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Tag: imperialismo

Gli USA spaccati: Kamala vuole la guerra – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Giuliano e Gabriele hanno intervistato il sempre preparato Giacomo Gabellini attorno alle strategie messe in campo dai due diversi candidati alle presidenziali USA di novembre. Mentre sembra ormai solo questione di formalità la conferma della candidatura di Kamala Harris, Trump solleva problemi di legittimità attorno la sua figura. Mentre i Democratici puntano allo scontro attorno al mondo, i Repubblicani sembrano prediligere una strategia pragmatica che, nell’immediato, scaricherebbe i costi della difesa sui singoli scenari ai partner europei e asiatici. Buona visione.

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Tensione nel Pacifico: uno tsunami atomico investirà l’ Estremo Oriente? – ft. Giacomo Gabellini

Oggi pomeriggio presentiamo un panel che si è tenuto il 5 luglio presso il Circolo Arci di Putignano a Fest8lina, con relatori Giacomo Gabellini e Francesco Maringiò e moderatori Clara Statello e Giuliano Marrucci. Nel panel si è parlato dell’Oceano Pacifico, nuova linea di faglia del conflitto che il super-imperialismo USA ha aperto nei confronti della Cina e dello schieramento dei paesi emergenti. Proprio in queste settimane si stanno tenendo nell’area fatti importantissimi: la visita di Putin in Corea del Nord e in Vietnam, la discussione di un accordo tra Giappone e Filippine e il rinvio di armi dagli USA a Taiwan. Così, mentre il mondo si concentra su quanto accade in Ucraina e a Gaza, esplodono nuove contraddizioni e conflittualità in Estremo Oriente. Buona visione!

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La Cina reagisce all’aggressione della NATO e di rimbamBiden con portaerei e crescita economica

Un piano da guerra fredda: così il virgolettato a piena pagina con il quale il Corriere della serva riassumeva il summit NATO di Washington che si è concluso ieri; le parole sono del solito Stoltenberg che prima di lasciare il posto al successore ha voluto ribadire la sua aspirazione a compensare le intemperanze giovanili tra le fila della sinistra antimperialista accennando a quello che ha definito – appunto – il più vasto piano di difesa dalla guerra fredda. Mentre registriamo questo pippone non abbiamo ancora la versione ufficiale della risoluzione finale, ma tutti i media mainstream ieri pomeriggio davano per scontato che il summit sarebbe dovuto servire per mettere un eventuale Trump vincitore delle presidenziali di novembre di fronte al fatto compiuto di una roadmap irreversibile per l’ingresso dell’Ucraina nella NATO; tradotto: come sosteniamo dal febbraio 2022, l’idea che la guerra in Ucraina è soltanto uno dei fronti della guerra globale dell’impero contro il resto del mondo e che non potrà risolversi fino a che non finiscono di incendiarsi anche tutti gli altri fronti, e alla fine qualcuno vince.
L’impegno principale per provare a permettere all’Ucraina di resistere ancora un po’ alla superiorità militare russa riguarda gli F-16: secondo Zelensky ne servirebbero 130; per ora ne hanno promessi una quarantina. E’ un buon inizio, anche se ancora non si capisce chi li piloterà e come faranno a tenere al sicuro le infrastrutture necessarie per farli decollare e per mantenerli operativi. Come ricorda John Helmer sul suo blog, infatti, negli ultimi giorni “Il comando russo ha lanciato una nuova serie di attacchi missilistici contro gli aeroporti ucraini di Voznesensk e Mirgorod dove è previsto lo spiegamento degli F-16”; per aumentare la capacità di proteggerli, al summit sono state promesse diverse altre cose e l’Italia di Giorgia la patriota ha deciso di fare la sua parte: manderemo un altro sistema Samp-T e così rimarremo totalmente in balìa degli eventi, che non è proprio rassicurante perché nel frattempo, a quanto pare, ci staremmo attrezzando per ospitare sistemi missilistici a lungo raggio che la Russia non può che vedere come una minaccia più o meno diretta e che, in caso di ulteriore escalation (che è più facile avvenga che no), potrebbe considerare bersagli diretti. A quel punto, a difenderci ci sarebbero sostanzialmente soltanto – come sottolinea l’ex carabiniere Claudio Antonelli su La Verità – “missili Patriot che” però “non sono nostri ma sono dislocati in alcune basi NATO lungo la penisola”; tradotto: siamo totalmente in balìa di altri, dai quali dipendiamo completamente e dai quali non ci potremmo mai distinguere, pena diventare più vulnerabili di un gatto in tangenziale. Al che uno pensa: chissà i patrioti de La Verità come la prenderanno male ‘sta cosa! Macché: brindano felici. Il punto è che in cambio, a quanto pare, potremmo ottenere la nomina di un inviato speciale speciale per l’Africa e il Medio Oriente e che la scelta potrebbe ricadere su un italiano; insomma: i patrioti de La Verità accettano con gioia di “allinearsi ad est, ma almeno in cambio arriva un primo riconoscimento utile”. Ci riprenderemo l’Abissinia.

F-16

Visto che pretendere di essere uno stato indipendente e sovrano pare troppo, il sovranismo da balera accoglie con entusiasmo l’idea di diventare finalmente davvero la portaerei dell’imperialismo USA nel Mediterraneo e, in cambio, spera di ottenere qualche concessione coloniale; peccato che le colonie la vedano un po’ diversamente: come ricorda Foreign Policy infatti, sabato scorso “Burkina Faso, Mali e Niger hanno annunciato di aver formalizzato la loro Alleanza degli Stati del Sahel, giusto un giorno prima che il blocco regionale della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) tenesse un vertice nella capitale della Nigeria, Abuja, per discutere le modalità per riportarli nell’ovile”.
La beffa è che, ancora una volta, tutto questo sforzo che facciamo esponendoci senza ottenere niente in cambio con ogni probabilità servirà a poco o niente: “Il pacchetto di armi annunciato dalla NATO” ha commentato David Salvo del German Marshall Fund “aiuterà a mitigare la superiorità aerea russa, proteggendo città e infrastrutture civili, ma non certo a riconquistare territori”; più che a aumentare le possibilità di vittoria in Ucraina, tutta l’operazione in realtà sembra di nuovo volta a rendere l’Europa ancora più vulnerabile e ricattabile e costringerla, così, a contribuire a un altro fronte del quale sinceramente non ce ne potrebbe fregare di meno. Con la partecipazione straordinaria di Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda, il summit per celebrare i 75 anni dell’alleanza atlantica infatti è servito più che altro a formalizzare l’idea che la Cina, insieme all’Iran e alla Corea del Nord, rappresentano “un pericolo per l’Europa e la sicurezza” e l’unico modo per mettersi al sicuro è trasformare definitivamente la NATO, da alleanza difensiva per proteggere l’Europa, in un grande esercito globale a guida USA pronto a dispiegarsi ai 4 angoli del pianeta per ingaggiare una guerra totale contro chiunque si azzardi ad avanzare critiche contro la dittatura suprematista dell’ordine neoliberale: “A medio termine” chiarisce ancora John Helmer “il blocco NATO diventerà globale” e avanzerà “direttamente ai confini della Cina e dell’estremo oriente della Russia”. Peccato, però, che nessuno ce li voglia: il piano per l’accerchiamento della Cina, infatti, non sta riscontrando tutto questo successo. La prova provata è stato il finto summit per la pace in Ucraina che si è tenuto in Svizzera: a parte le semi-colonie USA, i paesi asiatici – nella migliore delle ipotesi – c’hanno mandato qualche funzionario di quart’ordine che voleva andare a respirare un po’ d’aria di montagna e nessuno ha firmato la risoluzione finale; nel frattempo piuttosto, paesi un tempo considerato fedeli alleati – dalla Thailandia alla Malesia – hanno fatto richiesta formale di adesione ai BRICS+. Ma tra tutte le innumerevoli defezioni, ce n’è una in particolare che pesa più di tutte: è quella dell’India di Modi che, ormai, sembra quasi divertirsi a triggerare le ex potenze coloniali; mentre a Washington si celebrava il summit NATO infatti, Modi, per la prima volta per un presidente indiano, ha scelto come destinazione per la sua prima trasferta ufficiale da presidente neoeletto, invece che un paese del sud asiatico, nientepopodimeno che la Russia del plurimorto dittatore e quando è atterrato ci mancava giusto si infilassero la lingua in bocca. Pochi giorni prima, Russia e India si erano sedute fianco a fianco al tavolo della Shanghai Cooperation Organization, dove avevano sdoganato ufficialmente tutti insieme appassionatamente un altro Stato considerato dell’imperialismo unitario uno stato canaglia come la Bielorussia.
Con l’India che fa i capricci e segna platealmente i paletti della sua indipendenza e sovranità, la strategia nell’est asiatico degli USA è costretta a una cambio di rotta piuttosto imponente; una volta esisteva il concetto inventato ad hoc dell’impero dell’Indo-Pacifico e il QUAD, la rete delle alleanze a guida USA incentrata – appunto – sull’India. Di questo passo, di Indo-Pacifico finalmente, come per magia, non sentirete più parlare: tutta la partita si sposterà ancora più verso est e, al posto del QUAD, come l’ha ribattezzato Andrew Korybko, sentirete parlare dello SQUAD, con un colosso come l’India sostituito da un peso piuma come le Filippine: non esattamente un progresso, diciamo. D’altronde, come ricorda anche (in un momento di rara lucidità) il sempre pessimo Stefano Stefanini su La Stampa, “Modi sta al gioco americano nel contenimento della Cina, ma non su questioni nelle quali ritiene che l’interesse nazionale indiano sia diverso dalle posizioni USA e europee. Ed è ormai abbastanza chiaro che questo atteggiamento sull’Ucraina sia condiviso da molti Paesi del Sud globale. Facciamocene una ragione” sottolinea realisticamente; tutto questo “non cambierà”, dall’India, all’Arabia Saudita. Secondo Bloomberg infatti, nonostante il vento di rinascimento renziano che spira dalla petromonarchia, i sauditi “avrebbero lanciato un altolà: se G7 e Ue sequestrano le ricchezze della Russia, l’Arabia Saudita potrebbe rifiutarsi di comprare titoli del debito francese e di altri Paesi europei (Italia inclusa)”; e la Cina dà più di un segnale di essere in grado di approfittare di questo allontanamento di tanti paesi considerati amici fino a ieri dal centro imperiale: in questi giorni, infatti, a largo dell’Isola giapponese di Miyako si sta tenendo una grande esercitazione internazionale capitanata dagli USA e che vede l’impiego di 40 navi di superficie, 3 sottomarini, 150 aerei e oltre 25 mila uomini in uniforme. Lo scopo dell’esercitazione – hanno affermato ufficialmente gli USA – è quello di “scoraggiare e sconfiggere l’aggressione da parte delle maggiori potenze in tutti i settori e livelli di conflitto” e il tutto si dovrebbe concludere col tentativo di affondare una nave statunitense in pensione da 40 mila tonnellate: un monito esplicito verso la Cina, visto che è l’unico paese (oltre gli USA) a possedere navi da guerra di questo tipo in quell’area di Pacifico, ma che non sembra aver spaventato troppo Pechino; in concomitanza con l’esercitazione imperiale, l’esercito di liberazione popolare infatti ha deciso di rilanciare e ha avviato un’altra esercitazione che vede coinvolta la portaerei Shandong scortata dal cacciatorpediniere lanciamissili Type 055 Yanan, dal cacciatorpediniere Type 052D Guilin e dalla fregata lanciamissili Type 054A Yuncheng.
Che prima o poi qualcosa vada storto è piuttosto verosimile e, con il clima che corre, evitare reazioni eccessive potrebbe essere piuttosto complicato; e in Giappone in diversi cominciamo a esprimere più di qualche perplessità: ovviamente l’insofferenza verso i venti di escalation, come sempre, parte da Okinawa, dove gli oltre 30 mila effettivi delle forze armate americane hanno una lunga tradizione di soprusi e di incomprensioni con la popolazione locale. Ultimamente la faccenda, però, rischia di sfuggire di mano un po’ come ormai quasi 30 anni fa, quando (nonostante i tentativi di censura) venne a galla la notizia dello stupro di gruppo da parte dei Marines di una bambina di 12 anni e i locals non la presero esattamente benissimo, diciamo: l’ultimo episodio risale al 25 giugno scorso, quando i media locali hanno pubblicato la notizia di un altro tentativo di stupro risalente a qualche mese prima; 3 giorni dopo è emersa la notizia di un altro tentativo di stupro. In entrambi i casi, i vassalli USA hanno cercato di nascondere la notizia e quando emersa è scoppiato un macello: “Ci hanno detto per decenni che l’esercito americano è qui per proteggerci” avrebbe affermato una delle leader delle mobilitazioni al South China Morning Post, “ma è vero il contrario. La gente è furiosa e spero che questo possa essere il punto di svolta per le basi di Okinawa”; e non è certo l’unico ostacolo alla militarizzazione del Giappone: “Le forze armate giapponesi non hanno mai combattuto una vera guerra” scrive Grant Newsham su Asia Times, “ma lo scorso anno sono riuscite comunque a subire una sconfitta schiacciante: hanno mancato del 50% gli obiettivi di reclutamento. L’anno prima, del 35%. E si sono confermate una forza vecchia, a corto di personale e oberato di lavoro”.
Insomma: anche a questo giro gli eredi del mascellone dimostrano di aver un fiuto infallibile per la cause perse e per le scorciatoie che portano inesorabilmente il paese allo scatafascio e non è certo questione di sinistra ZTL o finto-sovranisti, come dimostra il paese che – forse più in assoluto – sta vivendo un declino di una rapidità inimmaginabile, il capostipite di ogni colonialismo, il Regno Unito. Contro l’avanzata in tutto il vecchio continente delle destre reazionarie, in Inghilterra la settimana scorsa s’è affermato il labour, depurato da quello sprazzo di speranza che era stato per tutti noi il caro vecchio Jeremy Corbyn: alla faccia della democrazia, col 35% scarso dei voti ha conquistato il 65% dei seggi, che consegnano il paese a uno dei personaggi più repellenti della politica contemporanea, l’insostenibile Keir Starmer, persecutore di Assange in combutta con i servizi USA, fervente sostenitore dello sterminio dei bambini palestinesi, fiero oppositore di ogni ipotesi di tassazione dei super-ricchi e che ha inaugurato il suo nuovo incarico con un video super-cringe sui social dove si vede lui al telefono con Biden confabulare su cos’è necessario fare per ingaggiare la guerra contro la Cina nel Pacifico e che, nel suo debutto al vertice NATO, ha dato l’autorizzazione ufficiale a utilizzare missili inglesi per attaccare direttamente la Russia.
Il più pulito c’ha la rogna e sarebbe il caso di provare seriamente a mandarli tutti a casa prima che sia troppo tardi; per farlo, prima di tutto, ci serve un vero e proprio media che ribalti come un calzino la loro patetica propaganda e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tony Blair

