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Tag: imperialismo

Da Fanon a Said: perché orientalismo e neocolonialismo condannano l’occidente al declino

Un giardino ordinato da un lato, una giungla selvaggia dall’altro: con questa metafora nell’ottobre 2022 il responsabile della politica estera dell’Unione Europea Josep Borrell, in mondovisione, ricordava senza tanti fronzoli l’idea che la classe dirigente europea continua ad avere del resto del mondo, oltre mezzo secolo dopo la morte ufficiale della vergogna colonialista.

E’ il cancro dell’”orientalismo”, per dirla con Edward Said.

Un secolare apparato culturale e ideologico che ancora oggi impedisce agli europei di confrontarsi in modo realistico con il Mondo Nuovo. E cioè con un mondo che non ha più nessuna intenzione di farsi sottomettere dal dominio militare ed economico di quella piccola minoranza che i nostri media di solito chiamano occidente.

1961. Frantz Fanon, psicologo martinicano, cresciuto sotto il dominio coloniale francese, pubblica “I dannati della terra”.

Sono gli anni in cui la Francia sta combattendo la guerra d’Algeria, uno dei più brutali tentativi da parte di una nazione europea di soffocare la lotta di un popolo per la propria libertà contro l’oppressore coloniale.

Nel libro di Fanon, emerge la presa di coscienza del significato universale della rivoluzione dei popoli coloniali: un nuovo protagonista rivendica il suo ruolo nella storia mondiale, il cosiddetto “terzo mondo”.

Fanon non si limita ad analizzare il fenomeno del colonialismo all’interno di una sola nazione, ma studia l’intero processo su un piano internazionale e si rivolge all’umanità intera come soggetto consapevole di un nuovo concetto di libertà. La razza e il razzismo non sono fenomeni naturali, biologicamente determinati, ma costruzioni storico sociali da cui è possibile uscire.

Una rivendicazione che è insieme culturale sociale politica e economica e che esige un ribaltamento dei ruoli all’interno delle colonie e delle ex colonie per scalzare dal potere quelle élite borghesi che collaborano con i dominatori o che continuano a svendere le proprie ricchezze e i propri cittadini agli interessi occidentali.

Non ci può essere un’autentica decolonizzazione senza un’altrettanto autentica rivoluzione sociale all’interno dei paesi vittime del colonialismo. Il rischio è quello di perpetrare, una volta raggiunta l’indipendenza, l’oppressione del capitale sulle classi più povere.

Per Fanon dunque la liberazione dell’essere umano nero passa si dalla presa di consapevolezza soggettiva e culturale della propria identità ma anche dalla ristrutturazione di quei rapporti economici oggettivi che causano lo sfruttamento dei popoli neri:

“La ricchezza dei paesi imperialisti è anche la nostra ricchezza”, scrive Fanon. “Sul piano dell’universale, questa affermazione, com’è facile capire, non vuole assolutamente significare che noi ci sentiamo oggetto delle creazioni della tecnica e delle arti occidentali. Molto concretamente”, piuttosto, continua Fanon, “l’Europa si è gonfiata smisuratamente dell’oro e delle materie prime dei paesi coloniali: America latina, Cina, Africa. Da tutti quei continenti, di fronte ai quali l’Europa oggi erge la sua torre opulenta, partono da secoli in direzione di quella stessa Europa i diamanti e il petrolio, la seta e il cotone, i legnami e i prodotti esotici. L’Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo. Le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati.”

Fanon non è solo un intellettuale che rivendica una presa di coscienza collettiva, e non si limita solo a teorizzarla, la rivoluzione africana. Ad un certo punto della sua vita il rivoluzionario lo va a fare concretamente: espulso dai territori francesi, prende parte al Fronte di Liberazione Nazionale algerino e viaggia per gli stati del continente africano per sollecitare la rivolta armata contro gli oppressori coloniali.

Una rivolta armata che Fanon cercò di analizzare anche dal punto di vista della strategia militare, con una lunga serie di saggi e di articoli che poi diventeranno un testo compiuto soltanto dopo la sua morte: “Pour la révolution africaine”, si intitola.

Una rivoluzione che Fanon però non potrà vivere in prima persona. Nel 1961, ad appena 36, Fanon infatti muore di leucemia.

Se non ha avuto il tempo di partecipare in prima persona all’applicazione delle sue teorie in tutte le guerre e guerriglie anticoloniali che hanno incendiato l’Africa durante gli anni Sessanta, Fanon ha comunque avuto il tempo per modificare per sempre l’approccio che una fetta consistente di cultura europea critica aveva nei confronti dei movimenti di liberazione del sud del mondo.

E così arriviamo alla seconda parte di questo breve viaggio nella storia del pensiero anticolonialista. E’ il 1978 quando lo storico di origine palestinese Edward Said pubblica il suo capolavoro: “Orientalismo” è il titolo di questo libro decisivo, a tutti gli effetti uno dei grandi classici della seconda metà del ‘900.

Con il termine “orientalismo” Said si riferisce “a uno stile di pensiero fondato su una distinzione sia ontologica sia epistemologica tra l’«Oriente» da un lato, e (nella maggior parte dei casi) l’«Occidente» dall’altro.”, a una “nozione collettiva tramite cui si identifica un «noi» europei in contrapposizione agli «altri» non europei”.

E per spiegare questo pensiero è utile ricorrere, spiega Said, al concetto gramsciano di egemonia: “Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia”:

“in fondo”, scrive infatti Said, “si può dire che la principale componente della cultura europea è proprio ciò che ha reso egemone tale cultura sia nel proprio continente sia negli altri: l’idea dell’identità europea radicata in una superiorità rispetto agli altri popoli e alle altre culture”.

Said spiega quindi come ogni tentativo di definire l’Oriente da parte degli europei non è stato altro che un tentativo di ribadire la presunta superiorità europea.

Said ha inaugurato un nuovo metodo per studiare il colonialismo, mettendo in luce le teorie con le quali gli europei da sempre incasellano l’Altro in stereotipi funzionali, creando opposizioni radicali fra ciò che è europeo e ciò che non lo è, al fine di creare un concetto di alterità e di ossessiva diversità nei confronti di tutto ciò che non è “occidentale”.

E’ la lente che ancora oggi distorce completamente la capacità di analisi di gran parte della nostra classe dirigente, come ha dimostrato recentemente in modo piuttosto plateale, se non addirittura grottesco, l’altro rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri Josep Borrell quando ha avuto la brillante idea di ricordarci come a suo avviso il mondo sia diviso tra l’Europa “giardino ordinato”, e tutto il resto “una giungla” che ci minaccia.

L’opera di Said ci aiuta a capire come in realtà non si sia trattato di una gaffe.

La costruzione fittizia e superficiale di un Altro da cui distinguerci, differenziarci, e su cui, in definitiva, imporre il nostro dominio, ci spiega Said, sono un’ingrediente essenziale nella costruzione dell’identità europea.

Il libro di Said ha fatto capire che la moderna cultura europea, ma anche la sua economia e la sua politica, non sono pienamente comprensibili senza l’esperienza coloniale che ha plasmato sia l’Europa sia le colonie: una cultura e un’economia improntate ad una logica che è quella del dominio e dello sfruttamento.

Scrive Said in “Cultura e imperialismo”, che non si può pensare la cultura moderna europea senza il colonialismo e l’imperialismo e viceversa.

Così come Marx ci aveva insegnato che l’economia politica moderna è basata sulla logica dello sfruttamento del lavoro e del dominio economico, i primi studiosi non europei del colonialismo ci insegnano che alla base dell’economia politica moderna c’è un’ulteriore logica dello sfruttamento e del dominio, e cioè la razza e il razzismo come dispositivi di dominio culturale e economico.

Come scrive Fanon: “L’originalità del contesto coloniale è che le realtà economiche, le disuguaglianze, l’enorme differenza del tenore di vita, non giungono mai a occultare le realtà umane. Quando si scorge nella sua immediatezza il contesto coloniale”, insiste Fanon, “è evidente che ciò che fraziona il mondo è anzitutto il fatto di appartenere o meno a una data specie, a una data razza. In colonia, l’infrastruttura economica è pure una superstruttura. La causa è conseguenza: si è ricchi perché bianchi, si è bianchi perché ricchi.”

A partire da questo concetto di razza e di differenza razziale, la critica postcoloniale mette in discussione e decostruisce le nozioni, le categorie e i presupposti dell’identità moderna occidentale nelle sue più svariate manifestazioni.

La cultura e l’identità europea moderna, si costituiscono proprio a partire da questa logica del dominio coloniale, e sono un prodotto dell’economia dell’espansione e del dominio coloniale, e non il risultato dello sviluppo di un astratto spirito umano.

Con la decolonizzazione degli anni Sessanta e Settanta il colonialismo europeo scompare. Ma con gli anni Ottanta inizia un nuovo processo storico, la neoliberalizzazione globale. Si parla di mondo postcoloniale, di globalizzazione e di superamento degli stati nazione all’insegna del neoliberismo economico e del trionfo del liberalismo politico sulle ormai obsolete ideologie novecentesche.

E’ in questo periodo che tutta una parte della teoria sociale rimarca la centralità del colonialismo e dell’imperialismo occidentale nella configurazione del mondo contemporaneo, denunciando i tentativi di occultare il fatto che, scomparso il vecchio mondo coloniale, le dinamiche coloniali continuano però a persistere.

Questi studi si chiamano post-colonial studies, ma quasi paradossalmente, perché ciò che mettono in luce è che il colonialismo non è affatto qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle e che occorre prestare attenzione alle nuove forme assunte dall’imperialismo bianco e liberal-democratico.

I postcolonial studies hanno avuto un ruolo di grande importanza nel rovesciamento del quadro idillico dei rapporti di potere internazionali imposti dagli USA e dagli stati europei democratici e liberali.

Come già scriveva Marx: “La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude”. (Marx, «New York Daily Tribune», 8 agosto 1853)

La più recente critica postcoloniale fa capire che, pur nella rottura con un certo passato moderno, la contemporaneità post-coloniale e globalizzata di questa nuova fase del tardo capitalismo non è affatto una fase storica libera da rapporti colonialisti. Come invece l’egemonia liberal vorrebbe farci credere.

lo sguardo postcoloniale, come lo chiama l’antropologo Miguel Mellino nella prefazione alla nuova edizione del suo libro “La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies”1, che ha introdotto nel nostro paese il dibattito sul postcolonialismo, si presenta oggi come rovescio critico, come contro-narrazione dell’ordine del discorso iniziato con l’affermazione del dominio globale del neoliberismo.

Come scriveva già Fanon, infatti:

“Due secoli fa, una ex colonia dell’Europa decise di competere con la metropoli. Essa è riuscita così bene nell’intento che gli Stati Uniti d’America sono diventati un paese mostruoso nel quale le tare, la nausea e la crudeltà dell’Europa hanno raggiunto dimensioni spaventose”

“Per capire l’impero americano oggi”, scrive il sociologo Paul Gilroy “bisogna riflettere necessariamente sul suo rapporto con i progetti coloniali europei precedenti. Bisogna capire, ad esempio”, continua Gilroy, “perché gli americani negli anni cinquanta si sono sostituiti ai francesi in Indocina, e perché si sono posti come gli eredi del colonialismo britannico nel mondo. Penso che ci dobbiamo porre tali domande per non soccombere alle categorie razziali così come oggi le troviamo nel mondo”.

Solo se capiamo in modo più preciso e sappiamo quindi individuare e denunciare la continuità tra imperialismo passato e quello ancora oggi più che attuale possiamo aprirci a uno sguardo realmente postcoloniale.

e così a occhio, ne avremmo un certo bisogno.

la fase di transizione che stiamo attraversando infatti non è altro che, per dirla con Giovanni Arrighi, la fine del lungo XX secolo, e cioè il secolo del dominio americano inteso come ultima fase del dominio occidentale moderno iniziato con la conquista coloniale dell’America.

La critica postcoloniale è oggi più che mai uno strumento fondamentale per comprendere a fondo i rapporti odierni tra Nord e Sud del mondo, e anche il legame indissolubile tra le degenerazioni del tardo capitalismo e le nuove forme di imperialismo, fenomeni migratori inclusi.

  1. M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazionecapitalismo e cosmopolitismo nei postcoloniali studies, Meltemi, 2021. ↩︎

JIHAD E IMPERIALISMO – Come USA e Israele hanno imparato ad amare l’ISIS

“La guerra all’Isis è una necessità per tutti i Paesi civili, non solo di questo o di quello Stato, perché è uno scontro tra la nostra civiltà da una parte e chi invece come l’Isis rappresenta l’odio, la superstizione, il terrorismo”. Siamo nel novembre del 2015; pochi giorni prima Parigi era precipitata nel panico a causa di una serie di attentanti portati a termine da un commando di una decina tra uomini e donne che causeranno oltre 400 feriti e ben 130 vittime, a partire dalle 90 rimaste uccise nel solo agguato presso il teatro del Bataclan, e a catechizzare le folle era nientepopodimeno che Silvio Berlusconi, che ammoniva: “Non è una singola nazione ad essere minacciata, ma tutto il mondo civile” e lanciava un appello accorato: “Mi auguro che il sangue che è stato versato a Parigi serva non solo ad Hollande, ma a tutti i leader europei per capire la necessità di estirpare il male alla radice”.
“Non è una guerra all’Islam” scandiva Barack Obama solo un anno prima, dalla tribuna del Palazzo di Vetro dell’ONU, ma “non si può negoziare con il male”. Quello dell’ex presidente statunitense era un vero e proprio allarme: “Sono 15.000 i jihadisti stranieri da oltre 80 Paesi andati in Siria negli ultimi anni. E’ la vendetta per l’aggressione francese al Califfato”. Ciò che accomuna queste dichiarazioni è considerare l’Isis, o più in generale il fondamentalismo islamico, come un prodotto della perversione di qualche debosciato che vuole abbattere la democrazia occidentale. L’Isis, Al Qaida e il vasto mondo del jihadismo sarebbero un frutto andato a male dell’Islam, fuoriuscito dai binari rassicuranti delle libertà individuali del Nord globale.

