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Il ritorno dell’austerity: come e perché a Bruxelles hanno deciso di uccidere l’Economia Europea

Venerdì scorso nella redazione de La Repubblichina era festa grossa: “Ue, l’Italia resta sola” titolavano entusiasti. La testata di punta del gruppo editoriale che, più di ogni altro, s’è speso negli anni per trasformare l’Italia in una doppia colonia – sia di Bruxelles che di Washington – sembra volerle provare tutte pur di far apparire perfino uno svendi-patria di professione come Giancazzo Giorgetti come uno statista tutto d’un pezzo. La partita è di nuovo quella della riforma del patto di stabilità, il quadro regolatorio inventato ad hoc per distruggere scientificamente l’economia reale del vecchio continente. “I governi europei” riportava La Repubblichina “raggiungono l’intesa sulle nuove regole di bilancio”.

Giancarlo Giorgetti

“Per il ministro Giorgetti” scrive Andrea Bonanni in uno dei due comizi propagandistici pubblicati dalla repubblichina a commento della vicenda “è una sconfitta cocente”. Che, più che per Giorgetti, sia una sconfitta non solo per l’Italia, ma ancora più in generale per le condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori e di imprese nel continente, in questa sfida a chi ha i requisiti migliori per candidarsi come curatore fallimentare del paese di fronte alle oligarchie finanziarie dell’Occidente collettivo, evidentemente è un aspetto del tutto secondario: come sottolinea lo stesso Bonanni, infatti, “la proposta iniziale della Commissione è stata corretta nel senso voluto dalla Germania” e, in particolare, dal falco della dittatura dell’austerity Christian Lindner, che vince la sua battaglia contro ogni tentativo di dotare l’Europa degli strumenti minimi necessari per provare a reagire alla gigantesca recessione che è già iniziata nel suo paese e che, a breve, distruggerà quel poco che è rimasto dell’economia europea. L’altro comizio propagandistico anti-italiano de La Repubblichina è affidato invece al solito Claudio Tito che sottolinea come “non si capisce più cosa voglia l’Italia”. Eh, davvero eh? Incomprensibile, proprio; le modifiche filo austerity volute dai falchi tedeschi, infatti, impongono una bella overdose di misure lacrime e sangue per ridurre il debito e riportare il deficit sotto controllo, esattamente l’opposto di quello che servirebbe durante una recessione e contro la nuova ondata di politiche protezioniste made in USA, dove – invece – il debito è esploso e esploderà ancora di più in futuro proprio per regalare una montagna di quattrini alle aziende e convincerle ad abbandonare il deserto europeo e andare a fare fortuna in America. Ora, che degli zerbini viventi come le firme di punta de La Repubblichina accolgano con entusiasmo scelte deliranti di politica economica come questa pur di sperare, un giorno, di prendere il posto dell’amministrazione coloniale attualmente in carica, ovviamente non dovrebbe sorprendere; quello che, invece, è già più complicato da spiegare è “ma perché mai le élite politiche europee hanno deciso di affossare definitivamente l’economia del vecchio continente?
Bye bye soglia del 3%! Per 15 anni abbiamo denunciato come aver imposto, da parte dell’Unione Europea, una soglia del 3% del rapporto tra deficit e PIL fosse stata una misura del tutto arbitraria che aveva il solo scopo di mettere in ginocchio le economie più deboli della periferia meridionale dell’Europa – a partire dall’Italia – per permettere a quelle più forti di fagocitarle; ora quel parametro finalmente viene rivisto. Peccato che sia in peggio: la bozza di riforma del patto di stabilità che ieri ha ricevuto il via libera dai ministri dell’economia e delle finanze dell’Unione Europea, infatti, prevede – come riportava venerdì La Stampa – “di portare il deficit ben al di sotto del 3%, con un margine di sicurezza la cui quantificazione esatta sarà oggetto dei negoziati nelle prossime settimane”. Una mossa geniale che, secondo Bonanni de La Repubblichina, potrebbe essere stata provocata dal fatto che nell’ultima manovra finanziaria italiana ci si è azzardati, contro il parere di Bruxelles, a introdurre qualche spicciolo di deficit in più rispetto al previsto; bazzecole, totalmente insufficienti anche solo a far finta di contrastare la recessione in arrivo e quasi tutte impiegate nella direzione sbagliata, ma abbastanza da far gridare allo scandalo i talebani dell’austerity che, da allora, farneticano che “l’idea che l’Europa veglierà a limitare le politiche di spesa delle destre al potere non dovrebbe essere una cattiva notizia” (Andrea Bonanni, La Repubblichina). Ha ragione: non è cattiva. E’ pessima, e non è l’unica: il nuovo patto, infatti, ripropone pari pari la necessità di svendere i gioielli di famiglia per ridurre il debito a tappe forzate. Certo, le tappe sono distribuite un po’ diversamente rispetto al vecchio patto, ma non certo perché siano cambiate filosofia e scopi di fondo; molto semplicemente, piuttosto, perché la riduzione del debito – come prevista dal vecchio patto – non era fattibile, tant’è che nessuno l’ha mai rispettata e, alla fine, si chiudeva un occhio.
La novità, adesso, consiste nel fatto che l’obbligo di ridurre il debito è sempre sufficiente per indebolire le economie nazionali ma, almeno, in modo che sia un po’ più realistico, e a questo giro – se si sgarra – le sanzioni arriveranno eccome. “Un totem irrinunciabile” scrive La Stampa “da dare in pasto all’opinione pubblica tedesca, poco incline a digerire trasgressioni”. Contro questo delirio Giorgetti, sin dall’inizio, ha cercato di portare a casa almeno una cosa: che dal computo venissero esclusi, perlomeno, una parte degli investimenti – almeno quelli del PNRR. Macché: l’unica eccezione possibile è per l’industria della difesa. D’altronde, per combattere la terza guerra mondiale, quella serve come il pane anche a Washington che, da solo, a tornare a produrre armi a sufficienza molto semplicemente non ce la può fare. E quindi su quello – e solo su quello – si potrà chiudere un occhio.

Giorgetti con il Segretario al Commercio degli Stati Uniti d’America Gina Raimondo

Dal punto di vista macroeconomico, molto semplicemente, tutto questo non ha nessunissimo senso: a causa delle scelte geopolitiche che l’Europa si è lasciata imporre dal padrone a stelle e strisce e che hanno, in primo luogo, completamente devastato il mercato dell’energia del vecchio continente, le nostre aziende già di default non sono più competitive. Ma se a questo ci aggiungiamo la valanga di quattrini che Washington ha messo a disposizione delle aziende che vanno a investire a casa sua, la deindustrializzazione del vecchio continente a favore del padrone d’oltreoceano diventa letteralmente inarrestabile.
Ma perché la classe dirigente europea sta optando per questo plateale suicidio? Sono scemi? In buona parte si: la classe politica, almeno, tanto tanto strutturata e illuminata effettivamente non è, ma loro sono il personale di servizio, diciamo. Chi controlla le fila tanto scemo ovviamente non è, solo che i suoi interessi non sono semplicemente diversi da quelli delle persone normali che campano del loro lavoro; sono esattamente antitetici e, nel caso di noi che viviamo nella periferia dell’Unione, il ragionamento va moltiplicato per due. Il primo schema, infatti, riguarda tutta l’economia europea nel suo insieme ed è quello che continuiamo a ripetere continuamente: l’interesse delle élite economiche europee per la crescita dell’economia reale è relativo. Passare da quella grossissima rottura di coglioni che è la produzione di beni e servizi non è più, da tempo, il modo più semplice per fare profitti; questo vale in generale perché, per fare profitti a mezzo di merci e di servizi, devi far lavorare la gente e la gente, quando lavora, poi avanza sempre strane pretese: diritti, aumenti salariali, addirittura democrazia. Ma vale ancora di più in questa fase dove le variabili sono tante, da quelle climatiche a quelle geopolitiche, e per far tornare le nostre aziende ad essere competitive ci sarebbe un sacco di roba rischiosa da fare: investire nelle infrastrutture, nella formazione, nell’innovazione e, addirittura, ogni tanto andare contro agli interessi di qualcuno più grande e grosso di te, come ad esempio riallacciare i rapporti con la Russia per tornare ad avere l’energia a dei prezzi ragionevoli.
Molto meglio estrarre quel poco di plusvalore che ancora i lavoratori europei sono in grado di produrre – nonostante la produttività sia crollata a causa dei mancati investimenti – e andare a investire quei quattrini nelle bolle speculative d’oltreoceano. Ma non solo: anche farsi dare in gestione dei monopoli naturali dallo Stato – dove i profitti sono garantiti da tariffe imposte con la forza dello Stato stesso e il rischio è zero – è sempre meglio che lavorare, e quindi una bella overdose di austerity che imponga agli stati di privatizzare ed esternalizzare tutto quello che è possibile è una bella scorciatoia per garantirsi profitti facili. E poi ha anche un’altra bella utilità: privatizzando ed esternalizzando, infatti, la gente comune – per garantirsi i servizi minimi essenziali – è costretta a mettere i quattrini nelle pensioni integrative e nelle assicurazioni mediche e quei soldi, poi, vengono gestiti dalle oligarchie finanziarie globali per continuare a gonfiare le bolle speculative che, quindi, ricevono sempre nuovi quattrini per continuare a gonfiarsi all’infinito ed eliminare ogni rischio. Ecco così che, al posto dei rischi dell’economia reale, ti ritrovi di fronte alle rendite sicure delle bolle speculative. E che fai, te ne privi?
Questo è il meccanismo globale – diciamo – e tocca un po’ a tutti, dai tedeschi agli italiani. Dentro questa logica, però, ce n’è anche un’altra gerarchicamente meno importante ma che permette ai tedeschi di imporre ai loro cittadini questo furto sistematico della loro ricchezza da parte dello 0,1% senza che si incazzino troppo ed è la logica, appunto, che attraverso misure di austerity permette ai capitali più forti di fare shopping a prezzi di saldo nei paesi più deboli, come è successo in Grecia ormai oltre 10 anni fa. E’ la logica che vede contrapposti gli interessi dell’Europa del nord, con i conti relativamente in ordine, rispetto a quelli dell’Europa meridionale, quelli che una volta chiamavamo PIGS: impedendo – attraverso misure lacrime e sangue – ai paesi dell’Europa meridionale di rafforzare la loro economia reale, l’Europa del nord rafforza il rapporto gerarchico a suo favore. Non è sufficiente per invertire il declino della loro economia, ma per lo meno ne rallenta il crollo e, con gli ultimi dati sull’andamento della produzione industriale in Germania, direi che ormai ne hanno sempre più bisogno, prima che il malcontento consegni il governo all’AFD o, magari – cosa che a noi andrebbe decisamente meglio ma alle élite tedesche probabilmente meno – alla nuova formazione politica di Sarah Wagenknecht.

