Da Fanon a Said: perché orientalismo e neocolonialismo condannano l’occidente al declino
Un giardino ordinato da un lato, una giungla selvaggia dall’altro: con questa metafora nell’ottobre 2022 il responsabile della politica estera dell’Unione Europea Josep Borrell, in mondovisione, ricordava senza tanti fronzoli l’idea che la classe dirigente europea continua ad avere del resto del mondo, oltre mezzo secolo dopo la morte ufficiale della vergogna colonialista.
E’ il cancro dell’”orientalismo”, per dirla con Edward Said.
Un secolare apparato culturale e ideologico che ancora oggi impedisce agli europei di confrontarsi in modo realistico con il Mondo Nuovo. E cioè con un mondo che non ha più nessuna intenzione di farsi sottomettere dal dominio militare ed economico di quella piccola minoranza che i nostri media di solito chiamano occidente.
1961. Frantz Fanon, psicologo martinicano, cresciuto sotto il dominio coloniale francese, pubblica “I dannati della terra”.
Sono gli anni in cui la Francia sta combattendo la guerra d’Algeria, uno dei più brutali tentativi da parte di una nazione europea di soffocare la lotta di un popolo per la propria libertà contro l’oppressore coloniale.
Nel libro di Fanon, emerge la presa di coscienza del significato universale della rivoluzione dei popoli coloniali: un nuovo protagonista rivendica il suo ruolo nella storia mondiale, il cosiddetto “terzo mondo”.
Fanon non si limita ad analizzare il fenomeno del colonialismo all’interno di una sola nazione, ma studia l’intero processo su un piano internazionale e si rivolge all’umanità intera come soggetto consapevole di un nuovo concetto di libertà. La razza e il razzismo non sono fenomeni naturali, biologicamente determinati, ma costruzioni storico sociali da cui è possibile uscire.
Una rivendicazione che è insieme culturale sociale politica e economica e che esige un ribaltamento dei ruoli all’interno delle colonie e delle ex colonie per scalzare dal potere quelle élite borghesi che collaborano con i dominatori o che continuano a svendere le proprie ricchezze e i propri cittadini agli interessi occidentali.
Non ci può essere un’autentica decolonizzazione senza un’altrettanto autentica rivoluzione sociale all’interno dei paesi vittime del colonialismo. Il rischio è quello di perpetrare, una volta raggiunta l’indipendenza, l’oppressione del capitale sulle classi più povere.
Per Fanon dunque la liberazione dell’essere umano nero passa si dalla presa di consapevolezza soggettiva e culturale della propria identità ma anche dalla ristrutturazione di quei rapporti economici oggettivi che causano lo sfruttamento dei popoli neri:
“La ricchezza dei paesi imperialisti è anche la nostra ricchezza”, scrive Fanon. “Sul piano dell’universale, questa affermazione, com’è facile capire, non vuole assolutamente significare che noi ci sentiamo oggetto delle creazioni della tecnica e delle arti occidentali. Molto concretamente”, piuttosto, continua Fanon, “l’Europa si è gonfiata smisuratamente dell’oro e delle materie prime dei paesi coloniali: America latina, Cina, Africa. Da tutti quei continenti, di fronte ai quali l’Europa oggi erge la sua torre opulenta, partono da secoli in direzione di quella stessa Europa i diamanti e il petrolio, la seta e il cotone, i legnami e i prodotti esotici. L’Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo. Le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati.”
Fanon non è solo un intellettuale che rivendica una presa di coscienza collettiva, e non si limita solo a teorizzarla, la rivoluzione africana. Ad un certo punto della sua vita il rivoluzionario lo va a fare concretamente: espulso dai territori francesi, prende parte al Fronte di Liberazione Nazionale algerino e viaggia per gli stati del continente africano per sollecitare la rivolta armata contro gli oppressori coloniali.
Una rivolta armata che Fanon cercò di analizzare anche dal punto di vista della strategia militare, con una lunga serie di saggi e di articoli che poi diventeranno un testo compiuto soltanto dopo la sua morte: “Pour la révolution africaine”, si intitola.
Una rivoluzione che Fanon però non potrà vivere in prima persona. Nel 1961, ad appena 36, Fanon infatti muore di leucemia.
