Dal Bangladesh al Venezuela: gli USA nel panico tornano a puntare tutto sulle Rivoluzioni Colorate
“Farò in modo che l’America disponga sempre della forza militare più forte e letale del mondo”: nel comizio conclusivo della kermesse di Chicago, Kabala Harris non ha usato mezzi termini e, a vedere dalle reazioni, direi che ha fatto bene; da Senza Speranza a Faccia da schiaffi Provenzano, passando per la Ocasio Cortez e Bernie Sanders, come immancabilmente accade ormai da decenni, all’establishment democratico basta sventolare lo spauracchio del ritorno del fascismo immaginario per costruire un blocco compatto a sostegno del fascismo vero della guerra imperialista senza se e senza ma. Purtroppo per la Harris però – al netto dei trionfi passeggeri delle campagne di public relation all’interno della sinistra ZTL – non saranno i sorrisi a 36 denti di Speranza e Provenzano a determinare l’andamento concreto della guerra sul campo; ed ecco così che dall’Ucraina al Pacifico, passando per il Medio Oriente, i 3 fronti della guerra totale dell’imperialismo a guida USA contro il resto del mondo, ultimamente per analfoliberali e finto-sovranisti sono piuttosto avari di buone notizie: la fantomatica offensiva ucraina nell’oblast russo di Kursk, che aveva riacceso i sogni di mezza estate della propaganda di regime, si sta rivelando sempre più chiaramente una mossa disperata e controproducente che spiana la strada all’avanzata del Cremlino nel Donbass.
Ultima possibilità di fuga: gli ucraini fuggono da Pokrovsk mentre i russi avanzano titolava a 6 colonne venerdì scorso un rassegnato Washington Post; “Mentre i soldati ucraini lottano per respingere ondate di combattenti russi” recitava il sottotitolo “i civili fuggono da Pokrovsk, una città un tempo ritenuta lontana dalla linea del fronte”. Sul Pacifico, il conflitto – che per ora si combatte prevalentemente a suon di guerra economica e commerciale – non sembra dare frutti migliori: da quando i bretella Rampini di tutto il mondo davano sfoggio del loro analfabetismo economico e scambiavano dati trimestrali tendenziali per dati aggregati annuali (e ne traevano l’idea un po’ eccentrica che “gli USA crescono il doppio della Cina”) sono passati solo pochi mesi, eppure sembra un’era geologica fa; nonostante i 1000 miliardi di debito pubblico in più ogni due mesi, il rallentamento dell’economia USA è talmente evidente che venerdì scorso ha costretto il presidente della Fed Jerome Powell ad annunciare (finalmente) dal summit annuale di Jackson Hole la fine della strategia della corsa al rialzo dei tassi d’interesse che, negli ultimi due anni, ha permesso di fare man bassa di capitali da tutto il mondo e gonfiare a dismisura la bolla finanziaria USA, una sorta di regalo di benvenuto alla candidata ufficiale di BlackRock & co Kamala Harris. I mercati, ovviamente, hanno reagito con una bella botta di entusiasmo, perché quando hai tutta questa liquidità in mano – e di investirla in qualcosa di produttivo non ti passa manco per la testa – ogni scusa è buona per ritornare al tavolo del Casino, ma dire che la coperta è corta è un eufemismo: la prova provata è arrivata poche settimane fa, quando la borsa di Tokyo ha registrato il crollo più imponente degli ultimi 37 anni; per innescarlo è bastato l’annuncio di un rialzo dei tassi della Banca Centrale giapponese di una manciata di punti base. Un’inezia, che però evidentemente è bastata a scatenare il panico in tutti gli speculatori che, negli ultimi anni, hanno guadagnato una montagna di quattrini prendendo in prestito gratis yen in Giappone per poi convertirli in dollari e investirli nella bolla speculativa a stelle e strisce contribuendo a gonfiarla a dismisura, mentre dall’altra parte del Pacifico si continuavano a investire soldi veri in macchine e tecnologie vere.