A noi di Ottosofia – amanti della storia e della filosofia – questa ricostruzione non convince molto, ma quando una ricostruzione è problematica occorre trovare la domanda giusta per offrire una lettura alternativa. E’ tempo di chiedersi: “Come si è affermato il jihadismo e che funzione gioca nel grande scacchiere mondiale?” Per abbozzare una prima risposta ci è venuto in aiuto questo testo di Maurizio Brignoli: “Jihad e Imperialismo. Dalle origini dell’islamismo ad Al Qaida e Isis”. La premessa dell’autore è chiara: “Non è la religione la questione principale da prendere in esame per spiegare le cause del fenomeno Isis, Al Qaida, ecc., bensì l’imperialismo nella sua dimensione economica, politica, militare e ideologica”. Per comprendere le principali organizzazioni jihadiste, secondo Brignoli, sarebbe necessario inserire questi fenomeni “all’interno del grande scontro inter – imperialista in atto per il controllo delle fonti energetiche, dei corridoi commerciali e delle aree valutarie” che è proprio quello che cercheremo di fare brevemente in questo video. La chiamano galassia islamista, mettendo tutto nello stesso calderone; eppure, sottolinea Maurizio Brignoli in Jihad e Imperialismo, “non si tratta di qualcosa di omogeneo”. Tutt’altro; secondo Brignoli le famiglie del jihadismo, spesso e volentieri in aperto conflitto tra loro, sono per lo meno 5: al primo posto ci sono quelli che Brignoli definisce i tradizionalisti, e cioè quelli che, fra il XIX e il XX secolo, hanno utilizzato la religione per combattere il colonialismo; poi ci sono quelli che definisce i reazionari, e cioè i sauditi, trasformati in una specie di “papi” dell’Islam con l’aiuto degli Stati Uniti; la terza forma è la galassia dei Fratelli musulmani che, a sua volta, è composta da una miriade di sottogruppi; poi ci sono gli islamo-nazionalisti che, dagli Hizballah libanesi al palestinese Hamas, sono impegnati in una lotta di liberazione nazionale; e infine i jihadisti veri e propri, che hanno preso le distanze dai Fratelli musulmani per dedicarsi interamente alla lotta armata.
Per capire davvero questo complesso universo – suggerisce Brignoli – più che intrafunarsi in mille diatribe di carattere etnico e religioso sarebbe necessario osservarli attraverso la lente del concetto di imperialismo così come sviluppato da Lenin, e cioè “una fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico” – riassume Brignoli – “caratterizzata da una concentrazione monopolistica della produzione e del capitale, dalla nascita del “capitale finanziario”, dall’esportazione di capitale e dalla spartizione del mondo fra le diverse imprese monopolistiche e le grandi potenze imperialistiche”. In questa prospettiva lo jihadismo contemporaneo deve essere riletto nella logica di imposizione degli USA del proprio dominio imperialista, che ha conosciuto una nuova configurazione all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica. Come troviamo scritto nella National Security Strategy USA del 1991, infatti, “Un nuovo ordine mondiale non è un fatto acquisito, ma un’aspirazione e un’opportunità. Abbiamo a portata di mano una possibilità straordinaria, costruire un nuovo sistema internazionale in accordo con i nostri valori e ideali. Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza realmente globali in ogni dimensione. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana (…)”. A partire, appunto, dal Medio Oriente: “Nel Medio Oriente e nell’Asia sud-occidentale” continua il documento “il nostro obiettivo generale è quello di rimanere la potenza esterna predominante nella regione e preservare l’accesso statunitense e occidentale al petrolio della regione. Per sostenere le vitali relazioni politiche ed economiche che abbiamo lungo tutto l’arco del Pacifico, dobbiamo mantenere nella regione il nostro status di potenza militare di prima grandezza”. Ecco così – in tutto il suo splendore – il mantra dell’eccezionalità USA, poliziotto del mondo per preservare l’accesso del Nord globale al petrolio della regione, ma soprattutto per controllare l’accesso del più temuto tra i potenziali competitor: la Cina, che è diventata ancora più minacciosa da quando ha deciso di ampliare la sua sfera di influenza con le Nuove Vie della Seta – attraverso le quali non ambisce solo a spingere sull’acceleratore dell’integrazione economica e regionale dell’area a partire da un’ondata massiccia di infrastrutture fisiche, ma anche a sfruttare questa integrazione per portare avanti un’agenda di emancipazione dalla dittatura del dollaro. “Nella realizzazione delle Vie della Seta” sottolinea infatti Brignoli “si sta potenziando anche la forza della moneta cinese, difatti diversi dei numerosi accordi bilaterali siglati dai cinesi con i paesi interessati prevedono l’utilizzo dello yuan quale valuta per i pagamenti (…)”. “Circa il 90% del commercio mondiale di prodotti petroliferi coinvolge il dollaro” ricorda il Global Times che, però, sottolinea come la situazione stia “gradualmente cambiando” a partire dagli “sforzi della Russia per spezzare il dominio del dollaro come valuta principale nel commercio mondiale di prodotti petroliferi. La fine del dominio del dollaro nel commercio di energia” conclude il Global Times “è una buona scelta per opporsi alle azioni unilaterali degli Stati Uniti”. Per gli Stati Uniti si tratta di una linea rossa, dal momento che – sottolinea Brignoli – “l’enorme duplice debito statunitense commerciale e di bilancio non sarebbe più sostenibile se il dollaro cessasse di essere la moneta dominante negli scambi delle principali materie prime e valuta di riserva mondiale, dal momento che gli USA non riuscirebbero più a vendere un sufficiente numero di buoni del tesoro per finanziare il loro debito”.
Per ostacolare l’integrazione economica dell’area e la spinta alla dedollarizzazione – che comporterebbe una crisi dell’egemonia degli USA – ecco allora che va consolidato il ruolo del paese come poliziotto del mondo e, per farlo, è necessario tessere una fitta rete di alleanze con i partner regionali, a partire dallo stato di Israele. Non è un caso che il progetto di dominio imperialistico a stelle e strisce si unisce – continua Brignoli – con il “piano Yinon” del 1982, che prevedeva di ridisegnare le frontiere arabe in stati più piccoli, deboli e quindi incapaci di opporsi alle mire espansionistiche sioniste. “Quello che gli israeliani stanno pianificando non è un mondo arabo” scriveva l’antropologo palestinese Khalil Nakhleh “ma un mondo di Stati arabi frammentato e pronto a soccombere all’egemonia israeliana”, ed è proprio sempre con l’obiettivo delle frammentazione che entra in ballo la love story tra gli USA e il jihadismo a partire dalla Siria, dove “lo scontro inter – imperialistico” ricostruisce Brignoli “era inizialmente articolato lungo questi due fronti: Usa – Ue – Turchia – Arabia Saudita – Eau – Qatar – Israele, che hanno usato come truppe di terra Isis, al-Nusra e diverse fazioni curde, contro Russia – Iran – Siria – Hizballah, secondo fronte strettamente alleato della Cina”. Altro che lotta all’ISIS: Brignoli, a riguardo, riporta le dichiarazioni di Efraim Inbar – il direttore del Begin – Sadat Center for strategic studies (Besa) di Tel Aviv durante gli ultimi mesi dell’amministrazione Obama – che ricordava come “l’Isis non ha mai sparato un colpo contro Israele” e quindi, suggeriva, “deve essere al massimo indebolito, ma non distrutto. Sradicare lo Stato Islamico sarebbe un errore strategico. Prolungandogli la vita piuttosto, probabilmente ci si assicura la morte di estremisti islamici per opera di altri “cattivi ragazzi” in Medio Oriente, e probabilmente continueremo a risparmiarci diversi attacchi terroristici in Occidente”. Nell’ottica di conservazione del dominio USA e dei suoi alleati, il permanere dell’Isis ha uno scopo strategico; d’altronde, puntualizzava Inbar, “la stabilità non è un valore in sé e per sé. È auspicabile solo se serve ai nostri interessi. E la sconfitta dell’Isis incoraggerebbe l’egemonia iraniana nella regione”. Ecco perché, nonostante la guerra mondiale per procura in Siria sia stata sostanzialmente l’ennesimo gigantesco fallimento del Nord Globale, la destabilizzazione continua “come sembrerebbe dimostrato dalle operazioni di esfiltrazione effettuate per salvare i comandanti dell’Isis a Raqqa e Deir el-Zor”. “Tramontato il progetto obama – clintoniano di creare un Sunnistan che interrompesse la Via della Seta e spazzasse via la mezzaluna sciita alleata di Mosca” riflette Brignoli “i combattenti dell’Isis potranno essere impiegati proprio contro la suddetta mezzaluna con operazioni di guerriglia anziché con la creazione di una forma pseudo – statale.

Ayman al-Zawahiri

L’Isis” conclude “non potrà certo più puntare all’edificazione di un’entità statuale, che costituiva la più significativa novità nel panorama jihadista, ma dovrà riconvertirsi in attore permanente di destabilizzazione, come nella migliore tradizione delle strategie imperialistiche, con un modello decentralizzato basato su un rapporto più stretto con le popolazioni locali sul modello evolutivo dell’ultima Al Qaida di al-Zawahiri”.
Un Isis de – statalizzato e pienamente addomesticato, quindi, mantenuto in vita al solo scopo di mantenere il controllo dell’area mediorientale, tassello fondamentale per gli USA che funziona anche grazie al supporto di Israele e attraverso l’indebolimento delle realtà arabe. Per capire quale terrorismo – nello specifico – verrà sponsorizzato dal Nord globale nel prossimo futuro a difesa del suo giardino ordinato e contro le minacce della giungla selvaggia che ci circonda, l’appuntamento è per stasera mercoledì 22 novembre con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica; ospite d’onore, per l’appunto, Maurizio Brignoli.
Mentre la propaganda suprematista cerca di utilizzare la carta del terrorismo per giustificare la guerra di Israele contro i bambini arabi, per provare a capire qualcosa del mondo che ci circonda noi abbiamo sempre più bisogno di un vero e proprio nuovo media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Magdi Allam

Interviste Ottoline, Pino Arlacchi: declino USA, nuovo ordine multipolare e il suicidio dell’Europa

La qualità umana e intellettuale del personale politico del partito unico della guerra e degli affari che da almeno tre decenni nell’Occidente collettivo porta avanti l’agenda della controrivoluzione neoliberista guidata da Washington è di una mediocrità disarmante. E le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Mozzata. Tra queste, un posto d’onore spetta senza nessun dubbio a Giuseppe Arlacchi, meglio noto come Pino: un rarissimo esempio di civil servant senza macchia, in grado nell’arco di oltre quarant’anni di rappresentare fin nel cuore delle massime istituzioni dell’ordine liberale in declino il punto di vista del 99%. Non dovrebbe sorprendere: Arlacchi infatti è il degno erede del migliore dei maestri, il nostro caro e intramontabile Giovanni Arrighi. Fu infatti proprio Arrighi a volerlo al suo fianco appena ventiseienne all’Università della Calabria, da dove insieme lanciarono una delle esperienze più entusiasmanti di indagine sociologica a tutto tondo della storia dell’accademia italiana. È la ricerca che nel 1980 portò alla pubblicazione di “Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo”. Un testo monumentale che riuscì a portare le lande desolate del meridione più arretrato all’attenzione della grande accademia internazionale, a partire dal leggendario Eric Hobsbawm, che ne promosse la traduzione presso la prestigiosa Cambridge University Press. Non era una divagazione esotica. Sulla falsa riga dell’insegnamento di Arrighi, piuttosto, era il risultato di un approccio sistemico al capitalismo che superava la vulgata propagandistica secondo la quale la persistenza di aree arretrate sarebbe da attribuire appunto all’incompleto sviluppo capitalistico, ma al contrario, vedeva nel rapporto dialettico tra capitalismo avanzato e sottosviluppo il motore stesso del capitalismo reale Un approccio che Arlacchi avrebbe continuato a sviluppare in mille direzioni diverse negli oltre 40 anni successivi, mettendolo sempre nella condizione di svelare la falsità congenita della narrazione liberaloide e suprematista. È per questo che quando ho incrociato Pino pochi giorni fa a Samarcanda, mi è subito sembrato il luogo più naturale dove incontrarlo. Si stava svolgendo il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona. Un raro tentativo da parte dell’Italia migliore di continuare a tessere reti e relazioni con il nuovo mondo che avanza, mentre il resto del paese marcia deciso a suon di suprematismo misto a subordinazione verso l’autodistruzione. La chiacchierata che ne è scaturita, è probabilmente la migliore intervista che come Ottolina abbiamo mai portato a casa e che abbiamo ritagliato in fretta e furia per tenervi compagnia oggi.
Un’intervista dove Arlacchi ripercorre con una lucidità disarmante gli snodi cruciali del percorso analitico che come OttolinaTV proviamo a portare avanti da sempre: dal declino dell’impero militare USA, alle contraddizioni dell’impero finanziario fondato sugli interessi egoistici di una ristretta oligarchia totalitaria per passare all’ascesa di un nuovo ordine multipolare fondato sugli interessi comuni di stati sovrani che hanno adottato sistemi economici di carattere sviluppista e finire con il suicidio volontario degli alleati/vassalli degli USA. Buona visione.

Pino Arlacchi: “Il sistema americano è basato su due grandi gambe il militarismo e la finanza. Il militare si è rivelato un clamoroso fallimento. Hanno perso quasi tutte le guerre che hanno fatto negli ultimi quarant’anni, quindi non fanno più paura a nessuno. Queste cifre sul complesso militare industriale si fanno paura in termini che chiunque pensa a che cosa si potrebbe fare in alternativa con quelle cifre. Ma poi sul piano militare, dove? Che hanno vinto è anche politico, militare. È stato un fallimento totale. Dal Vietnam in poi, in Iraq hanno fatto una guerra contro Saddam Hussein. Perderemmo armi di distruzione di massa che non aveva. E per installare un governo filo iraniano in Afghanistan ci sono i talebani più forti di vent’anni fa in Siria, hanno scatenato una guerra civile contro Assad e Assad è più forte di prima.