Il buon vecchio Tommaso Nencioni

In questo rapporto gerarchico di subordinazione, inoltre, c’è un’altra componente, come ricorda sempre il nostro buon vecchio Tommaso Nencioni: massacrando l’economia reale della periferia europea, infatti, la Germania impone in modo indiretto anche politiche restrittive a livello salariale, e siccome chi produce nella periferia dell’Europa – e in particolare in Italia – lo fa principalmente proprio come sub-fornitore delle industrie tedesche, questo permette di garantire margini di profitto un po’ più solidi. Di fronte a questo scempio l’Europa mediterranea e meridionale dovrebbe gridare all’unisono vendetta, se solo esistesse: in Portogallo il presidente ha sciolto il parlamento, la Spagna è senza governo e sull’orlo di una guerra civile e la Grecia, dopo il trauma della crisi dei debiti sovrani, è così sottona che al governo ci sono dei falchi più falchi dei liberali tedeschi, e all’opposizione un rampollo della finanza speculativa che manco parla greco.
Per quanto paradossale possa sembrare, l’avanguardia della resistenza progressista contro i piani distopici di Bruxelles – paradossalmente – è proprio Giancazzo Giorgetti. Cioè, rendiamoci conto, Giancazzo Giorgetti! E i media mainstream della galassia liberaloide gli fanno la guerra, sì, ma da destra, e non è proprio facilissimo. Se Giorgetti ora punta i piedi, infatti, non è certo per difendere l’economia reale italiana; semplicemente, si vuole garantire qualche margine per distribuire un po’ di prebende ai prenditori parassitari italiani tipo Bonomi che, nonostante rappresenti imprenditori che hanno registrato profitti stellari e non hanno reinvestito un euro nell’economia reale, l’altro giorno ha avuto il coraggio di lamentarsi che, nella manovra, solo l’8% delle risorse sono regali alle aziende. Ma non solo, perché alla fine – infatti – sarebbe addirittura emerso che l’opposizione di Giorgetti in realtà sarebbe stata tutta e soltanto a favore delle telecamere: secondo la ministra spagnola Nadia Calvino, presidente di turno del Consiglio europeo – infatti – “durante gli scambi intensi che abbiamo avuto nelle ultime settimane” tutte queste osservazioni e critiche al nuovo patto di stabilità, in realtà, “non si sarebbero mai sentite”.
Insomma: come per la tassa fantasma sugli extraprofitti, sarebbe solo propaganda ad uso e consumo di quei pochi inguaribili ottimisti che ancora si illudono che questa destra di cialtroni svendi-patria abbia ancora davvero qualche componente così detta sociale. In realtà, ovviamente – come hanno ampiamente dimostrato con l’ultima manovra di bilancio – Giancazzo Giorgetti e il suo governo di svendi-patria finto-sovranisti, al progetto distopico di Washington e di Bruxelles di completo smantellamento delle basi produttive del vecchio continente e di finanziarizzazione forzata dell’intera economia ci ha aderito eccome; quello che chiede è, semplicemente, un po’ di margine per qualche prebenda in più – che è l’unica cosa che il suo governo ha da offrire al paese – e il pretesto per montare un po’ di teatrino e continuare con la pantomima del governo dei patrioti.
E la reazione isterica degli analfoliberali del sistema mediatico mainsteam è esattamente tutto quello che gli serve per portare avanti la pantomima mentre alla fine, come ammette anche La Stampa, “si continua a negoziare, e nei palazzi UE c’è ottimismo”. Come sempre, appena vai un millimetro sotto la superficie, anche a questo giro, l’agenda delle diverse fazioni del partito unico degli affari e della guerra sempre quella è.
Per smontargli il giocattolino abbiamo bisogno di un media che vada alla sostanza delle cose e che le racconti dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Cottarelli

L’Italia non è occidentale: storia di un concetto strumentale alla sottomissione del nostro Paese

in foto: sede della TIM

In questi giorni nel silenzio generale, il Governo Meloni ha dato il via libera alla vendita della rete fissa di Telecom Italia al fondo speculativo statunitense Kohlberg Kravis Roberts. L’infrastruttura più strategica tra tutte le infrastrutture strategiche, soprattutto sul piano militare, finisce in mano a uno dei centri di potere dell’oligarchia finanziaria legata a doppio filo al comparto militare industriale americano. Nel suo top management, per darvi un’ idea, figura anche l’ex direttore della CIA il generale David Petraeus. Un vero e proprio attentato alla nostra sovranità e alla nostra sicurezza nazionale, fatto con la piena collaborazione di una maggioranza politica che si era venduta ai suoi elettori come baluardo del patriottismo e di difesa sovranità nazionale.
“Per chi avesse ancora avuto dei dubbi”, ha sottolineato giustamente il filosofo Andrea Zhok, “la destra italiana è parte del progetto di svendita del paese agli USA esattamente quanto la sinistra”. E a questo punto, dopo decenni di palese cessione di sovranità nazionale agli Stati Uniti, sarebbe forse arrivata l’ora di chiamare le cose con il loro nome: “Essendo ormai l’Italia una colonia” continua Zhok “il termine giusto per la nostra classe dirigente è quello di “collaborazionisti con le forze di occupazione coloniale”.
Come prevedibile, su alcuni giornali la notizia è passata in sordina per evidente imbarazzo, su altri invece hanno osato addirittura esultare per il fatto che almeno Telecom non è stata venduta ai Cinesi o ai Russi, ma bensì al nostro “principale alleato occidentale”. Questa notizia fa il paio in questi giorni con il totale quanto prevedibile appiattimento italiano ed europeo sulla linea politica del governo americano riguardo al massacro israeliano in Palestina. Una linea politica, come tutti sanno, pregna di meschina ipocrisia, che va contro i nostri interessi nazionale nel mondo arabo, e che ci lascerà per sempre le mani sporche di sangue. Anche in questo caso, questa assoluta sottomissione agli interessi nordamericani che un tempo si sarebbe chiamata tradimento, viene mistificata con la retorica dell’unità dell’Occidente e dei valori occidentali.

Allora è proprio su questo aggettivo “occidentale” che merita oggi concentrarsi. Da quando, dobbiamo chiederci, in Italia e in Europa si è cominciato a usare le parole Occidente e occidentale nei termini bellicisti e americanocentrici con cui ne parliamo oggi? È una delle domande che si è posto Franco Cardini nel suo ultimo libro “la deriva dell’Occidente”, e in cui il professore di Storia all’università di Firenze ci spiega come nei prossimi anni, la possibilità dei popoli europei di liberarsi dal giogo nordamericano passerà anche dalla loro capacità di dare un nuovo significato a questo importantissimo concetto.

