Skip to main content

Tag: corporation

RAND CORPORATION: ecco perché un eventuale conflitto a Taiwan sarà per forza nucleare

Le teorie della vittoria delle forze armate USA per una guerra con la Repubblica Popolare Cinese
Archiviata definitivamente l’utopia concreta delle democrazie moderne che, come recita la nostra Costituzione, ripudiavano la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il problema non è più se fare la guerra o meno, ma molto più banalmente che tipo di guerra fare per ottenere quali obiettivi: da questo punto di vista, il dettagliato rapporto di oltre 40 pagine recentemente pubblicato dalla solita Rand Corporation, più che per ciò che svela su quale potrebbe essere l’approccio USA alla questione taiwanese, è illuminante per quello che svela con candore sulla psicologia dei pericolosi sociopatici che, di mestiere, consigliano alle massime sfere delle forze armate e delle amministrazioni di ogni colore il da farsi; “Gli autori di questo paper” si legge subito nell’abstract “illustrano come gli Stati Uniti possono prevalere in una guerra limitata con la Repubblica Popolare di Cina, evitando catastrofiche escalation”. Insomma: combattere e vincere sì, ma con moderazione; dov’è che l’ho già sentita? Ma state tranquilli: ormai i tempi sono cambiati e, ormai, parlare di guerra nucleare non è più tabù; moriremo, certo, ma un po’ più consapevoli. Il rapporto, infatti, non lascia molti margini alla fantasia: nel caso gli USA rilancino il cambio radicale di politica nei confronti di Taiwan adottato durante l’amministrazione Biden e culminato, nell’agosto del 2022, con la missione criminale di Nancy Pelosi sull’isola, evitare il conflitto sarà sempre più impossibile; il conflitto tra grandi potenze non potrà che essere prolungato e sempre più cruento, e che un conflitto prolungato e cruento tra grandi potenze non sfoci nel ricorso al nucleare è puro wishful thinking privo di fondamento. Cosa mai potrebbe andare storto?

