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Tutti pazzi per Gaza: il patetico riposizionamento dei liberali per salvare sionismo e capitalismo

OttolinaTV by OttolinaTV
08/06/2025
in Economia, I Pipponi del Marrucci, In evidenza, Italia, Medio Oriente, U.S.A.
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Oooh! Lo vedi? Sempre a parlarne male, e invece… Da qualche giorno, anche liberali e sinceri democratici hanno rotto gli indugi e hanno deciso che non faranno più mancare la loro solidarietà ai palestinesi! Alla fine, era solo questione di pazienza. Grande dote, la pazienza; no come voi altri, sempre agitati, sempre di fretta. Ogni cosa ha i suoi tempi: qui è bastato superare ufficialmente la soglia dei 17 mila bambini trucidati, DICIASSETTEMILA, e zac, subito editoriali indignati, manifestazioni, addirittura Mattarella! A dire il vero, non è la prima volta che liberali e sinceri democratici si mobilitano per denunciare le violenze che hanno travolto la striscia di Gaza; fino ad ora, però, avevano deciso di farlo sventolando le bandiere israeliane: quella palestinese era da antisemiti (anche se eri ebreo). D’altronde, qui la faccenda è complicata; mica è semplice come in Ucraina: non c’è mica un aggredito e un aggressore, qui! No, no; anzi, al limite – a dirla proprio tutta – qui gli aggrediti sono gli israeliani.
Il 7 ottobre, l’anno zero, il tragico inizio di questa terribile storia; prima di allora, niente: tutto sereno e pacifico. Basterebbe tornare a quei bei tempi andati, prima che Bibi e i suoi alleati zoticoni rovinassero la reputazione del colonialismo e dell’apartheid; un po’ come negli USA prima che Trump e i suoi amici zoticoni rovinassero la reputazione del Paese leader del mondo libero e democratico.

Carissimi ottoliner, ben ritrovati e benvenuti a questo ritorno dei nostri pipponi! Prima di svelarvi la sottile trama che lega Gaza alle sorti del capitalismo USA e le per niente magnifiche sorti e progressive del ritorno del campo largo come risposta alle tragedie che stiamo vivendo, vi ricordo di mettere mi piace a questo video e di condividerlo come se non ci fosse un domani, per aiutarci a combattere anche oggi la nostra sporca guerra contro la dittatura degli algoritmi (e anche perché, ormai, che ci sia un domani in effetti non è assolutamente scontato) e, se ancora non lo avete fatto, vi ricordo anche di iscrivervi a tutti i nostri profili social e attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un redattore de La Repubblichina a passare dal “diritto alla difesa” all’accusa di “intollerabili crimini di guerra”, ma per noi fa davvero la differenza e ci consente di continuare a dire pubblicamente che il problema non è Bibi, o Trump: il problema è l’imperialismo e tutti i suoi utili idioti.

Finalmente è successo il miracolo: dopo decine di migliaia di bambini sterminati, ospedali rasi al suolo, campi profughi date alle fiamme, dopo migliaia e migliaia di video sui social di soldati dell’IDF che esultano sorridenti di fronte a corpi smembrati e crani di ragazzini aperti a metà, decine di dichiarazioni ufficiali che annunciano deportazioni di massa e soluzioni finali, dopo centinaia di giornalisti assassinati, accordi sistematicamente violati, notizie di ogni genere spacciate come verità assolute e, poi, rivelatesi gigantesche puttanate fabbricate a tavolino, dopo innumerevoli massacri di operatori umanitari, il blocco totale degli aiuti e il tiro al piccione sui civili che si accalcano le poche volte che poi gli aiuti trovano il modo di entrare, a quanto pare anche i sinceri democratici e liberali occidentali (e il circo mediatico che tengono in piedi), per dirla con Fantozzi, sono stati colti da un leggero sospetto. Dopo aver coperto, per quasi due anni, ogni genere di crimine in nome di un fantomatico diritto alla difesa, dopo aver criminalizzato ogni forma di dissenso nascondendosi dietro l’accusa di antisemitismo – che, incomprensibilmente, travolge spesso anche gli stessi ebrei -, da qualche tempo a questa parte la narrazione sembra essere vistosamente cambiata. Il termine genocidio, per quanto tecnicamente inoppugnabile, continua ad essere tabù, ok: d’altronde, implicherebbe una complicità diretta di chi gli dà lo stipendio, ed è meglio glissare; ma ormai parlare di crimini, di sterminio e addirittura, ogni tanto, di pulizia etnica, è diventato piuttosto comune e, incredibilmente, sembra sia diventato addirittura legittimo andare in piazza per accendere i riflettori su Gaza senza essere immediatamente accusati di antisemitismo, addirittura anche se si decide di marciare con le bandiere dell’aggredito invece che con quelle dell’aggressore. So’ progressi, e non compiacersene, o non approfittarne, sarebbe da rintronati.

Ma mentre proviamo ad approfittarne per difendere i diritti dei gazawi e dei palestinesi in generale, non possiamo esimerci dal chiederci: ma perché? Perché proprio adesso? Perché un partito del tutto allineato col progetto coloniale di Israele decide di scendere in piazza con le bandiere della Palestina? Perché testate che hanno dedicato migliaia di pagine alla diffusione delle fake news fabbricate dalla propaganda sionista cominciano a porsi dei dubbi? L’idiozia, ovviamente, può aver svolto un ruolo: dopo che hai difeso per decenni un regime di apartheid con la barzelletta dell’unica democrazia del Medio Oriente, prima di ammettere che si trattava, in realtà, di un regime etno-nazionalista dedito sistematicamente al crimine e al terrorismo di Stato, ci vuole comunque il suo tempo, soprattutto se hai un’agenda già piena di apericene, vernissage e serate di gala. E’ comprensibile! Ma forse, oltre alla lentezza cognitiva, c’è qualcosa di più: il punto è che, come ampiamente previsto e prevedibile, Netanyahu, nonostante tutto, la guerra in realtà la sta perdendo. Intendiamoci: sta portando avanti lo sterminio, ha messo in ginocchio la resistenza palestinese e anche quella di tutto l’asse; ha ottenuto successi straordinari e concluso con perizia operazioni ultrasofisticate, eppure potrebbe non bastare. Come ormai hanno imparato a ripetere anche democratici e liberali, Netanyahu sta danneggiando la stessa Israele.

Il punto è che non esiste una via di uscita da questi ultimi due anni di tentato genocidio, diversa dalla pulizia etnica definitiva; e il compimento della pulizia etnica rischia di affossare definitivamente il processo di normalizzazione con le petromonarchie: niente più Patto di Abramo, quindi. Un esito che l’Occidente che sponsorizza il progetto coloniale israeliano – molto semplicemente – non si può permettere: USA e vassalli, come ha testimoniato il tour mediorientale di Donald Trump, hanno bisogno come non mai dei petrodollari dei regimi feudali del Golfo. L’indignazione a scoppio ritardato di democratici e liberali per il genocidio palestinese, quindi, ha una radice non esattamente nobilissima: salvare il progetto coloniale sionista dall’irresponsabilità di Bibi e dei suoi alleati più naif e ideologicamente invasati. Bisognerebbe tornare ai bei tempi, sostengono; prima del 7 ottobre, quando l’annientamento di fatto del popolo palestinese come entità autonoma e autodeterminata stava procedendo a gonfie vele e poteva contare sulla complicità delle petromonarchie e il sostegno esplicito di tutto l’Occidente: ai piddini, ai repubblichini e a tutti i Serrapiattisti basterebbe ripartire da lì… Se scegliamo di manifestarci insieme – cosa che può anche essere ragionevole per ottenere alcuni risultati immediati – sarebbe bene non dimenticarlo e non solo perché è una prospettiva moralmente aberrante, ma anche perché, in realtà, è un po’ una chimera: come sempre, i sinceri democratici sperano di risolvere le contraddizioni con i buoni sentimenti e con una bella overdose di ipocrisia, ma non sempre è sufficiente.

Il punto è che i bei vecchi tempi hanno portato al 7 ottobre e, al netto di tutti i moralismi, il 7 ottobre è stata una grande operazione militare di successo che affonda le sue radici nelle contraddizioni generate dall’esistenza stessa del progetto coloniale, anche se sufficientemente ipocrita e raffinato da conquistarsi nell’opinione pubblica occidentale la definizione demenziale di unica democrazia del Medio Oriente; evidentemente, ai popoli vittime dell’occupazione coloniale, i pride di Tel Aviv e gli attestati di stima della propaganda occidentale interessano il giusto: l’occupazione coloniale genera la resistenza e l’avanzare di un nuovo ordine multipolare, dove l’Occidente non ha più l’esclusiva dell’azione politica, crea le condizioni affinché quella resistenza abbia gli strumenti per dare filo da torcere a una coalizione che, sulla carte (e non solo), è militarmente ed economicamente decisamente prevalente.
Riassumendo quindi, lo schema è questo: c’è una situazione di ingiustizia palese – in questo caso, un progetto di occupazione coloniale; la propaganda occidentale fa un po’ di pinkwashing, lo ribattezza democrazia e diffonde ogni sorta di vaccata per renderlo accettabile ai sinceri democratici e dissimularne la vera natura.