In Libia hanno mandato in totale rovina un Paese con la complicità degli europei, dall’altra Libia, un Paese che all’Italia importa molto. E ora c’è un po di stabilità in Libia, ma il Paese è distrutto e tutti si chiedono per quale ragione hanno buttato giù Gheddafi. Quindi il potere finanziario resta la loro principale risorsa. Loro controllano i mercati finanziari in un modo eccezionale, ma dobbiamo tener conto che nel mondo grande c’è già una potenza non finanziaria, ma una potenza dell’economia reale, una potenza industriale commerciale alternativa agli Stati Uniti, più forte degli Stati Uniti in termini di potere di acquisto che è la Cina. E io direi, oltre che la Cina, l’intera Asia, l’intero Estremo Oriente è più o meno il modello economico e la Cina non è un’eccezione. Il cosiddetto Developmental state, cioè uno Stato che è il regista dei mercati e il regista dell’economia, che stabilisce le direzioni dell’economia, che fa gli investimenti che le singole imprese non possono fare e che usa i risparmi della popolazione per finanziare lo sviluppo. Questo sistema è sempre più forte dal punto di vista economico. E quindi il problema di come mantenere questo dominio sul mondo anche sul piano finanziario è il principale problema che loro hanno. Perché molta di questa ricchezza va a finire. Indebitamento: c’è un limite alla quantità di dollari che si possono stampare? È solo questione di tempo, perché il simbolo del loro potere, e cioè il dollaro, comincia a scricchiolare. Tutti dicono sì, però il dollaro, chissà quanti decenni ancora può durare, è sempre la moneta e la valuta di riferimento di tutti gli scambi e così via. È vero. Il dubbio può durare ancora un po’. Però quando la sterlina, che era il predecessore del dollaro come moneta di riferimento, ha cominciato a declinare con l’Impero Inglese la sostituzione dalla sterlina al dollaro è stata rapidissima, non più neanche dieci anni. Ora i cinesi non vogliono fare questo. La strategia dei cinesi non è quella di sostituire il renminbi al dollaro. Lo hanno detto in cento modi: se lo avessero voluto l’avrebbero fatto perché bastava farsi pagare tutte le loro importazioni, esportazioni in renminbi e il gioco era fatto. Non lo fanno perché non hanno intenzione di fare questo, in quanto impelagarsi adesso nel sistema finanziario internazionale che è governato da Wall Street e degli americani per loro significa autodistruggersi. Loro preferiscono un sistema a più voci, più valute. La Banca Centrale Cinese ha fatto una proposta già dieci anni fa cinque valute con un paniere di valute che sostituisce il dollaro, in cui c’è anche la loro valuta. La posizione, la loro diffidenza nei confronti della finanza è totale. La chiusura del mercato finanziario cinese alla finanza internazionale fa parte di una strategia precisa la finanza in Cina deve essere mantenuta al servizio dell’economia e non viceversa. Mentre negli Stati Uniti e in Europa è la finanza a governare l’economia, perfino le grandi imprese industriali si sono finanziarizzazione. Una fabbrica di automobili, la Fiat, i guadagni non li fa sulle automobili, li fa sui prestiti. È una finanziaria che ha stravolto le cose, non porta sviluppo, non porta occupazione, non porta crescita delle risorse neanche tecnologiche. Perché sono soldi che si accumulano sui soldi senza in realtà avere nessun effetto reale, mentre sono tassi di profitto molto alti perché dominano il sistema finanziario. Profitti del 10/20% sono la norma del sistema industriale di grandi imprese. Così vi è un profitto del 2% o del 3% è già una grande cosa. E chiaro che con queste differenze nei tassi di profitto, tutta l’attenzione dei mercati e degli investitori si sposta dal lato finanziario, ma è già avvenuto della storia del mondo.
Questa è la quinta fase di sostituzione ai vertici dell’Occidente, della potenza dominante. Ed è nata sempre così, dice Braudel, che quando c’è la fine del dominio della finanza è il segno che l’autunno è arrivato. L’Olanda è partita come una potenza manifatturiera commerciale e poi è diventata una potenza finanziaria per poi cedere il passo all’Inghilterra, che è partita con l’officina del mondo nell’800 e si è poi trasformata in un centro finanziario mondiale. Agli Stati Uniti sta accadendo la stessa cosa. Partiti come potenza industriale fino grossomodo agli anni ’70, finché non è partita l’ondata neoliberista e neo finanziaria, gli Stati Uniti stanno percorrendo lo stesso percorso. Ora c’è la Cina che parte da sé, che segue questa progressione storica. Per inciso, comunque, siamo stati noi italiani i primi. Tra iI ‘300 e iI ‘500, le città-stato italiane erano così. Erano le potenze commerciali trasformatisi poi con la Firenze dei Medici e con la Genova dei finanzieri, i genovesi di potenza finanziaria. Abbiamo iniziato noi questo ciclo che che a quanto pare è ferreo. Siccome c’è una dimensione spaziale in questo ciclo, non è detto che con il dominio globale del pianeta degli Stati Uniti questa ascesa della Cina segua il modello americano. Il più grande errore che si può fare quando si affronta il problema della Cina è di pensare che loro seguano il modello americano. Sono in un certo senso l’opposto. Non è vero e quindi non è affatto detto che ci sarà un mondo a guida cinese. È molto più probabile già nei fatti. Un mondo multipolare in cui la Cina è uno dei grandi player di un mondo diventato più giusto e più e più democratico.”

Marrucci: “E con questo torniamo un po’ all’inizio del discorso. Quindi non è soltanto la corsa a sostituire il vecchio egemone con un nuovo egemone, ma è anche la possibilità, per lo meno lo spiraglio che si apre di un ordine più democratico. Insomma, dove non ci sia un unico egemone. E però, appunto, quello che dicevamo all’inizio, questo percorso qua che appunto noi dipinge noi per primi, come Ottolina dipinge sempre come una grande speranza, una cosa da sostenere in tutti i modi. Poi si arriva che scoppiano tre guerre. Per ora siamo a due.”

Arlacchi: “Un paradosso, ma la storia va avanti anche quando va avanti con paradossi. Quindi gli Stati Uniti sanno di declinare. Sanno che sono nel declino: quello che cercano di fare è di rallentare questo declino. Il problema è che un declino cruento o no, perché la tentazione dell’élite americana di usare lo strumento militare è molto grande. L’altro strumento che è costretto a finanziare con le sanzioni lo stanno usando abusando al massimo. E anche lì sono arrivati praticamente al limite. Ma il punto interrogativo è lo strumento militare, in questo caso un’élite davvero alla frutta può anche tentare di usarlo in modo ancora più forte che in passato, anche se appena ho detto prima che hanno sempre perso militarmente. Ma ora sono convinti di no e ripetono sempre la stessa politica, la stessa strategia fallimentare e a meno che non si affermi negli Stati Uniti una linea di politica estera più pacifica, più loro la chiamano isolazionista, isolazionisti che vivono in Trump. Pensano che i guai dell’America sono cominciati ogni volta che ha cercato di andare fuori in cerca di nemici. E che l’America dovrebbe concentrarsi sulla sua grande forza di una potenza continentale e non immischiarsi in guerre e in alleanze militari esterne. Perché la politica americana dalla seconda guerra mondiale in poi è stata quella di creare alleanze militari con la Nato. Ma ci sono anche altre che obbligano i contraenti del contratto a sostenersi l’un l’altro nel caso di attacco. Questo significa che nel caso della Georgia, quando la Georgia attaccò la Russia, questo significa che gli Stati Uniti avrebbero dovuto intervenire a difesa della Georgia per perdere contro la Russia, rischiando la guerra nucleare. Quindi la politica cinese non è questa. Loro non fanno alleanze militari? Assolutamente no. Fanno una forte alleanza di fatto con la Russia che loro non vogliono trasformare in un’alleanza militare. Proprio per questa ragione, per mantenere una flessibilità dei rapporti in un mondo multipolare che giova a tutti, consente nei Brics di avere posizioni molto diverse. l’India Posizioni diverse dalla Cina sono anzi dei competitori piuttosto accesi del continente, ma non vuol dire che ci sia una guerra all’interno. Significa soltanto che c’è una articolazione di rapporti, che significa che ogni Paese va per la sua strada. E non è affatto detto che qualunque scontro conflitto debba trasformarsi in una guerra. Anche perché nei Brics il sistema economico è lo stesso. Se guardiamo la struttura economica: Cina, India, Russia, Sudafrica e Brasile condividono lo stesso sistema.
C’è uno Stato che dirige, che pianifica, che governa l’economia e la porta a crescere in maniera straordinaria.”

Marrucci: “E questo certo è perché il problema è che il capitalismo finanziario usato, non l’obiettivo, non è la crescita. L’obiettivo è la.”

Arlacchi: “Concentrazione della ricchezza nel famoso 1% esatto. Questo è un fattore di instabilità, è un fattore di disagio sociale immenso che penso proprio che comincerà a manifestarsi presto.”

Marrucci: “Infatti poi c’è il punto dell’instabilità. Appunto parlavi di spinte negli Stati Uniti, a cambiare in qualche modo paradigma. Ma è una cosa fattibile. Cioè esistono rapporti di forza concreti dentro la società, per cui quella in cui si trova gli Stati Uniti non sono un vicolo cieco e hanno una possibilità di uscita più o meno turbolenta quanto ti pare, però comunque pacifico.”

Arlacchi: “Dipende da quanto si approfondirà la crisi. Fino a che punto arriverà la crisi, Quindi può succedere di tutto perché loro stanno camminando molto velocemente lungo la china. Sono nella fase terminale del loro dominio. Quindi tutto dipende da quanto la velocità di questa e questa discesa.”

Marrucci: “E per quello l’ultima cosa per quello che riguarda noi alleati che più che alleati ormai mi sembra si possa dire vassalli contro i propri interessi con una pura agenda imposta da fuori. Qual è la nostra soglia di sopportazione e perché è così alta?”

Arlacchi: “Bella domanda questa. Noi avevamo l’Europa e l’Europa, era l’idea di fondo per la creazione di un nuovo Occidente non americano. Questa idea ha avuto una grande popolarità negli anni 70 e 80 e poi è stata messa da parte. Noi abbiamo creato l’euro per questa ragione l’euro, con tutti i disastri che ha fatto per la popolazione dei paesi dell’Europa del Sud, essendo nient’altro che un marchio svalutato, però era stato creato proprio per essere un’alternativa al dollaro.Per un po ha funzionato finché è arrivato ad avere il 30% degli scambi internazionali. Poi però gli americani hanno tirato il freno a mano, tirato il freno e hanno detto agli europei Guardate che sei d’accordo, ma non vuoi. Dovevate essere complementari al dollaro, non alternativi al dollaro.E poi l’intera architettura dell’Unione europea. Io sono stato in Parlamento europeo e so di che cosa parlo. Non può funzionare, non può funzionare perché le sue basi sono un tentativo di creare gli Stati Uniti d’Europa. Questa è l’idea l’Europa che diventa un sistema federale, un governo federale come gli Stati Uniti. Questa idea non funziona, non può funzionare. Uno. Non siamo più nei tempi delle grandi federazioni. Due l’Europa è fatta di Stati che hanno, ma lavoro possono benissimo condividere spazi comuni, coordinarsi e così via, senza avere bisogno di un governo comune. Tanto è vero che gran parte delle politiche europee nei diversi Paesi sono le stesse. Non c’è bisogno di creare questo potere sovranazionale, questa burocrazia che poi può compiere degli errori terribili che è condizionabile molto di più che i governi dei singoli Paesi. Quindi proprio bisogna ripensare le basi del discorso dell’Europa. “

Marrucci: “Cioè, paradossalmente, per ritrovare un pochino di autonomia strategica europea bisognerebbe investire sulla sovranità degli Stati che non su una struttura sovranazionale.”

Arlacchi: “Noi abbiamo creato istituzioni assurde dal punto di vista europeo. La Corte europea dei diritti dell’uomo è l’esempio più scandaloso. Le sentenze di questa Corte non valgono la carta su cui sono scritte paesi europei hanno un sistema di garanzie dei diritti dei cittadini molto forte, che sono i più avanzati del mondo. Che bisogno c’era di creare che l’ha creata? Soros? È stato Soros che ha creato questa istituzione che è paradossale il 40% dei suoi membri non ha soldi, non sono giudici, non sono neanche avvocati. Sono ex attivisti di Soros che sono stati presentati dai vari paesi dell’Europa orientale dove lui è forte e sono arrivati alla Corte che fa delle sentenze abnormi molto spesso contro l’Italia.

Sempre contro la Russia e contro i più deboli del sistema. Quindi il vantaggio qual è stato? Nel mondo contiamo molto di meno di quanto contavano i singoli Stati europei. Questo ha detto Prodi interessa i singoli europei. Nel mentre il Medio Oriente sullo Scacchiere contavano quel poco che contavano molto di più 20 o 30 anni fa. E quanto contano adesso? Quindi nessun risultato politico, nessun risultato economico.”
Questa intervista è il primo di una serie di contenuti che vi proporremo nei prossimi giorni a partire dal lavoro che abbiamo svolto durante il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona che si è tenuto a Samarcanda gli scorsi 2 e 3 Novembre. È stata in assoluto la prima trasferta di OttolinaTV. Siamo convinti sia stata una scelta azzeccata e che speriamo soddisfi anche le vostre aspettative su quale dovrebbe essere il lavoro che deve svolgere un media che si propone di dare voce al 99% in questa complicata fase di transizione dell’ordine globale dall’unipolarismo USA al fantomatico nuovo ordine multipolare. Il forum infatti non era un meeting di forze antimperialiste. Il focus non era il multipolarismo per come vorremmo che fosse. Era il multipolarismo per come sarà, anzi, per come in buona parte già è a prescindere dalla nostra volontà. È il nuovo mondo che avanza, con tutte le sue opportunità, ma anche con tutte le sue contraddizioni. Per osservarlo e provare a capirlo, la vecchia propaganda suprematista dell’occidente collettivo serve a poco.
Serve un vero e proprio nuovo media, in grado di dare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)
E chi non aderisce è Maurizio Sambuca Molinari.