Nonostante media, politici e intellettuali di ogni specie si riempiano la bocca con “occidente” e “occidentale” dando per scontato che esista un qualche significato univoco del termine, la verità è che fino ad oggi ogni tentativo di trovare una definizione condivisa è miseramente fallito. A prima vista, “occidente” sembrerebbe avere un’accezione prettamente geografica, designando per esempio gli Stati che si trovano all’interno di un certo gruppo di meridiani. Tuttavia, tale definizione non riesce a spiegare per quale ragione nazioni africane o del Sudamerica, che si trovano geograficamente parlando “in occidente” non sono mai considerati parte del mondo occidentale. Da più di un secolo filosofi e politologi invece, partendo dal presupposto che si tratti non di un concetto geografico ma culturale, hanno cercato di stabilire cosa contraddistingua la cultura occidentale e quali popoli ne farebbero parte. Tra i tentativi più importanti ci sono stati quelli Oswald Spengler, Samuel P. Huntington, e Niall Ferguson, che però hanno tutti proposto tesi e interpretazioni differenti. La triste verità, come si evince anche dal testo di Cardini che ripercorre i diversi significati che questo concetto ha assunto nel corso della storia, è che ogni tentativo di definire il significato ultimo di occidente è destinato all’insuccesso, in quanto è un concetto che oscilla per sua natura tra un’accezione geografica, politica e culturale allo stesso tempo, rimanendo così sempre ambiguo e privo di contorni precisi. Originariamente, il termine comincia a diffondersi nel 16° sec. per designare i popoli europei cristiani contrapposti all’Oriente mussulmano, e fino al 20 esimo secolo rimane sostanzialmente un sinonimo di “Europa cristiana”. Ma con l’arrivo del XX secolo, le cose cominciano a cambiare. Con il progressivo emergere della potenza statunitense infatti, il concetto di “occidente” ha smesso di coincidere con quello di “Europa cristiana”, e si è cominciato a parlare di una più ampia “civiltà occidentale” di cui gli Stati uniti sarebbero la più fulgida e compiuta incarnazione.
Come scrive Cardini, quando pensiamo al concetto di “civiltà occidentale” crediamo sempre di pensare a qualcosa di lontanissima e antica origine. Ma la verità è che si tratta di qualcosa di molto, molto più recente: “Siamo davanti a un’idea nata negli Stati Uniti in un corso didattico della Columbia University fondato nel 1919 e denominato appunto Western Civilization.” scrive Cardini “La tesi sottostante a questa definizione corrispondeva al disegno del processo evolutivo di una civiltà che dalla Grecia classica e dall’eredità romana attraverso l’Europa rinascimentale giungerebbe al ruolo odierno degli Stati Uniti”.

“Nel 1949 il congresso dell’American Historical Association”, ricorda ancora Cardini “suggerì un percorso di sintesi secondo il quale le esigenze care all’Occidente di verità e di libertà, ambìto traguardo del genere umano, si sarebbero allora incarnate nella democrazia statunitense, baluardo contro qualunque dogmatismo (quello cattolico compreso) e qualunque dittatura.”
Con la fine della seconda guerra mondiale e l’occupazione americana dell’Europa, possiamo dire quindi che è esattamente questo lo specifico significato di “occidente” che si è di fatto imposto anche nel discorso pubblico e nell’immaginario europeo. A riprova di ciò, durante la Guerra Fredda è stato chiamato “occidentale” il raggruppamento degli Stati che andavano dall’europa occidentale al pacifico e che gravitavano intorno alla superpotenza nord-americana. Nonostante la propaganda battesse molto su questo punto, la democraticità degli stati in questione non era un requisito necessario per far parte dell’alleanza, come dimostrava ad esempio la presenza della Spagna di Franco e della Turchia.
Con la caduta dell’URSS e l’espansione della Nato nell’Europa orientale infine, anche Stati come l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, da sempre considerati “orientali”, sono stati inclusi nella grande famiglia della civiltà Occidentale.

E non scordiamoci naturalmente Israele, l’unico luminoso faro di luce e di speranza occidentale nelle folte tenebre del vicino oriente. Quello che appare certo insomma, è che da dopo la Seconda Guerra mondiale i perimetri della civiltà occidentale sono variati con il variare del perimetro della sfera di influenza nordamericana. Come scrive l’analista politico Marco Ghisetti in un articolo pubblicato sull’Osservatorio globalizzazione, dobbiamo constatare come: “il concetto di occidente (e per estensione, di mondo/civiltà occidentale) storicamente sia evoluto e sia stato declinato, dal 1945 in poi, in maniera funzionale al dominio statunitense nei confronti degli Stati subalterni, oltre che ad offrire la giustificazione ideologica per l’aggressione ai danni degli Stati non occidentali. Ciò che accomuna il concetto di “occidente”, in tutte queste definizioni, è che esso è stato, gramscianamente parlando, declinato secondo le necessità del caso e sempre in funzione giustificatoria ai rapporti di forza esistenti tra Stato dominante, Stati dominati e Stati non subalterni.”

Ma perchè questo concetto funziona così bene a livello propagandistico?

La risposta è che la parola occidente porta con sé una forte carica emotiva grazie al riferimento ad una presunta secolare identità comune. Se i giornali e i media europei dicessero ai propri popoli che le infrastrutture strategiche che stanno svendendo, le armi che stanno mandando e le guerre che stanno appoggiando sono funzionali all’interesse nazionale americano e al mantenimento del suo stato di nazione egemone nel mondo, probabilmente non ne sarebbero così felici. Ma se invece ad essere in gioco è il bene supremo e collettivo della sicurezza dell’Occidente e della salvaguardia dei valori condivisi, allora siamo disposti a fare quasi qualunque sacrificio anche a scapito dei nostri veri interessi nazionali. Ricordiamocelo sempre: non c’è nessuna contraddizione con i propri presunti valori umanitari e democratici quando vediamo l’occidente invadere nazioni, bombardare civili, sanzionare paesi non allineati e via dicendo.

Semplicemente perché l’occidente non esiste. Esiste molto più concretamente un impero americano in Europa al quale tutti devono rispondere anche a scapito degli interessi dei propri cittadini. E basta che infatti cambiamo la parola “occidente” con quella di “interesse nazionale americano”, e vediamo che le ipocrisie si dissolvono, e tutto il quadro politico e geopolitico si fa immediatamente più chiaro. “E quando una qualunque compagine politica”, sottolinea Cardini, “si dichiara con fierezza “sovranista”, ma persegue poi una politica “collaborazionista” con una forza esterna formalmente alleata, ma sostanzialmente egemone, siamo all’accettazione – poco importa se esplicita o implicita – della “sovranità limitata””.


Per riprenderci la nostra sovranità e quindi indipendenza e democrazia, diventa necessario formulare una nuova idea di “occidente” degna della nostra storia, e compatibile con i nostri interessi concreti per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che combatta la propaganda collaborazionista.

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e chi non aderisce è Maurizio Molinari

TAGLIARSI LE PA**E PER FAR DISPETTO ALLA MOGLIE – la politica energetica europea vista dalla Russia

Tagliarsi le palle per far dispetto alla moglie”: è così, in soldoni, che quello che probabilmente è in assoluto il principale esperto di energia di tutta la Russia descrive la politica energetica europea dopo l’adesione, senza se e senza ma, dell’intero continente alle sanzioni made in USA.

Konstantin Simonov

Si chiama Konstantin Simonov, è a capo del dipartimento di politologia dell’università finanziaria del governo della Federazione Russa e, da oltre 10 anni, dirige la NESF – che sta per National Energy Security Foundation – la fondazione per la sicurezza energetica nazionale, il più importante think tank specializzato sull’industria energetica del gigante eurasiatico. Una voce molto nota anche ai media mainstream dell’Occidente collettivo, almeno fino allo scoppio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina quando, oltre all’energia, abbiamo deciso di porre l’embargo anche sul buon senso; da allora, la voce di Simonov e della sua fondazione sono state gradualmente ma inesorabilmente espulse dal circo mediatico occidentale, dove il pluralismo – ormai – è ristretto esclusivamente alle diverse sfumature della propaganda suprematista, dalla più rozza alla più sofisticata. Meno male, però, che in mezzo a mille difficoltà c’è chi non si arrende e continua a remare controcorrente, come il professor Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia e fondatore del Forum Economico Eurasiatico di Verona che, dopo 14 anni di attività nel capoluogo veneto – durante i quali si sono alternati sul suo palco tutti i principali rappresentanti della politica e del mondo degli affari europeo -, da due anni si è trovato costretto a traslocare nell’Asia centrale: l’anno scorso a Baku e quest’anno a Samarcanda.
Ed è proprio a Samarcanda che abbiamo avuto l’opportunità e l’onore di intervistare in esclusiva, insieme alla nostra allegra brigata di agit prop, proprio Simonov; un grande motivo d’orgoglio e anche l’ennesima prova provata che se volete capire qualcosa del mondo nuovo che avanza, dovete spegnere i vecchi media e accendere Ottolina Tv.
Se la fantomatica controffensiva ucraina è ormai definitivamente scomparsa dai radar, figurarsi che fine ha fatto sui media mainstream l’annosa vicenda dell’attentato al Nord Stream, il caso più clamoroso di sempre di fuoco amico rivolto direttamente contro un’infrastruttura strategica, che più strategica non si può, di un fedele alleato:

Konstantin Simonov: “Dal mio punto di vista, la vicenda del Nord stream continua a mettere l’Unione Europea in forte imbarazzo. Per oltre un anno si è parlato di fantomatiche indagini ma senza nessun risultato, e questo è molto sospetto. Nel caso dei danni causati al gasdotto baltico che unisce Finlandia ed Estonia, le autorità si sono espresse nell’arco di pochi giorni; ora, in oltre un anno, nemmeno una parola. È decisamente molto sospetto, e io credo che il motivo sia che l’Unione Europea è molto cauta nel portare avanti le indagini perché teme che queste non possano che rivelare qualcosa che, dal mio punto di vista, è molto chiaro dal primo minuto, e cioè che esiste un unico beneficiario di tutta questa storia. E questo beneficiario, ovviamente, sono gli Stati Uniti d’America: basta vedere cosa sta succedendo al loro mercato del Gas Naturale Liquefatto, con decisioni molto importanti su nuovi massicci investimenti per aumentarne in modo importante produzione ed esportazione. Ovviamente tutto questo non ha niente a che vedere con la concorrenza e la competizione e, senza concorrenze e competizione, a pagare il prezzo più alto alla fine saranno i consumatori perché il gas, molto semplicemente, sarà più caro. Ora, se il tuo obiettivo è aumentare la spesa, benissimo. Ma, dal mio punto di vista, se l’Unione Europea tornasse a occuparsi dei suoi interessi, o l’Italia tornasse a occuparsi degli interessi economici degli italiani, beh, allora sicuramente la situazione potrebbe cambiare rapidamente. Vedete: l’Unione Europea, da un po’ di tempo, sta perseguendo questa idea della diversificazione delle forniture; ma la diversificazione è un servizio di lusso, e a pagare questo servizio di lusso sono tutti gli europei. E questo ancora non ha niente a che vedere con la competizione sul mercato del gas, anzi! La competizione è il meccanismo che permette di ridurre i costi che i consumatori sono tenuti a sostenere, mentre la diversificazione, al contrario, comporta che questi costi aumentino perché sei costretto a finanziare approvvigionamenti alternativi che non sono competitivi. Ad esempio, sei costretto a ricorrere – appunto – al gas naturale liquefatto, che è strutturalmente molto più costoso e così via. E, da questo punto di vista, è importante sottolineare come la Russia non sia mai stata contraria alla competizione con altre modalità alternative di approvvigionamento: ad esempio, quando è stato deciso di investire nel gasdotto Nabucco ci siamo limitati a sottolineare come non sarebbe mai stato profittevole e come mancassero le risorse sulle quali fondarlo, ma non abbiamo mai intimato o supplicato Bruxelles di fermarsi. Non abbiamo detto che se non avessero fermato il Nabucco noi avremmo interrotto le nostre forniture; è stata Bruxelles a capire che non era fattibile. Quindi noi abbiamo sempre desiderato semplicemente una competizione onesta, ma quello a cui abbiamo assistito ultimamente da parte dei paesi dell’unione è una continua violazione degli accordi. E lo vediamo un po’ ovunque: non è soltanto il caso eclatante della Polonia, ma anche la Germania – dove le autorità sono intervenute a gamba tesa in alcune raffinerie – e adesso lo stesso sta avvenendo in Bulgaria. La domanda quindi è: è così che sarà l’Europa nel futuro? Sarà un territorio dove vige un ordine medievale privo di regole e di leggi o torneremo, prima o poi, a una situazione più trasparente dove esistono dei contratti e degli accordi, e questi contratti vengono rispettati? Se l’Europa dovesse tornare a questo tipo di comportamento, allora certo sarebbe possibile per noi tornare ad avere un rapporto proficuo a partire proprio dal Nord Stream, perché il Nord Stream – ricordiamo – è ancora vivo perché, per entrambi i Nord Stream, parliamo di due condotte e una delle quattro condotte è rimasta integra, quindi tecnicamente sarebbe piuttosto semplice tornare a fornire gas attraverso la condotta del Nord Stream 2 rimasta intatta. Purtroppo, però, quello che tecnicamente è ancora possibile non lo è politicamente, e questo non solo per i rapporti con la Russia ma proprio perché prima l’Europa dovrebbe tornare ad essere la patria della legge e delle regole. La distruzione di questa credibilità, purtroppo, oggi è più devastante anche della situazione energetica in se perché rischia di compromettere la situazione per un periodo di tempo enormemente più lungo”.

La politica energetica suicida dell’Unione Europea parte da un assunto: il gas che, fino a ieri, ricevevamo via gasdotto dalla Russia può essere sostituito dal gas naturale liquefatto. Ovviamente, economicamente è un mezzo disastro non solo perché, strutturalmente, i costi sono molto maggiori, ma anche perché quei costi sono in balia totale delle ondate speculative. Non solo: con il passaggio dai gasdotti alle navi gasiere, facciamo anche ciao ciao con la manina a ogni retorica sulla transizione ecologica che, sulla carta, significherebbe decarbonizzazione totale entro il 2050, ma i nuovi contratti in essere e i tempi di ammortamento dei nuovi investimenti – necessari per cambiare font di approvvigionamento – ci costringono a prevedere di continuare a consumare gas ben oltre. In questo giochino, ovviamente, a guadagnarci sono gli USA, che il gas ce l’hanno e che stanno investendo una montagna di quattrini per vendercene sempre di più mentre la competitività del nostro sistema produttivo va a farsi benedire. Gli effetti sono già visibili, soprattutto in Germania che, sul gas a basso costo, aveva fondato l’intera sua politica industriale e che oggi, guarda caso, torna ad essere il grande malato d’Europa.
-1,4%”, titolava ancora mercoledì scorso Il Sole 24 Ore: è “il calo mensile della produzione industriale in Germania” sottolineava l’articolo, “il quarto consecutivo e molto peggiore delle attese, che avevano previsto un calo contenuto in una forbice tra il -0,1 e il -0,4%”. E il tracollo della produzione tedesca, ovviamente, equivale a un tracollo generale di una fetta consistente di tutto il continente che, in buona parte, alla Germania gli fa da terzista e da sub-fornitore: a partire dall’Italia dove, infatti, l’indice pmi manifatturiero a ottobre è ripiombato sotto quota 45 punti che – in soldoni – significa una bella nuova dose di deindustrializzazione. E il bello è che, tutto sommato, c’è andata anche parecchio di culo perché l’anno scorso, per lo meno, a farci concorrenza sui mercati internazionali per acquistare gas naturale liquefatto è mancata la Cina, alle prese con le politiche zero covid. La ripresa della produzione cinese – finito lo zero covid – è stata inferiore alle attese, ma questo inverno – comunque – si farà sentire eccome: quanto a lungo riusciremo a resistere?

Konstantin Simonov: Ora, l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha da poco pubblicato questo report dove si prevede che, già a partire dal 2026, nel mondo ci sarà addirittura un eccesso di offerta di gas naturale liquefatto, e va bene. Ma io vorrei sottolineare un paio di cose: prima di tutto devo sottolineare che, da 25 anni, leggo ogni rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia e devo segnalare che, molto spesso, si tratta di previsioni completamente sballate; quindi valutate voi se è davvero il caso di continuare ad affidarsi a queste previsioni. Ma, soprattutto, c’è un secondo punto che forse è ancora più importante perché, effettivamente, noi abbiamo assistito a questa nuova grande ondata di investimenti negli Stati Uniti, poi abbiamo visto i paesi europei firmare contratti a lungo termine con la Scozia e quindi magari – non dico certo nel 2025 ma, diciamo, a partire dal 2026 – 2027 – vedremo davvero questa nuova grande ondata di gas naturale liquefatto in arrivo, in particolare dagli USA e dal Qatar. Ma rimane un dubbio, perché qui parliamo, appunto, del 2026 e noi adesso siamo nel 2023: quindi – come minimo – ci saranno altri 3 inverni da affrontare prima che questo scenario, nella migliore delle ipotesi, si concretizzi davvero. E allora mi chiedo: “quali saranno gli effetti di altri due o tre inverni senza una fornitura sufficiente di gas naturale liquefatto?”, perché lo scorso inverno, ad esempio, la Cina ha aiutato parecchio l’Europa. Il consumo di gas in Cina l’anno scorso è stato estremamente ridotto a causa delle politiche zero covid e, quindi, il grosso del gas liquefatto è stato venduto ai paesi europei, ma già quest’anno il popolo cinese non ci farà più questo enorme regalo; ciò nonostante, certamente alla fine l’Europa troverà il gas da fornire a tutte le abitazioni e per garantire i servizi delle municipalità ma, come ho già detto, un calo dei consumi del 20% è qualcosa di enorme, una cifra molto pericolosa per le economie europee, e altri due o tre anni così potrebbero significare la totale distruzione delle economie europee. Per carità, se volete continuare con la distruzione sistematica della vostra economia, ovviamente potete continuare con questo esperimento. Magari ci ritroviamo tra tre anni e commentiamo com’è diventata l’Europa.”

Sempre che, fra tre anni, l’Europa ci sia ancora: oltre a tutto quello che abbiamo elencato, infatti, oggi a rompere i coglioni ci si è messa pure l’ennesima crisi in Medio Oriente, che dal genocidio di Gaza rischia di allargarsi a tutta la regione, e se si allargherà a tutta la regione anche a questo giro potremo ringraziare sempre Washington che, da caro vecchio arsenale della democrazia qual è, ha deciso di coprire la guerra di Israele contro i bambini arabi con le sue portaerei.

La Giorgiona nazionale

Un altro attentato bello e buono alla sicurezza e alla sostenibilità economica del vecchio continente, tant’è che qualcuno in Europa s’è pure incazzato; i belgi, ad esempio, dove la vice premier ha dichiarato ufficialmente l’intenzione di chiedere sanzioni economiche contro Israele, ma non l’Italia. Non sia mai, nonostante sia quella che, probabilmente, ha di più da rimetterci e che qualcosina c’ha rimesso già: sostenendo acriticamente la carneficina dei clerico-fascisti di Tel Aviv, infatti, è naufragata definitivamente ogni minima possibilità di trasformare quella gran vaccata del nuovo piano Mattei – escogitato dalla Giorgiona nazionale – in qualcosa di diverso da una favoletta buona per la propaganda dei media.