Nuovo governo in Iran: che succede all’Asse della Resistenza? – ft. Matteo Capasso

Oggi il nostro Gabriele ha intervistato Matteo Capasso per parlare di quanto sta accadendo in Medio Oriente. Dopo settimane di discussioni attorno a una presunta tregua o a un calo dell’impegno militare israeliano a Gaza, l’IDF è tornato a colpire strutture civili (scuole e ospedali). I numeri del genocidio lievitano, lasciando basita la coscienza pubblica mondiale (in particolare quella del Sud del mondo) ed esponendo gli USA alle proprie contraddizioni interne in questa difficile transizione elettorale. Intanto in Iran, i riformisti di Pezeshkian hanno vinto le elezioni e il mondo si interroga su se e come cambierà la linea del governo. Si aprono scenari di scontro interno o di apertura globale; la nostra idea è che al netto di tutto, l’Iran ha una linea diplomatica ed economica ben delineata da decenni e che difficilmente il nuovo governo opterà per ribaltare completamente. L’Iran rimarrà cardine dell’Asse della Resistenza che conduce una strenua lotta all’imperialismo USA e israeliano in Medio Oriente, probabilmente cambiando strategia e cercando di ridurre la conflittualità regionale, in particolare verso l’Arabia Saudita. Buona visione.

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La Russia reagisce alla minaccia dei missili NATO diventando l’arsenale dell’anti-imperialismo

Se gli occidentali stanno prendendo in considerazione l’idea di “consegnare armi agli ucraini da usare per attaccare direttamente il nostro territorio, perché mai non dovremmo avere anche noi il diritto di fornire sistemi d’arma dello stesso tipo in qualche area del pianeta che potrebbero essere usati per lanciare attacchi su qualche obiettivo sensibile dei paesi che fanno la stessa cosa con la Russia?” (Vladimir Putin): fino ad oggi l’impero ha sempre propagandato l’idea degli USA come arsenale della democrazia, anche quando sterminavano i bambini col napalm in Vietnam o firmavano coi cuoricini le bombe che il regime fasciosionista di Tel Aviv lanciava sui campi profughi; e se ora la Russia invece diventasse l’arsenale dell’anti-imperialismo?

Guido Crosetto

Nell’inevitabile escalation ucraina, gli ultimi 10 giorni sono stati i giorni dello sdoganamento definitivo dell’utilizzo delle armi fornite dagli alleati occidentali per colpire direttamente il territorio russo; come tutti i passi compiuti a intervalli più o meno regolari dall’inizio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina e che portano gradualmente, ma inesorabilmente, verso il conflitto diretto tra potenze nucleari, anche questa escalation ovviamente viene introdotta a piccole dosi, con tanto di finta dialettica interna tra le forze coinvolte giusto per far sembrare che i singoli paesi, in realtà, mantengono una qualche forma di autonomia. Ed ecco, così, che gli USA hanno dato il via libera all’utilizzo delle loro armi in territorio russo, ma solo per colpire obiettivi militari nella zona di Belgorod, da dove partono i raid contro Kharkiv e dintorni: Francia, Olanda, Gran Bretagna e Norvegia hanno detto agli ucraini che, sostanzialmente, possono fare un po’ cosa cazzo gli pare; il Belgio, invece, sembra non volerne sapere. E in Italia Crosetto, ancora venerdì scorso sul Corriere, continuava a sostenere che “chi parla di armi usate per colpire la Russia, sbaglia” e che “su questioni così serie c’è troppa superficialità”: in Italia, infatti, le informazioni sul tipo di armi che mandiamo e come vengono utilizzate, sin dai tempi di San MarioPio da Goldman Sachs sono secretate e Crosetto ci tiene a sottolineare che non sarà certo lui “a infrangere una legge dello Stato”; ciononostante, ribadisce che, come ha già detto “mille volte: le armi italiane non colpiranno il territorio russo”.
Ovviamente, come sottolineava anche il sempre lucidissimo Gianandrea Gaiani in un articolo pubblicato su AnalisiDifesa mercoledì scorso, sono tutti distinguo un po’ farlocchi: “Le diverse posizioni assunte dagli alleati” scrive infatti Gaiani “renderebbero ambigua la gestione delle armi contro obiettivi sul territorio russo. Per esempio, gli ucraini potrebbero impiegare missili Aster 30 forniti dalla Francia per abbattere un aereo nemico nello spazio aereo russo, ma non potrebbero farlo impiegando un esemplare dello stesso missile fornito dall’Italia”; idem con patate per l’impiego di missili da crociera Storm Shadow/SCALP, utilizzabili se arrivano da Francia o Gran Bretagna, vietati se arrivano dall’Italia. Un’ottima idea, effettivamente, potrebbe essere mandare direttamente sul campo a controllare un po’ di membri del nostro governo, così vedrai le ruzze gli passano. Teatrini come questi sono la prassi dall’inizio del conflitto, ma in queste ultime settimane di campagna elettorale per le europee la messinscena è stata particolarmente spregiudicata; d’altronde, di fronte alla crescente insofferenza della stragrande maggioranza dei cittadini europei di fronte a una guerra che piano piano – a parte i giornalai de La Repubblichina e del Giornanale – un po’ tutti hanno capito che è l’ennesima guerra di aggressione USA non solo contro la Russia, ma anche contro i popoli europei, qualche cazzata se la dovevano pur inventare; e che la situazione è così delicata da dover lasciare mano libera ai vari governi zerbini di giocare al meglio le poche carte che gli rimangono per dare un contentino ai rispettivi elettorati a Washington l’hanno capito benissimo e hanno dato mandato a Stoltenberg di chiarire che, per ora, ognuno po’ fa finta di fa un po’ come cazzo je pare: “Alcuni alleati hanno imposto restrizioni sulle armi che hanno consegnato” ha affermato “altri non lo hanno fatto. Non si tratta di decisioni della NATO”.
Chiusa la partita elettorale, il via libera all’uso dei missili di tutti gli alleati NATO anche in territorio russo è solo questione di tempo e non può essere altrimenti: la situazione sul campo di battaglia è quella che è e la sproporzione tra le due basi industriali, nonostante gli annunci roboanti sulla corsa al riarmo e la nuova stagione dell’economia di guerra, invece che diminuire non fa che aumentare, con l’Occidente nel suo insieme che, come conferma una recente ricerca della società di consulenza Bain & Company, nel 2024 riuscirà a produrre al massimo 1,3 milioni proiettili di artiglieria contro i 4,5 milioni della Russia (dove, tra l’altro, ogni pezzo costa circa mille euro, contro i 4 mila dei superproduttivi paesi a capitalismo avanzato) e siccome il blocco imperialista, molto semplicemente (checché ne dicano i pacifisti) non può permettere in nessun modo alla Russia di vincere la guerra, prima di rassegnarsi sarà ovviamente costretto a un’escalation dopo l’altra qualsiasi rischio implichi. Il primo – che ovviamente, legittimamente, è in cima alle nostre preoccupazioni – è quello nucleare e che, nelle ultime settimane, ha subìto un’accelerazione decisamente inquietante che abbiamo già analizzato in lungo e in largo: il riferimento ovviamente, in particolare, è all’attacco sferrato il 23 maggio scorso contro il sito radar di Armavir, a nord della Georgia e a circa 300 chilometri dall’estremità della Crimea; come sicuramente saprete già, in questa località, da quasi una ventina di anni, la Russia ha installato e reso operativo un radar Voronezh, che fa parte dell’infrastruttura complessiva russa di allarme contro gli attacchi missilistici. Si tratta di un asset strategico di primissimo piano che permette alla Russia di monitorare eventuali attacchi missilistici contro il suo territorio provenienti da un settore che copre tutto il Mediterraneo, il Medio Oriente e parte del Mare Arabico, dove sono in grado di operare gli Ship Submersible Ballistic Nuclear statunitensi (SSBN, per gli amici) e, cioè, i sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare armati con testate nucleari. Su chi abbia realmente dato il via libera all’attacco – e con quali finalità – ci sono opinioni molto diverse: è infatti possibile, come sottolineava il 28 maggio scorso Ruggero Stanglini sempre su AnalisiDifesa, “che i russi si servissero del radar di Armovir anche per scoprire il lancio da parte dell’Ucraina di missili balistici tattici o da crociera contro obiettivi in Crimea” a partire, in particolare, dall’antiaerea che, come abbiamo sottolineato svariate volte, rappresenta uno dei principali ostacoli all’impiego efficace degli F-16 sul fronte; il punto, però, è che al netto di tutte queste valutazioni, “In base alla dottrina pubblicata dal governo russo nel 2020 circa l’impiego di armi atomiche, questo rientra proprio tra i casi suscettibili di far scattare una rappresaglia nucleare, prevista a fronte di qualsiasi attacco avversario contro infrastrutture governative o militari della Federazione Russa, la cui distruzione comprometta la capacità di risposta delle forze nucleari come appunto, chiaramente, è il caso del radar di Armavir”.
Ma c’è anche un altro risvolto che probabilmente le élite dell’Occidente collettivo non hanno ancora valutato attentamente ed è il rischio che, procedendo ineluttabilmente di escalation in escalation, si costringa la Russia di Putin a trasformarsi definitivamente, appunto – come anticipavamo nell’apertura di questo video – nell’arsenale dell’antimperialismo. La domanda, a questo punto, è proprio quella che l’analista americano di nascita, ma russo di adozione, Andrew Korybko si pone espressamente sul suo profilo Substack e, cioè “Chi potrebbe armare concretamente la Russia come risposta asimmetrica all’Occidente che arma l’Ucraina?” e cioè chi è che, concretamente, potrebbe avere sia la possibilità, sia l’interesse (eventualmente) a colpire direttamente un pezzo del blocco imperialista? Secondo Korybko, “l’unica forza che ha la volontà politica di colpire i siti occidentali sensibili” sarebbe l’Asse della Resistenza: Korybko ricorda come “questi gruppi alleati dell’Iran hanno già attaccato le basi americane in Siria, Iraq e Giordania, le prime delle quali sono state costruite senza l’approvazione di Damasco mentre le altre contribuiscono a questa occupazione illegale”; da qui, l’idea che la Russia “potrebbe prendere seriamente in considerazione l’idea di affidarsi al suo partner strategico iraniano per armare questi gruppi al fine di forzare un umiliante ritiro americano almeno da alcune parti dell’Asia occidentale, in particolare dalla Siria, o coinvolgerlo in un grave conflitto regionale proprio prima le elezioni di novembre”.
Che l’amministrazione Biden non abbia nessuna intenzione di essere coinvolta in un’escalation regionale è stato abbondantemente dimostrato dalla gestione del massiccio attacco iraniano contro Israele che ha costretto gli amici dello sterminio dei bambini palestinesi a spendere una quantità spropositata di quattrini per respingere un attacco costato poche decine di milioni di dollari senza poi, sostanzialmente, ricorrere a nessuna ritorsione concreta, un episodio che ha radicalmente modificato il bilancio di potenza nella regione a favore dell’Iran e che lascia presupporre che armando l’Asse della Resistenza la Russia non avrebbe poi granché da temere; ciononostante, ci sono diverse complicazioni possibili che potrebbero spingere Putin a non inoltrarsi lungo questo cammino. La prima è che “c’è sempre la possibilità che un’escalation regionale rischi di trasformarsi in una spirale fuori controllo a causa del fatto che Netanyahu è una mina vagante”; la seconda è che armare l’Asse della Resistenza significherebbe, inevitabilmente, anche indispettire le petromonarchie del Golfo a partire da emirati e sauditi che, come dimostra anche il Forum economico di San Pietroburgo conclusosi sabato scorso, Mosca continua a considerare interlocutori economici di primissima importanza che è fondamentale continuare a coccolare per evitare che decidano di riallinearsi completamente con l’imperialismo occidentale. Ciononostante, insiste Korybko, “La risposta asimmetrica più probabile all’Occidente che lascia che l’Ucraina usi le sue armi per colpire obiettivi all’interno dei confini universalmente riconosciuti della Russia è che la Russia armi l’Asse della Resistenza con armi migliori attraverso l’Iran in modo che abbiano maggiori possibilità di distruggere le basi degli Stati Uniti nell’Asia occidentale. Detto questo” conclude Korybko “il presidente Putin non ha ancora deciso questa linea d’azione poiché è sempre riluttante a fare mosse importanti per paura di conseguenze indesiderate, ma sembra certamente che ci stia pensando”.
In realtà, però, il Medio Oriente e l’Asse della Resistenza potrebbero non essere esattamente quello che aveva in mente Putin quando, da San Pietroburgo, ha pronunciato quelle parole: Una flottiglia della Marina russa, titolava venerdì nella sua home page The War Zone, si sta dirigendo a Cuba per delle esercitazioni, mentre Putin minaccia di armare i nemici “regionali” degli alleati dell’Ucraina: “Una flottiglia russa” specifica l’articolo “incluso un moderno sottomarino a propulsione nucleare armato di missili da crociera, è diretta a Cuba per un dispiegamento di dimensioni rare” e anche se “funzionari cubani” sottolinea l’articolo “affermano che nessuna delle navi della Marina russa dirette verso i Caraibi trasporterà armi nucleari”, il pensiero non può che correre immediatamente all’ottobre del 1962, quando la scoperta di missili balistici sovietici r-12 e r-14 su suolo cubano scatenò quella che, probabilmente, è stata la più grave e pericolosa crisi dell’intera guerra fredda; da allora Cuba resiste eroicamente al più grave e devastante embargo di tutti i tempi e continua a rappresentare l’avamposto più avanzato della resistenza antimperialista a due bracciate dalle coste statunitensi. Da Washington, continua l’articolo, fanno sapere di non essere “preoccupati dagli schieramenti della Russia, che non rappresentano una minaccia diretta per gli Stati Uniti”, anche perché non è certo la prima volta che la Marina russa fa le sue incursioni nell’area, compreso il luglio scorso quando all’Avana attraccò la nave scuola Perekop per una visita di 4 giorni.
A questo giro, però, lo schieramento messo in campo sembra, sia qualitativamente che quantitativamente, tutta un’altra cosa: tra le imbarcazioni che compongono la flottiglia, infatti, ci sarebbero anche la Kazan e la Admiral Groshkov, entrambe “dotate di silos del sistema di lancio verticale che possono ospitare missili da crociera a lungo raggio Kalibr, che possono essere utilizzati per attacchi antinave e attacchi terrestri, nonché missili da crociera supersonici antinave Oniks”; “Inoltre” continua l’articolo “l’ Admiral Gorshkov è stata la prima nave da guerra della Marina russa a schierare operativamente i nuovi missili da crociera ipersonici Zircon, almeno secondo le dichiarazioni ufficiali russe”. Ma ad alzare l’asticella, in particolare, ci sarebbe proprio il sottomarino nucleare russo classe Yasen-M: “A differenza della generazione precedente” spiega The War Zone, i sottomarini di questa classe “sono molto più versatili delle semplici piattaforme missilistiche da crociera, in grado di operare come imbarcazioni d’attacco per uso generale, nonché raccoglitori di informazioni e potenzialmente come piattaforme per missioni speciali”. Che i sottomarini Yasen, in termini di silenziosità, siano quasi alla pari con i pezzi più pregiati della marina statunitense, lo ha affermato esplicitamente anche il generale dell’aeronautica statunitense Glen Van Herck, che avrebbe “aggiunto che questa crescente classe di sottomarini rappresenterà presto una minaccia persistente per la patria americana come mai prima d’ora”. E Cuba, come avamposto della lotta antimperialista nella regione, potrebbe non essere più isolata: “All’inizio di questa settimana” sottolinea infatti ancora l’articolo “un alto funzionario statunitense ha suggerito che l’attuale dispiegamento della Marina russa potrebbe includere anche uno scalo in Venezuela”; ma quello che ha fatto drizzare ancora di più le antenne sono le recenti parole di Gustavo Petro, il primo presidente della storia recente della Colombia a non essere espressione diretta delle oligarchie nazionali a totale servizio dell’imperialismo USA.
Al contrario delle favolette degli analfoliberali e dell’aperisinistra delle ZTL, il nazifascismo altro non è stato che la fazione più cruenta dell’imperialismo che sperava, attraverso il ricorso indiscriminato alla violenza, di recuperare il gap che la separava dagli imperialismi più consolidati e avanzati; oggi come oggi, quella fazione si incarna perfettamente nelle élite di tutto l’imperialismo unitario, senza grosse distinzioni tra chi tutto sommato se lo rivendica e chi, invece, prova a trasformare anche il 25 aprile e anche il D Day in feste del revisionismo storico e della rinnovata ferocia neocolonialista. Contro i nuovi fascismi più o meno mascherati, siamo tutti chiamati a dare il nostro contributo, dall’Asia all’America Latina, passando per casa nostra; e a casa nostra, il modo più immediato che abbiamo oggi per farlo è lanciare una sfida all’egemonia in declino propagandata dai pennivendoli al servizio della ferocia dell’impero. Per farlo davvero, però, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Il dottor Stranamore