La fine dell’exit strategy: come Hamas costringe gli USA a impantanarsi di nuovo in Medio Oriente

La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto lo sia mai stata negli ultimi vent’anni”. Con questa illuminante profezia, Jake Sullivan è finalmente riuscito a spodestare Piero Fassino e si è consacrato come il più grande raccoglitore di figure di merda dell’intero globo. Era soltanto il 29 settembre scorso e, appena una settimana dopo, quel Medio Oriente pacificato sognato da Sullivan tornava ad infiammarsi come non accadeva da diversi lustri, rendendo ancora più fitte, cupe e indecifrabili le nubi che ci separano dal nostro futuro. E quel che è più grave è che Sullivan, per portare il pane a casa e pure il companatico, e pure parecchi extrabonus in più, fa nientepopodimeno che il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA. Che se minimamente davvero ci tengono non dico alla nostra, di sicurezza – che la risposta la sappiamo già – ma anche solo alla loro, i suoi consigli farebbero bene a non ascoltarli proprio proprio pedissequamente, diciamo. “L’Asia occidentale potrebbe essere diretta verso una guerra su larga scala che si estenderà ben oltre la striscia di Gaza e Israele”, ammoniva enfaticamente ieri Hasan Illaik dalle pagine di The Cradle; “La guerra è iniziata”, si intitola l’articolo. E’ la stessa previsione nefasta condivisa anche da Suzanne Maloney dalle pagine di Foreign Affairs: vice presidente del Brooking Institute, quando si parla di Medio Oriente la Maloney è una delle voci più ascoltate di Washington, a prescindere da chi sia ai posti di comando. “Ciò che è iniziato”, scrive, “quasi inesorabilmente è la prossima guerra. Una guerra che sarà sanguinosa, costosa e terribilmente imprevedibile nel suo corso e nei suoi esiti”. Per tutti i nuovi adepti di ogni schieramento politico della teoria postfascista, secondo la quale la colpa delle ritorsioni degli occupanti ricade sulle spalle dei resistenti, ovviamente, la responsabilità è tutta di Hamas, che come un Putin qualsiasi ha agito senza essere manco stata provocata.

Fortunatamente però c’è ancora qualcuno che non si è completamente bevuto il cervello, come Jonathan Cook, che dalle colonne di Middle East Eye prova disperatamente a ricordarci una cosa che a me pareva abbastanza ovvia, ma evidentemente non lo era: “Va detto”, scrive, “che la popolazione di Gaza stava lentamente e nel disinteresse di tutti affrontando un lento e apparentemente tranquillo percorso verso la cancellazione definitiva”.
Con il consenso e la complicità di sostanzialmente tutto il resto del mondo, nonostante politiche che Cook non fatica a definire esplicitamente genocide, “negli ultimi 16 anni il sostegno occidentale a Israele non ha mai vacillato, nonostante Israele stesse trasformando Gaza, dalla più grande prigione a cielo aperto del mondo, in una raccapricciante camera di tortura dove i palestinesi sono stati sottoposti a una lunga serie di esperimenti: cibo razionato, beni essenziali negati, accesso all’acqua potabile gradualmente rimosso e cure mediche impedite”. In queste condizioni, continua Cook, “i politici europei non si sono limitati a non fare niente per intervenire, ma anzi hanno premiato Israele con un sostegno infinito e incondizionato di carattere finanziario, diplomatico e anche militare. La verità è che senza un sostegno così incondizionato della politica occidentale, e senza la complicità dei media che ribrandizzano i furti di terre da parte dei coloni e l’oppressione da parte delle forze armate israeliane come una sorta di “crisi umanitaria”, Israele non sarebbe mai riuscita a farla franca con i suoi crimini. Sarebbe stato costretto a raggiungere un accordo adeguato con i palestinesi, e sarebbe stato costretto a normalizzare davvero i rapporti con i vicini arabi senza costringerli ad accettare una pax americana in Medio Oriente”.

Una pax americana che – dagli e ridagli – alla fine aveva convinto finanche i sauditi ad ingoiare la pillola: come ricorda Spencer Ackerman su The Nation infatti, “A nessuno, men che meno i palestinesi, sfugge che nel 2002 l’allora principe ereditario saudita Abdullah bin Abdul Aziz condizionava il riconoscimento di Israele a quello dello stato palestinese. Ora”, invece, “il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha rimosso tale condizione. Durante un’intervista del 20 settembre con Bret Baier di Fox News, ad esempio, si è impegnato solo per “una buona vita per i palestinesi”, parole che molti dei miei interlocutori hanno interpretato come l’accettazione di Riyadh dell’occupazione a tempo indeterminato”.

Per quanto oggi siate turbati, la verità è che il vostro turbamento negli ultimi 20 anni non aveva impedito ad Israele, con il sostegno di tutto l’Occidente e anche del mondo arabo, di portare sostanzialmente a compimento il suo progetto genocida: “una politica di incessante escalation” – come la definisce lucidamente Cook – “venduta dai media occidentali come “calma” e “tranquilla”, almeno fino a che i palestinesi non si azzardano a tentare di reagire ai loro aguzzini. Solo allora si parla di escalation. Sono sempre e solo i palestinesi ad “intensificare le tensioni”. E a quel punto la riproposizione su scala allargata delle oppressioni permanenti inflitte da Israele può essere rietichettata come ritorsione”.

“Quello che ci si aspetta dai palestinesi”, conlcude Cook, “è che soffrano in silenzio”. Ma intrappolare nel silenzio la rabbia di un popolo fiero e ostinato, evidentemente, è più complicato del previsto.

La fine della exit strategy degli USA dal Medio Oriente”: così ha intitolato il suo lungo articolo apparso martedì su Foriegn Affairs Suzanne Maloney, secondo la quale “l’assalto di Hamas ha messo fine alle illusioni di Washington. Ad essere finita, almeno per chiunque abbia voglia di ammetterlo, l’illusione che gli Stati Uniti possano districarsi da una regione che ha dominato l’agenda della sicurezza nazionale americana nell’ultimo mezzo secolo”. L’idea del ritiro, suggerisce la Maloney, sarebbe maturata gradualmente, mano a mano che si cominciavano a fare i conti con i fallimenti in Iraq e Afghanistan, e si faceva avanti l’idea che le gigantesche risorse che erano state investite con scarsi risultati in quest’area erano ormai diventate indispensabili per fronteggiare adeguatamente la doppia sfida rappresentata da Russia e Cina. Ma per non lasciare l’intera area in balia delle mire espansionistiche dei due competitor geopolitici, bisognava prima ridisegnare i rapporti tra potenze regionali (ovviamente ammesso e non concesso che queste mire espansionistiche esistano davvero, ma d’altronde pretendere da un membro dell’establishment USA di ragionare in termini diversi dal puro dominio sarebbe velleitario, quindi andiamo avanti). Questo nuovo equilibrio tra potenze regionali che gli USA dovevano avviare prima di lasciare l’area in balia del suo destino, erano appunto gli accordi di Abramo che, per quelli che si ostinano ancora a credere davvero che gli interessi strategici degli USA cambino a seconda di chi c’è al governo, ricordiamo essere stati un’invenzione dell’amministrazione del populista Trump, che il democratico Biden ha fatto immediatamente sua; un’invenzione che però è rimasta sempre solo sulla carta. L’obiettivo finale infatti era allineare due dei tre attori principali della regione cioè sauditi e israeliani, mettendo all’angolo il terzo, l’Iran, cavallo di troia di russi e cinesi. Un piano che ha subito una brusca deviazione quando, con la mediazione cinese, in maniera del tutto inaspettata Iraniani e sauditi hanno deciso di tornare a parlarsi e saltato il piano, l’opportunità per gli USA di uscire dall’area per concentrarsi sulle loro sfide esistenziali, è sfumata. Secondo la Maloney, agli USA non rimane che “impiegare, nei confronti dell’Iran, lo stesso tenace realismo che ha informato la recente politica statunitense nei confronti di Russia e Cina: costruire coalizioni di coloro che sono disposti ad aumentare la pressione e paralizzare la rete terroristica transnazionale dell’Iran; ripristinare l’applicazione delle sanzioni economiche”, e usare tutti gli strumenti a disposizione, dalla “diplomazia”, alla “forza”, per scoraggiare l’aggressività regionale di Teheran. Insomma, da brava neocon integralista, l’importante è impedire che le forze regionali trovino una forma di convivenza, perché da qualsiasi forma di convivenza pacifica ne uscirebbero avvantaggiate Russia e Cina. Gli USA devono rinunciare alla exit strategy dal Medio Oriente non per stabilizzarlo, ma proprio per impedirne strutturalmente ogni volontà di stabilizzazione. Ed ecco così che “mentre la campagna di terra israeliana a Gaza inizia”, scrive la Maloney, “è altamente improbabile che il conflitto rimanga lì. L’unica domanda è la portata e la velocità dell’espansione della guerra”: l’importante per un neocon è che si parli sempre e solo di guerra, e che la parola pace non compaia mai. Ma come insegna l’Ucraina, e prima di lei l’Afghanistan – giusto per fare un esempio a caso – parlare volentieri di guerra non sempre significa avere anche idea di cosa occorre fare per vincerla, a partire proprio dalla campagna di terra a Gaza, che è più facile da dire che da fare. Come ricorda infatti l’Economist, ovviamente Hamas sapeva benissimo sarebbe arrivata, e potrebbe essere meno impreparata di quanto non sembri; già nel 2014, ricorda ancora l’Economist, “nello scontro con Israele le brigate di Hamas continuarono a combattere per 50 giorni” e oggi, “dopo numerose guerre, sono più agguerrite, innovative e meglio equipaggiate che mai”.

Le tattiche che abbiamo visto utilizzare da Hamas nell’attacco contro Israele”, titola Al Jazeera, “sono state tra le più sofisticate, finora. Il gruppo ha utilizzato aria, mare e terra in quelle che in termini militari sono note come operazioni multi-dominio”: prima ha utilizzato i droni per attaccare i posti di osservazione israeliani, poi ha lanciato una quantità infinita di missili che nessuno sospettava avessero, fino a saturare e rendere inefficace il tanto decantato iron dome,poi è passata all’infiltrazione fisica, attaccando il gigante israeliano da una miriade di direzioni diverse, compreso un fitto reticolo di tunnel di cui di nuovo nessuno sospettava l’esistenza.

Certo, lo so che sono solo subumani e che Israele, come baluardo delle democrazie avanzate in Medio Oriente, è sostanzialmente infallibile, ma magari un pizzico di umiltà in più non basta.

Per capirlo, è sufficiente guardare proprio la facilità con la quale è stata bucata l’intelligence: “La causa principale del fallimento dell’intelligence israeliana nei confronti di Hamas”, scrive il sempre ottimo Scott Ritter che – ricordiamo – per campare lavorava proprio nell’intelligence dei Marines, “è stata l’eccessiva fiducia che Israele riponeva nella raccolta e nell’analisi dell’intelligence stessa”.

Fare gli sboroni è bello, ma a volte fa male.

L’unità 8200” – che è l’unità delle forze armate israeliane incaricata dello spionaggio e delle intercettazioni di ogni segnale possibile immaginabile – “ha speso miliardi di dollari per creare capacità di raccolta di informazioni che assorbono ogni dato digitale proveniente da Gaza: chiamate al cellulare, e-mail e SMS. Gaza è il luogo più fotografato del pianeta e, tra immagini satellitari, droni e telecamere a circuito chiuso, si stima che ogni metro quadrato di Gaza venga ripreso ogni 10 minuti”. Per analizzare tutto questo materiale, l’unità 8200 ha sviluppato i suoi algoritmi di intelligenza artificiale, la cui efficacia e capacità predittiva sono state tra le chiavi dei grandi successi ottenuti appena due anni fa, nel 2021, con la campagna Guardiani del Muro, durante la quale sono state fatte 1500 vittime e sono stati decapitati i vertici di Hamas, il tutto senza perdere quasi nemmeno un uomo. Poi però, evidentemente, qualcosa si è rotto: “L’errore fatale di Israele”, scrive Ritter, “è stato quello di vantarsi apertamente del ruolo svolto dall’intelligenza artificiale nell’operazione Guardiani del Muro. Perché evidentemente, da allora, Hamas è riuscita a prendere il controllo del flusso di informazioni raccolte da Israele”. Secondo Ritter, sostanzialmente, li hanno fregati: invece che smettere di usare i canali di comunicazione controllati dagli Israeliani e analizzati dai loro sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale, li hanno continuati ad usare eccome, ma solo per mandare falsi segnali. Agli occhi del sistema tutto procedeva come al solito, mentre lontano dagli occhi del grande fratello israeliano, Hamas si preparava in tutta tranquillità a infliggergli una delle sconfitte più tragiche della storia del paese.

Fortunatamente c’è già un bel piano B: ad architettarlo, un nutrito gruppo di menti brillanti che mercoledì scorso si sono riunite in manifestazione a New York. Nel caso servissero, gli USA avrebbero già dato mandato di inviare nelle vicine basi sparse nella regione un’altra ventina abbondante di caccia F-16 e F-35; alcuni carichi di munizioni – sembra -sarebbero già arrivati. L’aarsenale della democrazia diventa così ufficialmente l’arsenale del genocidio. Ma come si fa a giustificare l’idea di radere più o meno completamente al suolo un fazzoletto di terra dove vivono ammucchiate come topi quasi 3 milioni di persone, per quasi la metà bambini?

Semplice. Così:

Libero: HAMAS DECAPITA I BIMBI
Il giornale: DECAPITANO I BAMBINI
La verità: SCOPERTI 40 PICCOLI CORPI MARTORIATI, MOLTI DECAPITATI
La stampa: LA STRAGE DEGLI INNOCENTI, ANCHE DEI NEONATI DECAPITATI TRA I CADAVERI

E così via; lo stesso identico titolo su tutti – e dico letteralmente tutti – i giornali italiani.