Konstantin Simonov: Ovviamente se questo conflitto dovesse allargarsi fino a coinvolgere una fetta consistente del Medio Oriente, diventerebbe molto difficile anche solo prevedere il livello reale dei prezzi. In questo scenario credo che anche 150 dollari al barile sarebbe da considerare un buon prezzo, ma io spero che non si arrivi a tanto e, al momento, anche i mercati sembrano non credere in uno scenario del genere e questo è il motivo per il quale i prezzi, al momento, tutto sommato non sono ancora così alti rispetto al gigantesco rischio che stiamo correndo. Vedete: pensare che la Russia sia in attesa di una gigantesca crisi in grado di spingere verso l’alto i prezzi di gas e petrolio è una gigantesca mistificazione, e questo perché siamo convinti che una grossa crisi porrebbe dei problemi enormi al consumo di gas su scala globale. Il nostro obiettivo è vendere petrolio e gas come commodities sul lungo termine; non è nel nostro interesse distruggere interi mercati con prezzi insostenibili; questo è il motivo per cui ci stiamo adoperando per evitare l’allargamento del conflitto in Medio Oriente, perché – vedi – prezzi che oscillano tra gli 80 e i 90 dollari al barile per noi sono più che sufficienti. Abbiamo venduto gas per anni all’Europa a 250/300 dollari per 1000 metri cubi: per noi era sufficiente. Non siamo così ingordi come ci dipingete.”

Ora il prezzo del gas è stabilmente 2 – 3 volte superiore – quando va bene – e la nostra bolletta energetica complessiva, rispetto al 2019, è più che raddoppiata portandoci via qualcosa come 4 punti di PIL: un’enormità. Ma c’è anche una buona notizia perché, nonostante tutte le scelte folli fatte dalla politica europea per compiacere il padrone di Washington, potrebbe non essere ancora troppo tardi per invertire la rotta perché il matrimonio di convenienza tra paesi dell’Unione Europea e Russia – fondato sul commercio del gas – non conveniva, appunto, solo a noi, ma pure a loro che, come sottolinea Simonov, “puntano a vendere gas come commodity sul lungo termine” e che erano felicissimi di vendercela in gran quantità a noi a 250/300 euro per mille metri cubi e che una vera alternativa, tranquilla, liscia e serena al ricco mercato europeo, tutto sommato non l’hanno ancora trovata:

Konstantin Simonov: E’ inutile negare che trovare un sostituto immediato al mercato europeo non è possibile. Nel 2021, la Russia ha fornito all’Europa la bellezza di 146 miliardi di metri cubi di gas; quest’anno la quantità totale sarà inferiore a 30 miliardi di metri cubi. Quindi parliamo di un crollo di poco meno di 120 miliardi di metri cubi, che è una cifra gigantesca; trovare rapidamente un mercato sostitutivo per una quantità del genere è letteralmente impossibile. Ovviamente, per quanto riguarda il petrolio, trovare un sostituto per noi non è stato particolarmente difficile, e quando parliamo di petrolio – come d’altronde anche dei vari prodotti di raffinazione – siamo sugli stessi livelli di esportazione che registravamo all’inizio del 2022 perché ovviamente, grazie al trasporto via mare, abbiamo avuto la possibilità di espanderci in altri mercati a partire dall’India, la Cina e altri paesi asiatici. Ma per il gas, ovviamente, la questione è enormemente più complicata. Qualcosa è stato fatto: ad esempio, oggi esportiamo in Uzebkistan 3 miliardi di metri cubi, ma crediamo che potremo raggiungere i 10 miliardi molto presto; abbiamo firmato un nuovo contratto con l’Azerbaijan e dovremmo firmarne di nuovi a breve anche con Kazakhstan e Kyrghizistan, ma non saranno mai sufficienti a rimpiazzare una tale quantità di domanda. È per questo che, ovviamente, la nostra principale speranza rimane la Cina e il Siberia 2 che, da solo, garantirebbe forniture per 50 miliardi di metri cubi. Ovviamente anche i cinesi sono tentati di approfittare della situazione per strappare condizioni di favore: sono convinti che questo contratto sia più importante per Gazprom che non per i consumatori cinesi. Ma io credo che, in realtà, la Cina abbia bisogno di gas a buon mercato, e la Russia è in grado di fornirglielo. Anche qua è questione di competizione, e il nostro gas sarà sicuramente più conveniente del gas naturale liquefatto ma anche del gas che arriva dall’Asia centrale; per questo sono fiducioso che il prossimo anno riusciremo a firmare finalmente il contratto. Ma ciò nonostante, non è un segreto per nessuno che, anche siglato questo accordo, per la Russia trovare in Asia una domanda tale da sostituire il mercato europeo rimarrà comunque molto complicato. Da questo punto di vista, un altro fattore su cui stiamo puntando è il consumo interno: prevediamo di aumentare il consumo interno di gas di circa 30 miliardi di metri cubi l’anno entro la fine del 2030, e questo è dovuto al fatto che in buona parte della regioni orientali ancora oggi manca un sistema unificato di distribuzione del gas. Prendi ad esempio una città come Krasnoyarsk: è un grande città con oltre 1 milione di abitanti e, al momento, la principale fonte di energia è ancora il carbone. Ovviamente, anche dal punto di vista ambientale è una situazione molto complicata, ma anche con questa aggiunta non riusciremo ancora a sostituire pienamente la domanda europea. È impossibile. Ma, d’altronde, se per l’Europa questa situazione è ok, se siete contenti di veder diminuire il consumo di gas – non dico di gas russo ma di gas in generale – di oltre il 20%, noi cosa possiamo farci? Se siete convinti di proseguire verso la deindustrializzazione allora sì, bisogna ammettere che la Russia avrà perso per sempre una fetta di mercato. Va bene, ma dal mio punto di vista questo è un problema reciproco. Fino a poco tempo fa, noi avevamo il gas e vendevamo il gas all’Europa, eravamo una fonte affidabile di gas a buon prezzo per l’Europa. Ora avete deciso di distruggere questo business e ora vi ritrovate in grosse difficoltà economiche. Se questo vi fa piacere, cosa vi posiamo dire? E io sottolineerei anche un’altra cosa: la Russia ha cominciato a fornire gas all’Europa occidentale a partire dal 1968. Sono oltre 50 anni ininterrotti di forniture. Ora vi invito a trovare un singolo caso di interruzione di fornitura del gas da parte della Russia, e per favore non mi citate la storia dell’Ucraina nel 2009 perché, come sapete tutti, in quel caso fu l’Ucraina a stoppare il trasporto. Ecco perché è importante sottolineare che la leggenda secondo la quale la Russia avrebbe usato politicamente il gas come strumento di pressione è una gigantesca mistificazione: non abbiamo mai fatto pressioni politiche sull’Europa utilizzando la leva del gas. Come sapete, da decenni ormai abbiamo relazioni molto complicate con gli stati del Baltico e ciò nonostante non abbiamo mai interrotto la fornitura di gas, mai. Quindi gli europei hanno distrutto un ottimo affare e l’unica cosa che avranno in cambio è che anche la Russia avrà qualche conseguenza negativa. Non credo sia un approccio molto lungimirante.”

Contro ogni forma di disfattismo, sarebbe il caso di ripartire da qui. La prova di forza della guerra per procura in Ucraina è stata, e purtroppo ancora è, una vera e propria catastrofe che non è servita ad altro che sottomettere ancora di più l’Europa al dominio di Washington e che, ormai, sembra procedere a passo spedito verso una debacle totale. Di fronte alla totale irrazionalità suprematista delle élite europee che ci hanno infilato in questo tunnel non ci sarebbe nessun motivo, per qualsiasi interlocutore sano di mente, di voler avere di nuovo a che fare col vecchio continente guidato da questo manipolo di inaffidabili cialtroni svendi-patria. Fortunatamente, però, al di là della antipatie gli interessi economici rimangono e l’integrazione di due economie complementari – come quella russa e quelle europee – non è la velleità di qualche sognatore pacifista, ma una necessità storica che non può essere cancellata con un tratto di penna dalla nostra classe dirigente, per quanto ci si applichi. Ed è proprio per questo che iniziative come quelle del Forum Economico Eurasiatico, per quanto osteggiato, non sono passerelle velleitarie, ma hanno un’importanza strategica.