E i risultati si vedono, anche dagli uffici di quell’ente propagandistico che è il Wall Street Journal; dopo aver sostenuto senza successo per mesi le tesi strampalate alla Rampini sulla crisi immaginaria della Cina, l’organo ufficiale delle oligarchie imperialiste giovedì scorso ha deciso finalmente di ribaltare completamente la narrazione e ha pubblicato un lunghissimo articolo dal titolo allarmante: Perché la Cina sta iniziando una guerra commerciale”. Peccato che la guerra commerciale, com’è noto, l’abbiano iniziata gli USA esplicitamente, perlomeno dai tempi di Trump; il punto, molto banalmente, è che essendo guidati da oligarchie che fanno quattrini speculando sui mercati finanziari, quella guerra commerciale gli USA (ad oggi) sembrano proprio averla persa, ma di brutto brutto brutto. Dopo due anni e mezzo di fuffa su decoupling, derisking e friendshoring, il grafico pubblicato sulle esportazioni cinesi pubblicato dal Journal è impietoso: dopo un primo anno di rallentamento, i prodotti cinesi hanno letteralmente preso il volo e ora l’export registra un impressionante +10% su base annua, un progresso che – come risponde il Global Times perculando i deliri del Journal – “non è esattamente casuale”. “Dal 2000” ricorda l’articolo “gli investimenti cinesi in ricerca e sviluppo sono cresciuti a un tasso medio annuo del 14,2%, quattro volte quello degli Stati Uniti”. Come si sono azzardati i cinesi a lavorare, a incentivare la competizione, ad abbattere i costi e a limitare i profitti invece di permettere a una manciata di oligarchi di arricchirsi a dismisura senza fare una beata minchia di niente come si conviene in tutti i paesi sviluppati e civilizzati? “In Cina tutti producono qualcosa” riporta scandalizzato l’articolo, “ma nessuno fa i soldi” e cioè profitti. Anzi, extra-profitti. Anzi, extra-rendite. Che scandalo, contessa! Quindi, riassumendo, sul fronte ucraino a prendere sberle è l’invincibile macchina bellica USA e su quello del Pacifico è la sua irraggiungibile macchina economica; gli rimane la più grande macchina propagandistica della storia dell’umanità. Peccato però si sia impantanata sul terzo fronte, in Medio Oriente, dove il sostegno incondizionato al primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità rischia di non essere esattamente la campagna di comunicazione più efficace possibile immaginabile, tanto che – per la prima volta in 80 lunghi anni di apartheid e tentativo sistematico di pulizia etnica – anche negli USA ormai sembra sia diventato strutturale un movimento pro Palestina, che senza che la sinistra ZTL italiana (che è accorsa entusiasta per assistere al passaggio di consegne da Genocide Joe a Kabala Harris) se ne accorgesse, ha assediato la convention democratica con una serie infinita di manifestazioni all’insegna dello slogan Abandon Harris, abbandonare Harris: “Intendiamoci chiaro” recita il comunicato ufficiale della campagna; “fare appello alla coscienza dei democratici è una perdita di tempo. Non ne hanno. Sono privi di qualsiasi bussola morale. C’è una sola strada da percorrere: abbandonare il partito del genocidio e della pulizia etnica. Il nostro impegno è garantire che Kamala Harris perda le elezioni del 2024”.
Insomma: da quello che è emerso concretamente dai 3 fronti, in particolare nelle ultime settimane e negli ultimi mesi di distrazione estiva, la promessa della Harris di “fare in modo che l’America disponga sempre della forza militare più forte e letale del mondo”, ancora prima che un aberrante slogan suprematista e guerrafondaio, appare sempre di più come puro e semplice wishful thinking per babbioni. Ed ecco così che anche la propaganda comincia a riflettere sulle possibili exit strategies: “La crescente alleanza tra autocrazie guidate da Cina e Russia” scrive sempre sul Wall Street Journal il celebre inviato, nonché finalista del premio Pulitzer 2023 per la sua infaticabile propaganda pro-ucraina, Yaroslav Trofimov “imporrà scelte strategiche alle democrazie occidentali, indipendentemente da chi vincerà le elezioni presidenziali statunitensi”; “Gli Stati Uniti e i suoi alleati” si chiede Trofimov – abbandonando la retorica dell’invincibilità del mondo libero che ha caratterizzato l’intero suo lavoro fino ad oggi – “possono scoraggiare tutti questi rivali, tra cui Iran e Corea del Nord, allo stesso tempo, dato il decadimento della base militare-industriale dell’Occidente e la riluttanza degli elettori a spendere molto di più per la difesa? E se non lo fanno” insiste Trofimov “si dovrebbe e si potrebbe cercare un accordo con una delle grandi potenze rivali? E se sì, quale? E a quale costo?”