“Le guerre sono molto più semplici da iniziare che da finire” sottolinea il rapporto della Rand Corporation, anche perché definire esattamente cosa significa vincere una guerra è più complicato di quanto non sembri; un problema che da 30 anni a questa parte gli USA – sostiene il rapporto – non si sono dovuti porre: qualsiasi fosse l’esito sul campo, infatti, dalla Serbia all’Iraq il rischio di ripercussioni in casa era sostanzialmente pari a zero, ma con “una guerra contro una grande potenza dotata di armi nucleari” la storia cambia completamente e quindi, nel caso di un conflitto con la Repubblica di Cina, “gli USA hanno bisogno di avere una visione chiara fin dall’inizio di come pensano di poter porre termine a un conflitto ottenendo vantaggi politici mentre evitano una potenziale escalation catastrofica”. Insomma: gli USA hanno bisogno di quella che, in termini scientifici, viene definita una teoria della vittoria e che, in soldoni, consiste nell’“identificare le condizioni alle quali il nemico accetterà la sconfitta, e quindi pianificare come modellare il conflitto in modo da creare quelle condizioni”; una buona teoria della vittoria, sottolinea il rapporto, deve avere “obiettivi politici chiari, deve essere concisa, prendere in considerazione le reazioni del nemico, sia militari, che politiche, e anche come reagiranno gli altri paesi coinvolti”. Elaborare una buona teoria della vittoria, continua il rapporto, è fondamentale perché “Le scelte che gli Stati Uniti fanno oggi influenzeranno quali teorie della vittoria saranno praticabili tra un decennio”; “Le modifiche delle capacità militari” sottolinea infatti Rand “richiedono tempi lunghi, e gli Stati Uniti si ritrovano ad affrontare limiti delle risorse disponibili che rendono impossibile investire equamente in tutte le opzioni possibili senza determinare una mancanza delle risorse disponibili per la scelta strategica più adeguata”. Ma non solo: elaborare una buona teoria della vittoria in tempo di pace è fondamentale per preparare le alte cariche delle forze armate e dell’amministrazione a essere in grado di fornire alla future presidenze consigli tempestivi adeguati qualora la deterrenza fallisse e scoppiasse improvvisamente il conflitto; “Viste le conseguenze del possibile ricorso all’arsenale nucleare o anche solo di attacchi convenzionali diffusi contro la Patria, alti ufficiali e funzionari devono essere consapevoli dei diversi rischi che le diverse teorie della vittoria comportano, per fornire i consigli migliori possibile al presidente. Non riuscire a centrare un equilibrio efficace tra il desiderio di ottenere un successo operativo e l’imperativo di gestire l’escalation con armi nucleari da parte dell’avversario rappresenta una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti”.
Si tratta, quindi, di capire come condurre una guerra in grado di raggiungere determinati obiettivi politici evitando il ricorso alla possibilità della mutua distruzione reciproca: per farlo “è essenziale stabilire obiettivi politici limitati”; l’era delle vittorie totali, se mai è esistita, sembrerebbe tramontata per sempre. Nel caso specifico di Taiwan, ad esempio – specifica il rapporto – “gli Stati Uniti potrebbero definire in modo restrittivo il proprio obiettivo politico nei termini di prevenire la possibilità che la Repubblica Popolare di Cina riesca ad imporre un controllo fisico totale di Taiwan, senza che la Repubblica Popolare sia comunque costretta a riconoscere l’indipendenza dell’Isola”. Per meglio schematizzare queste diverse gradazioni possibili di vittoria, il rapporto ricorre a una scala che va dalla distruzione alla vittoria totale: con vittoria totale si intende la vittoria che “consente al vincitore di dettare i termini della pace unilateralmente, anche se tali termini violano gli interessi vitali della parte sconfitta”, come ad esempio è avvenuto nei confronti di Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale. Questo tipo di vittoria però, sottolinea il rapporto, “contro una grande potenza nucleare, semplicemente non è plausibile, perché caratteristica distintiva dell’era nucleare è proprio che anche la parte perdente, anche se le forze convenzionali sono state totalmente annientate, è ancora in grado di annientare il vincitore”. Una vittoria limitata, invece, implica il raggiungimento di obiettivi politici limitati, inferiori rispetto a quelli ai quali il vincitore ambirebbe se avesse il controllo completo sui termini della pace; questo, ad esempio – specifica il rapporto – è quello che ha ottenuto la Gran Bretagna nella guerra delle Falkland contro l’Argentina, alla fine della quale “la Gran Bretagna ha riguadagnato il controllo delle isole, ma il regime argentino è sopravvissuto al conflitto e non ha rinunciato alle sue rivendicazioni politiche sulle isole”. Una sconfitta limitata, invece, è l’esatto inverso di una vittoria limitata, come un’ampia sconfitta è l’inverso delle vittoria totale. Rand aggiunge poi un’ulteriore gradazione, e cioè la distruzione, che “va oltre la sconfitta più ampia e comprende la completa distruzione dei fondamentali di una società”, come successe a Cartagine durante la terza guerra punica. Ora, ribadisce Rand, proprio a causa della sproporzione dei contendenti nelle guerre combattute negli ultimi 30 anni, “I leader statunitensi si sono abituati a perseguire obiettivi massimi e combattere in modi che sarebbero estremamente pericolosi in un conflitto tra grandi potenze”, “ma se pensiamo a un conflitto tra USA e Cina nel 2030, il quadro appare completamente diverso”.
Riassumendo una mole imponente di letteratura scientifica sulla strategia militare, Rand ha elencato 5 teorie della vittoria che hanno attraversato il dibattito dei decision makers lungo tutta la storia: la prima viene definita dominanza e consiste nell’”uso della forza bruta per annichilire fisicamente il nemico, incapace di continuare a resistere”; “Questa teoria” sottolinea Rand “ha il fascino della semplicità, ma richiede – appunto – significative asimmetrie di potere, che non sono pensabili nel conflitto tra USA e Cina, e in generale quando ad essere coinvolte sono comunque due potenze nucleari”. La seconda viene definita negazione e consiste nel “convincere il nemico che è improbabile che riesca a raggiungere i suoi obiettivi, e che ulteriori combattimenti non potranno modificare sostanzialmente la situazione”: nel caso del conflitto tra USA e Cina su Taiwan, questo sostanzialmente significherebbe impedire la conquista militare dell’isola da parte della Cina “ad esempio mediante l’interdizione della possibilità del ricorso alle forze aeree e marittime”. La terza viene definita svalutazione e consiste nel “convincere il nemico che anche se riuscisse a raggiungere i propri obiettivi, i benefici sarebbero molto inferiori di quanto inizialmente stimato”; per capire di cosa stiamo parlando, Rand ricorre a un esempio che arriva dal mondo dell’economia, e cioè quando le “aziende si auto – sabotano, ad esempio indebitandosi ulteriormente o svendendo alcuni asset di valore per diventare meno appetibili per un eventuale acquisizione ostile”: nel caso di Taiwan, ad esempio, alcuni analisti hanno suggerito che questo obiettivo potesse essere raggiunto minacciando l’eventuale distruzione totale delle fabbriche del leader mondiale dei microchip TSMC, ma Rand mette in guardia da questo tipo di considerazioni e sottolinea come “non abbiamo individuato misure militari che potrebbero ridurre significativamente l’attaccamento politico della Repubblica Popolare di Cina alla questione taiwanese”, senza considerare il fatto che – in questo caso – anche “Taiwan stessa, probabilmente, si opporrebbe fortemente a tali azioni” e che “distruggere gli interessi vitali dello Stato in difesa del quale ti sei mobilitato” rappresenterebbe, nella migliore delle ipotesi, “una vittoria di Pirro”. La quarta teoria della vittoria viene denominata del rischio calcolato e consiste nel “convincere il nemico a smettere di combattere minacciando una qualche forma di escalation”; in particolare ovviamente, si tratta della minaccia nucleare: “La sfida principale in questo caso” sottolinea però Rand, è “che quando siamo di fronte a un avversario che può ricorrere alla stessa arma, il rischio di escalation aumenta deliberatamente”. La teoria del rischio calcolato, in soldoni, è “una competizione a chi si assume più rischi e persegue la sua strategia con più risolutezza” e, in questo caso, la Cina per Taiwan potrebbe essere decisamente più tollerante ai rischi di quanto non lo siano gli USA stessi. La quinta e ultima teoria della vittoria, invece, viene definita dei costi militari e consiste nel convincere l’avversario che “i costi della continuazione della guerra superano i benefici”; una ipotesi che rientra in questo ambito ed è particolarmente popolare tra gli analisti e gli strateghi a stelle e strisce è quella che prevede “il blocco a distanza del commercio marittimo della Cina in