Gli agit-prop a Samarcanda

Chi ha gambe e testa, mai come oggi le dovrebbe utilizzare per continuare, in mezzo a mille ostacoli, a tenere aperti i pochi ponti che ancora non abbiamo fatto saltare in aria: certo, abbiamo contro quello che, ancora oggi, è il centro dell’impero e la sua gigantesca macchina propagandistica, ma proprio oggi – di fronte alla loro evidente crisi egemonica – pensare che abbiano partita facile nell’invertire il corso naturale della storia sarebbe un errore imperdonabile. A quasi due anni dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’esigenza storica dell’integrazione del super -continente eurasiatico non solo non è stata derubricata ma, a ben vedere, appare più chiara ed evidente che mai. Altro che disfattismo! Altro che partita chiusa! Qui la partita non è mai stata così aperta e ora tocca a noi riprenderci il nostro malandato continente, estirpare il tumore del partito unico degli affari e della guerra al servizio di Washington e restituire a tutti la possibilità di un futuro di lavoro e di pace. Per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un media capace di rovesciare come un calzino sia il trionfalismo dei suprematisti che il piagnisteo dei disfattisti.
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E chi non aderisce è Ursula von der Leyen

Se nell’era della dittatura delle oligarchie finanziarie il genocidio diventa il “new normal”

Mentre guardate questo video, io e il buon vecchio Mario Ferdinandi – il leggendario editor di Ottolina Tv – dovremmo essere in procinto di atterrare a Samarcanda dove seguiremo il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona che però, da quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, a Verona non si può fare più perché, come dice Matteo Papeete Salvini, boicottare Lucca Comics per il patrocinio dell’ambasciata di Israele è razzismo, mentre boicottare tutto quello che ricorda anche lontanamente la Russia è democrazia; e da allora viene organizzato un po’ in giro per il mondo. E nell’attesa di capire come riusciremo a tenervi compagnia anche da qui nei prossimi giorni, aiutandovi a gettare lo sguardo oltre i confini angusti della propaganda suprematista del nord globale in declino, volevo intanto condividere questo pensierino confortante; da un po’ di giorni a questa parte, infatti, di fronte alle immagini strazianti che arrivano da Gaza e all’incredibile escalation di violenza verbale a cui abbiamo assistito che, nell’arco di poche ore, ha sdoganato definitivamente idee come la punizione collettiva, la comparazione di intere popolazioni ad animali, la pulizia etnica e il genocidio, mi continuo a fare la stessa domanda: e se il genocidio fosse il new normal? Cioè, se nell’era del declino inesorabile del dominio globale dell’uomo bianco, in cui ci hanno catapultato 50 anni di controrivoluzione neoliberista e di affermazione del dominio delle oligarchie finanziarie, lo sterminio indiscriminato di intere popolazioni diventasse il metodo più o meno standard per la risoluzione dei conflitti?
Ma perché un pensiero così tetro? Proviamo a mettere in fila un po’ di cose.
Il mondo è sempre più spaccato in due, con le ex potenze coloniali assoggettate a Washington da un lato e gli ex paesi colonizzati – oggi ribattezzati sud globale – dall’altro; questa contrapposizione viene spesso analizzata in termini meramente geopolitici, come se si trattasse di blocchi tutto sommato interscambiabili, con l’unica differenza – appunto – che uno è il vecchio egemone in relativo declino, e l’altro il pezzo di mondo subalterno in relativa ascesa. Non è una lettura completamente priva di fondamento e può aiutare a comprendere alcune dinamiche ma a nostro avviso, in realtà, rischia anche di confonderne molte altre. Per capire perché questa contrapposizione non sarebbe, in realtà, solo tra vecchi e nuovi aspiranti all’egemonia globale ma anche tra modelli economici e sociali diversi, conviene forse ricostruire brevemente la storia di come questa contrapposizione è venuta a definirsi, che poi, in soldoni, è la storia del capitalismo nella sua fase matura.

Friedrich Engels

C’era un volta, infatti, un sistema chiamato capitalismo industriale: a imporlo come sistema economico egemone tra i paesi più sviluppati era stata una classe sociale che si era andata formando nel tempo e che, a differenza dell’aristocrazia che aveva dominato incontrastata per secoli, fondava il suo potere nella capacità di creare ricchezza. La chiamavano borghesia: una classe “sommamente rivoluzionaria” come affermavano enfaticamente già nel 1848 nel Manifesto del partito comunista Karl Marx e Friedrich Engels, i padri fondatori del socialismo scientifico. “Dov’è giunta al potere”, infatti, “ha distrutto i rapporti feudali”, ci ha mostrato “di che sia capace l’attività umana” e “ha compiuto ben altre meraviglie che non le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche”. Per farlo, appunto, s’è dovuta sbarazzare con furia rivoluzionaria di tutti i vecchi parassiti che stavano in cima alla piramide della vecchia gerarchia sociale e che rappresentavano un ostacolo per lo sviluppo della società tutta. Questa nuova classe sociale dominante, non meno feroce delle precedenti, traeva ciò nonostante la sua forza dalla liberazione delle forze produttive; laddove la vecchia aristocrazia parassitaria non vedeva altro che l’opportunità per una nuova forma di rendita, l’élite più avanzata della borghesia rivoluzionaria vedeva la necessità di creare le precondizioni per lo sviluppo: infrastrutture, istruzione di massa e servizio sanitario universale. Se la vecchia aristocrazia parassitaria ostacolava lo sviluppo pur di rafforzare i rapporti gerarchici all’interno della società e intascare i frutti del sottosviluppo, la nuova borghesia industriosa e produttiva la società la rivoluzionava continuamente per permettere allo sviluppo di dispiegarsi con tutta la forza possibile immaginabile. Ovviamente non era un’opera di bene: il fine altro non era che estrarre quanto più valore possibile da una nuova società enormemente più ricca, produttiva e opulenta di qualsiasi altra forma di organizzazione sociale si fosse mai vista in passato e concentrarlo nelle mani di pochi. Nel farlo, però, la borghesia rivoluzionaria non solo gettava le fondamenta di una società in grado di creare una quantità di ricchezza incommensurabilmente superiore a quanto mai visto fino ad allora, ma in maniera naturale e ineluttabile generava anche una nuova classe sociale rivoluzionaria che avrebbe avuto, in qualche modo, il compito storico di portare a termine la grande rivoluzione avviata dalla borghesia, ereditandone la capacità di liberare le forze produttive ma portando questo stesso processo alle estreme conseguenze impedendo, una volta per tutte, la concentrazione della ricchezza – e quindi anche del potere politico – nelle mani di una nuova ristretta élite; questa classe altro non era che il proletariato della grande fabbrica, e la storia dei secoli successivi, almeno in Occidente, è stata appunto la storia del conflitto insanabile tra queste due classi. Un conflitto che, dopo i 30 anni d’oro del così detto compromesso tra capitale e lavoro che ha caratterizzato i paesi industrialmente avanzati del nord globale dopo la fine della seconda guerra mondiale, la borghesia aveva cominciato a percepire potesse definitivamente perdere.
Esattamente come previsto dai fondatori del socialismo scientifico, infatti, lo sviluppo industriale fondato sulla grande fabbrica aveva consegnato alla nuova classe dei lavoratori salariati tutti gli strumenti per tentare l’assalto al cielo; dentro la grande fabbrica i lavoratori condividevano le stesse condizioni materiali, le stesse contraddizioni e lo stesso sfruttamento. Erano una comunità umana dal destino condiviso e questo rendeva possibile, se non addirittura naturale, la creazione di organizzazioni di massa – dai sindacati ai partiti – in grado di accumulare una forza tale da contendere il monopolio del potere alla classe dominante. Contro queste organizzazioni, e contro l’ipotesi di vedere perlomeno ridimensionata – se non addirittura del tutto azzerata – la sua posizione di dominio, la borghesia ha tentato di ricorrere ai metodi più feroci: disinformazione, repressione, ricatti, stato d’emergenza e strategia della tensione. Ma i margini di manovra erano sempre più ristretti: il potere di quelle organizzazioni, nel tempo – infatti -, aveva abbondantemente influenzato il funzionamento e addirittura l’architettura stessa delle istituzioni e dello Stato che garantivano, anche se con non poche eccezioni, una quantità di diritti fondamentali tali da ridurre sensibilmente la capacità di reazione dei dominatori, fino a quando i rapporti di forza si erano spostati talmente tanto a favore del lavoro che il capitale non decise che, per sopravvivere, era arrivato il momento di rivoluzionare di nuovo tutto il sistema da cima a fondo.
E’ quella che noi definiamo la controrivoluzione neoliberista e che è, appunto, la rivoluzione condotta dall’alto per rimuovere i presupposti che avevano consegnato alle masse dei lavoratori un potere sufficiente per tentare di condurre il loro assalto al cielo. Un obiettivo mica da poco: com’era possibile, infatti, continuare a garantire la crescita della capacità di creare ricchezza – che solo la concentrazione della produzione in fabbriche sempre più grandi e avanzate poteva permettere – impedendo allo stesso tempo che chi ci lavorava acquisisse sempre più potere politico? La risposta si chiama globalizzazione neoliberista; in sostanza, l’idea era che quelle grandi fabbriche, delle quali in nessun modo potevano fare a meno, e quella gran rottura di coglioni dei lavoratori, che ci stavano dentro, dovessero essere reinsediate fuori dai nostri confini nazionali. Prima, però, era necessario trovare il modo per essere sicuri che il controllo sarebbe rimasto saldamente in mano alle borghesie occidentali; d’altronde, l’era d’oro del colonialismo era finita e gli stati del sud del mondo formalmente erano ormai diventati tutti stati sovrani. Come si faceva ad essere sicuri che non avrebbero utilizzato la nuova potenza industriale creata grazie al sostegno dell’Occidente per rivoltarglisi contro e rivoluzionare le gerarchie di potere a livello internazionale?
La soluzione che trovarono si chiama finanziarizzazione: in soldoni, consiste in una rivoluzione totale dell’architettura finanziaria, tale da consentire una concentrazione tale di potere economico nelle mani di una ristretta oligarchia – foraggiata e protetta dalla forza militare dell’impero – da rendere tutto il resto del pianeta totalmente dipendente dalla loro capacità di allocare dove più gli conviene le risorse, ma non solo. La finanziarizzazione, infatti, consente la cooptazione delle classi dirigenti dei nuovi paesi dove il capitale occidentale ha permesso lo sviluppo industriale perché, in cambio della loro lealtà, gli permette di appropriarsi di una fetta consistente della ricchezza prodotta nei rispettivi paesi e di utilizzarla per continuare a fare soldi dai soldi nel grande casinò delle bolle speculative del centro dell’impero; quando sentite dire, ad esempio, che gli USA si aspettavano che contribuendo a trasformare la Cina nella fabbrica del mondo sarebbero poi riusciti a trasformarla in una democrazia liberale perfettamente integrata nell’ordine internazionale “fondato sulle regole”, si intende esattamente questo: grazie al dominio delle oligarchie finanziare occidentali e alla cooptazione delle oligarchie cinesi, si aspettavano che la Cina si trasformasse da stato sovrano a protettorato amministrato da fiduciari delle oligarchie stesse. Un piano geniale e ultra-sofisticato. Ovviamente un piano costosissimo, eh? Con l’inaugurazione dell’era del dominio delle oligarchie finanziarie si diceva definitivamente addio ai livelli di crescita che avevano caratterizzato la fase gloriosa dell’ascesa del capitalismo industriale: se negli anni ‘60 la crescita globale era stata in media superiore al 5%, nei decenni successivi si è assestata stabilmente sotto il 4 e, in buona parte, si è concentrata in Cina.

Warren Buffett con Barak Obama

Ma, d’altronde, era un prezzo più che congruo da pagare affinché, come dice Warren Buffet, la guerra di classe – che ovviamente non si è mai fermata – molto semplicemente, invece che dal basso contro l’alto, cambiasse radicalmente segno: “E’ la mia di classe” ha affermato Buffet “che fa la guerra, la classe dei ricchi; e la sta vincendo”.
Forse si è fatto prendere un po’ troppo dall’entusiasmo, e la storia di questi ultimi anni sembra dimostrarlo piuttosto chiaramente: il piano di dominio e di sottomissione degli stati sovrani del sud del mondo che il capitale occidentale ha aiutato a svilupparsi, infatti, potrebbe non essere andato esattamente come previsto. A partire, ovviamente, dalla Cina, dove quello che l’aperisinistra sconfittista e pariolina ha definito per anni turbo-capitalismo, in realtà si è dimostrato essere qualcosa di profondamente diverso da quanto descritto dalle loro analisi boldrine e dirittumaniste. Grazie al monopolio del potere esercitato dal partito comunista, infatti, la doppia manovra di subordinazione finanziaria e di cooptazione delle oligarchie è miseramente fallita; a controllare la finanza cinese, non senza contraddizioni, rimane saldamente lo Stato, e le oligarchie che l’Occidente voleva cooptare non hanno potere politico. Spesso, anzi, vengono prese proprio platealmente a pesci in faccia, come è successo a Jack Ma non appena ha cercato di impossessarsi di una fetta importante – appunto – del potere finanziario del paese con l’approdo in borsa di Ant Group, il braccio finanziario del suo impero. Un modello che, nel sud globale, da un po’ di tempo a questa parte ha cominciato a fare scuola: la Cina non ha soltanto contribuito a svelare a tutto il mondo il funzionamento concreto della trappola costruita dal nord globale, ma ha anche dimostrato che è possibile sottrarsi dal giogo del neocolonialismo e ha anche dimostrato concretamente come si fa.
E quindi siamo finalmente arrivati ai giorni nostri e all’idea del genocidio indiscriminato come ultimo strumento a disposizione delle oligarchie del nord globale per perpetrare un sistema di potere internazionale non solo profondamente ingiusto ma, quel che ancor più conta, platealmente antistorico. Ma perché questa idea tetra del genocidio come sfogo naturale di queste contraddizioni? Alcuni spunti in ordine sparso:

1– Se contro le organizzazioni politiche dei lavoratori del nord globale – quando ancora eravamo paesi industriali -, nonostante tutti i limiti imposti dalle istituzioni e da quelle che allora erano ancora regole democratiche, siamo ricorsi a stragi, attentati, sospensione dello stato di diritto e chi più ne ha più ne metta, pensiamo al livello di ferocia che si può raggiungere nell’ambito di un ordine internazionale in balia del puro arbitrio del più forte e che, tra l’altro, si nutre del razzismo e del suprematismo che impedisce di vedere nei popoli estranei alla tradizione occidentale veri e propri esseri umani.

2– Se la lotta di classe interna al nord globale non si è trasformata in una vera e propria carneficina è in buona parte perché, allora, il capitale – per rilanciare il suo dominio – ha trovato nella globalizzazione neoliberista e nella finanziarizzazione una scappatoia apparentemente meno cruenta. Oggi, invece, oltre al tentativo di ricorrere alla violenza pura, quali alternative rimarrebbero alle oligarchie occidentali per contrastare il loro declino?

3– La storia ci ha dimostrato, in maniera abbastanza inequivocabile, che le conseguenze nefaste sulla crescita economica di una lunga fase di conflitti e di stermini su larga scala non può essere considerata un deterrente efficace contro la necessità delle oligarchie di proteggere e riaffermare il loro dominio.

4– Come nel caso di Gaza dove, nonostante le fantasie delle anime belle che sperano in una fratellanza pre-politica tra la meglio gioventù dell’occupante e quella dell’occupato, l’intera popolazione sostiene la lotta di liberazione, e quindi è l’intera popolazione ad essere considerata – del tutto razionalmente – il nemico da abbattere; idem, nei paesi sovrani del sud globale, il nemico delle oligarchie finanziarie dell’occidente collettivo è l’intero popolo, che non si esprime attraverso organizzazioni politiche di massa ma attraverso lo Stato stesso che, proprio nell’affermare la sua sovranità, rappresenta l’interesse generale. E quindi, proprio come a Gaza, non è certo sufficiente colpire un pezzo di classe dirigente, come gli USA – ad esempio – hanno provato a fare in modo spesso fallimentare negli ultimi 20 anni tra Libia, Iraq e Siria; certo, possono aver guadagnato del tempo e possono aver ostacolato lo sviluppo dei nemici strategici, ad esempio complicando l’accesso alla risorse energetiche alla Cina. Ma, alla fine, l’esigenza storica di costruire uno stato sovrano per affermare gli interessi generali è sempre riemersa. La devastazione indiscriminata, tale da rendere impossibile il risorgere dello stato nazionale, è l’unica soluzione che garantisce gli interessi strategici sul medio – lungo termine.

Benjamin Netanyahu

Ed ecco che il genocidio diventa la nuova normalità: un tempo si diceva socialismo o barbarie. Da allora il capitale ha condotto una lotta di classe spietata, e l’ha vinta. E la prospettiva socialista è stata rinviata chissà per quanto. Ma il conflitto è come la materia: non si crea e non si distrugge. Cambia forma, e la storia non si arresta. Ed ecco che così, oggi, con la necessaria dose di realismo potremmo parlare piuttosto di multipolarismo o genocidio. Tu con quale team ti schieri?

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E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu

Come gli USA hanno distrutto l’Europa e sono tornati a crescere

“PIL USA al 4,9%, balzo di quasi tre punti nel terzo trimestre”.
Per tutti noi che tifiamo fare per accelerare il declino, quello della settimana scorsa è stato un vero e proprio black friday; i segnali che, nel terzo trimestre, l’economia americana stava marciando a passo spedito non mancavano, ma i dati consolidati vanno ben oltre ogni aspettativa. Ovviamente il 4,9% che viene citato è la crescita del terzo trimestre annualizzata, e cioè moltiplicata per 4. Gli USA non cresceranno del 5% nel 2023, e nemmeno del 4 e nemmeno del 3 ma, purtroppo, è inutile girarci tanto attorno: è un risultato impressionante, anche perché non è l’unico. Come ricordava venerdì Il Sole 24 Ore, infatti, a trainare la crescita sarebbero stati i consumi e, ciò nonostante, l’inflazione è rimasta sotto controllo: quella core, depurata cioè dalle voci più volatili come energia e alimentari, si sarebbe fermata al 2,4% mentre i consumi di beni sarebbero cresciuti addirittura del 4,8%. Gli americani spendono e spandono, ma l’inflazione resta sotto controllo; per Biden e la Bidenomics è un successo straordinario che però, stranamente, non è stato esaltato chissà quanto dalla propaganda nostrana.