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Il piano USA per sciogliere gli eserciti nazionali e fondare l’esercito unico dell’imperialismo

Come l’America si può preparare per la guerra in Asia, Europa e nel Medio Oriente: dopo tanto tergiversare, finalmente ci siamo. Con questo titolo, ieri, Foreign Affairs – che, ricordiamo, è la testa ufficiale del think tank neocon bipartisan in assoluto più influente degli USA – finalmente chiarisce il perimetro della partita in gioco: le guerre e i conflitti a cui stiamo assistendo sono pezzi dell’unica grande guerra che l’imperialismo ha dichiarato al resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare che metterebbe fine agli Stati Uniti per come li conosciamo oggi; “Sotto i presidenti Barack Obama, Donald Trump e Joe Bidenscrive Thomas Mahnken della John Hopkins University, “la strategia di difesa degli Stati Uniti si è basata sull’idea ottimistica che gli Stati Uniti non avranno mai bisogno di combattere più di una guerra alla volta”. Mahnken ricorda con disprezzo la scelta dell’amministrazione Obama di ridurre, per la prima volta nella storia contemporanea degli USA, non solo la spesa militare in termini di percentuale del PIL, ma addirittura in termini assoluti: dai 730 miliardi annui del 2009 ai 640 scarsi del 2017, a fine mandato; questa riduzione, sottolinea Mahnken, equivaleva all’abbandono della politica di lungo periodo che prevedeva che gli USA dovessero essere pronti a combattere contemporaneamente due grandi guerre e questo, denuncia, “ha ristretto le opzioni a disposizione dei politici statunitensi, dato che impegnare gli Stati Uniti in una guerra in un luogo precluderebbe un’azione militare altrove”. Capito Obama, eh? Manco la libertà di combattere contro tutti ‘ndo cazzo je pare ha lasciato ai suoi successori: un vero despota. “Questo passaggio” si lamenta Mahnken “fu fuorviante già allora, ma è totalmente fuori luogo in particolare oggi” con gli USA che sono impegnati in una costosissima guerra per procura in Ucraina e nello sterminio dei bambini palestinesi proprio mentre si devono preparare alla Grande Guerra del Pacifico.