. A supporto della sua nuova tesi, Trofimov tira in ballo anche il Generale in pensione – nonché ex vice capo dello staff delle forze armate USA – Jack Keane, che sottolinea come “già adesso che siamo coinvolti in due sole guerre, facciamo fatica a fornire munizioni ed equipaggiamenti sufficienti ai nostri alleati. Nel caso venissimo coinvolti in una guerra globale, confrontarci con i nostri avversari e le loro capacità sarebbe una sfida titanica”. L’unica possibilità che l’imperialismo a guida USA ha di uscire vincitore da questa guerra esistenziale contro la transizione a un nuovo ordine multipolare, allora, è tornare a lavorare sottotraccia per ridisegnare il sistema di alleanze o, comunque, di relazioni internazionali che gli ultimi anni di suprematismo unilaterale hanno contribuito a consolidare; il primo obiettivo lo suggerisce Trofimov stesso: “Mentre Cina, Russia, Iran e Corea del Nord stanno tutti collaborando sempre di più negli affari diplomatici, di intelligence e militari” scrive Trofimov “continuano comunque a nutrire sospetti reciproci”. In particolare, continua Trofimov, “Sebbene sia naturale per Russia, Iran, Corea del Nord e Cina comunicare perché tutti sentono la pressione di Washington, Pechino cerca una relazione più costruttiva con gli Stati Uniti”; inoltre, insiste Trofimov, bisogna considerare il fatto che “il tempo non gioca più necessariamente a favore della Cina, poiché la sua popolazione invecchia, la crescita economica rallenta e gli Stati Uniti mantengono o ampliano il primato nelle tecnologie di difesa chiave, come l’uso militare dell’intelligenza artificiale” e quindi, conclude Trofimov, “Invece di affrontare apertamente Pechino, ora, come diceva Deng Xiaoping negli anni ‘80, potrebbe essere arrivato il nostro momento di nascondere la nostra forza e aspettare il momento giusto”.
Trofimov, evidentemente, ci capisce di economia e di tecnologia come io di arte contemporanea o di nuoto sincronizzato, ma l’idea di prendere tempo per provare a cambiare i rapporti di forza lavorando sottotraccia potrebbe non essere del tutto peregrina, solo che invece che cambiare i rapporti di forza militari – visto che, appunto, la base produttiva industriale per farlo non c’è – o cambiare quelli più generalmente economici – visto che il primato USA nell’ambito dell’economia reale non è ormai più recuperabile – la strada maestra potrebbe essere tornare a investire tutte le energie nella vera specialità USA e, cioè, l’arte dei colpi di Stato ricorrendo a tutto l’armamentario perfezionato in 80 anni di egemonia globale: dalla strategia del terrore, ai golpe giudiziari, alle rivoluzioni colorate. Ed ecco così come si spiega questa grande e improvvisa sete di libertà e di democrazia che ha attraversato mezzo mondo nelle scorse settimane: dal Venezuela al Bangladesh, le ultime settimane sono state caratterizzate da una lunga serie di proteste di varia natura che, con esiti alterni, hanno travolto svariati Paesi alla disperata ricerca di una loro strada verso l’indipendenza e la sovranità. Il copione è sempre lo stesso: le diseguaglianze strutturali che derivano, in buona parte, dall’imperialismo alimentano mille forme di legittimo scontento popolare che poi, però, viene strumentalizzato (quando non proprio eterodiretto) per rafforzare ancora di più lo stesso dominio imperialista che l’ha causato. In un paese che ha deciso deliberatamente di autodistruggersi la propria capacità produttiva per permettere alle sue oligarchie di vincere la lotta di classe e riempirsi a dismisura le tasche di quattrini, l’arte sopraffina del terrorismo di Stato è diventata nel tempo la più efficace delle armi per garantirne il dominio e la sottomissione di tutti gli altri, un’arte che può fare affidamento – oltre che sulla connivenza