mondo di Stati arabi frammentato e pronto a soccombere all’egemonia israeliana”, ed è proprio sempre con l’obiettivo delle frammentazione che entra in ballo la love story tra gli USA e il jihadismo a partire dalla Siria, dove “lo scontro inter – imperialistico” ricostruisce Brignoli “era inizialmente articolato lungo questi due fronti: Usa – Ue – Turchia – Arabia Saudita – Eau – Qatar – Israele, che hanno usato come truppe di terra Isis, al-Nusra e diverse fazioni curde, contro Russia – Iran – Siria – Hizballah, secondo fronte strettamente alleato della Cina”. Altro che lotta all’ISIS: Brignoli, a riguardo, riporta le dichiarazioni di Efraim Inbar – il direttore del Begin – Sadat Center for strategic studies (Besa) di Tel Aviv durante gli ultimi mesi dell’amministrazione Obama – che ricordava come “l’Isis non ha mai sparato un colpo contro Israele” e quindi, suggeriva, “deve essere al massimo indebolito, ma non distrutto. Sradicare lo Stato Islamico sarebbe un errore strategico. Prolungandogli la vita piuttosto, probabilmente ci si assicura la morte di estremisti islamici per opera di altri “cattivi ragazzi” in Medio Oriente, e probabilmente continueremo a risparmiarci diversi attacchi terroristici in Occidente”. Nell’ottica di conservazione del dominio USA e dei suoi alleati, il permanere dell’Isis ha uno scopo strategico; d’altronde, puntualizzava Inbar, “la stabilità non è un valore in sé e per sé. È auspicabile solo se serve ai nostri interessi. E la sconfitta dell’Isis incoraggerebbe l’egemonia iraniana nella regione”. Ecco perché, nonostante la guerra mondiale per procura in Siria sia stata sostanzialmente l’ennesimo gigantesco fallimento del Nord Globale, la destabilizzazione continua “come sembrerebbe dimostrato dalle operazioni di esfiltrazione effettuate per salvare i comandanti dell’Isis a Raqqa e Deir el-Zor”. “Tramontato il progetto obama – clintoniano di creare un Sunnistan che interrompesse la Via della Seta e spazzasse via la mezzaluna sciita alleata di Mosca” riflette Brignoli “i combattenti dell’Isis potranno essere impiegati proprio contro la suddetta mezzaluna con operazioni di guerriglia anziché con la creazione di una forma pseudo – statale.

Ayman al-Zawahiri

L’Isis” conclude “non potrà certo più puntare all’edificazione di un’entità statuale, che costituiva la più significativa novità nel panorama jihadista, ma dovrà riconvertirsi in attore permanente di destabilizzazione, come nella migliore tradizione delle strategie imperialistiche, con un modello decentralizzato basato su un rapporto più stretto con le popolazioni locali sul modello evolutivo dell’ultima Al Qaida di al-Zawahiri”.
Un Isis de – statalizzato e pienamente addomesticato, quindi, mantenuto in vita al solo scopo di mantenere il controllo dell’area mediorientale, tassello fondamentale per gli USA che funziona anche grazie al supporto di Israele e attraverso l’indebolimento delle realtà arabe. Per capire quale terrorismo – nello specifico – verrà sponsorizzato dal Nord globale nel prossimo futuro a difesa del suo giardino ordinato e contro le minacce della giungla selvaggia che ci circonda, l’appuntamento è per stasera mercoledì 22 novembre con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica; ospite d’onore, per l’appunto, Maurizio Brignoli.
Mentre la propaganda suprematista cerca di utilizzare la carta del terrorismo per giustificare la guerra di Israele contro i bambini arabi, per provare a capire qualcosa del mondo che ci circonda noi abbiamo sempre più bisogno di un vero e proprio nuovo media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Magdi Allam

Cina e India: competizione per il Sud globale (nel ritiro dell’occidente)

Come pare sempre più evidente, la guerra tra Israele e Hamas rischia di essere la pietra tombale sulla credibilità dell’occidente verso il Sud Globale. Ma se le democrazie occidentali son paralizzate da interessi e contro-interessi da fine impero, altri paesi paralizzati non lo sono per niente: Cina e India si contendono il ruolo di portavoce per il Sud Globale, un gruppo di paesi la cui ascesa inevitabilmente porterà ad una revisione dell’ordine internazionale. Ne parliamo in questo video!