D’altronde, pretendere che gli sciacalli non facciano sciacallaggio sarebbe velleitario. Peccato però che a questo giro ci sia un problemino in più: questa notizia che occupa le prime pagine di tutti i giornali si basa infatti su un’unica fonte, una giornalista israeliana che lavora per un canale all news nato “per pubblicizzare nel mondo il punto di vista israeliano”, scriveva Haaretz al momento del lancio. Ma non solo, perché – come ha ammesso la giornalista stessa – questi bambini decapitati lei in realtà manco li ha visti. Gliel’hanno detto. A lei però. Agli altri giornalisti no. Samuel Forey è un giornalista indipendente che vive a Gerusalemme dal 2011 e che collabora con Le Monde e Mediapart; martedì anche lui era a Kfar Azza, nel kibbutz degli orrori ma, come dichiara su X, “Nessuno mi ha parlato di decapitazioni, tanto meno di bambini decapitati, ancora meno di 40 bambini decapitati”. Qualche sospettino è venuto anche all’agenzia di stampa di stato turca Anadolu, secondo la quale un portavoce delle forze armate israeliane avrebbe dichiarato che “l’esercito israeliano non ha nessuna informazione che confermi la vicenda dei bambini decapitati da Hamas”.

Tirare in ballo i bambini un po’ a casaccio, d’altronde, è un vecchio classico: tra i precedenti più celebri c’è quello che risale all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam, che poco dopo portò alla prima guerra del Golfo.

E’ il 10 ottobre del 1990 e a testimoniare di fronte al Comitato sui Diritti Umani del congresso USA appare una ragazzina di 15 anni; la identificheranno esclusivamente con il nome di battesimo, Nayrah. Dichiarò che in seguito all’invasione aveva assistito direttamente a membri delle forze armate irachene che entravano in un ospedale, toglievano i neonati dalle incubatrici e li lasciavano morire. La notizia ovviamente conquistò immediatamente le prime pagine di tutti i giornali e divenne subito uno dei cavalli di battaglia della narrazione che Bush padre spacciava a destra e manca per giustificare l’intervento. Due anni dopo, di Naryah si scoprì il cognome: al-Sabah, figlia di Saud al-Sabah, l’ambasciatore del Kuwait negli USA, e si scoprì che l’intera sua testimonianza faceva parte della campagna denominata Citizens for a Free Kuwait architettata dal governo del Kuwait e affidata al gigante delle pubbliche relazioni Hill & Knowlton per spingere appunto gli USA verso l’intervento. Ma al ridicolo non c’è mai limite: la performance migliore ieri ce l’ha infatti offerta l’inossidabile Lucio Malan, che ha pubblicato un video che ritrae dei bambini chiusi in una gabbia.

Malan ha fatto 1+1, ma il risultato gli è venuto 3.

Orrendo video pubblicato da Hamas,” ha scritto nel commento. “Bambini israeliani rapiti e tenuti in gabbie per animali. E ci sono varie altre gabbie pronte”. Ovviamente è immediatamente venuto fuori che era un video che girava da anni e che non c’è nessun rapimento; era un gioco, anche se – va ammesso – non particolarmente divertente direi.

https://twitter.com/LucioMalan/status/1711087104237650021

D’altronde funziona così: più è feroce, spietata e clamorosamente squilibrata la guerra che ci si approccia a combattere e più la propaganda deve alzare l’asticella, puntando alla deumanizzazione totale dell’avversario; una vecchia tecnica delle potenze colonialiste, poi perfezionata dal regime hitleriano, che ormai fa apertamente scuola. “Era giusto colpire di fatto tutti i tedeschi, per colpa dei crimini commessi dalla cricca nazista?” scrive in un post allucinogeno l’infaticabile Jacopo Iacoboni. “Certamente no” risponde, “ma nelle fasi finali della guerra questa distinzione finì per sfumare, perché bisognava distruggere i nazisti e impedire che continuassero a fare del male all’umanità”.

La soluzione finale ormai non è più tabù, ma una strategia come un’altra.

Fortunatamente in questa escalation di barbarie, ogni tanto emerge qualche bella storia. Basta volerla raccontare: Middle East Eye, la testata fondata dall’ex inviato del Guardian David Hearst, è una delle poche che non c’ha completamente rinunciato e sul suo profilo tiktok, ha rilanciato questa intervista:

@middleeasteye

Israeli woman speaks of experience with Hamas fighters. An Israeli woman gave an interview to a local Israeli channel recounting her experience with Hamas fighters when they entered her home following the Hamas-led attack of 7 October. #Hamas #Israeli #israel #learnontiktok #foryou #fyp

♬ original sound – Middle East Eye

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E chi non aderisce è Jacopo Iacoboni.

NONCIELODIKONO!!! USA: “Sul pallone spia avevano ragione i cinesi”. Ma i media censurano la notizia

Fermi tutti, fermi tutti, perché finalmente abbiamo le prove! L’informazione mainstream non è semplicemente propaganda!

Magari, quello sarebbe già buono.

È proprio una fabbrica di fake news.

Sfacciata, plateale.

Febbraio del 2023.

Tra i cieli del Montana, d’improvviso appare un gigantesco pallone gonfiabile bianco. La sentenza è unanime. Tutte le prime pagine dei giornali italiani titolano all’unisono nello stesso identico modo: un sofisticato pallone spia cinese ha provocato gli USA e ha invaso il loro spazio aereo. Per tre giorni non si è parlerà di altro; d’altronde, non era mica una cosa da niente.

Il pallone”, sentenziava Bretella Rampini, “di sicuro avrà raccolto una ricca messe di fotografie sorvolando una base di armi nucleari nel Montana”. DI SICURO, mica chiacchiere.

E ora facciamo un piccolo salto avanti nel tempo 

17 settembre

Il Generale Mark Milley è ospite al celebre programma domenicale della CBS.

Siamo piuttosto certi”, afferma il generale, “che il pallone non abbia raccolto nessuna informazione e che nessuna informazione sia stata trasmessa in Cina”.

In sala cade il gelo e pure nelle redazioni dei giornali italiane.

Come facciamo a riportare questa notizia senza perdere la faccia e dimostrare che tutto quello che diciamo sulla Cina e in generale sui paesi che non fanno da cagnolini da riporto a Washington sono gigantesche minchiate?

Semplice, basta fare finta di niente.

La clamorosa smentita a una settimana di speculazioni di ogni genere, per giustificare il muro dei guerrafondai a stelle e strisce innalzata contro il dialogo con la Cina, è letteralmente scomparsa.

Niente, silenzio, zero assoluto.

Il controllo dei media da parte del partito unico della guerra e degli affari, d’altronde, è esattamente a questo che serve: a fabbricare e dare il massimo risalto alle fake news prima, e letteralmente a nascondere le notizie vere poi.

Un pallone aerostatico”, scriveva il 4 Febbraio scorso su la Repubblichina l’inarrivabile Paolo Mastrolilli, “può sembrare uno strumento di spionaggio rudimentale e ovviamente non è l’unico mezzo di cui dispone la Cina, che ha anche satelliti e armi moderne come i missili ipersonici. Però”, ci avvisa Mastrolilli, “l’atto di sfida, o di irresponsabilità, rivela il vero umore di Xi”.

Subito sotto, l’ineffabile Di Feo, che ha fatto della necessità di parlare di cose che palesemente non conosce una vera e propria arte, rilanciava, e metteva in allerta contro pericolose sottovalutazioni. Questi giganteschi palloni aerostatici, sottolineava Di Feo, “sono spie di sorprendente semplicità ma anche efficacia, capaci di attraversare i continenti cavalcando le correnti per raccogliere informazioni top secret”.

C’è poco da fare ironia, rilanciava Stefano Piazza su La Verità. “Occorre ricordare” infatti, scriveva, “che in Montana si trova nientepopodimeno che la Malmstrom Air Force Base, una delle tre basi americane con missili nucleari, e nello Stato sono presenti 150 missili balistici intercontinentali”.

È per questo che, come scriveva Maurizio Stefanini su Libero, “il governo degli Stati Uniti non ha la minima voglia di scherzare sul pallone proveniente dalla Repubblica Popolare che ha sorvolato una base con missili nucleari

Quella che però in assoluto c’ha marciato di più, ovviamente, è la mitica Giulia Pompili, che le spara così grosse da essersi guadagnata un posto al sole nella capitale web dei bimbiminkia italiani nota come la miniera di Ivan Grieco. “La Cina ha ammesso che si tratta di un suo dirigibile”, scrive, che però sarebbe molto banalmente uno strumento “civile, di quelli usati da quasi tutte le agenzie metereologiche per fare rivelazioni atmosferiche”.

Ma, sostiene la Pompili, “è completamente falso: i palloni sonda meteorologici sono di piccolissime dimensioni, perché funzionano con strumenti miniaturizzati, e poi esplodono automaticamente a una certa altezza”.

Per un attimo, avevo sperato che la totale incompetenza della Pompili fosse limitata ai temi economici. E invece in tema di cazzate è proprio tuttologa la ragazza.

Come avevamo sottolineato proprio mentre questa gara incredibile a chi la sparava più grossa era in pieno svolgimento, infatti, le sarebbe bastato dare un’occhiata veloce al sito della NASA, dove da anni si descrivano nei minimi dettagli missioni che sono in corso da decenni e che prevedono l’impiego di palloni aerostatici “in grado di contenere un intero stadio di football dentro” per missioni scientifiche che mediamente durano oltre 45 giorni (https://www.nasa.gov/scientific-balloons/types-of-balloons).

Ma quello che preoccupa ancora di più la Pompili, non è cosa fa quel pallone, che tanto ormai tutti spiano tutti, ma la sfacciataggine. “Non è una novità che la Cina spii l’America”, sottolinea infatti la nostra istrionica minatrice, “ma la crisi politica e diplomatica che il pallone da ricognizione ha aperto riguarda soprattutto un’operazione sfacciata, visibile, una violazione dello spazio aereo con un messaggio chiaro: arriviamo ovunque”.

Ma anche sulla provocazione sfacciata, duole dirlo, la Pompili non ci aveva visto proprio benissimo, diciamo. Il pallone cinese infatti, ha dichiarato domenica scorsa Milley, sarebbe entrato in territorio USA involontariamente, a causa del vento: “A quelle altitudini il vento è incredibilmente forte”, ha dichiarato il Generale, “i motori di quel pallone non sono in grado di andare contro quel genere di vento a quell’altitudine”. Alla ricerca spasmodica dell’ennesimo casus belli immaginario, la Pompili ha continuato a ricamare sulla faccenda per giorni e giorni, articoli su articoli.

Anche quando ormai negli USA la situazione era ormai completamente sfuggita di mano

Alla Fox News uno squadrone di attivisti neoconservatori a libro paga di vari think tank finanziati dall’industria bellica si alternava, affermando all’unisono che Pechino stava usando i palloncini per “preparare il campo di battaglia” per un intervento militare diretto sul suolo statunitense.

Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg affermava che il pallone spia non rappresentava solo un’evidente minaccia per gli USA, ma anche per tutti gli alleati. “Il pallone sopra gli Stati Uniti”, aveva dichiarato pubblicamente, “conferma il modello di comportamento cinese. Abbiamo bisogno di essere consapevoli del rischio costante rappresentato dall’intelligence cinese e intensificare le nostre azioni per proteggerci e reagire”.

Il top però era stato raggiunto solo alcuni giorni dopo, quando gli USA spinti dalla follia sinofobica dell’opinione pubblica, in preda al panico, avevano cominciato a tirar giù tutto quello che di gonfiabile vedevano nel cielo; fino a quando un gruppo di amatori dell’Illinois aveva denunciato che un suo pallone per le misurazioni atmosferiche da appena 12 dollari di valore, era stato tirato giù con un missile che di dollari da solo ne costava poco meno di 450 mila.

L’analisi della Pompili? “L’America abbatte quattro oggetti volanti”, scrive. Ma “non è isteria, è un messaggio chiaro alla Cina”. “Il messaggio è trasparente, chiaro”, scrive enfaticamente la Pompili, “ed è diretto contro la Cina, che invece porta le sue contro-accuse come un semplice show di propaganda”. Che tra l’altro dimostra come la Pompili, oltre a spararle grosse, scriva quasi peggio di David Puente. Ma con tutti i quattrini che c’hanno per fare propaganda, non lo trovano un pennivendolo altrettanto servizievole ma che almeno sappia scrivere decentemente?


Ma al di là della ghiotta occasione per perculare per l’ennesima volta l’Armata Brancaleone del giornalismo analfoliberale italiano e per raccontare un caso concreto di come funziona la macchina della propaganda del partito unico della guerra e degli affari, le nuove rivelazioni del Generale Milley sono interessanti anche, se non soprattutto, da un altro punto di vista. Per quanto possa apparire ridicolo infatti, le fake news sul pallone spia non sono state semplicemente l’ennesimo esercizio di retorica suprematista, ma hanno avuto conseguenze politiche piuttosto pesanti.

Come sicuramente ricorderete, poco prima si era celebrato il G20 di Bali, durante il quale Xi e Biden si erano stretti la mano, e avevano promesso una “nuova distensione”. Il primo passo, sarebbe dovuto essere il viaggio ufficiale di Blinken a Pechino previsto proprio per quel Febbraio. Ma l’isteria scatenata dall’incidente del pallone, strumentalizzata a più non posso dalle fazioni USA più radicalmente sinofobe, aveva spinto l’amministrazione Biden ad annullarlo.

I mesi successivi, hanno rappresentato probabilmente il livello più basso delle relazioni tra le due grandi potenze da qualche anno a questa parte. Nel giro di pochi mesi i cinesi hanno sfornato una quantità gigantesca di documenti, studi e report che denunciavano tutte le storture degli USA con un linguaggio di un’aggressività che raramente si era vista prima: dalla critica al sistema economico e alle diseguaglianze che genera, a quella sulle violazioni sistematiche del diritto internazionale.