incondizionata degli organismi internazionale creati a immagine e somiglianza degli interessi del centro imperiale – anche sul primato della propaganda imperialista garantito dalla proprietà dei mezzi di produzione del consenso e, ovviamente, sulla complicità degli attivisti della sinistra ZTL di ogni angolo del pianeta, sempre pronti a bersi ogni vaccata di regime, basta sia confezionata decentemente e piena zeppa di fuffa dirittumanista e politically correct. Che è esattamente quello che è successo, ad esempio, in Bangladesh, dove alla scontrosa e autoritaria Sheikh Hasina è subentrato Muhammed Yunus, una vera e propria icona della peggiore sinistra imperiale liberale degli ultimi decenni; la buona notizia è che se a decretare l’andamento dei conflitti convenzionali sono i rapporti di forza sul campo, e l’andamento della guerra economica dipende da molti fattori che sono fuori dal nostro controllo (e quindi, stringi stringi, non possiamo che limitarci a osservare e cercare di capirci qualcosa), l’esito delle sommosse popolari – e la facilità o meno con le quali vengono manipolate – dipende in buona parte proprio dalle masse popolari stesse. E quindi anche dall’informazione o – meglio – dalla controinformazione; ed ecco perché abbiamo deciso di dedicare il ritorno dei pipponi di Ottolina a una lunga e dettagliata analisi di un caso da manuale di Rivoluzione Colorata come quella avvenuta in queste settimane in Bangladesh. Prima di addentrarci nei dettagli però, dopo questa lunga premessa vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a tornare a combattere in grande stile la nostra battaglia contro la dittatura degli algoritmi e del pensiero unico e, per chi ancora non l’ha fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e attivare tutte le notifiche: a voi costa solo pochi secondi, ma per noi – e per la libertà di informazione in generale – fa davvero la differenza, soprattutto dopo il colpo che la censura imperialista ha affondato ieri sulla libera circolazione delle idee con il vergognoso arresto del fondatore di Telegram Pavel Durov. Teniamo duro.
Prima di addentrarci nella ricostruzione del golpe che ha travolto il Bangladesh ormai 3 settimane fa, una piccola nota di metodo: le rivoluzioni colorate raramente – per non dire mai – avvengono per caso; non è che c’è un paese paradisiaco, con bassissimo livello di conflittualità, con un’economia che crea ricchezza e un assetto istituzionale che ne garantisce una redistribuzione decentemente equa e poi arrivano dei supervillain a stelle e strisce e riescono a metterlo a ferro e fuoco nell’arco di qualche giorno grazie ai loro superpoteri. Una cosa che dovremmo aver imparato dalle infinite scoppole che l’imperialismo ha raccattato negli ultimi anni è che di supereroi con i superpoteri a disposizione di Washington ce ne sono pochini; d’altro canto, pensare che esista nel mondo un paese con una qualche rilevanza economica e/o geopolitica dove avviene un qualche stravolgimento politico di rilievo e che gli USA non abbiano l’intenzione (e anche i mezzi) per andare a rimestare nel torbido è forse ancora più surreale. Le rivoluzioni colorate affondano le radici in grandi proteste di massa, spesso più che fondate, che poi le varie parti in causa cercano di egemonizzare per ottenere l’esito a loro più favorevole e, tra queste parti in causa, ci sono sempre sia forze autenticamente popolari che poteri forti, a partire ovviamente da quelli collegati in varie forme alle mille diramazioni di quella che fino ad oggi, per decenni, è stata l’unica vera grande superpotenza globale. Il Bangladesh, ovviamente, non fa eccezione – e con questa spero di evitarmi quella gigantesca rottura di coglioni che sono gli immancabili commenti su quanto era cattiva e autoritaria Sheikh Hasina e su quanto sia drammatica la condizione delle masse popolari del Bangladesh; in questo video parliamo di altro e cioè di come gli USA, che stanno clamorosamente perdendo sia la guerra convenzionale che quella economica, cercano di approfittare di conflitti generati in buona parte proprio dal loro sistema di dominio per ostacolare la lotta per l’indipendenza di alcuni paesi e rallentare così il loro ineluttabile declino.