Thomas G. Mahnken

E non è che possono fare altrimenti: come ricorda Mahnken, infatti, questi 3 teatri “sono tutti vitali per gli interessi USA, e sono tutti intimamente interconnessi”. Mahnken sottolinea ancora come i tentativi passati di disimpegnarsi sia dall’Europa che dal Medio Oriente abbiano profondamente indebolito la sicurezza statunitense: “Il ritiro delle forze armate statunitensi in Medio Oriente, ad esempio, ha creato un vuoto che Teheran ha riempito con entusiasmo” e ogni volta che una potenza regionale alza la cresta e gli USA tentennano nel portare a termine la loro missione divina di raderla al suolo, mandano un messaggio di debolezza al resto del mondo che mette a rischio la tenuta complessiva dell’impero; e già questa, sostiene Mahnken, dovrebbe essere di per se una linea rossa, dal momento che il mito dell’invincibilità militare USA – fondato sull’incommensurabilità della sua spesa con qualsiasi altra potenza del pianeta e sulla sua proiezione globale dovuta alle quasi 1000 basi sparse in giro per tutto il mondo, ma anche su quella gigantesca macchina di propaganda bellica che è Hollywood – è essenziale alla sopravvivenza stessa del feroce regime superimperialista che impongono a tutti gli altri e che oggi, per la prima volta, si trova di fronte ad avversari di tutto rispetto “che collaborano l’uno con l’altro: L’Iran vende petrolio alla Cina, la Cina invia denaro alla Corea del Nord e la Corea del Nord invia armi alla Russia”. Che, tutto sommato, come esempi di collaborazione non sono nemmeno sto granché, ma poco conta: come i padroni delle ferriere dell’800 – o come in qualsiasi film distopico su società post-apocalittiche rigidamente divise tra schiavi e schiavizzatori (modello Snowpiercer) – quando il sistema che imponi con la violenza è così palesemente e ferocemente ingiusto, ogni forma di collaborazione può essere sufficiente ad innescare l’incendio e va stroncata sul nascere, come ogni buona esperienza di repressione antisindacale insegna. La preoccupazione di Mahnken, quindi, è che il mito dell’invincibilità USA, già messo duramente alla prova dalla debacle siriana in poi, oggi sembra essere del tutto inadeguato ad affrontare con la sicurezza necessaria questi nuovi nemici, in particolare se in qualche modo coordinati tra loro; per dare nuovo slancio al mito dell’invincibilità, quindi, è necessario fare un salto di qualità sostanziale e questo salto di qualità può avvenire se e solo se la macchina bellica dell’imperialismo, invece che essere solo quella USA, può basarsi sempre di più su una rete di solide alleanze. La fortuna di Washington, sottolinea infatti Mahnken, è quella di avere buoni amici, sia nell’est asiatico, sia in Europa, sia in Medio Oriente, perché definirli vassalli (come essenzialmente sono) suona male, “ma per avere successo” insiste Mahnken, questi fantomatici amici “devono imparare a lavorare meglio insieme”: “Washington e i suoi alleati” continua Mahnken “devono essere ciò che i pianificatori militari chiamano interoperabili, capaci di inviare rapidamente risorse attraverso un sistema consolidato a qualunque alleato ne abbia più bisogno. L’Occidente, in particolare, deve creare e condividere più munizioni, armi e basi militari. Gli Stati Uniti devono inoltre formulare migliori strategie militari per combattere a fianco dei propri partner”. Insomma: come ripetiamo fino all’esaurimento da mesi, per combattere la guerra totale contro il resto del mondo c’è bisogno di una NATO globale, un esercito unitario al servizio dell’agenda imperialista; e se questa, ormai, è un’idea condivisa da tutte le varie fazioni, la declinazione che ne dà Mahnken in questo articolo appare particolarmente interessante per la sua spregiudicatezza.
Il primo punto, inevitabilmente, riguarda la produzione bellica: Mahnken sottolinea come i conflitti in cui siamo immersi e – ancora di più – quelli che ci aspettano, sono munitions-intensive, richiedono molte munizioni; per permettere alle aziende di aumentare la produzione allora, propone Mahnken, “Il governo degli Stati Uniti dovrebbe fornire alle aziende della difesa il tipo di domanda costante necessaria” per garantire che gli investimenti avranno ritorni garantiti. In sostanza, quindi, il governo deve riuscire a convincere le oligarchie del comparto militare industriale che la guerra sarà sufficientemente lunga e devastante da garantire che per i loro prodotti ci sarà sempre domanda a sufficienza, ma non solo. Washington infatti, sostiene Mahnken, deve anche garantire che le munizioni potranno andare agilmente sempre laddove ce n’è più bisogno: oggi, infatti, i canali di approvvigionamento delle forze armate USA e degli alleati sono segregati, con le forniture interne controllate dal dipartimento di Stato e quelle altrui controllate dal dipartimento della Difesa (e con il primo che ha la precedenza sul secondo); i cosiddetti alleati quindi, denuncia Mahnken, “vengono generalmente messi in fondo alla coda, dove possono aspettare anni per ottenere armi che hanno già pagato e che potrebbero essere essenziali per scoraggiare attacchi imminenti”. Secondo Mahnken questa gerarchia va assolutamente superata: “Soddisfare le vendite di munizioni straniere prima di soddisfare le esigenze delle forze armate statunitensi” scrive “può sembrare dannoso per gli interessi americani […] ma consentire alle aziende della difesa di spedire a Taiwan o in Polonia prima di Fort Bragg quando necessario può migliorare la sicurezza degli Stati Uniti, soprattutto quando gli Stati Uniti non stanno combattendo guerre importanti”. E le munizioni sono solo la punta dell’iceberg: “Gli Stati Uniti” infatti, sottolinea Mahnken “hanno moltissime armi da vendere ai propri amici. Ma la riluttanza ad esportare tecnologie avanzate impedisce di fornire ai partner più stretti le migliori attrezzature disponibili. La politica statunitense” propone quindi Mahnken “dovrebbe garantire che i leader politici americani abbiano la possibilità di fornire tali sistemi avanzati agli alleati più stretti”.
Negli ultimi anni, in questo senso, gli USA effettivamente hanno già iniziato a rompere qualche tabù: ultimamente stanno completando un accordo con l’Arabia Saudita che prevede la fornitura di sistemi d’arma che, fino ad oggi, erano totalmente off limits, ma il caso più eclatante è quello degli accordi nell’ambito dell’AUKUS, che prevedono la condivisione nientepopodimeno che di tecnologia per i sottomarini nucleari con l’Australia. Ma non solo: grazie a questi accordi, Washington infatti ha dovuto prendere coscienza dei limiti della sua industria cantieristica, ha realizzato “che i produttori americani non sono abbastanza grandi o capaci per modernizzare la flotta sottomarina statunitense e al contempo costruire sottomarini per l’Australia” e questo ha spinto l’Australia “a investire 3 miliardi di dollari nell’espansione della base industriale sottomarina degli Stati Uniti”; questo tipo di condivisione totale, sostiene Mahnken, è l’unica strada che gli USA hanno per poter pensare di combattere contemporaneamente su tutti e tre i fronti della grande guerra globale contro il resto del mondo e ora si tratta di estendere a tutti gli alleati questa forma che più che di collaborazione, appunto, è di vera e propria integrazione totale a partire, come abbiamo sottolineato ennemila volte, dalla cantieristica giapponese e sud coreana, che sono l’unica chance che l’esercito unico dell’imperialismo ha di poter anche solo pensare di combattere ad armi pari con la Cina. “Israele” continua Mahnken “produce eccellenti sistemi di difesa aerea e missilistica, come l’Iron Dome, e la Norvegia mette in campo eccellenti missili antinave. Washington dovrebbe fare di più per incoraggiare questi alleati a condividere le proprie tecnologie di alto livello”; integrare queste capacità nazionali, ammette Mahnken, non sarà semplice: “L’industria della difesa” ricorda “è oggetto di politica interna, sia a Washington che nelle capitali alleate. Ecco perché, anche nelle aree in cui il Congresso ha cercato di promuovere la collaborazione, i funzionari della difesa si sono scontrati con ostacoli burocratici. Ci sono forti incentivi politici per mantenere intatte le barriere esistenti, a partire dalle preoccupazioni sui posti di lavoro nazionali, ma i funzionari statunitensi farebbero bene a resistere a tali pressioni ed eliminarle”.
Un discorso molto simile vale per le basi: gli Stati Uniti, ricorda Mahnken, “possiedono una rete globale senza precedenti di basi militari che gli ha permesso di proiettare il potere per oltre un secolo”; “Ma tutte queste basi”, sottolinea, “sono diventate sempre più vulnerabili, dal momento che gli avversari hanno acquisito la capacità di colpire con precisione su grandi distanze”. Per aumentare il livello di sicurezza dei propri asset militari, allora, USA e alleati devono aumentare a dismisura i posti a disposizione adeguatamente attrezzati dove dislocare liberamente truppe e mezzi: il Giappone ad esempio, sottolinea Mahnken, ha una quantità sterminata di location idonee per questo processo di dispersione, una quantità spropositata di “porti, aeroporti e strutture di supporto collegati alla rete stradale e ferroviaria giapponese”, ma secondo le regole attualmente in vigore, le forze armate giapponesi hanno accesso soltanto a una piccola frazione di queste location e gli USA, poverini, “ancora meno”. Questi vincoli, suggerisce Mahnken, devono essere rapidamente rimossi e altrettanto deve essere fatto urgentemente in Australia che, nella seconda guerra mondiale, si era dotata di una quantità sterminata di postazioni a disposizione della guerra USA contro il Giappone e che ora devono essere “rinnovate ed espanse” e, ovviamente, messe completamente a disposizione della NATO globale.
Insomma: l’idea è quella di avere una quantità di potenziali obiettivi superiore a quanti gli avversari possano realisticamente minacciare di attaccare con successo che, però, è una corsa piuttosto insensata, dal momento che se hai una base industriale sufficientemente sviluppata, è chiaramente più agile aggiungere un missile ipersonico al tuo arsenale che non costruire una nuova base; quindi in sostanza, com’è evidente, in un conflitto tra pari chi deve pensare a organizzarsi per disperdere la sua capacità offensiva rimarrà sempre un passo indietro rispetto a chi si limita a difendersi. Ed ecco allora che, oltre a moltiplicare le basi all’infinito, il punto è migliorare la capacità di difenderle; per farlo in modo efficace, le forze armate dell’imperialismo unitario “devono andare oltre l’approccio tradizionale alla difesa aerea e missilistica, che dipende dall’uso di un piccolo numero di intercettori costosi, verso uno che includa armi ad energia diretta (come laser o armi a impulsi elettromagnetici), un gran numero di intercettori a basso costo e sensori in grado di fornire le informazioni necessarie per sconfiggere attacchi grandi e complessi, come quello lanciato dall’Iran contro Israele in aprile” che, ricordiamo, è costato a chi s’è dovuto difendere circa 50 volte di più di quanto non sia costato a chi ha attaccato. “Australia, Giappone e Stati Uniti” ricorda Mahnken “hanno fatto progressi chiedendo lo sviluppo di un’architettura di difesa aerea e missilistica in rete per difendersi a vicenda”; ora, sottolinea Mahnken, si tratta di proseguire su questa strada anche perché, continua, a sua volta questo contribuirà all’interoperabilità complessiva, perché “addestrandosi e operando a stretto contatto tra loro in tempo di pace, le forze statunitensi e alleate svilupperanno abitudini di cooperazione che saranno loro utili in tempo di guerra”. Anche perché, insiste Mahnken, “interoperabilità significa molto di più che semplicemente condividere le risorse fisiche. Significa sviluppare concetti e strategie condivise. Washington deve avere conversazioni franche con i suoi alleati per contribuire a chiarire le ipotesi su obiettivi, strategia, ruoli e missioni e ottenere una migliore comprensione di come lavorare al meglio collettivamente. Gli Stati Uniti” conclude Mahnken “ovviamente non possono condividere tutto con i partner. Alcuni sistemi d’arma non dovrebbero mai essere condivisi. Ma la storia dimostra che gli americani ottengono risultati migliori quando combattono fianco a fianco con gli alleati. Mentre Washington si trova ad affrontare pericoli crescenti in tre regioni, deve imparare a cooperare e condividere meglio con i suoi numerosi amici”.
Insomma: Mahnken rappresenta al meglio la cultura dei figli dei fiori applicata al grande sterminio di massa che gli USA stanno preparando contro il resto del mondo per tenere in piedi il loro dominio planetario: vuole costruire una comune, solo che, invece che essere devota alla pace, deve essere devota alla distruzione totale; il messaggio sembra rivolto in particolare a chi, all’interno degli USA, continua a guardare con sospetto agli alleati temendo che i meccanismi di subordinazione finanziaria e tecnologica del superimperialismo, senza la minaccia della forza, da soli non bastino e che quindi condividere tecnologie, logistica e strategia potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio e potrebbe permettere un domani agli alleati di ritagliarsi spazi di autonomia strategica finora preclusi. E’ uno dei grandi dilemmi che, evidentemente, attraversa l’establishment dell’impero: per vincere la grande guerra, l’imperialismo ha bisogno di un grande esercito e di un complesso militare industriale unitario, ma per costruire un grande esercito unitario gli USA devono accettare di passare da alleanze che dominavano con la forza, a un’integrazione totale nell’ambito della quale, sostanzialmente, tutto viene condiviso con tutti; affinché questo non gli si ritorca contro, deve essere sicura che l’equilibrio di potere che attualmente è in vigore nei paesi vassalli – dove il potere politico è completamente ostaggio di borghesie compradore al servizio del centro imperiale contro i rispettivi interessi nazionali – sia eterno. E la storia recente sembra dargli ragione: in particolare, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2007 e, ancora di più, dallo scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina, le classi dirigenti europee si sono dimostrate i peggiori nemici possibili dei rispettivi Paesi. Rimane però da capire quanto questo sia stato determinato, a sua volta, proprio dal fatto che i paesi europei sono disarmati e succubi della potenza militare USA o quanto, invece, siamo di fronte a una condivisione profonda degli obiettivi strategici del centro imperiale e, anche in tal caso, quanto questa condivisione possa essere messa in discussione dall’evoluzione del quadro politico.
Insomma: la grande guerra impone agli USA di correre dei rischi che, fino ad oggi, aveva evitato accuratamente impedendo ai vassalli di riarmarsi e tenendosi stretta il controllo tecnologico. Prima che restringano definitivamente i pochi spazi democratici che permettono – almeno in linea di principio – di modificare il quadro politico, sarebbe il caso di battere un colpo, almeno per far venire il sospetto che potrebbero aver sbagliato i calcoli; per farlo, in assenza di un’organizzazione politica all’altezza, il terreno di battaglia per eccellenza è proprio quello della battaglia contro-egemonica e per combatterla abbiamo bisogno di un media. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Calenda

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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I miliziani bianchi uccidono i giovani kanak in Nuova Caledonia

Ottolina chiama, Sud del mondo risponde: continua il rapporto tra la non Tv del 99% e il Sud globale. Questa volta il nostro Gabriele approfondisce i recenti fatti avvenuti in Nuova Caledonia, comunità d’oltremare francese nell’Oceano Pacifico. Di recente, sull’isola si sono verificati violenti scontri tra le autorità, gli indipendentisti e i coloni di origine francese. Così la storia della Nuova Caledonia diventa simbolo del colonialismo dei coloni, che già abbiamo visto all’opera a Gaza in Palestina o in un’altra grande e storica ex colonia francese: l’Algeria. La stampa occidentale intanto ignora le milizie organizzate dai coloni bianchi di estrema destra che sparano contro i nativi incontrati per strada, uccidendo molti ragazzi dall’inizio delle proteste. Questa è una delle conseguenze del classico processo coloniale, associato alla recente liberalizzazione della vendita di armi sull’isola. Buona visione!

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Israele si sta trasformando in uno Stato canaglia – Ft. Romana Rubeo

Torna ad Ottolina Romana Rubeo per parlarci di Palestina e proteste ProPal a tutto campo. Nonostante la brutale repressione governativa e squadrista nei confronti di militanti, intellettuali, personaggi pubblici e movimenti pro-Palestina, la protesta prosegue in gran parte dell’Occidente. Gli USA e l’Europa occidentale sono scossi dalle proteste e dalla generale condanna del genocidio da parte dell’opinione pubblica. La repressione spaventa Israele che vive il terrore di essere percepito dalla comunità internazionale come uno Stato canaglia. La gravità del momento porta anche a una profonda spaccatura all’interno della leadership israeliana su come condurre il conflitto e tra USA e Israele su come raccontare il massacro in corso a Gaza. Buona visione!