Ma non solo. Convinta di non poter trovare nessun interlocutore minimamente serio ed affidabile oltrepacifico, la Cina ha passato mesi e mesi a premere sull’acceleratore dei rapporti sud-sud, incentivando così quel processo di contrapposizione tra Sud Globale e Nord Globale che fino ad allora aveva sempre cercato di stemperare. In quanto di gran lunga prima potenza economica globale reale infatti la Cina ha tutto l’interesse a mantenere almeno una parvenza di pace e di ordine e poter così procedere tranquillamente con gli affari e con il commercio. In tempo di pace il declino relativo del Nord Globale e degli USA in particolare, e l’ascesa cinese, sono letteralmente inarrestabili. Ma quando arrivi a far saltare un incontro di quel livello a causa di una vaccata come quella del pallone gigante, significa che probabilmente fare lo sforzo di provare a concordare alcuni paletti per evitare un’escalation potrebbe essere una totale perdita di tempo e pure di dignità, che è una cosa che da quelle parti ha ancora un certo valore.

Ed ecco così che la nuova distensione è andata a farsi benedire.

Quando le acque poi si sono calmate però, gli USA hanno per lo meno fatto finta di voler riprendere quel percorso: la visita di Blinken alla fine c’è stata e poi pure quella della Yellen, del Segretario di Stato al Commercio e molte altre ancora. Tutti che affermavano esplicitamente che l’idea stessa di disaccoppiare le due economie è una follia e che non hanno nessuna intenzione di ostacolare lo sviluppo cinese, ma che semplicemente vogliono emanciparsi dalla Cina per tutta una serie di materie prime e di prodotti strategici, e che non sono disposti ad aiutare la Cina a colmare il gap con gli USA in termini di capacità militare.

Nel frattempo però le sanzioni unilaterali non solo sono sempre tutte lì, ma sono pure peggiorate, a partire dal decreto che ha sancito l’impossibilità per i capitali occidentali di andare a investire in Cina nei settori tecnologici più avanzati: dall’intelligenza artificiale, al quantum computing.

Insomma, pochi fatti, e tante chiacchiere.

E dopo la pagliacciata del pallone spia, i cinesi le chiacchiere che non sono accompagnate anche dai fatti hanno deciso che non gli bastano più.

E negli USA c’è chi comincia a credere che forse è arrivato il caso di dimostrare un po’ di buona volontà in più. Anche tra le fila della destra.

John Muller è uno degli analisti di punta del Cato Institute, il famigerato think tank fondato e finanziato dal miliardario ultrareazionario Charles Koch e su Foreign Affairs ha appena pubblicato un lungo articolo che traccia la strategia che gli anarcocapitalisti made in USA vorrebbero adottare nei confronti della Cina. “Il caso contro il contenimento”, si intitola. Quella “strategia non ha vinto la Guerra Fredda e non sconfiggerà la Cina”. Nell’articolo Muller fa una lunga disamina della strategia del contenimento adottata dagli USA contro l’URSS durante la Guerra Fredda, e che imponeva a “Washington di respingere i progressi politici e militari sovietici ovunque apparissero, cercando così di impedire la diffusione del comunismo internazionale, e controllando il potere dell’unione sovietica senza dover ricorrere a una guerra diretta”. Secondo Muller la buona fama di cui gode questa strategia, sarebbe del tutto ingiustificata. “In realtà”, scrive, “più che il contenimento, furono gli errori e le debolezze dell’Unione Sovietica a causarne la caduta”.

Muller ricorda come quella strategia fosse stata descritta in dettaglio in un altro articolo del 1947 pubblicato proprio su Foreign Affairs. “Le fonti della condotta sovietica”, si intitolava. Firmato dal padre ufficiale della strategia del contenimento: l’ambasciatore e studioso di Scienze Politiche George Frost Kennan. Ma “Nei decenni successivi all’articolo”, sottolinea Muller, “il contenimento, oltre a ispirare fallimenti come l’invasione della Baia dei Porci e la guerra del Vietnam, sembrava aver impedito a pochi paesi di diventare comunisti

Nei confronti diretti dell’espansionismo sovietico, invece, riflette Muller, il contenimento era tutto sommato inutile. “I sovietici”, scrive Muller, “non avevano bisogno di essere scoraggiati: cercavano di aiutare e ispirare movimenti rivoluzionari in tutto il mondo, ma non avevano mai avuto interesse a condurre qualcosa di simile al ripetersi della Seconda Guerra Mondiale” e “dopo aver analizzato gli archivi sovietici, lo storico Vojtcch Mastny osservò che tutti i piani di Mosca erano difensivi e che l’enorme rafforzamento militare in Occidente “era irrilevante nel scoraggiare una grande guerra che il nemico per primo non aveva intenzione di lanciare””.

Secondo Muller, tutte le sconfitte subite dal comunismo in quegli erano autoinflitte: dai conflitti interni al campo comunista stesso, alle repressioni anticomuniste in alcuni paesi del sud del mondo, come la carneficina indonesiana. E quando invece vincevano da qualche parte, era una vittoria di Pirro, come nel caso del Mozambico nel ‘77, o in Nicaragua nel ’79.

Tutti paesi, scrive Muller, che “presto divennero casi disperati a livello economico e politico”. E anche nel crollo finale dell’impero sovietico, il contenimento secondo Muller c’entrerebbe poco o niente. “A quel punto”, sostiene Muller, “Washington aveva da tempo assunto che la Guerra Fredda fosse finita e aveva ufficialmente abbandonato quella politica. E Anche Mosca”.

Ora, ovviamente si tratta di una sequenza di puttanate che suscita quasi ammirazione. Se fosse italiano Muller lavorerebbe senz’altro per Il Foglio. Ma le implicazioni di questa analisi totalmente delirante invece sono bellissime. Secondo Muller infatti, come il contenimento non avrebbe avuto nessun ruolo nell’ostacolare l’ascesa dell’Unione Sovietica, allo stesso modo sarebbe del tutto inefficace per contrastare quella cinese. “La cosa più preoccupante per la Cina, come lo è stata per l’Unione Sovietica”, scrive Muller, in realtà, “è la sua crescente serie di difficoltà interne”.

Muller a questo punto fa un altro lungo elenco completamente delirante dei fallimenti immaginari della Cina: dalla corruzione endemica, al degrado ambientale, passando per il rallentamento della crescita e pure ovviamente il sostanziale fallimento della Via della Seta. Quasi per caso in mezzo a questa sequela di minchiate, ne dice una giusta. Come per l’Unione Sovietica, sottolinea infatti Muller, “la maggior parte delle mosse espansionistiche della Cina non hanno nulla a che fare con la forza. Come ha affermato l’ex diplomatico statunitense Chas Freeman: “Non esiste una risposta militare a una grande strategia costruita su un’espansione non violenta del commercio e della navigazione”.

Quindi non c’è motivo di allarmarsi, e basta “sedersi tranquilli ed aspettare

Si tratta della saggezza di restare indietro”, scrive Muller, “mantenere la calma e lasciare che le contraddizioni nel sistema del tuo avversario diventino evidenti”. “I politici”, conclude Muller, “dovrebbero tenere a mente una massima di Napoleone Bonaparte: “Non interrompere mai il tuo nemico quando sta commettendo un errore””.

Ecco, esatto. È quello che diciamo pure noi di fare per accelerare il declino.

Che vi state a sgolare a fare voi analfoliberali. Il globalismo neoliberista è un modello di sviluppo troppo superiore rispetto al multipolarismo industriale e produttivo, è evidente.

Basta che abbiate un po’ di pazienza, la smettiate di fare colpi di stato, cambi di regime, guerre e sanzioni economiche illegali a destra e manca e il vostro amato sistema alla lunga non potrà che dimostrare tutta la sua superiorità. E alla fine vincerete, insieme a Koch, a Giulia Pompili, a Federico Rampini e a John Muller.

Più o meno intorno al 31 settembre del duemilacredici.

Se anche tu sei per un media che incentivi gli analfoliberali a crogiolarsi nelle loro fantasie suprematiste senza rompere troppo i coglioni mentre il mondo nuovo avanza e gli prepara il funerale, aiutaci a costruirlo.

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E chi non aderisce è Giulia Pompili.

Un gigante contro le oligarchie: La storia di Michael Hudson, il più grande economista vivente

Micheal hudson nasce nel 1939 a minneapolis, “l’unica città trotzkista al mondo”, l’ha definita.

Ma i legami con Trotzky di hudson andavano oltre minneapolis.

I suoi genitori avevano lavorato direttamente con lui in messico e tornati a Minneapolis, si erano messi alla testa del leggendario sciopero generale degli autotrasportatori del 1934 che bloccò l’intera logistica di dell’upper midwest per oltre tre mesi.

Sei anni dopo, il padre di Michael pagherà il suo attivismo con il carcere, grazie all’entrata in vigore del famigerato smith acts che nell’arco di un paio di decenni consentì l’arresto per motivi ideologici di oltre duecento militanti comunisti e socialisti.

“Quindi”, ricorda Hudson, “sin da piccolo ho avuto a che fare quotidianamente con i vecchi membri dei partiti comunisti americano, tedesco… passavano tutti per casa mia, e mi raccontavano continuamente storie legate alla rivoluzione. E così ero quasi predestinato a guidarne una, se mai se ne fossero riscontrate le condizioni. Il mio interesse è sempre stato capire quali fosse quelle condizioni”

Il padre di Michael, si mormora, aveva il quoziente intellettivo più alto di tutto il sistema penitenziario USA, così si convinsero che anche michael fosse fatto della stessa pasta e lo introdussero a un percorso di studi per bambini savant. A 20 anni era già laureato: filologia germanica e storia della cultura. Nonostante, in realtà, in quegli anni avesse dedicato il grosso del tempo alla sua vera passione, la musica. Sarebbe voluto diventare direttore d’orchestra:

Andò anche a New York, per seguire i corsi di Dimitri metropolis, il direttore della New York philarmonic. Poco dopo però, morì la vedova di Trotzky, Natalia, e l’esecutore del suo testamento assegnò ad hudson tutti i diritti d’autore.

Dato che ero il figlioccio di trozky, avrei dovuto creare una casa editrice”. Riesce ad ottenere anche i diritti d’autore da George Lukacs, ma non riesce a trovare nessuno disposto a pubblicare le loro opere. In compenso però, conosce Terence McCarthy. Si stava occupando della traduzione in inglese del celebre manoscritto marxiano sulla teoria del plusvalore.

Passammo un intera nottata”, ricorda Hudson, “a discutere su come il ciclo dell’attività magnetica solare stava impattando sul livello delle acque in america, e avrebbe causato una carestia che a sua volta avrebbe portato al drenaggio di denaro dal mercato azionario e obbligazionario, causando una crisi finanziaria. trovai questo ragionamento così bello, così estetico, che decisi immediatamente che avrei dedicato la mia vita allo studio dell’economia”.

Hudson allora si iscrive alla New York university. Prende una seconda laurea in economia, e trova lavoro presso la saving banks trust company, “che era l’unica banca commerciale in cui tutti i risparmiatori mettevano i loro depositi”, ricorda Hudson.

Il suo lavoro consisteva nel tracciare l’andamento dei risparmi nella città di New York, e confrontare questo andamento con quello della concessione di mutui ipotecari

E “ho visto”, ricorda Hudson, “che il grafico dei depositi sembrava quello del battito cardiaco. i depositi avevano uno sbalzo ogni 3 mesi, quando venivano pagati i dividendi. Ho capito che sostanzialmente le persone lasciavano i loro soldi in banca perché crescessero automaticamente, in modo esponenziale con gli interessi. E ho visto come questi soldi, che si accumulavano esponenzialmente, venivano reinvestiti nel mercato immobiliare per spingere al rialzo il prezzo delle case”.

Per hudson quello diventerà un vero e proprio pallino.

“Nei libri di testo sembra che le banche prestino denaro all’industria. Ma le banche non prestano un centesimo all’industria per investire in beni capitali e assumere persone. Magari li prestano per acquistare un’industria che c’è già, e poi cannibalizzarla, ma non per creare capitale. L’80% dei prestiti bancari in realtà, sono prestiti immobiliari. Ma il mercato immobiliare non viene insegnato in nessun corso di economia”, anzi, se ti azzardi a parlarne, ti segano.

Ho dovuto seguire un corso di economia monetaria tenuto da un professore che non aveva mai lavorato in una banca in vita sua”, ricorda Hudson. “Sosteneva che il ciclo economico consistesse in banche di risparmio che mettono i loro soldi in banche commerciali, che a loro volta prestano soldi all’industria. Io provai a spiegargli che quello che lui chiamava sistema bancario commerciale in realtà era una sola banca, quella dove lavoravo io, e che noi non facevamo nessun prestito all’industria. Con i soldi, molto banalmente, compravamo obbligazioni. All’esame mi dette c+. Non avevo capito l’economia dei libri di testo, però avevo capito quello che c’è scritto nei libri di testo ha poco a che vedere con il funzionamento reale dell’economia”.

I libri di testo descrivono un universo parallelo, dove la distribuzione del reddito è giusta, tutti ottengono ciò che meritano, e non esiste reddito che non sia stato onestamente guadagnato. Tutto funziona alla perfezione e devi accettare il mondo così com’è. Ma io”, ammette il nostro guru, “il mondo così com’è non l’ho mai accettato”.

Dopo l’istruttiva parentesi alla saving banks trust company, Hudson decide di approfondire il tema della bilancia dei pagamenti: “un altro tema”, sottolinea hudson, “che non viene trattato dai corsi di economia. o meglio, un tema che per come viene trattato, sarebbe meglio non lo fosse del tutto”.Per capire come funziona davvero, riesce a farsi assumere come analista dalla chase manhattan bank di david rockfeller, il fondatore del gruppo bildelberg e della commissione trilaterale. Hudson viene incaricato da rockfeller di fare uno studio sul saldo dei pagamenti dell’industria petrolifera.

Un vero e proprio rompicapo.

Hudson decide di concentrarsi in particolare sulla standard oil, vista la vicinanza a rockfeller

Ma spulciando i conti, c’è qualcosa che non gli torna. Non riesce a capire da dove standard oil tragga i suoi profitti.

Guadagna estraendo petrolio? Raffinandolo? Distribuendolo alle pompe di benzina? Dai documenti, non si riusciva a capire, fino a che il tesoriere di standard oil non gli svela l’arcano: “i soldi li guadagnamo proprio qui, nel mio ufficio”.