È finita la pacchia: la mobilitazione globale per cacciare i parassiti del neocolonialismo

Questa è Milano, sabato scorso. Solo nel capoluogo lombardo è la quarta manifestazione di solidarietà alla lotta di liberazione del popolo palestinese nell’arco di meno di un mese. Per il terzo weekend di fila, anche questa settimana l’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi ha invaso le piazze di una bella fetta del bel paese.
Questa è Napoli, davanti al consolato USA.

Addirittura a Varese sono scesi in piazza, che non è che ce l’abbiano proprio di abitudine, come d’altronde a Verona, ad Ancona, a Modena, a Mestre, a Trento, a Brescia, a Parma, ad Ancona; addirittura ad Aosta e anche – pensate un po’ – in Molise, sia ad Isernia che a Campobasso. E a Trieste avevamo addirittura un’inviata per Ottolina:

Insomma: non c’è aggregato di più di 20 edifici adibiti ad abitazione civile che non abbia messo insieme un numero sufficiente di persone da occupare qualche strada o qualche piazza e dire chiaramente che a questo giro non ci stiamo, e l’Italia è una goccia nell’oceano; tutto il mondo islamico è in subbuglio da oltre un mese, dal Marocco all’Indonesia. A Londra, sabato scorso, si è tenuta la più grande manifestazione dai tempi della guerra in Iraq nel 2003. Negli USA, sempre nella sola giornata di sabato, si sono tenute centinaia di manifestazioni in tutto il paese, compresa un’irruzione nella sede del New York Times e pure in quella di BlackRock.

Ormai non c’è angolo del pianeta dove non si manifesti quotidianamente contro la politica genocida di Israele e del suo bodyguard globale a stelle e strisce: un movimento globale gigantesco che non si vedeva da oltre 20 anni, durante i quali abbiamo assistito all’escalation di violenza dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo senza battere ciglio diventandone, per quanto involontariamente, complici. Oggi è un po’ come se i martiri di Gaza ci stessero fornendo l’ultima possibilità per prendere le distanze – come società civile – dai colpi di coda dell’impero in declino, disposto a distruggere il pianeta piuttosto di concedere finalmente a vecchie e nuove colonie il ruolo che gli spetta nel pianeta. Riusciremo ad approfittarne?