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L’asse Russia – Cina per la costruzione di Stati sovrani e indipendenti fa tremare l’imperialismo

Non ha manco finito di mettere in piedi il nuovo governo che ecco che Putin è già in visita a Pechino! D’altronde, che la prima visita ufficiale di Stato dopo una rielezione veda coinvolti i due paesi è ormai un’usanza da oltre 10 anni, da quando cioè Xi, nel 2013, inaugurò la sua presidenza con una visita a Mosca che vide i due leader intrattenersi in un faccia a faccia a porte chiuse durato la bellezza di 5 ore. Ora Putin non vuole certo essere da meno e in una lunga intervista pubblicata dall’agenzia cinese Xinhua – “una delle più importanti e affidabili al mondo” secondo le parole dello stesso Putin – il 5 volte presidente della Russia prova a delineare le direttrici fondamentali di questa amicizia senza limiti tra i due paesi, come viene definita nelle comunicazioni diplomatiche ufficiali. In questa fase di feroce revisionismo storico dove, piano piano, si fa spazio la narrazione che in realtà la seconda guerra mondiale è stata la guerra del mondo libero contro i due totalitarismi alleati tra loro, Putin decide di partire proprio dalla grande alleanza anticoloniale e antinazifascista tra Cina e Unione Sovietica cementata in quegli anni: “I nostri popoli” sottolinea Putin “sono legati da una lunga e forte tradizione di amicizia e cooperazione”; “Durante la seconda guerra mondiale” sottolinea “soldati sovietici e cinesi si opposero insieme al militarismo giapponese e noi oggi ricordiamo e celebriamo il contributo che il popolo cinese ha dato alla vittoria comune, perché fu la Cina a trattenere le principali forze militariste giapponesi, consentendo all’Unione Sovietica di concentrarsi sulla sconfitta del nazismo in Europa”. Ora gli eredi dei nazifascisti in Europa e in Giappone sono impegnati a terminare l’opera interrotta dalla gloriosa resistenza di cinesi e russi, come braccio armato dell’impero. Putin ricorda anche come l’URSS fu, in assoluto, il primo paese al mondo a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese nata dalla guerra anticoloniale; ricorda anche che, in questi tre quarti di secolo, il rapporto tra i due paesi ha attraversato momenti decisamente difficili, ma sottolinea come tutto questo sia servito da insegnamento e come oggi entrambi i Paesi siano pienamente consapevoli che “La sinergia di forze complementari fornisce un potente impulso per uno sviluppo rapido e globale”.
La complementarietà delle economie russe e cinesi, a questo stadio di sviluppo, è piuttosto palese: da una parte il paese più ricco di materie prime al mondo e, dall’altro, l’unica vera grande superpotenza manifatturiera globale che produce, da sola, circa un terzo di tutto quello che viene prodotto oggi in tutto il pianeta e che di quelle stesse materie prime ha una sete inesauribile; attenzione però, perché – ovviamente – questa complementarietà è anche il prodotto di uno squilibrio. Un’economia fondata sull’estrazione delle materie prime si colloca strutturalmente a uno stadio di sviluppo inferiore rispetto a un’economia trasformatrice e, se il rapporto fosse fondato esclusivamente sull’evoluzione spontanea delle dinamiche capitalistiche, con l’approfondirsi dell’integrazione economica questo squilibrio, nel tempo, necessariamente non farebbe che accentuarsi: la ragione è molto semplice e consiste nel fatto che nel capitalismo il più forte vince sempre e cannibalizza il più debole; quindi in regime di libero scambio puro, senza l’intervento di quelli che vengono definiti fattori esogeni (e quindi, in soldoni, della politica e dello Stato), quando due economie che hanno – in virtù delle dimensioni delle rispettive manifatture – due livelli di produttività così lontani come quella cinese e quella russa aumentano il livello di integrazione, alla fine del giro quella che è partita avvantaggiata non farà altro che aumentare il suo vantaggio sempre di più. Che è esattamente il motivo per cui nel mondo, anche dopo i processi di decolonizzazione (e, quindi, una volta terminata la sottomissione di un paese ad un altro tramite l’esercizio della forza bruta), invece di emanciparsi dai rapporti di dipendenza, i paesi sottosviluppati hanno spesso ulteriormente aggravato la loro subordinazione, in particolare laddove alla lotta di liberazione non ha fatto seguito la costruzione di uno Stato sovrano minimamente funzionante in grado, appunto, di intervenire e apportare dei correttivi sostanziosi.

Xi Jinping e Vladimir Putin

Che è, appunto, il nocciolo della faccenda: cresciuti ed educati in un sistema dove gli Stati, scientemente, sono Stati privati della loro capacità di intervenire per apportare dei correttivi – e, anzi, dopo la parentesi democratica del dopoguerra sono tornati ad essere sempre di più essi stessi veri e propri agenti del capitale (e cioè strutture il cui unico scopo è velocizzare e rendere ancora più efficaci e inarrestabili i meccanismi interni del capitalismo), i pennivendoli della propaganda neoliberista, spesso anche in perfetta buona fede, non possono che vedere nel rafforzamento dei rapporti tra due economie così diverse, come quella russa e quella cinese, un inevitabile processo di subordinazione dell’una nei confronti dell’altra. Ed ecco così che da anni, un giorno sì e l’altro pure, le pagine dei giornalacci cercano di convincerci che la Russia ha ben poco da festeggiare perché se, dopo essere stata isolata dall’Occidente democratico e liberale, è costretta ad andare in ginocchio a Pechino alla ricerca di un’alternativa, questo non potrà che renderla un paese vassallo, col petto gonfio di retorica, ma totalmente incapace di esercitare una qualsivoglia sovranità reale; d’altronde, se cane mangia cane e sono scomparse tutte le museruole in circolazione, che alla fine quello più grosso e allenato prevalga è del tutto normale e inevitabile. Fortunatamente, però, in realtà esistono parecchie più variabili di quelle che solitamente è in grado di prendere in considerazione il pensiero binario dell’uomo neoliberale ed è su questo che insiste Putin che, nell’intervista, torna più volte in particolare su due semplici ma essenziali concetti: il perseguimento dei rispettivi interessi nazionali e il rispetto della sovranità. “Vorrei sottolineare” dichiara ad esempio Putin subito all’inizio dell’intervista, che il rapporto tra i nostri due Paesi “si è sempre basato sui principi di uguaglianza e fiducia, di rispetto reciproco della sovranità e di considerazione degli interessi reciproci”.
Al di là della retorica e del politichese, cosa significa in soldoni? Per capirlo bene facciamo un controesempio: i trattati di libero scambio e di libera circolazione dei capitali promossi dall’Occidente, in piena osservanza dei dogmi neoliberali; in questo caso si tratta, appunto, di limitazioni della sovranità degli Stati, che rinunciano a controllare la fuga dei capitali verso l’estero e l’ingresso di merci verso l’interno. Risultato: invece che gli interessi nazionali, a trionfare sono gli interessi specifici dei capitalisti. Il giochino lo conosciamo tutti (è il funzionamento di base della globalizzazione neoliberista): il primo punto è che i capitalisti possono andare liberamente a caccia dei posti più redditizi per i loro investimenti scatenando, così, una concorrenza al ribasso tra i vari paesi per offrire le condizioni migliori per attrarli, sforzandosi di contenere i salari dei propri lavoratori oppure adottando regole sempre più permissive in termini di standard ambientali o di sicurezza – che, in soldoni, significa sempre meno soldi che vanno in salari e sempre di più in profitti; il secondo è che i Paesi (o i pezzi di oligarchia) che partono avvantaggiati dividono il processo produttivo in tanti pezzetti diversi e mentre relegano il lavoro povero ai paesi che offrono vantaggi salariali e regolativi, si tengono la testa per loro. Si va così a consolidare una divisione internazionale del lavoro con una gerarchia ben precisa dove i paesi periferici perdono completamente il controllo della filiera produttiva a favore di quelli più avanzati, che continuano ad ampliare la loro superiorità tecnologica; insomma: prima magari producevi dei trattori che non si possono vedere, ma li producevi come volevi te e potevi decidere quanti produrne, come e quanto pagare i lavoratori, quante tasse far pagare ai proprietari della fabbrica o magari, addirittura, la fabbrica nazionalizzarla. Ora, magari, i trattori che contribuisci a costruire possono anche essere il top di gamma, ma della tua vecchia indipendenza non c’è più traccia e a determinare tutti i fattori è la concorrenza imposta da chi sta in cima alla piramide, tra tutti i suoi sottoposti: sei una specie di gladiatore in un’arena che si deve prendere a sciabolate con gli altri, mentre chi detiene la testa di tutta la catena sta sugli spalti a godersi lo spettacolo e a incassare il cash; e da questa spirale, finché ti affidi alle magnifiche sorti e progressive del mercato, non c’è verso di uscire.
E non abbiamo manco ancora introdotto il terzo punto, che è forse quello più rilevante in assoluto e, cioè, l’aspetto finanziario: chi ha il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa. Ecco: quella è, in assoluto, la cima della piramide e che – grazie alla globalizzazione neoliberista – si stacca sempre di più da tutto il resto diventando irraggiungibile; grazie alla piena libertà di circolazione dei capitali garantita dalla globalizzazione neoliberista, i capitali hanno subìto un processo di concentrazione senza precedenti e chi detiene questi monopoli finanziari privati (e, quindi, decide dove vanno i soldi per farci cosa) ha il vero potere, ben al di sopra dei singoli Stati. Ecco: una cooperazione e un’integrazione economica fondata sul riconoscimento dei rispettivi interessi nazionali e della sovranità è, sostanzialmente, l’opposto di questo meccanismo; uno Stato sovrano, quindi, è uno Stato che decide politicamente le condizioni alle quali le merci possono entrare e i capitali uscire. Ed è per questo che nella neolingua dell’Occidente neoliberale, al termine sovrano abbiamo sostituito autoritario: per l’Occidente democratico, è autoritario ogni Stato abbastanza forte da limitare la libertà delle oligarchie di concentrare nelle loro mani il potere finanziario e trasformarlo, poi, in un potere politico superiore a quello dello Stato stesso; democratico, invece, è ogni Stato che lascia alle oligarchie il potere di fare un po’ cosa cazzo gli pare e le istituzioni possono accompagnare solo.
Da questo punto di vista, la Cina (di sicuro) e la Russia (in buona misura) sono senz’altro Stati autoritari e, quindi, la loro relazione è una relazione tra Stati autoritari, con nessuno dei due che è in grado di imporre niente all’altro e, men che meno, le rispettive oligarchie; per questo è un tipo di relazione che non ha niente a che vedere con quelle a cui siamo abituati nel giardino ordinato, sia perché – a differenza del rapporto tra impero e vassalli che regola le relazioni all’interno dell’Occidente collettivo – non c’è un rapporto gerarchico a livello militare e i due Paesi sono autonomi e indipendenti dal punto di vista prettamente geopolitico (e questo viene riconosciuto anche dagli analfoliberali), ma soprattutto perché, appunto, entrambi hanno mantenuto un discreto livello di sovranità rispetto allo strapotere delle rispettive oligarchie e quindi, di conseguenza, ognuno rispetto alle oligarchie dell’altro. Insomma: sotto tanti punti di vista, nonostante le enormi differenze e gli enormi squilibri che abbiamo già sottolineato, si tratta molto banalmente di un rapporto tra pari che per noi, nati e cresciuti nelle periferie dell’impero, è una cosa quasi inconcepibile ed ha molte conseguenze, anche contraddittorie. A differenza dei rapporti dove vige una gerarchia precisa, ad esempio, i rapporti tra pari sono incredibilmente complicati; lo sono all’interno di una coppia o tra amici: figurarsi tra Stati – e ancor di più tra due superpotenze del genere. E gli esempi abbondano: basti pensare a Forza della Siberia II, il gasdotto da 2600 chilometri che dovrebbe trasportare 50 miliardi di metri cubi di gas russo ogni anno in Cina, un’infrastruttura strategica che più strategica non si può; eppure, nonostante l’aria che tira e l’amicizia senza limiti, i negoziati sono ancora abbastanza in alto mare (come è giusto e normale che sia quando due enti autonomi e indipendenti devono trovare una quadra per una partita così complessa). Per fare un confronto, basta pensare alla vicenda dei due Nord Stream, quando uno Stato formalmente sovrano ha accettato che un suo supposto alleato compisse un atto terroristico di portata gigantesca sul suo territorio senza battere ciglio; oppure quando, in seguito allo scoppio della seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, i Paesi europei hanno aderito a delle sanzioni economiche progettate più per distruggere la loro economia che non quella dell’avversario. Ecco: se come parametro per capire la solidità di un’alleanza prendiamo questo, effettivamente no, l’alleanza tra Russia e Cina non è minimamente comparabile, ma da quando in qua il rapporto tra un imperatore e i suoi sudditi si chiama alleanza? E che fine hanno fatto tutte le filippiche degli analfoliberali sulla democrazia che è sì faticosa, ma, alla fine, è l’unica strada per stabilire legami sociali stabili e duraturi?
Ora, è proprio questo modello di rapporti democratici tra Stati autonomi e indipendenti che Russia e Cina stanno proponendo al resto del mondo; e uno degli organi multilaterali che dovrebbe servire da piattaforma per questo nuovo modello di relazioni internazionali sono ovviamente i BRICS che, quest’anno, vedono la presidenza di turno affidata proprio alla Russia che – afferma Putin – vuole utilizzare, appunto, il suo ruolo per “promuovere un’architettura più democratica, stabile ed equa delle relazioni internazionali”: Putin sottolinea che “la cooperazione all’interno dei BRICS si basa sui principi di rispetto reciproco, uguaglianza, apertura e consenso” ed è proprio per questo che, insiste, “i Paesi del Sud e dell’Est del mondo vedono nei BRICS una piattaforma in cui le loro voci possono essere ascoltate e prese in considerazione e trovano la nostra associazione così attraente”. La creazione di enti multilaterali fondati sulle relazioni paritarie e democratiche tra Paesi, però, è più complicata da fare che da dire perché il presupposto – appunto – è che gli Stati coinvolti siano davvero sovrani e quindi, appunto, autoritari (e, cioè, abbastanza forti da tenere a bada il potere delle loro oligarchie); ma molti dei paesi coinvolti hanno tutt’altro che terminato questo processo di emancipazione dal potere delle oligarchie, come è il caso – ad esempio – del Brasile o dell’India che, di fronte alle loro oligarchie perfettamente integrate nella finanza globale, sono in grado di esercitare soltanto una sovranità parziale. Per non parlare, poi, dei Paesi come l’Arabia Saudita, che sono premoderni e che esercitano una loro sovranità soltanto nella misura in cui lo Stato coincide esattamente con le loro oligarchie.
Se quindi, da un lato, l’imperialismo – che è, appunto, il sistema su cui si fonda il dominio dell’Occidente collettivo sul resto del pianeta e che annienta ogni sovranità in nome dello strapotere delle oligarchie finanziarie – è un sistema, oltre che barbaro e inaccettabile, anche oggettivamente in declino (e contro il quale la rivolta è ormai inarrestabile), la costruzione dell’alternativa è ancora lunga e piena di ostacoli; l’amicizia senza limiti tra Russia e Cina, però, costituisce un nucleo centrale per questo nuovo modello di relazioni internazionali più democratico, di una potenza senza precedenti, ed è per questo che rappresentano (e continueranno a rappresentare) il nemico principale dell’imperialismo, che vede nella loro disfatta l’unica possibilità di continuare a rimanere in piedi, costi quel che costi. A noi non rimane che fare la nostra parte contro la guerra finale dell’imperialismo e, per trasformare anche l’Italia e l’Europa in un insieme di Stati sovrani e indipendenti, pronti a dare il loro contributo per la costruzione di un mondo nuovo senza il quale la distruzione reciproca, più che un’ipotesi, diventa – giorno dopo giorno – una certezza; per farlo, nel nostro piccolo, come minimo ci serve un media che non faccia da megafono alla propaganda dell’impero, ma che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Emiliano Brancaccio: con il sistema economico attuale la guerra totale è inevitabile