punti di strozzatura come lo stretto di Malacca”. Rand, però, sottolinea come la teoria dei costi militari, per essere realmente efficace, deve soddisfare 3 requisiti fondamentali e, soprattutto, “in primo luogo, gli Stati Uniti devono trovare un punto debole sufficientemente prezioso da influenzare il processo decisionale dell’avversario, ma non così prezioso da risultare inaccettabile e quindi condurre a un’escalation”. Dopo questa lunga disamina introduttiva, il verdetto di Rand è che l’unica opzione realistica è la teoria della negazione, ma è tutt’altro che una passeggiata: “Una valutazione completa della fattibilità concreta della negazione va oltre gli scopi di questo paper” sottolinea RAND, ma quello che è certo è che “Tendenze sfavorevoli nell’equilibrio militare a tre tra la Repubblica Popolare, Taiwan e gli Stati Uniti nel tempo hanno reso più difficile garantire il successo di una strategia di negazione”; “La Modernizzazione e l’espansione militare della RPC hanno creato crescenti preoccupazioni nei confronti della capacità delle forze armate statunitensi di scongiurare un’invasione di Taiwan”. Rand ricorda come, ancora nei primi anni 2000, Taiwan sarebbe probabilmente stata in grado di difendersi da un’invasione della Repubblica Popolare anche con un sostegno limitato da parte degli Stati Uniti: all’inizio degli anni ‘10, i rapporti di forza erano già radicalmente modificati e “un assalto anfibio in larga scala non era più inimmaginabile”, ma ciononostante, rimaneva comunque “una scommessa audace e forse folle da parte di Pechino”, ma verso la metà degli anni ‘10 “le valutazioni iniziarono a rilevare carenze crescenti nella capacità delle forze armate statunitensi di contrapporsi a un’invasione”, fino a quando – nelle simulazioni effettuate a partire dal 2018 – “le forze aeree statunitensi hanno cominciato a fallire disastrosamente”. Ciononostante, Rand invita a non perdere la speranza; gli attacchi anfibi infatti, sottolinea, sono estremamente complessi: “La Storia” infatti, sottolinea il rapporto, “suggerisce che, affinché l’invasione abbia successo, l’attaccante ha bisogno del controllo aereo e marittimo locale totale, mentre a chi difende basta negare all’avversario quel controllo, il che è molto più semplice da conseguire”. Inoltre, continua il rapporto, “gli USA hanno un vantaggio significativo nella guerra sottomarina grazie a investimenti decennali”; “Una nostra ricerca”, sottolineano, “ha dimostrato che i sottomarini d’attacco statunitensi sarebbero particolarmente ben posizionati per affondare un gran numero dei trasporti anfibi dell’esercito di liberazione” e su questo non mi esprimo, che non ho elementi. I passaggi dopo, però, mi puzzano di whisfhul thinking da un chilometro di distanza: Rand, infatti, sottolinea come gli USA abbiano anche una grande esperienza con attacchi di precisione da lunga distanza in grado, di nuovo, di colpire i mezzi anfibi, e come inoltre siano in netto vantaggio per quanto riguarda i jet di quarta e, sopratutto, di quinta generazione. C’è un però: sia gli eventuali missili, sia i jet, dovrebbero partire da portaerei o altre imbarcazioni di grandi dimensioni che, per quanto avevo capito io, non sarebbero proprio obiettivi difficilissimi per i cinesi. E, in effetti, lo ricorda anche Rand: “La capacità della Republica Popolare di attaccare le basi aeree statunitensi” ricorda infatti lo stesso rapporto “è molto cresciuta, il che minaccia di compensare i vantaggi degli Stati Uniti riducendo il numero di sortite possibili”; Rand, d’altronde, ricorda come “Gli USA da questo punto di vista stanno implementando diversi programmi di modernizzazione che cominceranno a dare i loro frutti tra la fine di questo decennio e l’inizio del prossimo”. Dubito però che nel frattempo, invece, l’esercito popolare di liberazione stia a guardare, e dubitano anche quelli di Rand che sottolineano come – se la Repubblica Popolare continuasse ad avere una crescita economia robusta e una certa stabilità interna – le risorse dell’esercito popolare di liberazione aumenterebbero e “la Repubblica Popolare continuerebbe a guadagnare terreno nella competizione militare”; e – a parte quello che scrivono Il Foglio e Rampini – difficile credere che la Cina non continuerà a crescere e la leadership di Xi Jinping ad avere tutto il consenso popolare che le serve.
Di fronte a tutto questo, gli USA potrebbero semplicemente accettare il fatto che “C’è un rischio sempre più grande di fallimento”, ma “Alla fine potrebbe essere nell’interesse degli Stati Uniti accettare un rischio maggiore di una sconfitta limitata su Taiwan piuttosto che coltivare un rischio molto maggiore di escalation nucleare”: si ha come l’impressione che Rand cerchi, in qualche modo, addirittura di fare da pompiere, come se si rivolgesse a funzionari che, presi dall’entusiasmo, non vedono l’ora di menare le mani e, però, non hanno valutato bene il cespuglio di schiaffi che li attende. E la sensazione aumenta andando avanti col rapporto: Rand, infatti, sottolinea come, di fronte a tutte queste difficoltà che la strategia della negazione dovrebbe affrontare, in molti sostengono vada un po’ rafforzata con elementi mutuati dalla strategia sui costi militari. Il rapporto, però, sottolinea come deviare alcune risorse per perseguire la teoria della vittoria dei costi militari aumenterebbe ulteriormente il rischio di fallimento della strategia della negazione: “Usare bombardieri pesanti per imporre costi militari, ad esempio, potrebbe deviare queste risorse già scarse dalla campagna di negazione”. Un modo realistico per integrare le due strategie piuttosto, sostiene Rand, potrebbe consistere nell’utilizzare navi di superficie, che sono troppo vulnerabili per dare un contributo concreto alle operazioni di negazione vicino a Taiwan per imporre una qualche forma di blocco navale più a largo: per imporre alla Cina di desistere, forse è un po’ pochino e il brodo s’allungherebbe come in Ucraina, e anche a questo giro “Il vantaggio demografico cinese, più la sua ampia base industriale, più la maggior posta in gioco nel conflitto, conferiscono alla Repubblica Popolare capacità e motivazioni più forti di quelle degli Stati Uniti”; d’altro lato, il protrarsi del conflitto “non necessariamente risolverebbe i problemi operativi centrali che deve affrontare l’esercito di liberazione popolare, che essenzialmente consiste nella necessità di trasportare e poi sostenere un ampio numero di forze verso Taiwan”. Secondo Rand, infatti, l’esercito di liberazione popolare ha una capacità di trasporto marittimo relativamente modesta; sicuramente la Cina avrebbe sufficiente capacità di costruzione navale per rifornire con continuità la sua flotta anfibia ma, a conflitto in corso, questi siti produttivi sulla costa sarebbero esposti agli attacchi del nemico.
Insomma, ariecco il caro vecchio pantano e il solito vecchio quesito esistenziale: “Possono, realisticamente, grandi potenze dotate di armi nucleari combattere una guerra lunga, dura e dolorosa senza degenerare verso l’uso del nucleare?” Rand, per prima, nutre qualche perplessità: “C’è una tensione tra, da una parte, il fatto che le guerre tra grandi potenze storicamente tendono a protrarsi nel tempo e, dall’altra, i limiti imposti dall’avvento dell’era nucleare su quanto cruento un conflitto può diventare prima che sfoci inevitabilmente in un’escalation catastrofica”; “La minaccia della mutua distruzione potrebbe scoraggiare l’escalation nucleare, anche se i due schieramenti sono impegnati nelle classiche operazioni di provocazione convenzionale che caratterizzano sempre guerre prolungate, come ad esempio attaccare direttamente la base industriale del nemico e i centri abitati. Teoricamente è possibile che questo timore possa prevenire un’escalation nucleare anche in presenza di attacchi convenzionali su grande scala. Ma, nella pratica, sembra improbabile”. Sembrerebbe perlomeno azzardato, ad esempio, pensare che “la RPC sia abbastanza propensa al rischio da iniziare una guerra con gli Stati Uniti, e allo stesso tempo così avversi al rischio da escludere a priori il ricorso al nucleare anche nel caso venissero minacciati i suoi interessi vitali”; allo stesso modo, se la Repubblica Popolare decidesse di reagire attaccando la base industriale USA con attacchi convenzionali di ampia portata, è “perlomeno plausibile che gli USA considererebbero come minimo l’ipotesi di minacciare una risposta nucleare contro Pechino per fermare gli attacchi”. E visto che il prolungarsi di un conflitto inevitabilmente, a un certo punto, pone una minaccia esistenziale alla parte più in difficoltà, chi sta perdendo ha un incentivo razionale ad azzardarsi a ricorrere a un uso limitato del nucleare, nonostante la possibilità di sfuggire presto di mano: “Con il procedere della guerra, entrambi i lati diventerebbero sempre più pronti ad accettare i rischi mentre cercano un modo per portare un conflitto sempre più costoso verso la fine”.