Le manifestazioni più imponenti, ovviamente, hanno riguardato tutto il mondo islamico a partire proprio dai paesi che più sono stati tentati dalla strategia USA – inaugurata da Trump e perseguita senza distinguo da Biden – di avvicinamento tra forze di occupazione israeliane e gli storici client state di Washington. A partire, ovviamente, dalla Giordania dove, da oltre un mese, è in corso un braccio di ferro all’ultimo sangue tra folle inferocite e forze dell’ordine in preda al panico, che è sfociato nell’arresto di migliaia di manifestanti. Manifestazioni imponenti si sono svolte anche in Marocco e in Bahrein, firmatari del famigerato Accordo di Abramo e avanguardie nella svendita del popolo arabo ai progetti egemonici made in USA. Manifestazioni senza precedenti si sono svolte dal Pakistan alla Malesia, passando per l’Indonesia, e questa invece è l’incredibile scena che si è trovato di fronte chi domenica scorsa Al Cairo pensava di andare allo stadio per godersi una normale partita: un intero stadio che all’unisono gridava “Daremo la nostra vita e la nostra anima per la Palestina”. Ma il mondo islamico non è certo isolato: manifestazioni oceaniche si sono registrate in Brasile, in Sudafrica, in Nigeria, in Thailandia. Tra i pochissimi fuori dall’Occidente collettivo ad essersi azzerbinati totalmente alla politica genocida di Israele c’è l’India di Modi, che sulla repressione violenta di tutto ciò che odora anche solo lontanamente di Islam ha fondato la sua intera carriera politica; potrebbe non essere stata una scelta proprio oculatissima. Questa, ad esempio, è Trivandrum, la capitale del piccolo stato meridionale del Kerala. Hanno addirittura azzardato a imbastire un collegamento virtuale nientepopodimeno che con Khaled Mashel, leader storico di Hamas. Ma se l’indignazione per la carneficina israeliana foraggiata da Washington ha unito ulteriormente il Sud globale, quello che forse conta ancora di più è che sta aprendo una breccia gigantesca anche sull’altro lato della barricata; in Francia, a un certo punto, avevano avuto la brillante idea le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei bambini trucidati a Gaza addirittura di vietarle. Hanno arrestato un sindacalista e una storica attivista franco – palestinese, ma alla fine hanno dovuto fare marcia indietro e questa era Parigi sabato. E questa invece era Berlino, nonostante – al giro prima – le forze dell’ordine avevano fatto sapere di non gradire molto con cariche indiscriminate e centinaia di arresti:

Questa invece era Londra, sempre sabato scorso: 300 mila secondo la polizia, 800 mila secondo gli organizzatori ma poco importa. Il punto è che non si vedeva una roba del genere dal 2003 quando, come oggi, eravamo tutti contenti di dare il nostro contributo allo sterminio indiscriminato di bambini arabi – però in quel caso, nello specifico, iracheni:

A Barcellona i portuali si sono rifiutati di far transitare armi destinate al genocidio come d’altronde anche a Genova, da dove hanno lanciato un appello agli altri colleghi sparpagliati nei porti europei che hanno subito aderito, dalla Grecia alla Turchia, passando per l’Australia:

A Sidney, infatti, si è tenuta una delle dimostrazioni più pittoresche di questi giorni quando, al porto di Botany, si sono radunati centinaia di manifestanti, molti dei quali a cavallo di moto d’acqua: l’obiettivo di tutte queste manifestazioni è ostacolare l’attività del gigante israeliano delle spedizioni internazionali ZIM, accusata di trasportare una fetta delle armi utilizzate per sterminare i bambini arabi della striscia. “Il membro del sindacato Paddy Gibson” riporta l’australiana ABCNews “ha detto che gli organizzatori convocheranno una protesta simile ogni volta che una nave ZIM proverà ad attraccare al porto di Botany”. Sempre secondo ABC News si tratterebbe, in realtà, già della sesta protesta del genere soltanto a Sidney dove, la settimana precedente, gli attivisti avevano già bloccato una colonna di camion con merci destinate a finire nelle imbarcazioni della ZIM. A Oslo, invece – patria dello storico accordo tra Rabin e Arafat sistematicamente violato dalle forze di occupazione -, alcune centinaia di attivisti hanno occupato la stazione centrale e hanno giocato a fare gli abitanti di Gaza per qualche ora, sdraiati, immobili e con un lenzuolo bianco insanguinato indosso.

Va anche detto che ci sono state anche manifestazioni di segno opposto; a Parigi, ad esempio, dove si è svolto questo grosso corteo:

Oddio, grosso fino a un certo punto… Diciamo grosso, se pensiamo qual era la piattaforma contro l’antisemitismo, che è l’etichetta che la propaganda affibbia a chiunque si azzardi ad ipotizzare che anche Israele – nonostante la missione divina di cui è investito – tutto sommato ogni tanto qualche norma del diritto internazionale la potrebbe pure rispettare. Così, se gli capita, eh?
Tra le celebrities presenti anche Marine le Pen, rappresentante di una forza politica che si rifà all’esperienza della Francia collaborazionista che gli ebrei ha contribuito a schedarli, ghettizzarli e poi spedirli nei campi di concentramento per la soluzione finale: più che contro l’antisemitismo, mi sa che quello che l’attrae è proprio la pratica dello sterminio in se, a prescindere da chi tocca. Oggi a te, domani a me. Il top del ribaltamento della realtà, poi, si raggiunge quando i vari eredi di quelli che gli ebrei li volevano sterminare sul serio danno degli antisemiti agli ebrei stessi. Ormai è pane quotidiano perché, in tutto il mondo, una bella fetta della comunità ebraica che ha molto spesso inclinazioni pacifiste – se non addirittura compiutamente antimperialiste – nelle manifestazioni di condanna alle azioni criminali dello stato di Israele è in primissima fila. La manifestazione più eclatante è avvenuta poco dopo l’inizio della carneficina, quando a Washington gli attivisti anti – guerra della Jewish Voice for Peace hanno occupato nientepopodimeno che il Campidoglio stesso: la polizia ne ha arrestati circa 400. Ma gli antisemiti immaginari sono comparsi direttamente anche dentro Israele stessa: prima è stato il turno dei soliti gruppi ortodossi, che ritengono il sionismo blasfemo. Per combattere l’antisemitismo, la polizia israeliana li ha presi beatamente a mazzate. Ma la protesta, poi, si è estesa a fasce di popolazione che ortodosse non sono per niente, molti dei quali contro Netanyahu protestavano ben prima dell’inizio della carneficina ma senza necessariamente avere chissà quali simpatie per la causa palestinese, che era stata beatamente espulsa dalle piazze. La follia omicida di Netanyahu ha fatto superare anche questo tabù e in centinaia si sono raggruppati direttamente subito fuori dalla casa di Bibi al grido “Jail now”… IN GALERA!!!
Sono solo la punta dell’iceberg: secondo un sondaggio del canale televisivo Channel 13, il 76% dei cittadini israeliani pensa che Netanyahu si dovrebbe dimettere; l’asse del male a sostegno del genocidio rappresenta una minoranza esigua della popolazione mondiale. Se fossero democratici anche solo per un decimo di quanto professano, dovrebbero ritirarsi tutti a vita privata e dedicarsi a zappare le proda.
Netanyahu non è stato l’unico a ritrovarsi folle inferocite sotto casa: è successo anche a Biden, nel suo soporifero Delaware, dove migliaia di attivisti hanno manifestato al suono di “President Biden, you can’t hide! We charge you with genocide!” (Presidente Biden, non puoi nasconderti! Ti accusiamo di genocidio!), lo stesso slogan che hanno intonato gli attivisti di New York che hanno fatto 1 + 1 e, alla fine, hanno deciso di irrompere negli uffici di BlackRock. A poche miglia di distanza, intanto, un nutrito gruppo di operatori dei media irrompeva nella hall del New York Times; ci sono rimasti fino a che non hanno finito di leggere l’elenco completo delle vittime rimaste uccise dalle armi americane usate dagli israeliani a Gaza. Sono solo 2 delle oltre 500 proteste di ogni genere che si sono svolte sabato scorso in tutti gli Stati Uniti. La settimana prima, a Washington, si era svolta la più grande manifestazione a sostegno della Palestina della storia degli USA e, dopo quella gigantesca dimostrazione di forza unitaria, la strategia ora è cambiata: non ci deve essere un angolo degli USA dove i cittadini rimbambiti dalla propaganda filo – genocida non si debbano confrontare con l’indignazione dei manifestanti.