Ecco come Hudson ha capito il ruolo fondamentale ricoperto dai paradisi fiscali. Sostanzialmente, standard oil aveva le sue succursali in Paesi come Panama o la Liberia. che non erano veri e propri Paesi. Non avevano nessuna sovranità, e avevano adottato il dollaro, in modo da non rappresentare rischi sul versante del tasso di cambio della valuta. Queste filiali non facevano altro che una piccola operazione contabile. Compravano petrolio dai produttori a prezzi ridicoli, e lo rivendevano ai raffinatori a prezzi decuplicati. Sia produttori che raffinatori, non facevano un euro di profitto. Tutto il profitto lo facevano le succursali nei paradisi fiscali. Oggi è l’intera economia internazionale a funzionare così, ma oltre 50 anni fa, per hudson, fu una vera e propria rivelazione.

E non solo per Hudson…

Verso la fine del 1967, viene affiancato in ascensore da uno sconosciuto, che gli porge un fascicolo:

“È un rapporto del dipartimento di stato. Vorrebbero che tu ci aiutassi a calcolare quanti soldi potremmo ottenere se creassimo filiali bancari in questo tipo di paesi e diventassimo la banca per tutto il capitale criminale del mondo”, ricorda Hudson.

Non avrei potuto chiedere di meglio”, sottolinea sarcasticamente “avevo la massima collaborazione da parte di tutte le persone legate al governo, che i spiegavano come la cia lavorava con il traffico di droga e i criminali per raccogliere denaro. stavo diventando un vero specialista in riciclaggio”.

Dopo l’anno vissuto intensamente tra paradisi fiscali e riciclaggio di denaro alla chase Manhattan, per approfondire l’applicazione delle sue teorie sulla bilancia dei pagamenti, hudson decide di andare a lavorare alla Arthur Andersen. All’epoca era una delle big five, le cinque principali aziende di consulenza e di revisione degli USA. Era anche la società che doveva controllare la veridicità dei bilanci della Enron, cosa che evidentemente non faceva troppo meticolosamente: nel 2001, dopo dieci anni di crescita tumultuosa, durante i quali la Enron aveva più che decuplicato il suo fatturato diventando così addirittura la settima più importante multinazionale usa in assoluto, si scoprì che era tutta fuffa, e che l’unica cosa che i dirigenti Enron facevano, era creare una quantità esorbitante di società fittizie nei paradisi fiscali. Quasi 900 in tutto. 600 soltanto alle isole Cayman.

L’anno dopo anche la Andersen, dopo 9 decenni abbondanti vissuti al massimo, fu costretta a chiudere i battenti. Da dipendente della Andersen, Hudson si accorge che l’intero deficit della bilancia commerciale USA per tutti gli anni ‘60, era interamente dovuto alle spese militari all’estero: “il settore privato del commercio e degli investimenti era esattamente in equilibrio”.

Hudson ricorda di aver consegnato il frutto del suo lavoro a William Barsanti, uno dei principali soci della andersen, nonché fondatore della filiale italiana del gruppo:“temo che dovremo licenziarti”, fu il commento di Barsanti tre giorni dopo.

Hudson ricorda che Barsanti gli raccontò di aver inviato la bozza del dossier nientepopodimeno che a Robert McNamara in persona, l’allora potentissimo Segretario di Stato dell’amministrazione Kennedy prima e Johnson poi e che da lì a breve sarebbe diventato ancora più potente nel ruolo di Presidente della banca mondiale per tredici lunghi anni.

Ci ha detto che se pubblichiamo questo rapporto, la Arthur Andersen non otterrà mai più un contratto governativo”, avrebbe detto Barsanti ad Hudson. “In tutti i documenti del pentagono che sono stati resi pubblici successivamente”, sottolinea Hudson, “non c’è alcuna discussione sui costi del saldo dei pagamenti della guerra del vietnam”.

Una mancanza non da poco: era proprio quella voragine che di lì a poco avrebbe messo definitivamente fine all’era del gold standard. In Vietnam infatti, che era un’ex colonia francese, le banche esistenti erano tutte francesi. Soldati ed esercito USA le riempivano di dollari. e quando i dollari arrivavano in Francia, De Gaulle aveva dato mandato di convertirli subito in oro.

Con molto meno clamore, la Germania intanto stava facendo la stessa cosa. Incassava dollari dalle esportazioni, e poi li convertiva tutti immediatamente in oro

Alla fine”, ricostruisce Hudson, “gli usa hanno abbandonato la convertibilità del dollaro in oro nel 1971. e allora io ho messo insieme tutti gli articoli che avevo scritto sul tema, ed ecco come nasce il mio primo libro”.

E’ “Superimperialismo”, in assoluto uno dei testi di economia politica più importanti di tutto il ventesimo secolo. Con dovizia di particolari, prima ancora che il funzionamento dell’imperialismo finanziario usa entrasse a pieno regime, Hudson dimostra come la fine del Gold Standard imporrà nei decenni a venire ai Paesi che incassano dollari grazie all’attivo commerciale di investirlo in larghissima parte in titoli del tesoro a stelle e strisce.

Quindi gli USA fanno deficit mostruosi per imporre il loro presunto strapotere militare a tutto il pianeta, ma i dollari che spendono vengono inevitabilmente reinvestiti da chi gli incassa per rifinanziare proprio quel debito. Un gigantesco schema ponzi, tenuto in piedi però dall’uso spregiudicato della forza da parte dell’esercito più grande e costoso della storia dell’umanità.

Hudson l’aveva capito nel 1972. I liberioltristi, compresi quelli che magari hanno una cattedra di economia in qualche università blasonata, per digerirlo dovranno attendere ancora qualche generazione.

Tra quelli che invece capirono subito la portata delle intuizioni di Hudson, c’era anche un certo Hernan Khan, l’uomo che avrebbe ispirato il personaggio del dottor stranamore di Kubrick.

Khan aveva da poco lasciato il suo posto alla Rand Corporation per fondare l’influentissimo Hudson Institute. E dopo aver sentito Hudson presentare il suo libro in una conferenza dedicata agli operatori di Wall Street, lo volle immediatamente al suo fianco. Nei mesi successivi, Hudson e Khan girarono il pianeta per illustrare le idee di Michael su come avrebbe funzionato da lì in avanti la bilancia dei pagamenti.

Ma gli mancava ancora un pezzetto.

Perchè ora che Bretton Woods e la convertibilità in oro erano saltati, come avrebbero fatto gli USA a imporre al resto del pianeta di continuare a usare sempre e soltanto dollari come valuta di riserva globale?

La risposta arrivò poco dopo

Rientrati da uno dei loro infiniti tour in giro per il mondo, Hudson e Khan vengono vengono invitati alla Casa Bianca per una riunione sul petrolio e la bilancia dei pagamenti.

Al tesoro era stato nominato George Schultz, che svelò ad Hudson l’arcano. Poco prima, gli USA avevano fatto in modo che il prezzo del grano aumentasse a dismisura per finanziare una parte dell’avventura vietnamita. L’opec guidata dai sauditi aveva reagito aumentando più o meno allo stesso modo il prezzo del petrolio. Schultz però non sembrava esserne più di tanto contrariato:

Più alto è il prezzo del petrolio, più le compagnie americane avrebbero guadagnato sul petrolio domestico”, avrebbe detto Schultz ad Hudson.

Ma sopratutto, l’unica condizione che aveva posto ai sauditi era che dovevano prezzare il petrolio esclusivamente in dollari, utilizzare solo dollari per i pagamenti, e “riciclare tutti i dollari che incassavano negli stati uniti”. Altrimenti, “è un atto di guerra”.

Ma cosa ci puoi comprare negli usa con i dollari?

Di sicuro “non puoi comprare le aziende americane”, ci puoi solo comprare un po’ di azioni, senza acquisire il controllo delle aziende, e soprattutto tante tante obbligazioni.

E così finalmente eccomi qui”, scrive Hudson, “nel bel mezzo della comprensione di come funziona davvero l’imperialismo. peccato che non sia quello che viene raccontato nei libri di testo”. Per seguire la tappa successiva dell’incredibile avventura del nostro economista preferito, bisogna spostarsi in Canada.Il Governo cercava qualcuno che conoscesse a fondo il mercato azionario e obbligazionario americano Volevano capire dove avrebbero potuto trovare i soldi necessari per finanziare un ambizioso piano di investimenti interni per aumentare la produttività della loro economia. Hudson gli presentò uno studio che li lasciò basiti: “avevo scritto uno studio che dimostrava che il Canada per investire internamente a livello provinciale, non aveva necessariamente bisogno di prendere denaro in prestito dall’estero. Potevano semplicemente creare la loro stessa moneta. in pratica, era il primo esempio di ciò che oggi viene chiamata modern monetary theory. il succo è che i Paesi sovrani creano la loro moneta, che è il loro credito, e non hanno bisogno di una copertura”. Non è l’unica avventura canadese di Hudson.

Il suo rapporto suscitò grande interesse tra tutti i banchieri del regno Fino a che uno dei più autorevoli analisti finanziari dell Royal bank decise che Hudson lo doveva aiutare a portare avanti la sua grande battaglia culturale. “Mi disse che a suo avviso gli economisti in buona parte avevano un problema di personalità, e che non riescono a capire come funziona concretamente il mondo. sono affetti da una sorta di autismo che gli permette di pensare esclusivamente in termini del tutto astratti, senza riuscire ad avere un senso della realtà economica nella sua concretezza”.

Hudson si ritrova così a fare da consulente al Segretario di Stato del Canada, che è responsabile anche dell’istruzione, della cultura e dell’industria cinematografica.

Nel frattempo Hudson era diventato anche consulente economico dell’unitar, l’istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca. Aveva curato alcuni rapporti sul debito dei Paesi del terzo mondo denominato in dollari, e su come questo stesse destabilizzando le loro economie

Fino a che l’allora presidente del Messico non organizzò una conferenza a Città del Messico, ed ebbe la pessima idea di invitare Hudson. Affermò pubblicamente che non c’era modo che i debiti del terzo mondo potessero essere davvero pagati: “quando lavoravo per Chase Manhattan”, ricorda Hudson, “mi ero occupato di calcolare quante esportazioni potevano potenzialmente effettuare paesi come argentina, Brasile o Cile. L’idea era che tutti i guadagni delle esportazioni dovessero essere utilizzati per pagare gli interessi sui prestiti ricevuti dalle banche americane”

Quindi prima si calcolava quanti quattrini avrebbero potuto pagare ogni anno come servizio sul debito grazie al surplus commerciale, e poi si trovava il modo di convincerli per indebitarsi per la cifra corrispondente

In questo modo i Paesi non avrebbero mai avuto la possibilità di ripagare oltre agli interessi anche il debito stesso, e sarebbero rimasti eternamente in pugno delle oligarchie finanziarie USA. “Alla conferenza in messico mi limitai a dire che visto che proprio per come erano stati architettati questi debiti oggettivamente non potranno mai essere ripagati, e che quindi molto semplicemente non sarebbero dovuti essere ripagati”.

Come venne tradotto questo semplice concetto durante la conferenza stampa che seguì la riunione?

Il giornalista che presiedeva la conferenza stampa”, ricorda Hudson, affermò che “il dottor Hudson ha presentato un rapporto dicendo che i Paesi del terzo mondo dovrebbero esportare di più per pagare i loro debiti”.

Peccato che non tornino le date, altrimenti avrei affermato con sicurezza che si trattava per forza di Federico Rampini.

Da lì in poi questa sarebbe diventata la nuova fissazione di Hudson. “Mi resi conto”, ricorda, “che l’idea che i debiti potessero non essere pagati era così controversa, che decisi di scrivere una storia delle cancellazioni del debito”. Hudson comincia così a scavare a ritroso. Prima arriva al Medio Evo. poi all’Impero romano, poi alla Grecia e alla fine a Babilonia e ai sumeri.

Mi resi conto che non esisteva una storia economica dei sumeri e di Babilonia. c’era molto materiale sulla religione e sulla cultura, ma niente su quello che mi interessava davvero: la storia delle cancellazioni del debito”.

Tramite un amico, Hudson presenta il suo piano di ricerca all’allora direttore del Peabody museum, il prestigioso museo di archeologia ed etnologia dell’università di Harvard.

““questo è fantastico”, mi disse subito con entusiamo, “nessuno sta lavorando su questo””.

Hudson diventa così ufficialmente membro del Peabody museum per l’archeologia babilonese.

Dedicherà a questa ricerca i successivi tre anni della sua vita.

Quello che Hudson riesce a ricostruire è che la maggior parte dei debiti in realtà non erano il risultato di prestiti. “La maggior parte dei debiti”, ricostruisce “si verificava quando i raccolti fallivano, e i coltivatori non potevano pagare le tasse da un alto, e gli altri beni e servizi che avevano consumato nel frattempo dall’altro”.

Secondo Hudson infatti il denaro sostanzialmente nasce così: altro non è che la misura contabile di beni e servizi consumati, che poi ripaghi una volta che arriva il momento del raccolto. Se il raccolto c’è.

Ma la cosa straordinaria che ha scoperto Hudson è che, per chi non riusciva a ripagare i debiti con i raccolti successivi, “per mille anni, ogni sovrano, quando saliva al trono, iniziava il suo Regno cancellando i debiti. Una vera e propria amnistia”.

Il sovrano era interessato ad annullare i debiti per permettere all’economia di ripartire. Senza debiti sulle spalle, i sudditi potevano tornare tranquillamente a lavorare la loro terra, pagare le tasse, e nel tempo che gli avanzava prestare la loro manodopera per i lavori di corvé e nell’esercito. Ma l’interesse del sovrano si scontrava contro gli interessi degli altri creditori. Loro non avevano nessun interesse affinchè l’economia ripartisse e i sudditi ritrovassero un loro equilibrio. Al contrario, il loro interesse era proprio che i sudditi non riuscissero a ripagare i debiti e per pareggiare i conti fossero costretti a cedergli i loro terreni e a fare al loro posto i lavori imposti dal palazzo facendoci la cresta sopra. “La tensione nella storia, dal terzo secolo avanti cristo coi sumeri, all’impero bizantino”, scrive Hudson, “è la tensione tra il palazzo che vuole raccogliere le tasse e avere manodopera per i lavori pubblici e per l’esercito, e ricchi creditori che vogliono avere manodopera indebitata da far lavorare al loro posto, ottenendo un surplus economico pagato direttamente a loro. Il modo per ottenere il surplus economico, non era quello che Marx ha descritto come peculiare del capitalismo, e cioè impiegare manodopera per produrre beni da rivendere ricavando un profitto, ma attraverso il debito, con il prelievo degli interessi e alla fine il pignoramento delle terre, che era l’obiettivo reale”. Non è questione di filologia.