Le tensioni in Bangladesh non sono certo una novità, a partire dalla sua travagliata nascita quando, nel 1972, ottenne l’indipendenza dal Pakistan occidentale dopo che (col sostegno dell’amministrazione Nixon) il governo di Islamabad aveva compiuto una carneficina che ha causato oltre 2 milioni di vittime; dopo l’indipendenza, elezioni democratiche decretarono l’ascesa al potere del principale leader della lotta di liberazione, Sheikh Mujibur Rahman, padre di Sheikh Hasina e fondatore del suo partito, la Lega Popolare Bengalese, e la scintilla che è tornata a incendiare il Bangladesh nelle ultime settimane ha proprio a che fare con l’eredità della lotta di liberazione. In Bangladesh, infatti, sin dall’indipendenza esiste una legge che prevede che il 30% dei posti di lavoro pubblici siano riservati agli eredi di chi ha partecipato direttamente alla guerra di liberazione; già nel 2018, mentre al governo c’era sempre Sheikh Hasina – che prima del golpe era al governo ininterrottamente da 15 anni – c’erano state manifestazioni oceaniche che avevano spinto il governo a ridurre sensibilmente il meccanismo delle quote. Nel giugno scorso, però, una decisione della Corte Suprema del Bangladesh aveva annullato proprio quella riforma e aveva reintrodotto il sistema delle quote originale e da lì sono ripartite le prime proteste. Ma gli scontri attuali affondano le radici nella lotta d’indipendenza anche da un altro punto di vista, perché il primo governo democraticamente eletto del Bangladesh indipendente non finì esattamente nel migliore dei modi possibili, ma con un bel golpe militare architettato, dopo appena 3 anni, dalle fazioni delle forze armate rimaste più legate al Pakistan (e quindi anche agli USA) e che hanno dato vita al principale partito di opposizione, che ancora oggi guida le piazze, flirtando con l’Islam radicale; si chiama Partito Nazionalista del Bangladesh e alle ultime elezioni, visto che non aveva nessunissima possibilità di vincere, ha scelto la via più semplice: non si è presentato e poi si è lamentato perché la coalizione che sosteneva Sheikh Hasina ha fatto il pieno di voti.
Nonostante le accuse di comportamenti antidemocratici nei confronti della Hasina non siano completamente campate in aria, il punto è che il Bangladesh, nonostante tutte le innumerevoli contraddizioni, negli ultimi anni ha potuto vantare “l’economia in più rapida crescita nell’Indo-Pacifico, che” come ricordava Foreign Policy alla vigilia delle ultime elezioni “gli ha permesso di superare in termini di prodotto interno lordo pro capite sia l’India che il Pakistan”; pensare che questo sia anche solo lontanamente sufficiente a garantire una vita dignitosa alle oltre 170 milioni di persone stipate in questo paese privo di risorse e grande meno della metà dell’Italia sarebbe pura follia, ma per un paese che Kissinger amava definire un caso disperato, è comunque un risultato incoraggiante che Sheikh Hasina è riuscita a ottenere anche grazie a una vecchia formuletta magica che funziona sempre: un bel pizzico di indipendenza nazionale. In questi 15 anni il Bangladesh infatti, senza indugiare mai troppo in (spesso) inutile e controproducente retorica anti-occidentale, ha rafforzato i suoi legami con la Cina e con il Sud globale attirando investimenti (in particolare cinesi), aderendo alla New Development Bank e facendo richiesta di ingresso formale nei BRICS, una linea che a Washington non sembra abbiano apprezzato poi tantissimo, tanto che dal 2021 sono cominciate ad arrivare le prime sanzioni e, a quanto pare, le prime intimidazioni: è quanto ha affermato nel giugno del 2023, durante una celebre conferenza stampa, la stessa Hasina; nei mesi precedenti gli USA avevano ufficialmente invitato il governo del Bangladesh a rafforzare i rapporti militari bilaterali prima proponendo l’adesione a un protocollo per lo scambio di informazioni tra forze armate (sulla falsariga di quello che lega Giappone e Corea del Sud), e poi attraverso la sigla di un accordo di servizio incrociato e, cioè, l’accordo bilaterale che gli Stati Uniti hanno solitamente con gli alleati NATO e che consente alle forze statunitensi di scambiare liberamente (senza passare dal Congresso) alcune tipologie di munizioni e di attrezzature belliche. In entrambi i casi il Bangladesh aveva cortesemente declinato; quello che però fino ad allora era rimasto segreto è che, stando