Se non ha avuto il tempo di partecipare in prima persona all’applicazione delle sue teorie in tutte le guerre e guerriglie anticoloniali che hanno incendiato l’Africa durante gli anni Sessanta, Fanon ha comunque avuto il tempo per modificare per sempre l’approccio che una fetta consistente di cultura europea critica aveva nei confronti dei movimenti di liberazione del sud del mondo.
E così arriviamo alla seconda parte di questo breve viaggio nella storia del pensiero anticolonialista. E’ il 1978 quando lo storico di origine palestinese Edward Said pubblica il suo capolavoro: “Orientalismo” è il titolo di questo libro decisivo, a tutti gli effetti uno dei grandi classici della seconda metà del ‘900.
Con il termine “orientalismo” Said si riferisce “a uno stile di pensiero fondato su una distinzione sia ontologica sia epistemologica tra l’«Oriente» da un lato, e (nella maggior parte dei casi) l’«Occidente» dall’altro.”, a una “nozione collettiva tramite cui si identifica un «noi» europei in contrapposizione agli «altri» non europei”.
E per spiegare questo pensiero è utile ricorrere, spiega Said, al concetto gramsciano di egemonia: “Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia”:
“in fondo”, scrive infatti Said, “si può dire che la principale componente della cultura europea è proprio ciò che ha reso egemone tale cultura sia nel proprio continente sia negli altri: l’idea dell’identità europea radicata in una superiorità rispetto agli altri popoli e alle altre culture”.
Said spiega quindi come ogni tentativo di definire l’Oriente da parte degli europei non è stato altro che un tentativo di ribadire la presunta superiorità europea.
Said ha inaugurato un nuovo metodo per studiare il colonialismo, mettendo in luce le teorie con le quali gli europei da sempre incasellano l’Altro in stereotipi funzionali, creando opposizioni radicali fra ciò che è europeo e ciò che non lo è, al fine di creare un concetto di alterità e di ossessiva diversità nei confronti di tutto ciò che non è “occidentale”.
E’ la lente che ancora oggi distorce completamente la capacità di analisi di gran parte della nostra classe dirigente, come ha dimostrato recentemente in modo piuttosto plateale, se non addirittura grottesco, l’altro rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri Josep Borrell quando ha avuto la brillante idea di ricordarci come a suo avviso il mondo sia diviso tra l’Europa “giardino ordinato”, e tutto il resto “una giungla” che ci minaccia.
L’opera di Said ci aiuta a capire come in realtà non si sia trattato di una gaffe.
La costruzione fittizia e superficiale di un Altro da cui distinguerci, differenziarci, e su cui, in definitiva, imporre il nostro dominio, ci spiega Said, sono un’ingrediente essenziale nella costruzione dell’identità europea.
Il libro di Said ha fatto capire che la moderna cultura europea, ma anche la sua economia e la sua politica, non sono pienamente comprensibili senza l’esperienza coloniale che ha plasmato sia l’Europa sia le colonie: una cultura e un’economia improntate ad una logica che è quella del dominio e dello sfruttamento.
Scrive Said in “Cultura e imperialismo”, che non si può pensare la cultura moderna europea senza il colonialismo e l’imperialismo e viceversa.
Così come Marx ci aveva insegnato che l’economia politica moderna è basata sulla logica dello sfruttamento del lavoro e del dominio economico, i primi studiosi non europei del colonialismo ci insegnano che alla base dell’economia politica moderna c’è un’ulteriore logica dello sfruttamento e del dominio, e cioè la razza e il razzismo come dispositivi di dominio culturale e economico.
Come scrive Fanon: “L’originalità del contesto coloniale è che le realtà economiche, le disuguaglianze, l’enorme differenza del tenore di vita, non giungono mai a occultare le realtà umane. Quando si scorge nella sua immediatezza il contesto coloniale”, insiste Fanon, “è evidente che ciò che fraziona il mondo è anzitutto il fatto di appartenere o meno a una data specie, a una data razza. In colonia, l’infrastruttura economica è pure una superstruttura. La causa è conseguenza: si è ricchi perché bianchi, si è bianchi perché ricchi.”
A partire da questo concetto di razza e di differenza razziale, la critica postcoloniale mette in discussione e decostruisce le nozioni, le categorie e i presupposti dell’identità moderna occidentale nelle sue più svariate manifestazioni.
La cultura e l’identità europea moderna, si costituiscono proprio a partire da questa logica del dominio coloniale, e sono un prodotto dell’economia dell’espansione e del dominio coloniale, e non il risultato dello sviluppo di un astratto spirito umano.
Con la decolonizzazione degli anni Sessanta e Settanta il colonialismo europeo scompare. Ma con gli anni Ottanta inizia un nuovo processo storico, la neoliberalizzazione globale. Si parla di mondo postcoloniale, di globalizzazione e di superamento degli stati nazione all’insegna del neoliberismo economico e del trionfo del liberalismo politico sulle ormai obsolete ideologie novecentesche.
E’ in questo periodo che tutta una parte della teoria sociale rimarca la centralità del colonialismo e dell’imperialismo occidentale nella configurazione del mondo contemporaneo, denunciando i tentativi di occultare il fatto che, scomparso il vecchio mondo coloniale, le dinamiche coloniali continuano però a persistere.
Questi studi si chiamano post-colonial studies, ma quasi paradossalmente, perché ciò che mettono in luce è che il colonialismo non è affatto qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle e che occorre prestare attenzione alle nuove forme assunte dall’imperialismo bianco e liberal-democratico.
I postcolonial studies hanno avuto un ruolo di grande importanza nel rovesciamento del quadro idillico dei rapporti di potere internazionali imposti dagli USA e dagli stati europei democratici e liberali.
Come già scriveva Marx: “La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude”. (Marx, «New York Daily Tribune», 8 agosto 1853)
La più recente critica postcoloniale fa capire che, pur nella rottura con un certo passato moderno, la contemporaneità post-coloniale e globalizzata di questa nuova fase del tardo capitalismo non è affatto una fase storica libera da rapporti colonialisti. Come invece l’egemonia liberal vorrebbe farci credere.
lo sguardo postcoloniale, come lo chiama l’antropologo Miguel Mellino nella prefazione alla nuova edizione del suo libro “La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies”1, che ha introdotto nel nostro paese il dibattito sul postcolonialismo, si presenta oggi come rovescio critico, come contro-narrazione dell’ordine del discorso iniziato con l’affermazione del dominio globale del neoliberismo.
Come scriveva già Fanon, infatti:
“Due secoli fa, una ex colonia dell’Europa decise di competere con la metropoli. Essa è riuscita così bene nell’intento che gli Stati Uniti d’America sono diventati un paese mostruoso nel quale le tare, la nausea e la crudeltà dell’Europa hanno raggiunto dimensioni spaventose”
“Per capire l’impero americano oggi”, scrive il sociologo Paul Gilroy “bisogna riflettere necessariamente sul suo rapporto con i progetti coloniali europei precedenti. Bisogna capire, ad esempio”, continua Gilroy, “perché gli americani negli anni cinquanta si sono sostituiti ai francesi in Indocina, e perché si sono posti come gli eredi del colonialismo britannico nel mondo. Penso che ci dobbiamo porre tali domande per non soccombere alle categorie razziali così come oggi le troviamo nel mondo”.
Solo se capiamo in modo più preciso e sappiamo quindi individuare e denunciare la continuità tra imperialismo passato e quello ancora oggi più che attuale possiamo aprirci a uno sguardo realmente postcoloniale.
e così a occhio, ne avremmo un certo bisogno.
la fase di transizione che stiamo attraversando infatti non è altro che, per dirla con Giovanni Arrighi, la fine del lungo XX secolo, e cioè il secolo del dominio americano inteso come ultima fase del dominio occidentale moderno iniziato con la conquista coloniale dell’America.
La critica postcoloniale è oggi più che mai uno strumento fondamentale per comprendere a fondo i rapporti odierni tra Nord e Sud del mondo, e anche il legame indissolubile tra le degenerazioni del tardo capitalismo e le nuove forme di imperialismo, fenomeni migratori inclusi.
- M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcoloniali studies, Meltemi, 2021. ↩︎