“Dimostrazioni si sono svolte in ogni città principale del paese: a Detroit c’è stata una protesta di fronte agi uffici della senatrice Debbie Stabenow, una marcia all’università della Georgia, un picchetto di fronte a Textrone – un’azienda militare di Providence -, una protesta fuori dall’ufficio della parlamentare Deborah Ross a Raleigh, marce a Pittsburgh, Tucson, la chiusura totale degli uffici federali a San Francisco. A Washington i manifestanti hanno circondato il Dipartimento di Stato” (fonte: BT).
Insomma: siamo di fronte alla più grande mobilitazione di massa a livello globale dagli anni della carneficina irachena. Quanto servì allora è difficile da dire con precisione; la mobilitazione sicuramente contribuì alla scelta di alcuni paesi europei, dalla Francia alla Germania che, una volta tanto, si rifiutarono di essere tra i complici. Ma il destino dei bambini e dei civili iracheni era segnato: fu una strage di dimensioni bibliche e, alla fine dei giri, il grosso del pianeta decise di chiudere un occhio e tornare al business as usual. Perché mai, a questo giro, dovrebbe andare diversamente? Semplice: perché, nel frattempo, il mondo è cambiato parecchio. In questi 20 anni il declino relativo dell’impero è proceduto a passo spedito: la Cina è diventata, di gran lunga, la prima potenza produttiva del pianeta e anche il primo partner commerciale della maggioranza dei paesi del mondo e, ispirati dal suo esempio, gli stati sovrani del Sud del mondo stanno rialzando la testa. Gli assi portanti dell’unipolarismo a guida USA – dallo strapotere militare a quello finanziario fondato sul dollaro – stanno collassando alla velocità della luce e alcuni effetti più eclatanti si riscontrano proprio in Medio Oriente che, di quel disegno egemonico, è sempre stato uno dei tasselli fondamentali. Un tassello che, a sua volta, si basava sullo strapotere militare degli USA e dei suoi proxy nell’area e sul divide et impera su base settaria tra mondo sunnita e sciita, un equilibrio precario fondato sul terrore e sulla riduzione in semi – schiavitù della stragrande maggioranza delle masse popolari e che, da un po’ di tempo a questa parte, è entrato definitivamente in crisi.
Non sarà un pranzo di gala; sarà un percorso lungo e faticoso, lastricato di battute d’arresto, passi indietro e fiumi di sangue di vittime innocenti, ma mai come oggi pensare che l’esito sia scontato e che contro l’asse del male del Nord globale la partita sia persa in partenza è oggettivamente una cazzata colossale. Dopo la favoletta per allocchi della fine della storia, che non faceva altro che dissimulare una fase transitoria dove l’unica superpotenza imponeva con la violenza la sua volontà al resto del mondo e lo chiamava ordine, la storia è tornata a farsi sentire più forte che mai e, quando la storia si rimette in moto, ogni azione sposta – in un modo o nell’altro – i rapporti di forza e niente è futile o inutile. Con la sfacciataggine della loro prepotenza sanguinaria i vecchi egemoni in declino c’hanno dato la sveglia: tra mille contraddizioni, il mondo nuovo troverà il modo di farsi strada – con o senza il nostro sostegno. L’unica cosa che Israele e gli USA possono davvero ottenere concretamente è, nel frattempo, sterminare quanti più bambini inermi possibili e più ne sterminano, più il declino si velocizza e più saranno tentati di sterminarne in futuro ottenendo NIENTE, assolutamente ZERO. Questa mobilitazione globale è forse l’ultima opportunità che abbiamo: possiamo decidere di essere complici, seguire ignavi le nostre classi dirigenti criminali nel declino inesorabile, passare alla storia come sudditi inermi e condannarci ad essere la feccia del nuovo ordine che verrà. Oppure possiamo cogliere la palla al balzo, liberarci definitivamente dal’1% di parassiti dell’ordine neocoloniale e ritagliarci nel mondo nuovo il posto che ci spetta, di popolo libero tra popoli liberi. Per la nostra stessa sopravvivenza, è arrivata l’ora di unirsi alla resistenza: per farlo, abbiamo bisogno di un media che ci dia voce. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Marine Le Pen


CHI DECIDE CHI È TERRORISTA?

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