alle affermazioni della Hasina, gli USA avessero chiesto che gli venisse concessa la minuscola isola di Saint Martin per installarci l’ennesima base. Come scrive la testata indiana The Print, “Nonostante le sue dimensioni minuscole, l’isola di Saint Martin permette di avere una presenza strategica in funzione del controllo dello stretto di Malacca, da dove passa il 90% del petrolio destinato alla Cina”, ma non solo: l’isola, infatti, sarebbe anche in posizione strategica rispetto a Cox Bazar, che oltre ad essere la destinazione turistica più popolare del paese, ospita un porto per sottomarini costruito dai cinesi e inaugurato poco tempo fa e che, a quanto pare, preoccupa non poco Washington. “I legami della Cina con la base” si legge in un rapporto del Center for Strategic and International Studies di Washington intitolato La diplomazia dei sottomarini “potrebbero andare ben oltre la sua costruzione”: “Un alto funzionario del Bangladesh” continua il rapporto “ha riconosciuto che personale cinese sarebbe coinvolto nell’addestramento per l’utilizzo dei sottomarini da parte della marina bengalese”; “Inoltre” insiste ancora il rapporto “nel suo intervento all’inaugurazione della base, il Primo Ministro Hasina ha osservato che la struttura potrebbe essere utilizzata come punto di servizio per le navi che navigano nel Golfo del Bengala, un potenziale segnale che la marina dell’esercito di liberazione nazionale potrebbe un giorno fare scalo in quel porto”. “L’isola quindi” conclude The Print “sarebbe strategica per varie attività di sorveglianza, e non solo per le attività cinesi e del Myanmar, ma anche indiane”. Durante la conferenza stampa del 2023, la Hasina ha affermato esplicitamente che se avesse “concesso l’isola di Saint Martin, le sarebbe stato garantito che avrebbe potuto continuare a governare senza problemi”; l’11 agosto scorso, 6 giorni dopo che la Hasina è fuggita in fretta e furia dal golpe in Bangladesh per riparare in India, la testata indiana Economic Times ha pubblicato un articolo (che ha fatto il giro del mondo) dove dichiarava di essere entrata in possesso di una dichiarazione della premier bengalese attraverso uomini del suo entourage, dove la Hasina avrebbe affermato che “Avrei potuto rimanere al potere se avessi ceduto la sovranità dell’isola di Saint Martin e avessi permesso all’America di dominare il Golfo del Bengala”. Intorno a questo articolo si è sviluppato un vero e proprio giallo dal momento che uno dei figli della Hasina, che ha ricoperto importanti ruoli di governo al suo fianco, ha categoricamente escluso l’ipotesi che si tratti di un messaggio autentico; quello che sicuramente sappiamo è che già nel dicembre scorso, prima della sua rielezione, il ministro degli esteri russo Maria Zakharova durante una conferenza stampa aveva affermato che nel caso Sheikh Hasina fosse nuovamente salita al potere, l’America avrebbe utilizzato “tutti i suoi poteri per rovesciare il suo governo”: “Se i risultati della volontà popolare non saranno soddisfacenti per gli Stati Uniti, sono probabili tentativi di destabilizzare ulteriormente la situazione in Bangladesh sulla falsariga delle ‘Primavere arabe” ha aggiunto. “Al momento” scrive Asia Times “l’interesse primario degli Stati Uniti nel paese è quello di creare un porto di servizio per navi militari statunitensi di medie dimensioni che potrebbe aiutare l’America a gestire i rischi delle operazioni navali causati dall’accesso della Cina ai porti del vicino Myanmar e offrire servizi logistici alle potenze amiche nella regione senza bisogno di alcuna approvazione o partecipazione da parte dell’India”; l’altra cosa che sappiamo senz’altro è che il 17 maggio scorso si è recato a Dhakka il vicesegretario di Stato USA per l’Asia meridionale e centrale Donald Lu che, come riporta l’ex diplomatico indiano MK Bhadrakumar su Consortium News, avrebbe “incontrato alti funzionari governativi e leader della società civile”. Pochi giorni dopo la sua visita, Sheikh Hasina avrebbe convocato i leader delle forze politiche della sua coalizione di governo, rivelando che “un paese di persone bianche mi ha proposto di stabilire una base militare nel Golfo del Bengala”; “Non voglio arrivare al potere affittando parti del paese o cedendolo a qualcun altro” avrebbe affermato Hasina: “Non ho bisogno del potere. Se la gente mi vorrà al potere, ci sarò; altrimenti non lo farò”.