Secondo la moda “geopolitica” i conflitti in corso sono frutto dell’idiozia o delle cattive intenzioni di qualche singolo ed è inutile cercare un senso a qualcosa che un senso non ce l’ha. Emiliano Brancaccio in questa intervista rovescia questo approccio e insieme al Marru prova a trovare le ragioni profonde della guerra totale in corso nelle contraddizioni strutturali dell’imperialismo ormai decotto.

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Il Corriere confessa che la guerra mondiale è già iniziata e chiede la sospensione della democrazia

Mission Ukraine: così si chiama il piano che il deep state a stelle e strisce sta preparando e che i vassalli saranno chiamati a sottoscrivere a luglio a Washington, quando si riuniranno i 32 reggenti dei protettorati dell’alleanza feudale atlantica; l’obiettivo, come sottolineava sabato scorso lo storico corrispondente dagli USA del Corriere della serva Giuseppe Sarcina, sarebbe quello di preparare “una specie di polizza anti Trump, una manovra in tre mosse per garantire che il sostegno militare all’Ucraina non verrebbe meno neanche qualora l’ex presidente dovesse tornare alla Casa Bianca”. L’obiettivo, continua Sarcina, sarebbe ovviamente quello di “appoggiare la resistenza fino a quando sarà necessario” che, dopo due anni che questo equivaleva a dire fino a che l’Ucraina non ha riconquistato tutto il territorio perso dal 2014 e fatto crollare il regime del dittatore plurimorto del Cremlino, oggi – molto più modestamente – significa “fino a quando Vladimir Putin capirà che non potrà vincere la guerra che ha scatenato il 24 febbraio del 2022”; e, ovviamente, a dirci con precisione cosa significa vincere o perdere ci penserà Sarcina (appena chi gli paga lo stipendio l’avrà deciso).

Giuseppe Sarcina

Al netto della solita sequela di puttanate suprematiste e di doppi standard, l’editoriale di Sarcina, comunque, del tutto involontariamente solleva alcune questioni decisamente interessanti: prima di tutto si lascia sfuggire che i soldi sbloccati dal congresso USA con l’approvazione definitiva, due settimane fa, del pacchetto da 60 miliardi “dovrebbero bastare a puntellare l’esercito ucraino fino al termine del 2024” il che conferma, come abbiamo sottolineato più volte, che in gran parte non servono all’Ucraina, ma agli USA e al comparto militare-industriale USA, visto che se servissero davvero all’Ucraina, in base a quanto speso in media fino ad oggi, basterebbero ad arrivare (come minimo) a fine 2025. Il problema che si pone Sarcina è che, a quel punto, se Trump dovesse vincere, i soldi per la resistenza ucraina potrebbero finire; e visto che, da qui ad allora, il massimo che si può ottenere – appunto – è che Putin non possa dichiarare la vittoria totale, una volta finiti i soldi, nel giro di poco tempo la Russia riaffermerebbe con facilità la sua supremazia militare incontrastata e si avvierebbe a una vittoria certa. Ora – come chi ci segue sa – io a questa favoletta di Trump che si dà da fare per accelerare il declino e permette a Putin di trionfare mettendo così fine, come dice Boris Johnson, all’egemonia dell’Occidente, non ci credo nemmeno se la vedo: mi sembra tutta fuffa per gli appassionati di cultural war secondo i quali le potenze non hanno esigenze vitali oggettive che prescindono dalle inclinazioni ideologiche di ognuno, ma la politica è tutto un conflitto tra opinioni diverse, una sorta di gigantesco bar dove ognuno dice un po’ cosa cazzo gli pare e chi prende più voti ha il potere di stravolgere completamente l’agenda; però, magari, mi sbaglio io e quindi limitiamoci a prendere come dato che, secondo l’internazionale globalista e neoconservatrice, questa minaccia è concreta.
Data questa minaccia, l’obiettivo allora non può che essere impedire che – tramite il supposto voto democratico – i cittadini USA possano decidere liberamente se continuare o meno la guerra; cioè, bisogna trovare i tecnicismi che, anche se a volere la fine della guerra è la stragrande maggioranza degli elettori, la guerra continui inalterata. E lo strumento più adeguato per farlo sarebbe proprio la NATO, che sta alla sovranità, in termini di sicurezza degli alleati, un po’ come l’Unione europea sta alla sovranità dei suoi membri in termini di politica economica e monetaria: la annulla totalmente, sostituendo ai parlamenti e ai governi (più o meno democraticamente eletti) un’istituzione sovranazionale postdemocratica dove a decidere è, appunto, uno Stato profondo che mantiene la sua agenda inalterata a prescindere dalla volontà popolare e che, come sottolinea Sarcina, “si sta adoperando per assumere un ruolo più centrale nel conflitto, introducendo meccanismi strutturali in grado di operare anche nel medio e lungo termine, scavallando, quindi, le scadenze elettorali e l’eventuale cambio di amministrazione a Washington”. In sostanza, anche in caso di vittoria – specifica Sarcina – “Donald Trump, una volta entrato nello studio ovale, si troverebbe di fronte a un fatto compiuto, con risorse destinate a essere spese in un arco di tempo pluriennale”.
Per limitare al massimo il potere di un’eventuale amministrazione Trump di interferire con il regolare proseguimento della guerra poi, ricorda Sarcina, “L’idea è di trasferire direttamente sotto il controllo del quartier generale della NATO a Bruxelles il coordinamento degli oltre 50 paesi che finora hanno partecipato al cosiddetto gruppo di contatto, evitando così di dipendere completamente da un eventuale ministro trumpiano”, che è un altro dettaglio che non sono proprio sicurissimissimo che Sarcina ci volesse svelare e, cioè, che senza questa modifica il gruppo di contatto – e, quindi, la guerra per procura contro la Russia in Ucraina – è completamente diretta dal segretario alla Difesa USA; non tanto, molto, in maniera decisiva: completamente. Queste sono le parole scelte da Sarcina. Ora, ovviamente, anche questo non è che a noi ci sconvolga: che la NATO non sia nient’altro che un braccio armato della politica estera USA è esattamente quello che sosteniamo da sempre, ma è comunque interessante vedere confessato apertamente che è anche l’idea che hanno i pennivendoli della propaganda atlantista che, di fronte a domande esplicite su questo tema, negherebbero anche sotto tortura e, anzi, hanno sempre condannato chi sosteneva questa tesi di complottismo e di essere quinte colonne della propaganda putinista. Ma Sarcina, bontà sua, va anche oltre e svela completamente l’impianto postdemocratico dei propagandisti come lui: Sarcina, infatti, saluta con entusiasmo una terza scelta della massima importanza strategica e, cioè, quella di “attribuire più deleghe operative, e quindi più poteri, al generale americano Cristopher Cavoli, a capo del Comando supremo delle potenze alleate in Europa. Da una parte quindi” sottolinea Sarcina “viene un po’ diluito il ruolo politico del Pentagono” trasferendo, appunto, il coordinamento del gruppo di contatto dei 50 paesi coinvolti nella guerra per procura contro la Russia in Ucraina al comando NATO di Bruxelles, mentre “dall’altra si rafforza la leadership militare di un generale indicato dall’amministrazione Biden e che è anche il comandante di tutte le forze armate statunitensi di stanza in Europa”.
Insomma: è la conferma del doppio processo che da mesi cerchiamo di descrivere. Da un lato c’è la trasformazione definitiva della NATO in un vero e proprio braccio armato al servizio dell’imperialismo, completamente staccato dalle scelte sovrane e vagamente democratiche dei paesi aderenti: “Per essere chiari” sottolinea Sarcina che, evidentemente, invecchiando ha perso tutti i freni inibitori, “Cavoli guiderà le operazioni militari sul terreno, e deciderà se e come mobilitare le forze di reazione rapida” e, cioè, “circa 300 mila soldati pronti al combattimento”; dall’altro c’è l’estensione di questa macchina bellica unitaria al completo servizio dell’imperialismo ben oltre i limiti del vecchio continente, andando – appunto – a coinvolgere tutti i 50 e oltre paesi che hanno già aderito, ad oggi, al gruppo di contatto nella costruzione di una vera e propria NATO globale pronta a combattere – all’unisono e sotto una catena di comando completamente scollegata ai processi democratici – la guerra esistenziale dell’Imperialismo contro il resto del mondo. L’obiettivo fondamentale di questa macchina distopica unitaria della fase terminale dell’imperialismo sarebbe appunto, fondamentalmente, quello di non permettere al sanguinario dittatore plurimorto del Cremlino di dichiarare vittoria, ma ci pare piuttosto evidente sia soltanto un banco di prova per qualcosa di molto, molto più generale: un po’ perché l’obiettivo di impedire alle potenze emergenti del nuovo ordine multipolare di ottenere una vittoria strategica significativa si estende, ovviamente, anche a tutti gli altri fronti di questa terza guerra mondiale ibrida – dal Medio Oriente al Pacifico, passando anche per l’Africa e probabilmente, molto presto, anche l’America latina; e poi perché si va ben oltre la mera difesa. Ovviamente, questo non significa passare subito esplicitamente all’attacco, ma più semplicemente, comme d’habitude, procedere col solito meccanismo di dominio imperiale fondato sull’accerchiamento e la provocazione; dall’est Europa al Pacifico il giochino, infatti, è sempre lo stesso: impedire il raggiungimento della piena sovranità dei paesi che si ribellano al vassallaggio (dalla Russia alla Cina, passando per l’Iran e compagnia cantante) minacciandone contemporaneamente sia la sicurezza strategica, sia lo sviluppo e l’indipendenza economica e commerciale.
La partita dell’Ucraina e della sua adesione alla NATO – che è una piccola anticipazione di quello che sta avvenendo, in particolare negli ultimi mesi, nel Pacifico, con la fornitura di nuovi sistemi d’arma made in USA a Taiwan e con il rafforzamento dell’asse tra USA, Giappone e Filippine – è appunto il banco di prova ideale; ed ecco così che Sarcina ricorda, appunto, come “Stando alle dichiarazioni pubbliche di Stoltenberg, nel vertice di Washington di luglio i 32 soci fisseranno un percorso definito per l’ingresso dell’Ucraina nel club atlantico”. Tanto per cominciare, continua Sarcina, “Si procederà da subito accelerando l’integrazione, o, come dicono i militari, l’interoperabilità, tra le forze armate di Kiev e quelle della NATO” e quindi, sentenzia senza tanti fronzoli, “togliendo dal tavolo delle trattative l’ipotesi di un’Ucraina neutrale”. Ooh, lo vedi? Dai e dai, anche la propaganda suprematista concorda con noi propagandisti putinisti e complottisti vari della primissima ora: altro che opposti imperialismi di ‘sta cippa, altro che lotta coloniale per il controllo delle risorse, e altro che difesa del diritto sacrosanto degli ucraini a difendere la loro patria; Sarcina ammette candidamente che la famosa invasione russa dell’Ucraina altro non è che una reazione scontata e necessaria a una provocazione architettata meticolosamente dall’imperialismo con l’obiettivo, appunto, di impantanare Mosca in una lunga guerra d’attrito che imponga all’Europa – intesa come semplice costola dell’imperialismo unitario – di abbandonare ogni velleità di integrazione eurasiatica e la costringa a superare gli ostacoli che, fino ad oggi, ne hanno impedito un riarmo adeguato alla nuova fase di guerra totale contro il resto del mondo. Secondo Sarcina “I governi della NATO prevedono che la guerra durerà ancora a lungo”; in realtà, però, non è che lo prevedono: molto semplicemente, hanno lavorato in modo accurato proprio affinché la guerra durasse a lungo e, cioè, il tempo necessario per estenderla a tutti gli altri fronti, a partire – appunto – dal principale, che è quello del Pacifico, e chiudere la partita del conflitto globale dell’imperialismo contro il resto il mondo. Questo, di per se, non significa ovviamente necessariamente attendere una guerra cinetica per procura nel Pacifico contro la Cina come quella che si sta combattendo al confine orientale dell’Europa: gli USA, infatti, continuano a coltivare l’illusione che con la guerra commerciale (e una deterrenza adeguata a proteggerla, che è quella che stanno cercando di costruire oggi non tanto armando Taiwan, quanto – appunto – inglobando Giappone, Corea, Australia, Nuova Zelanda e Filippine nella nuova NATO globale e spingendole a un riarmo massiccio come quello che richiedono ai paesi europei) alla fine potrebbero invertire il processo, in corso da decenni, che ha visto appunto la Cina recuperare, anno dopo anno, il gap tecnologico ed economico che ancora la separa dal centro imperialistico più avanzato (in alcuni casi addirittura superandolo, e manco di poco); ma, appunto, come sembrano dimostrare gli esiti della guerra tecnologica ad oggi – che, per quanto abbiano comportato problemi enormi alla Cina, tutto sommato sembrano averne accelerato invece che rallentato e, tanto meno, interrotto la corsa verso l’indipendenza tecnologica – con ogni probabilità si tratta, appunto, solo di un’illusione, il che significherebbe che, per ottenere risultati concreti, c’è bisogno di una continua escalation, sulla falsariga di quanto effettuato dalla NATO nell’Est Europa, fino a che non si arriva necessariamente a una reazione cinese, sulla falsariga di quanto scatenato con Mosca.
Insomma: vista con quest’ottica, non si tratta più nemmeno semplicemente di affermare che il problema della terza guerra mondiale non è se scoppierà, ma quando e come, ma – piuttosto – di prendere atto che è già scoppiata, sempre ricordando che la terza guerra mondiale, nel 2024, è ovviamente una guerra ibrida; e non significa necessariamente scontro cinetico su tutti i fronti e, tantomeno, esclation nucleare, anche se escluderla per fiducia nel buon senso delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, a questo punto, è ovviamente un atto di fede religiosa che non ha niente a che vedere con l’analisi razionale delle dinamiche concrete. E visto che siamo in guerra, ovviamente, anche la sospensione dei normali diritti democratici delle democrazie liberali è già pienamente in atto anche se anche qui, come per la guerra, ovviamente non si tratta di ricercare la replica esatta degli strumenti e delle dinamiche registrate nel corso delle precedenti due guerre mondiali; si tratta, piuttosto, di capire concretamente gli strumenti concreti che vengono messi in campo per risolvere le contraddizioni concrete che questa fase scatena. Ed ecco così che non c’è bisogno di sospendere le elezioni democratiche nelle democrazie liberali. Basta renderle ancora più inutili: in Europa, rafforzando e accelerando il processo di unione politica che sostituisce, appunto, alle democrazie nazionali la postdemocrazia sovranazionale; negli USA, mettendo i paletti che impediranno a un eventuale presidente – che non fa completamente sua l’agenda politica già decisa dallo Stato profondo – di decidere liberamente se uscire dai binari. “Certo” specifica Sarcina “in teoria Trump se eletto potrebbe provare a smantellare tutta questa impalcatura, ma nella realtà sarebbe estremamente complicato. In un colpo solo il neo presidente dovrebbe reclamare fondi americani già impegnati, sconfessare i vertici dell’alleanza atlantica ed entrare in collisione con le alte gerarchie militari, nonché con l’industria bellica degli Stati Uniti” che, confessa candidamente Sarcina, è “di gran lunga la prima beneficiaria degli investimenti della NATO in missili, cannoni e carri armati”. La cosa interessante del ragionamento di Sarcina – che diamo per scontato rappresenti perlomeno un pezzo importante delle classi dirigenti imperiali alle quali il Corriere della serva fa da megafono – è che se questa totale sospensione della sovranità democratica noi la diamo da sempre per scontata per le periferie dell’impero, qui si estende anche al centro imperialistico stesso: questo ci costringe a rimettere un po’ in discussione alcune delle nostre categorie.
Secondo questo schema, infatti, identificare in Washington e in Wall Street il centro dell’impero, con gli altri vassalli attorno, sarebbe in qualche modo un eccesso di ottimismo perché, per quanto questo schema implichi un ordine internazionale antidemocratico (con un padrone che decide e gli altri che servono ubbidienti), comunque attribuisce un ruolo centrale al governo di un paese e quel governo, per quanto non si possa definire certo propriamente democratico – anzi – è comunque influenzato dalla sua opinione pubblica e deve trovare, comunque, una qualche forma di compromesso con le istanze del suo elettorato. Nel modello che emerge dalle parole di Sarcina, invece, non c’è manco questo: anche il governo di Washington, in soldoni, non sarebbe altro che uno strumento di un centro di potere ancora superiore che è talmente antidemocratico e dispotico che non c’ha manco non dico una sede fisica, ma manco un nome; fino a che il governo di Washington rappresenta fedelmente l’agenda politica di questo centro occulto, si può anche far finta che a guidarlo sia il presidente degli USA. Quando il governo di Washington, ammesso e non concesso che questo sia possibile, non incarna più questa agenda, anche lui può essere marginalizzato: ed ecco, così, che a comandare spunta un fantomatico centro NATO di Bruxelles che, molto banalmente, non significa un cazzo.
L’arrivo della terza guerra mondiale, in soldoni, non solo spinge un organo della propaganda come il Corriere della serva a chiedere più o meno esplicitamente la sospensione dei diritti democratici, ma anche a svelare che quella democrazia – stringi stringi – è sempre stata una gigantesca presa per il culo, un lusso accessorio del tutto velleitario del quale fare serenamente a meno non appena la situazione lo richiede. Contro la dittatura delle oligarchie (più o meno occulte) dell’imperialismo neoliberista è arrivata l’ora della riscossa multipopolare, ma per darle gambe e testa abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Mieli

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L’Occidente scarica Netanyahu, ma importa l’apartheid

La guerra di Israele contro i bambini palestinesi è probabilmente arrivata a una svolta: gli avvenimenti sono in rapida e continua evoluzione e quindi, per gli ultimi aggiornamenti, vi rimandiamo alle live che stiamo preparando sul tema; ma mentre registriamo questo video, un paio di considerazioni intanto possiamo farle. Durante tutta la scorsa settimana, Israele, col sostegno di Washington, ha provato a fregare Hamas: avevano proposto un accordo inaccettabile che, sostanzialmente, sarebbe equivalso a una resa incondizionata, mentre il regime genocida di Tel Aviv, dopo aver riscattato i suoi prigionieri, avrebbe avuto carta bianca per finire di radere al suolo Gaza e mettere così definitivamente fine all’ipotesi di uno Stato palestinese autonomo e sovrano; per convincere Hamas a suicidarsi e portarsi nella bara con se l’intero popolo palestinese, Tel Aviv usava il ricatto dell’invasione di Rafah, ma – a ben vedere – lo giocava malino. Sin da subito infatti, per tenere buone le fazioni più fondamentaliste del governo, Netanyahu è stato costretto ad ammettere che in un modo o nell’altro, o prima o dopo, l’invasione di Rafah sarebbe avvenuta comunque; Hamas, quindi, non aveva nessun motivo di firmare l’accordo trappola.
Nel frattempo però, con la mediazione di Egitto e Qatar, si stava lavorando a una riformulazione dell’accordo stesso: questa volta le garanzie erano decisamente più sostanziose; le varie tappe che scandivano lo scambio dei prigionieri avrebbero permesso ad Hamas di verificare, passo dopo passo, che Israele rispettasse i patti e, tra i patti, c’era sin da subito anche il ripristino delle infrastrutture essenziali e – alla fine del percorso – non solo un cessate il fuoco stabile, ma addirittura un’ambiziosa fine totale dell’assedio della Striscia. Insomma: la rivolta degli schiavi del carcere a cielo aperto di Gaza, per quanto tragica, quantomeno avrebbe determinato una riforma del regime carcerario; a queste condizioni, alla fine quindi Hamas ha ceduto. Israele, sostanzialmente, a quanto pare manco è stato coinvolto; come abbiamo detto più volte, a tratti ormai sembra essere universalmente considerato il bimbo scemo e viziato che va trattato con un po’ di tatto perché, nel frattempo, gli abbiamo regalato un’arma automatica bella carica, ma che nel frattempo va tenuto un po’ alla larga dalla stanza dove stanno gli adulti perché non può che fare danni. E infatti i danni, immancabilmente, sono arrivati: poche ore dopo che Hamas aveva pubblicamente dichiarato di accettare l’accordo, Tel Aviv decide di violarlo e di dare un segnale chiaro che è pronta a invadere Rafah; prima con l’intensificarsi degli attacchi aerei e, poi, anche con una piccola incursione via terra che, mentre registriamo questo video, potrebbe essere sia solo l’inizio dell’invasione vera e propria, sia – invece – l’ennesima bizza omicida del bimbo scemo e viziato.