Il dottor Stranamore

Insomma: quale sia l’esito inevitabile del cambiamento della politica USA nei confronti di Taiwan per ostacolare l’ascesa cinese, gli statunitensi lo sanno benissimo e non si sforzano manco tanto per nasconderlo, a partire dai più guerrafondai tra i think tank; se la palla fosse in mano alle persone comuni la questione non si porrebbe nemmeno. Rimane da capire quanto le oligarchie siano disposte a catapultarci nell’armageddon pur di non vedere per la prima volta il loro conto in banca diminuire un pochino invece che continuare a crescere – come ha fatto invariabilmente negli ultimi 30 anni sulle spalle di tutti noi. Contro la normalizzazione del ricorso all’arma fine del mondo che la propaganda ci sta piano piano tentando di suggerire, sarebbe il caso di risvegliare non dico tanto un qualche senso di giustizia – che magari siamo fuori tempo massimo – ma, almeno, di sopravvivenza sì: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di raccontare senza peli sulla lingua alla gente comune di che morte hanno deciso che sono destinati a morire se non interveniamo prima di subito. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il dottor Stranamore

L’ALTRA DAVOS – L’incredibile storia della “più segreta tra le Società della finanza europea”

Siete ossessionati dal grande reset e dal complotto del nuovo ordine globale messo a puntino dalle eminenze grige del World Economic Forum di Davos? Ecco: aspettate allora di sentire l’incredibile storia di quella che lo stesso Financial Times ha ribattezzato La più segreta tra le Società della finanza europea; poco prima che a Davos i saltimbanchi di mezzo mondo si riunissero per prodigarsi in ogni genere di acrobazia per attirare l’attenzione dei media e accreditarsi così come gli interlocutori privilegiati delle oligarchie che dominano il pianeta, ad appena un centinaio di chilometri di distanza, infatti, quelli che contano davvero si prodigavano – al contrario – nel tentativo disperato di far passare inosservata la loro partecipazione a una riunione super riservata dove, invece, si decidevano davvero le sorti dell’economia europea se non, addirittura, globale. “Questa non è come Davos, dove chiunque può entrare pagando” avrebbe affermato una fonte riservatissima al Financial Times; “questo sì che è un club davvero esclusivo”. Come sempre succede quando i giochi si fanno seri davvero, qui regna la riservatezza e l’understatement è d’obbligo, a partire dal nome – Institut International d’Etudes Bancaires Istituto Internazionale degli Studi Bancari, una sigla da grigi e anonimi funzionari e rigorosamente in francese – come si addice alle vere élite – al posto di quei rozzi anglicismi da popolino che ricordano i Grammy Awards; e, ovviamente, la prima regola è sempre la stessa: non si parla mai del Fight club, manco un misero sito web, un’agenzia, una foto ricordo. Niente di niente; d’altronde, mica hanno bisogno di convincere nessuno. Basta si mettano d’accordo tra loro; a partecipare, infatti, sono una quarantina tra i più potenti banchieri d’Europa, da oltre 70 anni due volte l’anno per 3 giorni di full immersion dalla quale non trapela sostanzialmente mai una virgola: cosa mai potrebbe andare storto?

Martin Ebner

8 dicembre 1997; dopo un anno abbondante di faide all’ultimo sangue, Union Bank of Switzerland e Swiss Bank Corporation annunciano a sorpresa l’operazione che avrebbe cambiato per sempre la finanza del vecchio continente: rispettivamente seconda e terza banca del paradiso fiscale elvetico, si sarebbero fuse e avrebbero dato vita alla più grande banca d’Europa – e la seconda al mondo -allora dietro soltanto alla giapponese Mitsubishi. Nell’anno e mezzo precedente, UBS era stata travolta da una battaglia senza esclusione di colpi tra i suoi azionisti a causa del tentativo di scalata del famigerato multimiliardario svizzero Martin Ebner che, contro il parere di amministratori e dirigenti della stessa UBS, aveva cercato di imporre la fusione con Credit Suisse, allora prima banca svizzera, fino a quando non intervenne qualche manina invisibile e il corso della storia cambiò radicalmente. Quella manina invisibile, qualche anno dopo, è diventata visibilissima: a risolvere la querelle che stava mettendo a soqquadro la finanza svizzera – e, quindi, mondiale – erano stati i principali banchieri europei, riuniti in gran segreto all’Hilton di Bruxelles durante quello che era il novantaquattresimo incontro semestrale, appunto, del riservatissimo ed esclusivissimo Institut International d’Etudes Bancaires; sembra un’era geologica fa. Nei 20 e passa anni successivi, il mondo delle banche è stato rigirato come un calzino: le banche statali cinesi sono diventate, di gran lunga, le banche più grandi e potenti del pianeta; le banche statunitensi hanno attraversato una fase di consolidamento senza precedenti, raddoppiando – e oltre – il patrimonio complessivo di colossi come JP Morgan e Bank of America ed ecco così che, dal secondo gradino del podio, UBS era precipitata nella ventesima posizione, fino a che non gli è stato dato il permesso di papparsi con soldi pubblici anche il decotto Credit Suisse. L’unica megabanca svizzera, così, di botto risaliva tutte le classifiche e gettava nel panico anche la politica nazionale; con un patrimonio gestito di oltre 5 mila miliardi era diventata troppo più potente del suo stesso governo, perché una cosa che raramente trovate negli editoriali del Corriere della Serva e del resto della propaganda è proprio questa: il potere politico non è nelle mani di chi può fare leggi che conquistano i titoli dei giornali ma che, se non tornano comode al grande capitale, semplicemente vengono aggirate se non addirittura completamente ignorate. Il potere politico sta nelle mani di chi decide dove vanno i soldi per fare cosa, e dove vanno per fare cosa la nuova UBS lo decide sulla bellezza di 5 mila miliardi, quasi 7 volte il PIL svizzero. A questo giro, sinceramente, non sappiamo esattamente che ruolo abbia svolto l’Institut International d’Etudes Bancaires; una cosa però la sappiamo: nonostante avesse lasciato la guida di UBS nel 2020, Sergio Ermotti continuava ad avere un posto a tavola nel club più esclusivo della grande finanza europea e dopo il salvataggio con soldi pubblici – ma guadagni privati – di Credit Suisse da parte di UBS ecco che, come per magia, Ermotti è stato richiamato a guidare il neonato colosso. KOINCITENZAAAHH?!11!1!!!

Sergio Ermotti

Il problema, appunto, è che su queste conventicole non si possono fare altro che congetture: come ha dichiarato al Financial Times l’italiana Ilaria Pasotti, che ha fatto un lavoro di archivio certosino sulla storia di questi meeting, “Negli archivi sono conservate solo poche foto degli incontri. E principalmente riguardano cene, aperitivi e visite a musei e palazzi. E questo” conclude Pasotti “sottolinea la natura riservata degli incontri”; ma se in passato – quando ancora l’Europa era divisa e le tensioni geopolitiche rischiavano di compromettere il percorso di integrazione – tutta questa riservatezza poteva avere una sua ragion d’essere, adesso, per usare un eufemismo, “I suoi incontri segreti e sontuosi rischiano di non essere al passo con le moderne aspettative di trasparenza” (Financial Times), tanto da registrare addirittura qualche defezione – e non certo da parte di qualche pericoloso bolscevico.
E’ il caso, ad esempio, di Par Boman, il presidente della storica banca privata svedese Handelsbanken che, con i suoi 10 mila dipendenti sparsi per tutta la Scandinavia ed oltre, è una delle banche più importanti dell’estremo nord del continente: “Siamo stati membri per decenni, quando l’organizzazione aveva lo scopo di avvicinare le banche europee” avrebbe dichiarato al Financial Times, “ma dopo la crisi finanziaria” avrebbe confessato “abbiamo ritenuto che la sua stravaganza e la mancanza di trasparenza non si adattassero ai nostri valori”, anche perché non è mai stata solo questione prettamente di banchieri; dai governanti svizzeri, quasi sempre presenti, a Mattarella, passando addirittura per personaggi apparentemente fuori contesto come il presidente Erdogan e l’allora presidente Medvedev, i volti dell’élite politica che hanno partecipato a questi incontri a porte chiuse sono innumerevoli. E siccome sono tutti dei simpatici mattacchioni, su quanto sia fuori luogo questa cortina fumogena intorno agli inciuci tra finanza privata, banche centrali e politica, fanno addirittura autoironia; in uno dei rarissimi casi di interventi che poi, rigorosamente solo in forma scritta, sono stati dati in pasto all’opinione pubblica per provare a smorzare i sospetti che cominciavano a montare, l’allora vice presidente della Banca Centrale Europea, il greco Lucas Papademos, non aveva trovato di meglio, infatti, che citare un celebre frammento di Adam Smith: “Persone dello stesso settore” recita il passo citato, “raramente si incontrano solo per divertimento, e anche in quelle occasioni, la conversazione finisce inevitabilmente in una sorta di cospirazione contro il pubblico, o nella ricerca di qualche espediente per aumentare i prezzi”. E, in effetti, anche in questo piccolissimo sprazzo di luce in mezzo all’oscurità rappresentato dalla trascrizione dell’intervento di Papademos, la cospirazione contro il pubblico c’è tutta, e non c’è poi granché da ridere; con la crisi dei subprime negli USA già in pieno svolgimento – anche se qualche mese prima che venisse ufficialmente svelata al pubblico – Papademos sprizza ottimismo da tutti i pori e parla di una lunga serie di “buone notizie”, a partire da “prospettive di crescita nell’area dell’euro nei prossimi trimestri davvero molto positive” (e poi Danilo Taino si lamenta che ci manca l’ottimismo… Danì, te lo ripeto: ci manca sostanzialmente TUTTO, dall’intelligenza all’onestà, a parte l’ottimismo). Papademos, comunque, non nasconde che “la performance di crescita delle economie dell’Europa continentale negli ultimi dieci anni sia stata piuttosto deludente, soprattutto” – sottolinea già in tempi non sospetti – “se la confrontiamo con l’impressionante tasso di crescita registrato negli Stati Uniti nello stesso periodo”; al che uno dice: daje, magari ci arriva a dire che tra deindustrializzazione, finanziarizzazione e dominio del dollaro gli USA ci stanno ingroppando a saltelli. Macché. Papademos, ovviamente, non fa altro che offrire ai suoi amici oligarchi un menù à la carte di tutte le riforme possibili immaginabili per permettergli di arraffare quel che rimane da arraffare prima che la barca affondi definitivamente:
uno: “riforme strutturali nei mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi per migliorare la flessibilità” e cioè lavoro povero e precario e, quindi, sempre ricattabile;
due: “eliminazione degli ostacoli alla concorrenza transfrontaliera e completamento di un vero mercato unico nell’UE” e cioè strada spianata per la ferocia mercantilista tedesca;
e poi ancora istruzione privata, fine di lacci e lacciuoli per le imprese, fino al vero nocciolo della questione: la totale libertà di circolazione dei capitali. “Esiste un forte sostegno empirico, basato sull’analisi dei dati per molti paesi e molti settori” sottolinea Papademos “che le dimensioni e la profondità dei mercati dei capitali hanno un impatto positivo significativo sulla crescita economica: più grandi, più liquidi e anche più integrati sono i mercati finanziari, meglio è. Lo sviluppo finanziario” continua “è positivo per la crescita della produttività e l’accumulazione di capitale, e la liberalizzazione finanziaria genera notevoli benefici in termini di crescita”. Il perché è presto detto: “Mercati finanziari ben sviluppati ed efficienti” continua infatti nel suo intervento Papademos “sono più bravi a convogliare il capitale dai settori in declino a quelli con opportunità di crescita”. A dimostrarlo, ci starebbe il caso virtuoso che arriva dagli USA: “E’ stato stimato” ricorda infatti Papademos “che la liberalizzazione del mercato finanziario negli USA abbia contribuito ad un aumento della crescita reale pro capite compresa tra lo 0,6 e l’1,2%”, ma non solo: “dopo la rimozione delle restrizioni” continua entusiasta Papademos ”la quota dei prestiti in sofferenza e delle cancellazioni è scesa dallo 0,3% allo 0,6%”. “Il risultato” insiste “non è stato solo una riduzione dei tassi di indebitamento per le imprese e per le famiglie, ma anche il rafforzamento della concorrenza e dell’imprenditorialità, e un netto miglioramento per quanto riguarda la condivisione del rischio”.

Lucas Papademos

Pochi mesi dopo, proprio a partire dagli USA, la liberalizzazione dei mercati finanziari porterà a una delle più grandi catastrofi finanziarie della storia del capitalismo, dalla quale non solo non siamo mai usciti, ma che abbiamo contribuito attivamente a rendere sempre più grande e pervasiva con il contributo attivo dei vari Papademos e degli oligarchi che cercava di compiacere con i suoi ragionamenti a capocchia in quell’inverno del 2006; la fuga dei capitali verso i settori ad alta crescita di cui parlava Papademos effettivamente c’era stata davvero, solo che quei settori non producevano niente: nessun valore di nessun genere, solo fuffa e speculazione. E non si trattava di essere Nostradamus, eh? La realtà oltre la propaganda sulle magnifiche sorti e progressive delle liberalizzazioni finanziarie made in USA, infatti, si era già fatta sentire, col botto: poche settimane prima, infatti, le oligarchie finanziarie USA erano state travolte dal primo chiaro indizio che qualcosa non stava andando esattamente come previsto; era il settembre del 2006 e, dopo appena 6 anni di forsennata attività in questa nuova meravigliosa era della speculazione senza limiti, a crollare come un castello di carte – bruciando oltre 6 miliardi di dollari in poche ore – era stato il fondo speculativo Amaranth Advisors, registrando quello che allora era uno dei collassi più grossi del settore di tutti i tempi. Era solo l’antipasto, ma di una portata tale che non sarebbe poi stato così complicato realizzare che eravamo di fronte a un vero e proprio buffet a base di bolle pronte ad esplodere, se non altro – ad essere proprio generosissimi – almeno potenzialmente. Il punto è che in realtà, delle crisi, a queste conventicole, a un certo punto gli importa anche una ricchissima sega, tanto il politico di turno che si sente lusingato per l’invito al club esclusivo, di sicuro troverà il modo di farle pagare a qualcun altro.
Grazie alla sua provata capacità predittiva, Lucas Papademos nel novembre del 2011 verrà premiato da tutti gli schieramenti politici mainstream greci con un posto da Primo Ministro; per manifesta incapacità, durerà come un gatto in tangenziale, mentre la sua agenda politica, dettata dai banchieri dell’Institut International d’Etudes Bancaires, continuerà a procedere indisturbata: “L’obiettivo iniziale dell’Institut International d’Etudes Bancaires” sottolinea il Financial Times, è sempre stato esclusivamente quello di “combattere i controlli valutari” e l’”interferenza da parte dei governi nazionali nel sistema finanziario”. E’ la vera lotta di classe dall’alto contro il basso condotta, negli ultimi decenni, a partire da queste conventicole dove il tutto viene perfettamente concordato e coordinato, e la fuffa sul libero mercato sparisce come neve al sole non appena le porte lasciano fuori occhi indiscreti e si torna a parlare tra adulti della lotta per la libertà assoluta di movimento dei capitali e per la creazione dei monopoli finanziari globali che permettono allo 0,001% di campare di rendita, fregandosene totalmente di cosa avviene nel mondo reale. Contro i complotti delle oligarchie finanziarie presi a porte chiuse contro il resto dell’umanità, noi non abbiamo altra arma che combattere per portare tutto questo alla luce del sole; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte, che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lucas Papademos

DOVETE RIDARCI IL DENARO – il Rapporto Oxfam sul furto dei Super Ricchi che inchioda gli USA

Disuguaglianza, il potere al servizio di pochi: il titolo dell’ultimo rapporto di Oxfam dedicato al furto sistematico di ricchezza da parte degli uomini più ricchi dell’impero non poteva essere più chiaro; “Dall’inizio di questo decennio” sottolinea il rapporto “la ricchezza dei cinque miliardari più ricchi del mondo è più che raddoppiata, mentre quella del 60% più povero, non ha registrato nessuna crescita”. Ancora peggio è andata ai più poveri in Italia, dove “La ricchezza detenuta dal 20% più povero della popolazione” sottolinea il rapporto “nell’ultimo anno si è addirittura dimezzata” con il risultato che oggi l’1% dei più ricchi da solo possiede 84 volte il loro patrimonio. La conclusione di Oxfam è da veri ottoliner: “Siamo davanti a un bivio” scrivono; da una parte “un’era di incontrollata supremazia oligarchica” e dall’altra un “potere pubblico che riacquista centralità promuovendo una società più equa e coesa ed un’economia più giusta e inclusiva”. Il rapporto è stato presentato durante la giornata inaugurale dell’appuntamento annuale del World Economic Forum a Davos, dove era presente anche il nostro ministro Giorgetti col piattino in mano nel tentativo di convincere quelle stesse oligarchie a comprarsi un pezzetto di paese che hanno deciso di mettere in svendita; secondo voi, per quali delle due opzioni stanno lavorando?