Quel conflitto tra l’interesse pubblico di permettere alle persone di contribuire concretamente alla creazione della ricchezza e l’interesso delle oligarchie finanziarie a rendere le persone schiave attraverso l’indebitamento, è esattamente quello che ci ritroviamo di fronte oggi dopo cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista e di finanziarizzazione totale dell’economia in tutto il nord globale. Un conflitto che, come ci insegna Hudson, oggi ha assunto una dimensione anche geopolitica, perché la nuova guerra fredda è in fondo proprio guerra tra due sistemi contrapposti: lo sviluppo delle forze produttive dell’economia reale da un lato, e il parassitismo delle oligarchie finanziarie dall’altro.

Se oggi abbiamo gli strumenti per leggere lo scontro tra sud e nord globale come la partita decisiva del conflitto tra il 99% e l’1%, lo dobbiamo in buona misura proprio a lui.

Michael Hudson, il più grande economista vivente.

Del quale però, incredibilmente, non esiste nemmeno un testo tradotto in italiano.

Tra i millemila progetti futuri di OttolinaTV c’è anche questo: la pubblicazione per la prima volta in italiano per lo meno delle opere principali tra le decine e decine di capolavori prodotti da Hudson in questi cinquanta e passa anni.

Non saranno i quattrini di qualche oligarca a consentirci di colmare questa incredibile lacuna

Per farlo, come in generale per riuscire finalmente a creare un vero media che dia voce al 99%, abbiamo bisogno del tuo aiuto: Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su gofundme ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su paypal ( https://shorturl.at/knrcu ).

E chi non aderisce è Federico Rampini

Fate fuori Berlinguer: La guerra dell’impero contro un patriota che sognava il multipolarismo

Giugno 1976

Puerto Rico

Le sette principali economie del Nord Globale si incontrano per il secondo vertice del G7. Tra loro, un osservato speciale: l’Italia.

Appena una settimana prima, infatti, in Italia si erano tenute le elezioni politiche, e il Partito Comunista aveva ottenuto la bellezza di oltre il 34% dei consensi, l’8% in più delle elezioni precedenti, avvicinando così il tanto temuto sorpasso sulla democrazia cristiana.

I presunti alleati sono terrorizzati. 

Fortunatamente per loro però l’Italia versava nel frattempo anche in condizioni economiche decisamente complesse.

Ed ecco allora la soluzione: USA, Gran Bretagna, Francia e Repubblica Federale Tedesca sottoscrivono un accordo segreto. Avrebbero concesso aiuti economici all’Italia, ma a tre condizioni: l’esclusione dei comunisti dal futuro governo, l’introduzione di alcune riforme di carattere neoliberale e il ricambio radicale della leadership democristiana.

Così, giusto se qualcuno ancora si chiedesse chi sono i mandanti dell’omicidio Moro.

Non ho esperienza o conoscenza di una politica di tale ingerenza nel passato nei confronti di un paese altamente sviluppato e stretto alleato”, avrebbe dichiarato poco dopo un funzionario inglese presente al vertice.

D’altronde, tutto sommato, le loro preoccupazioni erano più che giustificate.

Nell’Aprile del 1974 in Portogallo le forze popolari guidate dalla fazione progressista delle Forze Armate avevano messo fine ai 40 anni dell’Estado Novo di ispirazione clericofascista del dittatore Antonio de Oliveira Salazar.

Pochi mesi dopo, nel Luglio del ‘74, in Grecia cadeva il governo dittatoriale instaurato sette anni prima con il golpe dei colonnelli e nel novembre del ‘75, in Spagna, a rimandare definitivamente a marcire nelle fogne dalle quali era arrivato quell’essere vomitevole di Francisco Franco ci aveva pensato Madre Natura.

Questi eventi”, scrive lo storico Antonio Varsori, “parvero per qualche tempo far ritenere possibile uno spostamento a sinistra degli equilibri politici nell’intera Europa meridionale, nonché il collasso del blocco occidentale in questa parte del continente”.

La clamorosa avanzata elettorale del PCI avrebbe accelerato in modo probabilmente irreversibile proprio questo processo.

Il terrore del Nord Globale di fronte a questa evenienza fino ad oggi è sempre stato letto con la lente, tutto sommato comprensibile, della contrapposizione tra democrazie liberali e modello sovietico.

Preferivi vivere in Russia?”, è la domanda standard che viene rivolta ogni volta che si affronta questa incredibile storia di ingerenza e di limitazione della sovranità.

Che poi, è la stessa che ci sentiamo rivolgere ancora oggi ogni volta che parliamo di multipolarismo: “Se ti piace tanto la Cina, perchè non ci vai?”

Peccato però si tratti in realtà di una narrazione totalmente farlocca, nella quale è caduta appieno anche la stragrande maggioranza di quella che una volta era la sinistra.

Perché la realtà purtroppo è molto peggiore: la guerra senza frontiere del Nord Globale contro Berlinguer e l’idea stessa del compromesso storico infatti, ovviamente, non ha niente a che vedere con la lotta tra le democrazie e dittature.

Piuttosto, al contrario, è un esempio eclatante della guerra senza frontiere che il capitalismo oligarchico del Nord Globale ha ingaggiato da quasi 50 anni contro la democrazia stessa.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno Storia e Filosofia nelle scuole superiori, e questo è il primo episodio della nuova stagione di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo di un grande eroe popolare: Enrico Berlinguer.

Al centro della nostra attenzione va posta la crisi che attraversano le società capitalistiche su scala mondiale in Europa e in Italia. Una crisi profonda e di tipo nuovo, dovuta al concorso di grandi processi di portata storica: l’ingresso e il peso crescente nell’arena mondiale di popoli e Stati prima soggetti al dominio coloniale; e l’esplodere delle contraddizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo dei paesi capitalistici più progrediti.

Nell’ultimo anno, siamo giunti a tassi di aumento dell’inflazione che, per i principali paesi capitalistici, raggiungono cifre elevatissime […]. E gli Usa stanno cercando di riguadagnare con tutti i mezzi parte del terreno perduto […] con le manovre speculative, con una crescente invadenza di capitali, e con il ricatto tecnologico”.

Sembra l’ennesimo pippone del nostro Giulianino. E invece siamo nel 1974.

E la penna è nientepopodimeno che quella di Enrico Berlinguer: comunista, democratico e patriota.

Le relazioni speciali con gli Stati Uniti”, continua Berlinguer, “sono diventate un vero e proprio anacronismo […] e costituiscono una inaccettabile limitazione del diritto sovrano del nostro popolo di decidere in piena libertà le vie per risolvere i nostri problemi nazionali e le corrispondenti soluzioni di governo”.

Ma quella di Berlinguer non è semplicemente l’ennesima lamentela inconcludente. Al contrario, perché secondo Berlinguer, in realtà, una via italiana per emanciparsi dall’egemonia a stelle e strisce c’è.

Oggi”, scrive infatti, “è possibile una politica estera italiana che non sia più fattore di divisione del nostro popolo ma sia invece fattore di unità, ed in cui si possono riconoscere tutte le forze politiche e democratiche e le grandi correnti ideali del nostro paese”.

Secondo Berlinguer, in sostanza, la lotta per un ordine internazionale più democratico che garantisca all’Italia il pieno esercizio della sua sovranità non è appannaggio di una minoranza ideologizzata, per quanto vasta, che guarda con favore al modello sovietico, ma è un obiettivo molto più generale, in grado di tenere insieme famiglie politiche anche molto diverse tra loro, in nome dell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione.

Come diciamo sempre a Ottolina, insomma, anche per Berlinguer sovranità e multipolarismo sono le parole d’ordine del 99%.

Ma Berlinguer va anche oltre: perché la conquista da parte dell’Italia di una vera sovranità non riguarda solo gli italiani, ma in generale la comunità umana, che vede minacciata la sua stessa sopravvivenza dalla reazione potenzialmente devastante del Nord Globale al tentativo di emancipazione dalle ingiustizie dell’ordine neocolonialista da parte dei paesi che allora definivano del Terzo Mondo.

Una politica estera che abbia a proprio fondamento la difesa della nostra autonomia da interferenze e condizionamenti stranieri”, scrive infatti Berlinguer, è la condizione per “un attivo contributo dell’Italia alla distensione, e alla cooperazione con tutti i paesi del Terzo mondo”.

Ma se la proposta politica di Berlinguer non ha niente a che vedere con la rivoluzione bolscevica e l’ingresso dell’Italia nella sfera di influenza sovietica, ed anzi è tutta volta al rafforzamento della democrazia italiana e alla sua indipendenza, perchè fa così paura agli alleati occidentali?

Per capirlo, bisogna forse intenderci un po’ meglio su cosa intendiamo davvero per democrazia.

Una riflessione che nel Partito Comunista Italiano era nata parecchio tempo prima.

Già nel 1964 Togliatti nel suo memoriale di Yalta notava infatti come “oggi sorge nei paesi più grandi la questione di una centralizzazione della direzione economica, che si cerca di realizzare con una programmazione dall’alto, nell’interesse dei grandi monopoli e attraverso l’intervento dello Stato. Questa questione”, osserva lucidamente Togliatti, non solo è all’ordine del giorno a livello interno in tutti i paesi dell’Occidente, ma “già si parla di una programmazione internazionale”.

Questa “programmazione capitalistica”, avverte Togliatti, “è sempre collegata a tendenze antidemocratiche e autoritarie”, contro le quali diventa assolutamente urgente e indispensabile “opporre l’adozione di un metodo democratico anche nella direzione della vita economica”.

Contro il formalismo democratico dei paesi imperialisti, Togliatti introduce un’idea di democrazia sostanziale come strumento per ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e subalterni. È sostanzialmente il programma da contrapporre alla controrivoluzione neoliberista che travolgerà il pianeta a partire da una decina di anni dopo, ma che Togliatti con incredibile lungimiranza aveva cominciato ad avvertire già allora.

Contro la svolta autoritaria del neoliberismo che delega la programmazione economica dall’alto alle oligarchie, la soluzione non può che essere introdurre sempre più elementi di democrazia all’interno del sistema economico stesso.

Come affermava lucidamente Luigi Longo durante l’XI congresso del PCI del 1966, “si tratta di battersi per la conquista di nuove forme di partecipazione diretta, e di nuove forme di controllo, dal basso, delle molteplici attività che costituiscono la fitta rete del potere”.

Mentre le socialdemocrazie e il tradunionismo europei erano tutti concentrati esclusivamente verso l’estensione del sistema di welfare, il PCI puntava dritto al cuore del potere capitalistico, elaborando una strategia complessiva volta a spostare strutturalmente i rapporti di forza all’interno del sistema produttivo a favore dei lavoratori. Ed è proprio in questa ottica che va letta l’idea del compromesso storico che è al centro dell’elaborazione di Berlinguer. Contro la traduzione in potere politico delle grandi concentrazioni oligarchiche di potere economico, la ricetta di Berlinguer è quella di una grande alleanza popolare in grado di trasformare in profondità le istituzioni repubblicane in senso realmente democratico. A partire dalla centralità del parlamento, dove la sovranità popolare si traduce nel potere effettivo dei rappresentanti dei cittadini produttori di controllare il sistema produttivo, ponendo così un argine alle derive tecnocratiche al servizio degli interessi delle oligarchie.

Da questo punto di vista, appunto, il piano nazionale e quello internazionale appaiono inscindibili: non si dà democrazia al di fuori della possibilità di esercitare pienamente la sovranità e non si dà sovranità al di fuori di un nuovo ordine multipolare.

La Pace al primo posto, come ha deciso di intitolare la sua raccolta di scritti e discorsi di Enrico Berlinguer sulla politica internazionale una delle punte di diamante di questa famiglia allargata che è Ottosofia, il mitico Alexander Hobel, probabilmente il più profondo conoscitore e analista di quella incredibile avventura popolare che è stata la storia del Partito Comunista Italiano. Una pace che appunto è da ottenere e difendere proprio attraverso l’ampliamento continuo degli spazi di democrazia sia a livello nazionale che internazionale. Perché “una pace non precaria, ma solida e duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia”.

Per riflettere insieme sull’incredibile attualità del pensiero di Berlinguer in questa nuova fase di contrapposizione tra la volontà di emancipazione del Sud Globale e la reazione potenzialmente devastante delle vecchie potenze imperialistiche, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 20 Settembre a partire dalle 21 con una nuova imperdibile puntata di Ottosofia.

Ospite d’onore, ça va sans dire, il nostro amato Alexander Hobel.

E nel frattempo, se anche tu credi sia arrivato il momento di costruire un nuovo media che come Berlinguer metta LA PACE AL PRIMO POSTO, cosa fare probabilmente lo sai già.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Francesco Cossiga.

Fonti:

Logo Gazzetta Filosofica: https://www.gazzettafilosofica.net/

Copertina libro: https://www.ibs.it/pace-al-primo-posto-scritti-ebook-enrico-berlinguer/e/9788855225168?gclid=CjwKCAjwjaWoBhAmEiwAXz8DBWgVYNzVbxBxTlEjlaIOylt54reg_LgWLZS5h6xh57sj9WQ6VJW9YRoC92UQAvD_BwE

Le immagini di pubblico dominio sono:

Simbolo PCI: https://it.wikipedia.org/wiki/Partito_Comunista_Italiano

Antonio de Oliveira Salazar: https://it.wikipedia.org/wiki/Ant%C3%B3nio_de_Oliveira_Salazar

Foto di Enrico Berlinguer: https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer