Crisi dell’impero tedesco
di Tommaso Nencioni
Nel suo ultimo libro il sociologo tedesco Wolfgang Streeck descrive il processo di costruzione europea post-Maastricht come processo di costruzione di un impero liberale a trazione tedesca. Quando Streeck parla di impero non definisce per forza un potere che si irradia dal centro alla periferia attraverso la conquista militare; piuttosto come un insieme di realtà statuali che cedono sovranità ad un centro a loro esterno, a prescindere dalla violenza con cui il processo è portato a termine. La descrizione del processo di costruzione europea come strutturarsi di un centro forte nell’ex area del marco e di una periferia mediterranea ed orientale (tralasciando qui la questione del ruolo giocato dalla Francia, decisiva ma non fondamentale per la tesi che qui si vuole sostenere) può essere accettata abbastanza pacificamente. Allo stesso tempo Streeck indica, come precondizione per lo strutturarsi di un impero su basi liberali, la presenza al potere nei paesi periferici di una élite che si faccia carico di accettare le condizioni poste dal centro imperiale, a ciò dovendo la propria legittimazione dall’alto; e di veicolare al proprio corpo elettorale, rendendoglielo digeribile, il messaggio che ciò che va a vantaggio del centro imperiale avrà ricadute positive anche sulle periferie. Magari in base ad un disegno non immediatamente riconoscibile, giacché nel breve periodo si renderanno necessari dei “sacrifici”.
E in effetti questo è successo negli ultimi lustri. L’austerità imposta agli stati membri e l’allargamento a dismisura ad est sono stati i pilastri che hanno sorretto la costruzione dell’impero neoliberale tedesco in Europa. L’allargamento dell’Ue ha consentito all’industria tedesca di poter allungare le catene di produzione del valore fino ad aree geografiche dense di manodopera relativamente qualificata e a basso costo, con regimi fiscali “amici”. Allo stesso tempo l’austerità regalava al capitale tedesco un triplice vantaggio competitivo: consentiva a Berlino di finanziare la spesa pubblica a tassi addirittura negativi attraverso il meccanismo dello spread; desertificava apparati produttivi potenzialmente concorrenti; costituiva una scusa per tagliare i salari in aree destinate a inserirsi in via subordinata nelle catene di approvvigionamento dell’industria tedesca, contribuendo ad abbassare i costi di tali approvvigionamenti.
Il patto tra il grande capitale tedesco e l’alta finanza europea ha retto la costruzione dell’Europa reale tra la fine degli anni Novanta del Novecento e gli anni Dieci del nuovo secolo. A fare le spese di questo patto sono stati via via i governi ribelli; ora in maniera diretta e violenta come accaduto in Grecia, ora in maniera più subdola (anche perché assai meno credibile era la minaccia) come in Italia. Nel frattempo i governi delle periferie si facevano carico di costruire una narrazione ad hoc che permettesse il pieno dispiegarsi del disegno imperiale, sposando a pieno la retorica dei popoli mediterranei “vissuti al di sopra delle proprie responsabilità”, a cui erano imposti “sacrifici” per il loro stesso bene. Era giunta l’ora che i giovani di quei paesi tornassero ad assaporare “la durezza del vivere” (Padoa Schioppa).
La guerra in Ucraina ha bruscamente interrotto il processo di costruzione imperiale. La crisi del progetto imperiale è stata esplicitata dal sabotaggio da parte ucraina del gasdotto North Stream 2. Dal punto di vista economico, a saltare in aria è stata una delle basi economiche del capitalismo tedesco, ossia la possibilità di accedere al gas russo a basso costo. Ma soprattutto, dal punto di vista politico, a saltare per aria è stata la credibilità delle classi dirigenti tedesche come classi dirigenti imperiali. Il re è nudo: il centro politico dell’impero è ancor più subalterno di quanto non lo siano le periferie ad un disegno che ha il suo centro propulsore al di fuori del continente, ossia a Washington e Wall Street. La Germania si è rivelata un gigante economico dai piedi d’argilla e un nano politico.
La nuova ondata di austerità che si profila in Europa, lungi dal favorire la ripresa della costruzione di una Europa tedesca, affonda definitivamente le ambizioni di Berlino, alle prese con una recessione dalla quale non può uscire, a causa dei dogmi di politica economica costituzionalizzati per volontà propria nella stagione precedente.
Dall’austerità tedesca si è passati all’austerità di Wall Street. Con con la nuova ondata di privatizzazioni e di tagli al welfare si offre su un piatto d’argento ai grandi fondi speculativi USA la possibilità di investire nei settori monopolisti dell’energia e delle telecomunicazioni, e di offrire agli europei che potranno permetterselo servizi assicurativi privati. I fondi speculativi diventano così gestori di un fiume di liquidità, da reinvestire, stante gli alti tassi di interesse assicurati dalla FED, nel debito pubblico a stelle e strisce. Amministrazione democratica, Federal Reserve e grandi fondi di investimento stabiliscono così un patto d’acciaio per provare a tenere a galla l’egemonia globale statunitense, scaricando i costi dell’operazione sul vecchio continente e soprattutto sulle sue fasce più deboli.
La valanga nera nella Germania orientale, destinata probabilmente a scatenare una crisi di proporzioni incalcolabili sull’intero sistema politico tedesco, non è che il primo sussulto di una questione che sarebbe un errore limitare alla sola Germania. Il mix di crisi sociale e rinascita del sentimento nazionale tedesco umiliato dovrebbe suonare sinistro alle orecchie europee. Le prime reazioni (vedasi Gentiloni) al risultato non sembrano però partorite da gruppi dirigenti che abbiano minimamente contezza della portata della sfida. Non c’è soluzione possibile che non preveda l’uscita dal circolo vizioso di guerra e austerità.
Io penso che il progetto tedesco avesse una scadenza fin dall’inizio. La scadenza l’avevano programmata gli usa. Oggi il conto delle aspirazioni tedesche, ingenue ed illusorie peraltro sin dal 1800, lo paghiamo tutti.
La forza dell’Europa è stata e potrà essere solo il non avere l’egemonia di un paese sugli altri. È una ricchezza.