Le “elevate e crescenti disuguaglianze di ricchezza che si riscontrano in tanti Paesi, a partire dal nostro” scrive Oxfam nell’introduzione al rapporto “rappresentano un tratto tristemente distintivo dell’epoca in cui viviamo”, ma non ci sarebbe niente di più erroneo – sottolineano – che “considerarle un fenomeno causale ed ineluttabile”. Piuttosto, continuano, sono la conseguenza ineluttabile di “scelte politiche” precise: da bravi ottoliner gli amici di Oxfam vanno dritti al cuore della questione e senza perdersi in moralismi astratti puntano il dito contro “la dinamica del potere”, quel potere materiale e concreto che ha accompagnato, attraverso la finanziarizzazione, una concentrazione mai vista della ricchezza che, a sua volta, ha inesorabilmente “incrementato le rendite di posizione e indebolito il potere contrattuale dei lavoratori”. “Una vera e propria redistribuzione alla rovescia” scrive ancora Oxfam “con un trasferimento continuo di risorse da lavoratori e consumatori a titolari e manager di grandi imprese monopolistiche, con conseguente accumulazione di enormi fortune nelle mani di pochi”. Pensavamo fosse il rapporto di una ONG; era uno dei nostri pipponi: la gallina dalle uova d’oro dei super-ricchi, spiega Oxfam, sono le grandi corporation che “in media, nel biennio 2021-2022 hanno registrato un aumento dei profitti addirittura dell’89% rispetto al periodo 2017-2020” e non era che un antipasto. I “nuovi dati relativi ai primi mesi del 2023” ricorda infatti Oxfam “mostrano come l’anno appena conclusosi sia destinato a superare ogni record, attestandosi come il più redditizio di sempre”. Complessivamente, infatti, 148 tra le più grandi società del mondo – e cioè quelle per le quali si hanno i dati – avrebbero realizzato circa 1.800 miliardi di dollari di profitti tra giugno 2022 e giugno 2023, un bel 52,5% in più rispetto al profitto medio registrato nel quadriennio che va dal 2018 al 2021.
Tra queste, in particolare, spiccano “Undici aziende farmaceutiche che hanno aumentato i propri profitti di quasi il 32% nel 2022 rispetto alla media del periodo 2018-2021, registrando profitti in eccesso per 41,3 miliardi di dollari nel 2022; ventidue società del settore finanziario che hanno aumentato i propri profitti del 32% rispetto alla media del periodo 2018-2021 e hanno realizzato profitti in eccesso per 36 miliardi di dollari nel 2023; due marchi di lusso i cui profitti hanno visto un incremento del 120% rispetto alla media del periodo 2018-2021 e quattordici compagnie petrolifere e del gas i cui profitti sono aumentati del 278% rispetto alla media del periodo 2018-21, registrando profitti in eccesso per 144 miliardi di dollari nel 2022 e 190 miliardi di dollari nel 2023”. Questa impennata senza precedenti proprio mentre l’economia cadeva a pezzi e l’inflazione dava una mazzata definitiva al potere d’acquisto dei comuni mortali – come prova a spiegare da due anni Isabella Weber – è stata resa possibile proprio “dalla concentrazione del mercato, che assicura posizioni monopolistiche, consentite dai governi”; il rapporto ricorda infatti come “A livello globale, nel corso di appena due decenni, tra il 1995 e il 2015, 60 aziende farmaceutiche si sono fuse in 10 colossi del Big Pharma. Due multinazionali controllano oggi più del 40% del mercato globale delle sementi (25 anni fa erano 10)”, e a dominare il mercato digitale sono una manciata di Big Tech con i “tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online che arrivano nelle casse di Meta, Alphabet e Amazon, e oltre il 90% delle ricerche online che viene effettuato tramite Google”. Risultato: “Appena lo 0,001% delle imprese più grandi incamera quasi un terzo di tutti i profitti societari globali”. Lo 0,001%, e lo chiamano libero mercato.
Da un certo punto di vista, però, è libero davvero; di non pagare le tasse. Come ricorda il rapporto infatti “L’aliquota legale media sui redditi societari nei Paesi OCSE è a passata dal 48% del 1980, al 23,1% del 2022”: meno della metà (quando le pagano); come ricorda il rapporto, infatti, “Si stima che circa 200 miliardi di dollari vengano persi ogni anno a causa dell’elusione fiscale delle imprese multinazionali, con i paesi del Sud del mondo che tendono ancora una volta a subirne in maniera prevalente i contraccolpi”. I patrimoni sterminati dei supermegaricchi arrivano esattamente da qui: “nel 2022” ricorda infatti il rapporto “i 50 miliardari statunitensi più ricchi detenevano il 75% della propria ricchezza in azioni delle società da loro guidate”, vale a dire tutte; “L’1% più ricco al mondo” sottolinea infatti il rapporto “possiede attualmente il 59% dei titoli finanziari a livello globale”. Alla faccia dell’azionariato popolare.
I grandi azionisti, poi, hanno approfittato di questa gigantesca ondata di profitti da rendita di posizione monopolistica per aumentare la loro presenza nell’azionariato delle big corporation in modo spropositato: “Per ogni 100 dollari di profitti realizzati tra luglio 2022 e giugno 2023 da 96 tra le più grandi società al mondo” riporta infatti Oxfam “82 dollari sono andati agli azionisti sotto forma di dividendi o buyback azionari, consolidando così le posizioni di persone che occupano già, nella stragrande maggioranza dei casi, le posizioni apicali nelle nostre società”.
Nel frattempo, vista dall’altra estremità della piramide, la situazione appariva decisamente meno florida: secondo Oxfam, infatti, 791 milioni di lavoratori distribuiti su 52 paesi, nel biennio 2021 – 2022 “hanno visto un calo del monte salari in termini reali di 1.500 miliardi di dollari, equivalenti a poco meno di una mensilità per ciascun lavoratore”. Il rapporto poi si concentra sul caso italiano, ma la dinamica è esattamente la stessa: “Dall’inizio della pandemia” sottolinea Oxfam “il numero di italiani presenti nella lista dei miliardari di Forbes è passato da 36 a 63”; 63 persone che hanno visto il loro patrimonio passare da 149 a 217 miliardi, un bel +46%. Ma i più ricchi tra i super-ricchi potrebbero non essere gli unici a pensare che pandemia, guerre e inflazione hanno fatto anche cose buone: il numero di italiani titolari di un patrimonio superiore ai 5 milioni, infatti, è passato da poco meno di 81 mila a quasi 93 mila, e tutti insieme hanno visto il loro patrimonio crescere di 178 miliardi di dollari in termini reali; loro, l’urgenza di far ripartire la crescita e di riportare la pace in Europa mi sa che non l’avvertono poi più di tanto.
Il processo comunque è in corso già da prima, in particolare – te guarda a volte il caso – proprio dal 2008, la data ufficiale di inizio di quella che abbiamo imparato a definire la Terza Grande Depressione del Capitalismo Globale: prima di allora infatti, per un decennio – riporta Oxfam – “la quota di ricchezza del percentile più ricco degli italiani aveva registrato un calo” come, d’altronde, aveva subito una diminuzione consistente anche il famoso coefficiente di Gini, il più classico tra i misuratori della disuguaglianza. Dopodiché il disastro: lo 0,1% più ricco degli italiani, poco più di 50 mila persone, ha visto la sua quota di ricchezza – rispetto al totale nazionale – passare dal 5,5 al 9,4% e lo 0,01 addirittura dall’1,8 al 5. Triplicata. Nel frattempo, i redditi reali delle famiglie italiane si riducevano in media di un bel 5,3%; chissà perché non mi stupisce per niente…