Benjamin Netanhyau

Nel frattempo, la resistenza però non è rimasta a guardare: War Monitor, giusto un’ora fa, ha riportato la notizia (tutta da verificare) di 30 razzi che da Gaza sono partiti alla volta del Consiglio regionale di Eshkol; in precedenza, altri razzi erano usciti da Gaza in direzione Karem Abu Salem. La cosiddetta comunità internazionale pure non ha reagito benissimo alla bravata dei fasciosionisti: Guterres ha intimato a Israele di bloccare immediatamente ogni escalation; anche Borrell ha parlato di una catastrofe umanitaria da evitare a ogni costo e le voci, tutte da confermare, che sostengono che l’amministrazione Biden avrebbe imposto uno stop temporaneo all’esportazione di armi per mandare un segnale politico chiaro si sono continuate a rincorrere. Fatto sta che, al momento di questa registrazione, la situazione sul campo sembra essere in una fase di attesa; nel frattempo, i vertici israeliani sono volati al Cairo per riaprire il dialogo e Kirby, portavoce della Casa Bianca, ha affermato di essere ottimista che l’invasione può essere evitata e un accordo definitivo raggiunto. Insomma: se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno e rimanere cautamente ottimisti, la trappola che Israele aveva teso ad Hamas sembra essere definitivamente fallita e, al suo posto, Tel Aviv si ritroverebbe a dover sottoscrivere un accordo che finalmente, per la prima volta, non le dà carta bianca sul destino del conflitto.
Ciononostante, vista più da lontano, per quanto Israele sia in mezzo a un empasse, però, e per quanto non sia mai stato così isolato rispetto alle opinioni pubbliche di tutto il pianeta, il regime genocidario sionista – da un certo punto di vista – ha anche palesemente ottenuto un successo straordinario: tra le forze antipopolari, infatti, il suo sistema fondato sull’apartheid ha cominciato a esercitare una potente egemonia culturale; se fino a qualche anno fa il problema erano gli USA che esportavano il loro modello oligarchico e finto-liberale a suon di bombe, ora siamo al quadro successivo, con Israele che esporta nel mondo il suo modello fondato sull’apartheid a suon di mazzate, di agguati squadristi, di repressione e anche di minacce in stile mafioso. Le istituzioni dell’Occidente collettivo infatti, senza eccezione, è come se avessero adottato all’unisono una sorta di circolare virtuale universale che garantisce la totale impunità dei suprematisti sostenitori del genocidio, qualsiasi atto di aggressione compiano, e che vieta categoricamente ai media di parlarne. Una piccola preview l’avevamo vista un paio di settimane fa; sicuramente vi ricorderete. Era il 25 aprile e un’inviata della RAI era a Roma, dove si stavano confrontando due manifestazioni contrapposte: una di persone normali che, come inevitabile, avevano pensato di omaggiare gli eroi della resistenza italiana manifestando la loro vicinanza alla resistenza palestinese unite dal contrasto a ogni forma di genocidio; e l’altra di persone confuse che, invece, volevano approfittare delle celebrazioni per rivendicare la legittimità dello sterminio dei bambini palestinesi. Piena zeppa di infiltrati fascisti che, tra governo Meloni e sostegno incondizionato dei governi dell’Occidente collettivo a ogni forma di neonazismo in circolazione – dai lettori di Kant del battaglione Azov ai coloni criminali sionisti – stanno vivendo una vera e propria golden age, la seconda manifestazione ha letteralmente aggredito l’altro gruppo; e la povera inviata che, evidentemente, nonostante lavori per un servizio pubblico totalmente appiattito sulla narrazione della propaganda sionista, anche lei aveva le idee un po’ confuse e non aveva interpretato benissimo l’agenda pro – sterminio dei suoi datori di lavoro, aveva riportato l’accaduto parlando, appunto, di aggressione e dallo studio la sua capa, invece di censurare l’aggressione fascista del fan del genocidio, l’ha redarguita sottolineando che non c’era stata nessuna aggressione, come ovviamente lei, dallo studio in mezzo alle luci sparate a palla e le truccatrici, poteva testimoniare direttamente.
Ma era solo l’antipasto: il lasciapassare alle aggressioni dei sostenitori del genocidio, infatti, ha assunto dimensioni veramente inedite pochi giorni dopo, sull’altra sponda dell’Atlantico, quando delle squadracce di picchiatori suprematisti hanno aggredito un pacifico accampamento di manifestanti anti – sterminio con tanto di spranghe in mano e maschere sul volto: mentre le squadracce aggredivano i manifestanti con spray al peperoncino, bastoni e anche oggetti esplosivi pirotecnici di ogni tipo, le forze dell’ordine rimanevano in un angolo impassibili. Probabilmente erano un po’ stanchine; d’altronde, da tempo ormai erano impegnati giorno e notte a menare ed arrestare indiscriminatamente centinaia di giovani studenti pacifici per aver osato dubitare della missione purificatrice dei fondamentalisti sionisti: erano così anchilosati che non sono intervenuti neanche quando gli squadristi, davanti ai loro occhi, si sono scagliati in massa su uno studente, l’hanno buttato per terra e l’hanno preso allegramente a calci nella testa tutti assieme (immagino per favorire l’apprendimento delle sacre scritture). Come ha dichiarato su al Jazeera il giornalista investigativo Joey Scott (che ha assistito all’attacco squadrista), temporeggiando, le forze dell’ordine hanno voluto mandare un segnale chiaro alle squadracce che si aggirano per il paese che non rischiano ritorsioni ed anzi sono ben viste perché, così, aiutano l’amministrazione nella sua battaglia di civiltà: combattere l’antisemitismo, che viene tirato in ballo anche quando a protestare sono gli stessi ebrei che, nelle mobilitazioni anti – sterminio degli USA, hanno avuto sin da subito un ruolo di primissimo piano.
Negli USA, ormai, sono considerati antisemiti anche ebrei ortodossi come questi che sono stati aggrediti mentre erano tranquilli nella loro auto da questa simpatica signora indemoniata e palesemente alterata che gli è saltata addosso cercando di strappargli la bandiera palestinese e che poi s’è messa pure a minacciare le forze dell’ordine che sono intervenute per separarli, ma che – in base alla circolare sul diritto incondizionato dei sionisti di fare un po’ come cazzo vogliono – l’hanno lasciata andare via serenamente. Questa strumentalizzazione delirante del pericolo antisemita è anche la formula magica che l’amministrazione USA ha cercato di usare per giustificare gli arresti di massa delle ultime settimane, che stanno trasformando la terra della libertà in un regime teocratico filo – sionista, una palese e inquietante involuzione antidemocratica che, pochi giorni fa, è diventata legge grazie all’Antisemitism Awareness Act, approvato dal congresso a larghissima maggioranza; una legge totalmente delirante che impone allo Stato di adeguarsi automaticamente alla definizione di antisemitismo che viene elaborata da un’associazione intergovernativa priva di qualsivoglia legittimità democratica: è la International Holocaust Remembrance Alliance che, ad esempio, considera antisemitismo anche accusare Israele di genocidio o anche genericamente di razzismo. Grazie a questa legge, sostanzialmente si riconosce a una minoranza eletta un diritto che non viene riconosciuto a nessun altro: quello di non essere criticata, a prescindere. E attenzione: non è un diritto che si riconosce agli ebrei, ma è un diritto che si riconosce ai sionisti, quindi non a una minoranza etnica, ma ai sostenitori di una determinata ideologia. In base a questa definizione di antisemitismo, secondo l’amministrazione USA anche la Corte internazionale di giustizia, giusto per fare un esempio, è antisemita e ora rischia di diventarlo anche la Corte penale internazionale che, a differenza della Corte di giustizia – che è comunque un organismo ufficiale dell’ONU e quindi ha sempre avuto un qualche occhio di riguardo anche per il Sud globale – è sempre stata, a ragione, accusata di essere un vero e proprio braccio armato dell’imperialismo e che infatti ha sempre e solo emesso mandati di cattura verso nemici dell’imperialismo – da Putin a Gheddafi – e mai, nemmeno una volta, contro i peggiori criminali che l’agenda imperialista, invece, l’hanno portata avanti a suon di palesi e plateali crimini di guerra.

Yoav Gallant

Ma, evidentemente, è un braccio che comincia a presentare qualche insofferenza nei confronti del cervello impazzito: un paio di settimane fa, infatti, senza che la Corte si sia mai espressa in merito, sui media israeliani è cominciata a circolare l’ipotesi che, a breve, sarebbero arrivati mandati d’arresto internazionali contro figure israeliane di primissimo piano, a partire addirittura proprio da Netanyahu stesso e dal comandante in capo dello sterminio, il ministro della difesa Yoav Gallant; Netanyahu ha reagito subito a questi rumors dichiarando pubblicamente che l’emissione di mandati di arresto equivaleva al tentativo di minare il diritto di Israele all’autodifesa e che questo è inaccettabile perché “costituirebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie”. “Non crediamo che ne abbiano la giurisdizione” ha rincarato subito dopo la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre, annunciando come gli USA non avrebbero mai sostenuto un’indagine da parte dellaCorte; oggi sappiamo che questo alterco era solo la punta dell’iceberg. Lunedì sera, infatti, il buon vecchio Kim Dotcom ha pubblicato sul suo account X questa lettera: risale al 24 aprile, è indirizzata al procuratore della Corte penale internazionale dell’Aja ed è accompagnata dalla firma di 12 senatori statunitensi (probabilmente il grado più basso dell’evoluzione umana attualmente presente nella politica internazionale). La prima firma è quella di Tom Cotton, già celebre per questa figura di merda epica di fronte al CEO di TikTok; seguono le firme, tra gli altri, del gotha della destra reazionaria e suprematista del Tea Party, da Ted Cruz a Marco Rubio. Insomma: promette benissimo, ma – ciononostante – il contenuto della lettera è superiore anche alle più rosee aspettative. “Caro signor procuratore” scrivono, “le scriviamo riguardo alla notizia che la Corte penale internazionale starebbe valutando l’ipotesi di emettere un mandato di cattura internazionale nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu e altri ufficiali israeliani”; con un’azione del genere, sottolineano i nostri 12 cavalieri dell’apocalisse, la Corte internazionale “punirebbe Israele per essersi legittimamente difeso contro l’aggressore sostenuto dall’Iran” e questo allineerebbe la Corte “con il principale stato sponsor del terrorismo e il suo proxy”. “Emettere un mandato d’arresto per i leader di Israele” continua la lettera “non sarebbe solo ingiustificato, ma tradirebbe la vostra ipocrisia e i vostri doppi standard” dal momento che “non avete mai emesso un mandato di cattura nei confronti di quel genocida del Segretario Generale della Repubblica Popolare di Cina, Xi Jinping, o di nessun altro funzionario cinese”. Ma il bello deve ancora venire: “Se emetterete un mandato di arresto per la leadership israeliana, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità israeliana, ma anche a quella statunitense”, che è come dire, appunto – come abbiamo sempre sostenuto – che Israele non è altro che un’exclave dell’impero USA incaricata di mantenere l’ordine coloniale in Medio Oriente; e qui, poi, c’è una chicca che, sinceramente, avevo rimosso: “Il nostro paese, con l’American Service-Members’ Protection Act” scrivono “ha dimostrato fin dove siamo disposti ad arrivare per proteggere quella sovranità”.
Ma cosa è l’American Service-Members’ Protection Act? Se non lo sapete, non vi preoccupate; anch’io, che quando c’è da dire male di Washington sono sempre in prima linea, l’avevo completamente rimosso, probabilmente perché è un atto così vergognoso e platealmente criminale che la propaganda ha fatto letteralmente di tutto per tenerlo al di fuori del dibattito pubblico: la legge, approvata dal Congresso nel 2002 ai tempi dell’amministrazione Bush jr che si accingeva, nell’ambito della war on terror, a commettere una serie infinita di crimini di guerra, dà al presidente il potere di usare “tutti i mezzi necessari e appropriati per ottenere il rilascio di qualsiasi membro del personale statunitense o alleato detenuto o imprigionato da, per conto o su richiesta della Corte penale internazionale”. Non a caso l’atto è stato soprannominato The Hague Invasion Act – la legge sull’invasione dell’Aja – perché, appunto, incredibilmente dà automaticamente il potere al presidente anche di invadere l’Olanda, se solo questo venisse ritenuto il modo migliore per liberare dalla grinfie della Corte soldati e funzionari USA – come di qualsiasi altro paese ritenuto alleato. Forse ora è chiaro perché la Corte ha sempre e solo perseguito nemici di Washington; un atto talmente folle che quando ancora l’Europa aveva qualche velleità di autonomia, nei primi anni 2000, lo condannò apertamente. Ora i 12 senatori dell’apocalisse lo ritirano in ballo per minacciare esplicitamente la Corte e non si fermano qui; anche nel linguaggio, l’ultimo paragrafo della lettera sembra scritto direttamente da Totò Riina: “Prendete di mira Israele” minacciano “e noi prenderemo di mira voi”. “Se andate avanti con la vostra azione, sanzioneremo tutti i vostri impiegati e tutti i vostri associati, e bandiremo voi e le vostre famiglie dagli Stati Uniti. Siete stati avvisati”.
Secondo quanto riportato in questa infografica prodotta da Track Aipac, un’iniziativa indipendente che cerca di ricostruire tutti i finanziamenti della lobby israeliana ai membri del Congresso, i 12 senatori dell’apocalisse, per autoconvincersi dell’opportunità di questa loro iniziativa leggermente sopra le righe, hanno ricevuto nel tempo dall’Aipac circa 6 milioni di buone motivazioni; questo episodio, se l’autenticità del contenuto della lettera venisse confermato ufficialmente (cosa che, in cuor mio, tutto sommato voglio ancora nutrire una minima speranza non accada) ci racconta un paio di cose importanti: la prima è che, se ancora avevamo dei dubbi, l’ordine internazionale fondato sulle regole di cui parlano gli imperialisti occidentali e i loro pennivendoli può essere considerato – dalla struttura al retroterra culturale che traspare anche nel linguaggio – un ordine, a tutti gli effetti, di carattere mafioso dove l’unica regola che, quando serve, vale davvero è sempre e solo quella del sopruso e del ricorso alla violenza fisica e al puro arbitrio. La seconda è che aspettarsi che gli USA, di loro sponte, impediscano davvero a Israele di portare a termine il suo genocidio è totalmente velleitario: sarebbe un po’ come pretendere che un serial killer, di sua sponte, si seghi un braccio per impedire alla sua mano di continuare a premere il grilletto; con questo, però, non voglio dire che lo sterminio totale e definitivo del popolo palestinese sia inevitabile e che, quindi, tanto vale smetterla di logorarsi e tornare agli spritz. Anzi! Voglio, invece, dire proprio che se oggi traspare qualche titubanza è solo ed esclusivamente merito delle forze che, nella società, si stanno opponendo al massacro: dall’asse della resistenza agli altri Stati che sono in conflitto con l’imperialismo, ma, soprattutto, alle masse popolari che si stanno mobilitando sempre di più contro la complicità dei rispettivi governi.
La mobilitazione e la lotta contro l’esportazione dell’apartheid, quindi, non sono che all’inizio e per portarle a termine abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece di tappare la bocca ai giornalisti che chiamano aggressione un’aggressione, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuseppe Cruciani

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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