Come ricorda Jeffrey Sachs su Consortium News, Donald Lu è sospettato di aver ricoperto un ruolo di primo piano anche nel golpe bianco che ha messo fine al governo sovranista e populista di Imran Khan in Pakistan: “Nel caso del Pakistan” scrive Sachs “Donald Lu ha incontrato Asad Majeed Khan, ambasciatore del Pakistan negli Stati Uniti, il 7 marzo 2022”; subito dopo l’ambasciatore ha comunicato con Islamabad “trasmettendo l’avvertimento di Lu secondo cui il Primo Ministro Khan aveva minacciato le relazioni USA – Pakistan a causa della posizione aggressivamente neutrale di Khan nei confronti di Russia e Ucraina”. “Penso che se il voto di sfiducia contro il Primo Ministro avrà successo” scriveva nella nota l’ambasciatore “tutto sarà perdonato a Washington. Altrimenti penso che sarà dura andare avanti”; “Il giorno successivo” ricorda Sachs “i membri del Parlamento hanno adottato misure procedurali per estromettere il primo ministro Khan”. E il Pakistan sarebbe solo uno dei tanti casi: come ricorda sempre Bhadrakhumar “Lu ha svolto un ruolo proattivo simile durante il suo passato incarico in Kirghizistan dal 2003 al 2006, che è culminato in un’altra tentata rivoluzione colorata. Come d’altronde è avvenuto anche in Georgia e Azerbaijan”.
E così veniamo ai giorni nostri: nonostante – come abbiamo già sottolineato – tra chi è sceso in piazza sono numerose le organizzazioni studentesche genuinamente democratiche e popolari, una parte rilevante è invece legata a fazioni dell’esercito legate al Pakistan e all’Occidente, al principale partito d’opposizione di matrice ultraconservatrice e alle organizzazioni studentesche riconducibili all’islam radicale che, come da tradizione (e come in parte è anche inevitabile) sono ricorse con spregiudicatezza alle maniere forti, tanto da far parlare di una sorta di pulizia etnica nei confronti della minoranza Hindu; ora, come faccio a raccogliere il consenso delle anime belle della sinistra progressista globale nei confronti di un colpo di Stato violento, in buona parte eterodiretto da questa miscela rivoltante di agenti stranieri e islamisti inferociti? Fortunatamente c’era proprio l’uomo giusto al momento giusto: si chiama Muhammed Yunus; nel 2006 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura, come Obama, e come Obama da allora è diventato una vera e propria icona globale della sinistra ZTL. Il suo merito è stato quello di introdurre il concetto di microcredito e, cioè, l’idea che se eri così povero da non poterti indebitare, la soluzione migliore era trovare il modo di farti diventare, oltre che povero, anche indebitato (ovviamente, con tassi spropositati tra il 15 e il 20%); d’altronde, se sei povero, ovviamente c’è il rischio che ti ammazzi prima di ripagare il debito: su queste basi Yunus ha fondato la sua Grameen Bank che, da allora, ha elargito oltre 5 miliardi di dollari di prestiti a oltre 5 milioni di richiedenti e lo ha reso piuttosto ricco e potente e soprattutto, appunto, oggetto di culto da parte di un pezzo di mondo più o meno progressista. Fino al delirio, come quello di Emilio Carelli, l’ex deputato 5 stelle in quota Di Maio che dal maggio scorso dirige l’Espresso e che già nel giugno scorso si era fatto in quattro per preparare la discesa in campo del suo guru con una lunga intervista a Yunus sul suo giornale: “Con il microcredito” è la presentazione di Carelli “ha salvato un miliardo di persone dalla miseria”. Scrive proprio così, un miliardo di persone, e non è un refuso (o meglio, se lo è, è al ribasso); l’intervista infatti inizia così: “Lei ha inventato il microcredito. Oggi miliardi di persone riescono a sopravvivere solo grazie a questo sistema nato fuori dal sistema bancario tradizionale”. Quindi non un miliardo. Miliardi, svariati miliardi. Ma che dico miliardi: fantastiliardi! E questo non è un semplice giornalista, eh? E’ il direttore, il direttore di quello che è stato per 40 anni il più importante settimanale italiano. Ovviamente, si è leggermente sbagliato e non solo perché – ovviamente – non ci sono “miliardi di persone che oggi vivono esclusivamente grazie a questo sistema”, ma perché – com’era ampiamente prevedibile – questo sistema è di per se un grandissimo pacco, pura fuffa neoliberale che ha fatto più danni della grandine.