E qui ecco che riparte la ramanzina del Marru; d’altronde, vi ho avvisato più volte: questa cosa la ripeterò all’infinito, fino a che non la capiscono anche i muri – o meglio, probabilmente non si tratta tanto di capirla (che non c’ho da insegnare niente a nessuno, e ci mancherebbe pure); si tratta di cominciare a darle tutto il risalto che merita perché è la chiave per capire tutto, senza la quale si continua a brancolare nel buio. Il grande furto delle oligarchie e l’era della diseguaglianza, infatti, hanno senz’altro millemila concause – e anche Oxfam ne elenca una lunga serie, tutte importanti; dalle politiche fiscali, al welfare, alle politiche del lavoro, ma ce n’è una che non cita e che invece, a nostro avviso, sovradetermina tutte le altre: la strategia che il superimperialismo USA ha adottato per contrastare il suo declino relativo a partire dall’inizio della Terza Grande Depressione. A quel punto – come ha dovuto ricordare anche uno non particolarmente sveglio come Federico Fubini sul Corriere della Serva la settimana scorsa – la quota di ricchezza globale detenuta dai paesi dell’Europa a 27 era più o meno allo stesso livello di quella USA; oggi l’economia USA è più grande di quelle europee di oltre il 50%, e il grande trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto in Italia e negli altri paesi europei – e quello epocale dall’Europa agli USA – non sono due fenomeni distinti e paralleli. Non sono nemmeno, semplicemente, collegati; sono letteralmente, almeno in buona parte, LA STESSA IDENTICA COSA, e messi insieme sono esattamente la risposta al più grande dei misteri che ci attanaglia da due anni a questa parte: come è mai possibile che le élite europee si facciano prendere a calci nei denti da quelle di oltreoceano senza proferire parola? Ecco perché: perché con la protezione del superimperialismo USA i capitali li portano negli USA via paradisi fiscali e poi li moltiplicano a dismisura senza fare assolutamente una seganiente, affidandoli ai giganti del risparmio gestito a stelle e strisce che li usano per gonfiare a dismisura le bolle speculative dello schema Ponzi della finanza USA; quindi noi che campiamo del nostro lavoro – e i capitali li possiamo esportare al massimo da Grottaferrata a Monte Porzio Catone – paghiamo le conseguenze dell’economia che ci collassa davanti. Quello scioperato del figlio cocainomane del nostro datore di lavoro, invece, via Isole Vergini Britanniche dà i suoi soldini a un fondo predatorio di private equity e accumula profitti – più o meno detassati – su profitti; quindi non è lui a prendere i calci nei denti dalle élite di oltreoceano: a prendere i calci nei denti siamo solo noi.
Certo, nel grande gioco del capitalismo globale anche lui non è altro che il bimbo scemo ma viziato da tenere buono con tanti bei regalini milionari, ma tutto sommato mi ci cambierei, come dire… E, soprattutto, non posso certo aspettarmi che sia lui ad alzare la testa al posto mio, che non solo come lui non conto e non posso contare una seganiente politicamente, ma che invece che regali milionari continuo a ricevere buste paga da terzo mondo. Ecco: fissarsi bene in testa il funzionamento del grande meccanismo complessivo che spiega tanto il rapporto di Oxfam come l’articolo di Fubini, come i tedeschi che si fanno radere al suolo un’infrastruttura strategica da un atto terroristico senza battere ciglio, come la Meloni che giocava a fare la sovranista e ora manda Giorgetti col cappello in mano a fare l’elemosina a Davos, di per sé ovviamente non cambia niente, ma magari ci aiuta a chiarire cos’è che esattamente dovremmo cominciare a pretendere, e cioè che ci restituiscano il nostro denaro, niente di più, niente di meno. Noi rivogliamo il nostro denaro. Se lo rivuoi anche te, aiutaci a costruire il primo media che dà voce a tutti quelli che sono stati derubati e ora pretendono di riavere indietro il maltolto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lorenzo Tosa (sì, cioè lo so, non c’entrava un cazzo qui Tosa, ma ho realizzato che in due anni non l’abbiamo praticamente mai offeso e ci siamo detti che era arrivato il momento di rimetterci un po’ in pari).