Chi, invece, quella vera natura fatta di soprusi e di violenza la subisce ogni giorno sulla sua pelle, però, evidentemente non è abbonato a La Repubblichina e non guarda La7 e si organizza come può per resistere; e non lo fa da solo: quella ingiustizia – che, in questo caso, è il progetto coloniale – non è un fenomeno scollegato dal resto del mondo. Fa parte di un quadro più complessivo – in questo caso, l’imperialismo a guida USA – che, a sua volta, produce la sua resistenza a un livello più alto che si va a saldare, in qualche modo, a quella di chi subisce direttamente le conseguenze del progetto coloniale: questa saldatura, con grande sorpresa dei repubblichini e dei Serrapiattisti, produce conseguenze eclatanti – in questo caso l’operazione Diluvio di al aqsa, l’operazione militare del 7 ottobre. A sua volta, questo produce un’altra reazione: i vecchi metodi – che la propaganda aveva etichettato come democratici – non bastano più, e si passa alle maniere forti. Ma l’utilizzo delle maniere forti crea altre contraddizioni, anche all’interno dei sostenitori del progetto coloniale e di quello imperiale: da una parte quelli che sostengono che per salvare il progetto coloniale bisogna distruggere definitivamente il nemico e, dall’altra, quelli che pensano che basta ritornare alla casella di partenza, uno schemino che non riguarda solo Israele e la Palestina, ma che riguarda – udite udite – lo stesso capitalismo USA.

Partiamo dagli ultimi aggiornamenti: il capitalismo finanziario sembra aver dichiarato guerra senza frontiere all’amministrazione Trump. In principio era stato Mister BlackRock, al secolo Larry Fink; nella sua lettera annuale ai clienti di fine marzo, come se niente fosse, aveva sganciato una bomba nucleare: lo status del dollaro come valuta di riserva globale “non è garantito che duri in eterno”, aveva scritto. Detto da quello che è il principale detentore di dollari del pianeta, fa un certo effetto… Poi è stato il turno del fondatore del più grande hedge fund del mondo, Ray Dalio; nonostante Moody’s avesse appena abbassato il rating del debito USA, Dalio ha sottolineato come “Il rischio legato al debito pubblico statunitense è maggiore di quanto le agenzie di rating stiano facendo intendere”. E, infine, a rincarare la dose c’ha pensato Jamie Dimon, l’amministratore delegato di JPMorgan, la più grande banca privata al mondo in termini di capitalizzazione di mercato (e pure di parecchio): “Assisterete a un crack del mercato dei titoli del debito” ha dichiarato dal palco del Reagan National Economic Forum; “Non so se ci vorranno 6 mesi o 6 anni… ma vi dico che accadrà”

L’amministratore di sostegno di Trump, l’ex braccio destro di George Soros Scott Bessent, è corso ai ripari: “Gli Stati Uniti d’America non andranno mai in default” ha cercato di rassicurare dai microfoni della CBS; “non accadrà mai”. Una pezza peggiore del buco, come hanno subito sottolineato gli analisti più svariati: già solo averlo dovuto ribadire è una cosa letteralmente senza precedenti; usare in una stessa frase “USA” e “default”, fino a poche settimane fa (a parte in occasione del solito teatrino sull’innalzamento del tetto del debito), era letteralmente impensabile. Ovviamente, nessuno pensa che gli USA si troveranno ad affrontare un default: come il grosso degli altri Paesi sono indebitati in dollari, ma, a differenza degli altri Paesi, alla malaparata possono semplicemente stamparli, che è esattamente quello che hanno fatto negli ultimi 50 anni senza grossi problemi; almeno fino ad oggi, fino a quando, cioè, tutto il mondo era convinto che è più facile assistere alla fine del mondo che alla fine del dominio del dollaro. E, fino ad allora, come diceva John Connally, il segretario al tesoro di quell’amministrazione Nixon che mise fine al Gold Standard a Bretton Woods, “Il dollaro è la nostra moneta, ma è il vostro problema”.
Forse, non più: il rischio, sottolinea il gotha della finanza internazionale all’unisono, è che tutta questa richiesta di dollari che, fino ad oggi, ha permesso agli USA di esportare l’inflazione e di mantenere il valore del dollaro stabile, stia venendo meno; la graduale dedollarizzazione de facto che vi abbiamo illustrato decine di volte, che significa che gli USA, gradualmente, potrebbero assomigliare sempre di più a un Paese normale e, cioè, un Paese che quando decide di stampare moneta perché non riesce a piazzare i propri titoli del debito sul mercato e richiede l’intervento diretto della Banca Centrale, rischia di affossare la sua valuta e, con la valuta, il valore di tutto il patrimonio dei vari investitori denominato in dollari. Come ha sottolineato sempre Ray Dalio, “Le agenzie di rating non tengono conto del rischio che gli USA, fortemente indebitati, decidano di stampare moneta per onorare i propri impegni, con la conseguenza che i detentori dei titoli subiranno ingenti perdite non perché ricevano meno denaro, ma perché il denaro che incassano vale meno”.

Ma il gotha della finanza non si è limitato a lanciare l’allarme; sta agendo di conseguenza. Come sottolinea il Financial Times, che in questo attacco frontale all’amministrazione Trump è, in assoluto, uno dei più agguerriti, “I grandi investitori si stanno allontanando dai mercati statunitensi”; “La guerra commerciale di Donald Trump e il rapido aumento del debito pubblico” sottolinea “hanno scosso la fiducia nelle attività americane”. Una prova provata è l’andamento dei rendimenti dei credit default swap, che sembra una parolona complicata, ma è una cosa molto semplice: sono le assicurazioni sul rischio del default americano. Di solito, va di pari passo con il rating: chi ha una tripla A, che è il punteggio più alto, paga tra lo 0,10 e lo 0,15%, come la Germania, che paga lo 0,13; significa che ogni 1000 euro di titoli che compri, assicurarti che se il Paese va in default non li perdi ti costa 1 euro e 30 centesimi. Chi, come l’Italia, ha la tripla B (che è un votaccio), paga un po’ più dello 0,5; l’Italia, nello specifico, paga lo 0,53.
Gli USA, che anche dopo l’abbassamento delle agenzie hanno ancora una bella doppia A+, sono arrivati a pagare lo 0,54; e se, nonostante il giudizio benevolo delle agenzie di rating, gli investitori pensano che il tuo debito sia meno sicuro di quello italiano, per convincerli a continuare a comprartelo li devi pagare bene. Risultato: per finanziare il debito fuori controllo, l’amministrazione Trump deve spendere una cifra spropositata di quattrini. 1130 miliardi di dollari solo nel 2024, più del PIL dell’Arabia Saudita o della Svizzera; solo nel 2023 erano 880, nel 2022 720, nel 2015 erano meno di 300.

E mentre il costo degli interessi continua a crescere, di ridurre il deficit non c’è verso; e non per fare investimenti in grado di sostenere la crescita del PIL, ma per continuare a fare regali ai super-ricchi, un grande classico delle rivoluzioni conservatrici, da Reagan a Trump: è il succo del Big beautiful bill, la riforma fiscale di Trump che mira a rinnovare i regali fatti ai superricchi con i soldi pubblici da Zio Donnie nel 2017 e che – si stima – aggiungeranno al debito pubblico USA poco meno di altri 3 mila miliardi nei prossimi 10 anni. “Un disgustoso abominio”: a definirlo così non è Bernie Sanders, ma nientepopodimeno che Elon Musk, che ha deciso di chiudere la sua parentesi da consulente in capo per Make America Great Again col botto. Quello che Musk afferma di non poter tollerare è che mentre lui è stato chiamato a sistemare i conti pubblici USA tagliando con l’accetta spese su spese con il suo DOGE, quel disgustoso abominio della riforma fiscale non fa che affossare le casse federali e “se tutti i soldi finiscono per essere spesi per pagare gli interessi sul debito”, ha dichiarato, “non rimane niente per tutto il resto”. Quando è stata ufficializzata per la prima volta la fine del suo lavoro da capo del DOGE, i pompieri del MAGA hanno cercato di nascondere la polvere sotto al tappeto farfugliando frasi di circostanza su una fantomatica scadenza naturale del mandato e puttanate varie; un po’ poco per giustificare la fine repentina della bromance che, più di ogni altra, aveva caratterizzato il ritorno di Zio Donnie alla Casa Bianca.

Ora i nodi vengono tutti al pettine, oltre ogni previsione: lo scambio di fuoco avvenuto, negli ultimi giorni, tra Zio Donnie e Elon il Grande, per noi che tifiamo declino, va ben oltre ogni più rosea aspettativa; ci mancava solo la diretta streaming, come con Zelensky. Dire cosa l’abbia scatenata di preciso è piuttosto difficile e, forse, anche abbastanza inutile; la diatriba su quel disgustoso abominio della riforma fiscale è degenerata in caciara. Trump ha sottolineato che un modo piuttosto semplice per ridurre la spesa federale sarebbe tagliare i sussidi che vanno nelle casse delle aziende dello stesso Musk: “Non so perché Biden non l’abbia fatto prima”  ha scritto su Truth, ma non solo. Dopo pochi minuti, ecco un altro post di Zio Donnie: “Gli ho tolto il mandato che gli permetteva di obbligare tutti ad acquistare auto elettriche che nessuno vuole, ed è semplicemente impazzito” ha affermato. Musk ha replicato prima ricordando come abbia sempre sostenuto il taglio dei sussidi per l’acquisto dei veicoli elettrici e, poi, minacciandolo apertamente: “Alla luce della dichiarazione del presidente” ha scritto su X, “SpaceX inizierà immediatamente a dismettere la sua navicella spaziale Dragon”. Senza la Dragon, per tenere in vita la base spaziale internazionale Trump avrebbe una sola alternativa: chiedere in ginocchio a Putin di prestargli la russa Soyuz. Ed era solo l’inizio: “E’ arrivato il momento di lanciare la vera bomba” ha scritto Musk, sempre su X; “Donald Trump appare nel fascicolo Epstein. E’ la vera ragione per la quale non l’ha reso pubblico. Passa una buona giornata, Donald”. E condivide un tweet del noto influencer malese con simpatie hitleriane Ian Miles Cheong: “Trump dovrebbe essere messo sotto impeachment e sostituito da JD Vance”; “Trump dovrebbe sequestrare SpaceX entro la mezzanotte di oggi” ha rilanciato Bannon. Insomma: un altro momento di grandissimo intrattenimento.

Se questo ennesimo esempio di guerra intestina sia il preludio di una tragedia o, invece, è destinato a rimanere una farsa, non è dato sapere; quel che è certo è che testimonia, in modo plateale, il declino inesorabile della nazione leader del mondo libero e democratico e il caos che il tentativo maldestro, se non di arrestarlo, perlomeno di rallentarlo, sta scatenando. Un po’ come per Israele, solo con meno immagini di bambini squartati a metà (anche se forse, a conti fatti, con molte più vittime). Di fronte a questo spettacolo, proprio come per il genocidio di Gaza, l’internazionale liberale e democratica propone la stessa originalissima ricetta: il ritorno al passato, quell’era idilliaca che, prima dell’irruzione di questi parvenu della politica, ha sempre garantito le magnifiche sorti e progressive di un pianeta governato da regole. Ovviamente, come nel caso di Israele, quel passato idilliaco non è mai esistito e, come il genocidio, Trump non è una deviazione irrazionale da un percorso lineare di crescita e progresso: è il prodotto naturale delle sue contraddizioni che, ormai, un editoriale di Molinari o un articolo di Rampini non sono più sufficienti a nascondere sotto al tappeto. E’ la fase terminale del capitalismo, baby! L’altra volta, nonostante tutti gli sforzi, l’unica via di uscita che si trovò furono non una, ma ben due guerre mondiali: evitare la terza dovrebbe essere l’unica vera grande priorità, anche perché – come diceva Einstein – “Non sappiamo esattamente con quali armi sarà combattuta la terza guerra mondiale, ma sappiamo che la quarta sarà combattuta con bastoni e pietre”, e non sarà qualche campo largo trainato da chi farnetica sul ritorno a quei bei tempi andati che ci hanno portato fino a qui a evitarcela. Per evitarla, dobbiamo mandarli #tuttiacasa: trumpiani, anti-trumpiani, conservatori, progressisti, uno a uno, e sostituirli con una vera e propria Costituente contro il sistema guerra. Per farlo, vi aspettiamo dal 9 al 13 luglio a Pisa per la quarta edizione di Fest8lina, ma soprattutto – per farlo davvero – serve un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal. E da quest’anno, per mandarli #tuttiacasa, c’è anche un codice segreto: 92054980450. E’ il codice fiscale di Multipopolare: inseriscilo nella tua dichiarazione dei redditi e contribuisci concretamente con il tuo 5XMILLE a dichiarare guerra al pensiero unico.

E chi non firma è Carlo cacarellando Calenda

Tags: democraziadonald trumpelon muskgazagenocidioisraelelitigiopalestinariforma fiscaleSinceri democraticiusa
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