Le pubblicazioni scientifiche che decretano il fallimento totale del microcredito ormai non si contano più, da oltre 10 anni; questa è una delle più complete: risale ormai al 2014 e le conclusioni dell’autore non lasciano adito a dubbi. “Yunus” scrive Bateman “ha promesso al mondo – e soprattutto ai poveri – che il microcredito avrebbe inaugurato un’era di riduzione della povertà e di sviluppo sostenibile dal basso verso l’alto. Purtroppo, aveva torto. Yunus ha frainteso totalmente i fattori che danno il via a sviluppo economico e sociale, e così abbiamo finito per dare vita a un processo che alla fine ha portato alla creazione di una trappola della povertà di proporzioni storiche”. Due anni fa, a rinverdirci la memoria ci pensava una lunga inchiesta di Bloomberg: “Grandi somme di denaro” era il titolo “sostengono piccoli prestiti che portano al debito, alla disperazione e persino al suicidio”; “Oggi” si legge nell’articolo “miliardi di dollari si riversano in un sistema che promette ai poveri del mondo una vita migliore, ma in realtà non fa che aggravare la loro miseria”. Altro che miliardi di persone che oggi vivono esclusivamente grazie a questo sistema: fossi presidente dell’ordine dei giornalisti farei una multa a Carelli a 6 zeri e la userei per ripagarci un po’ di questi debiti. L’ascesa di Yunus è stata fortemente sponsorizzata dai democratici USA: furono i Clinton a proporlo per la prima volta per il Nobel per la pace dopo aver visitato insieme a lui un villaggio in Bangladesh dove aveva aperto una delle prime filiali della Grameen Bank; da allora Yunus ha costantemente cercato di utilizzare il suo legame con l’establishment dell’impero per portare avanti i suoi interessi e per destabilizzare il governo della Hasina. Secondo questo cablogramma diffuso da Wikileaks e risalente al maggio del 2009, Yunus avrebbe richiesto espressamente all’ambasciatore USA a Dhakka di fare pressioni sulla Hasina per ottenere un cambio di legge che avrebbe beneficiato la sua banca e il suo ruolo al suo interno: “Yunus e i suoi sostenitori, a partire dagli Stati Uniti” conclude la comunicazione l’ambasciata “devono convincere il Primo Ministro che una Grameen Bank indipendente è nel suo stesso interesse. Lavoreremo con Yunus per sollevare questi punti con il Primo Ministro e i suoi consiglieri. E faremo anche notare le conseguenze potenzialmente negative di qualsiasi tentativo di marginalizzare una figura internazionalmente rispettata come quella di Yunus”. Insomma: un vero e proprio protégé dell’impero, che infatti è immediatamente accorso a benedire il suo governo ad interim; manco il tempo di essere nominato, ed ecco subito Anthony Blinken dal suo profilo Twitter che gli fa gli auguri di benvenuto e garantisce il suo supporto “per il suo richiamo alla calma e alla pace”, un richiamo che però sembra essere caduto abbastanza nel vuoto. Dal giorno dell’ufficializzazione del suo incarico, la caccia all’uomo in Bangladesh contro la minoranza Hindu e contro i militanti della Lega Popolare è diventato lo sport nazionale più praticato: decine di militanti sono stati linciati dalla folla o massacrati dalle forze di polizia senza che le informazioni circolino nel paese; Yunus, infatti, nel frattempo ha provveduto alla chiusura degli ultimi due canali televisivi vicini alla Hasina rimasti e giovedì scorso a Dhakka è stato arrestato il presidente del Partito dei Lavoratori del Bangladesh, l’81 enne storico leader della sinistra bengalese Rashed Khan Menon. Nonostante facesse parte della coalizione di 14 partiti che avevano sostenuto la presidenza Hasina, Menon e il Partito dei Lavoratori inizialmente erano scesi in piazza a protestare contro il ripristino della legge delle quote.
Insomma: quale fazione e quali interessi stiano prevalendo in questa rivoluzione colorata pare purtroppo piuttosto evidente; come conclude amaramente lo stesso Vijay Prashad “La primavera del Bangladesh sembra avviarsi rapidamente verso l’inverno”. Senza organizzazioni politiche strutturate e senza la capacità di leggere scientificamente cosa muove i diversi attori, anche le proteste che nascono da aspirazioni più che legittime sono spesso destinate ad essere strumentalizzate e manipolate e rischiano di ottenere l’esatto contrario di quello che si erano prefissate; per questo serve organizzarsi e studiare e, per farlo, serve prima di ogni altra cosa un vero e proprio media che, invece che alla fuffa della propaganda imperiale, dia voce ai bisogni concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Luigi di Maio
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