Federico Rampini con Giorgio Napolitano

Anzi: Il Sole 24 Ore venerdì era uno dei pochi a parlarne e anche sul Foglio che, negli ultimi mesi, ci ha abituati ad assistere a una sfida continua a ogni senso del pudore propagandando fantomatici successi dell’occidente globale, anche quando la situazione non poteva oggettivamente andare peggio di così. Manco un trafiletto. Addirittura Rampini s’è trattenuto: come avevamo commentato in passato, ancora fa fatica a capire i dati economici. E’ ancora convinto che gli USA crescano come la Cina che comunque, va detto, è già un passo avanti; qualche settimana fa diceva che crescevano il doppio ma, a parte questo, il punto è che Rampini ovviamente brinda con entusiasmo alle performance dell’economia americana sì, ma anche lui in realtà senza troppo entusiasmo. “La nuova patologia dell’America” intitola infatti il suo corsivo “sempre più ricca, sempre più depressa e impaurita1.
C’è qualquadra che non cosa: perché tutti i pennivendoli italiani che, fino a ieri, facevano a gara a inventarsi successi che erano solo nelle loro fantasie perverse, ora che oggettivamente c’è un risultato concreto da festeggiare tirano inspiegabilmente il freno a mano?
Per onestà intellettuale è necessario fare una premessa: i dati che arrivano dall’economia USA sono decisamente migliori di quanto non ci aspettavamo e, per dirla tutta, anche di quanto non speravamo: +1,3% in soli 3 mesi, nonostante ancora a luglio la Fed avesse optato per un altro aumento dei tassi di interesse di 25 punti base e, dopo oltre un anno di rialzi che non si vedevano dai tempi del killer dell’economia Paul Volcker, sono oggettivamente tanta roba. E non è l’unico risultato. Anzi, anche sul fronte dell’inflazione sembra che tutto sia andato meglio delle previsioni: 2,4% per quella core contro poco meno del 4% nel trimestre precedente, e questo nonostante la crescita sia stata trainata dai consumi ma – soprattutto – nonostante le tensioni geopolitiche non abbiano fatto che peggiorare. Come abbiamo raccontato millemila volte – infatti – negli anni, se gli USA hanno potuto stampare moneta senza tregua senza che in casa scoppiasse mai una spirale inflattiva devastante, in buona parte era dovuto a due fattori: uno, i salari medi venivano tenuti bassi grazie alle ondate di immigrati sostanzialmente senza diritti da sfruttare a volontà e due, il costo delle merci era contenuto grazie alla globalizzazione neoliberista e quindi alla delocalizzazione della produzione in paesi più convenienti in giro per il mondo, a partire dalla Cina. Ora però i repubblicani hanno dichiarato guerra all’immigrazione e gli USA tutti – tra decoupling, make America great again e tensioni geopolitiche varie – l’hanno dichiarata alla globalizzazione. Quello che ti aspetti, come minimo, è che fino a che l’economia continua a crescere, e sopratutto se continua a crescere trainata dai consumi, anche l’inflazione continui ad aumentare; e invece rispetto ai tre mesi precedenti è diminuita di quasi due punti. Misteri della macroeconomia alla vigilia della nuova grande guerra. Biden ovviamente – e una volta tanto non senza ragioni – gongola: “Non ho mai creduto” ha commentato trionfante “che una recessione fosse necessaria per riportare sotto controllo l’inflazione, ed oggi ci troviamo di fronte a un’economia che continua a crescere, mentre l’inflazione scende”.
“La Bidenomics funziona” commenta Il Sole24 Ore che però, en passant, ricorda come stranamente i famosi mercati non è che abbiano reagito a questi dati trionfalistici con chissà quale entusiasmo. Anzi: il nasdaq ha chiuso la giornata di venerdì, quando sono usciti i dati, con un bel -1,7%, dopo che il giorno prima aveva lasciato sul campo un altro bel 2,4% e anche lo Standard & Poor 500 ha perso 1,2 punti percentuali. Sulla CNBC a invitare alla cautela ci pensa Jeffrey Roach, capo economista di LPL Financial Research: “Gli investitori” avrebbe affermato “non dovrebbero sorprendersi del fatto che i consumatori abbiano speso negli ultimi mesi dell’estate. La vera domanda è se il trend potrà continuare nei prossimi trimestri, e noi crediamo di no”2. Gli fa eco Michael Arone, capo investimenti strategici di State Street: “Guardando al futuro” avrebbe affermato “i consumatori non spenderanno allo stesso ritmo, il governo non spenderà allo stesso ritmo e anche le imprese prevediamo che rallenteranno la loro spesa. E questo” conclude “suggerisce che questo potrebbe essere il picco del PIL, almeno per i prossimi trimestri”.
Ma perché ostentare tutta questa cautela di fronte a dati così positivi proprio mentre è in corso una guerra di propaganda senza esclusione di colpi a chi c’ha il PIL più grosso? La lista dei motivi, in realtà, è abbastanza lunga. Partiamo dal fattore che più ha contribuito alla crescita: l’aumento dei consumi perché c’è un problemino (non tanto ino). Lo sottolinea in modo sintetico sempre Jeffrey Roach su Twitter: “I consumatori” scrive “stanno spendendo più di quanto non guadagnino. I consumatori” continua “hanno aumentato la loro spesa per 4 mesi di fila, mentre i redditi nello stesso periodo sono diminuiti”3. Come hanno fatto? Semplice, come sempre: hanno smesso di risparmiare e si sono indebitati. Come già segnalato a suo tempo dalla Fed, alla fine del secondo trimestre il livello dei debiti complessivi relativi alle carte di credito ha superato, per la prima volta nella storia degli USA, la soglia simbolica dei mille miliardi4 e poi sono continuate a crescere. E oggi il 51% – ripeto, il 51% – dei consumatori (la maggioranza assoluta) secondo un sondaggio condotto da JD Power afferma di non poter saldare l’intero debito e continua così a maturare interessi ogni mese che, nel frattempo, ha abbondantemente superato quota 100 miliardi5. Mercoledì scorso l’ufficio per la protezione finanziaria dei consumatori USA ha pubblicato un report che riporta questo grafico piuttosto inquietante:

ricostruisce il livello di indebitamento pro capite sui conti delle carte di credito. Se per passare da una media di poco superiore ai 4200 dollari ad oltre 5200 dollari – prima della pandemia – i consumatori statunitensi hanno impiegato oltre 6 anni, dopo la tregua della pandemia – resa possibile dai vari sussidi statali che hanno permesso di mettersi in pari con i debiti – per tornare ai vecchi livelli è bastato meno di un anno. Questo, molto banalmente, significa che il livello dei consumi negli USA che oggi permettono questa crescita sono, appunto, resi possibili esclusivamente da un sempre maggiore indebitamento; la differenza rispetto al passato, a questo giro, è che dopo due anni di corsa al rialzo dei tassi d’interesse da parte della FED gli interessi che si devono pagare su questi debiti fuori controllo sono più che raddoppiati e i risultati si vedono. Questa è la curva che descrive l’andamento del numero delle insolvenze:

il valore assoluto, che si sta rapidamente avvicinando al 3%, ancora non è particolarmente preoccupante ed è decisamente inferiore a quello registrato mano a mano che si avvicinava la grande recessione del 2008, ma la rapidità della crescita è impressionante e potrebbe essere solo l’antipasto. A breve, infatti, i cittadini statunitensi dovranno ricominciare a pagare i debiti studenteschi il cui rimborso era stato congelato durante la fase pandemica; una montagna di quattrini che è cresciuta a dismisura negli ultimi anni: nel 2008 pesavano per appena il 4% del PIL statunitense, ora sono sopra il 7%.
Ma i debiti dei consumatori non sono l’unica cosa che preoccupa. A spingere la crescita di questi mesi, infatti, è stata anche un’altra voce fondamentale: gli investimenti privati, che sono cresciuti addirittura dell’8,4%. E’ tutto merito dell’IRA, l’Inflation Reduction Act, che garantisce a chi investe generosissimi crediti d’imposta; un po’ come il nostro superbonus, significa che quello che oggi investi come privato domani ricadrà sui conti dello Stato, che non incasserà tasse per una percentuale consistente di quanto hai investito. Proprio come per il superbonus per l’Italia, anche l’IRA per gli USA ha garantito e sta garantendo una crescita importante ma, proprio come per il superbonus, quando domani arriverà il conto da pagare il bilancio potrebbe risultare un po’ meno entusiasmante del previsto. Ovviamente tra l’Italia sotto commissariamento e un paese sovrano come gli USA c’è una bella differenza: quando arriverà il conto da pagare, gli USA – infatti – che hanno ancora una banca centrale che serve le politiche del governo, in linea teorica non dovranno fare altro che stampare moneta e monetizzare il debito. Il punto, però, è che questo giochino non può andare avanti all’infinito e gli USA sembrano ormai aver superato da un po’ la soglia massima. Per capirlo, basta guardare questo grafico:

riporta la differenza tra gli attivi e i passivi finanziari USA in tutto il mondo. E’ la rappresentazione più esplicita possibile del declino USA: se ancora nel 2014 gli USA erano sotto di 5 mila miliardi ora sono sotto di 18, mille e cinquecento miliardi in più anche solo rispetto a 3 mesi fa. I debiti USA nei confronti del resto del mondo sono quadruplicati nell’arco di meno di 10 anni, rendendolo il paese più indebitato della storia dell’umanità. Cosa abbia reso tutto questo possibile ve lo abbiamo raccontato millemila volte: è il famoso “esorbitante privilegio” del dollaro, come lo definiva l’ex presidente francese Giscard d’Estaign, e che consiste nel fatto che io, centro dell’impero che stampo la valuta di riserva globale, posso fare i debiti che mi pare, tanto tu che per guadagnare i tuoi dollari ti devi spezzare la schiena e produrre cose concrete da esportare, alla fine poi sei costretto a comprarti il mio debito.
Negli ultimi 10 anni l’esplosione inarrestabile del debito USA e della sua necessità di rivogarlo in giro per il mondo ha causato non pochi mal di pancia, tanto che, ormai, la parola dedollarizzazione è all’ordine del giorno in qualsiasi assise che metta assieme più di un paese del sud globale, compresi quelli che fino a ieri erano considerati i maggiori sostenitori e complici della dittatura globale del dollaro, a partire dall’Arabia Saudita. Con questa nuova botta di crescita, tutta finanziata attraverso una quantità mostruosa di nuovo debito, i conflitti tra gli interessi del sud globale e il centro dell’impero non potranno che moltiplicarsi, e la spirale sembra non fare altro che auto-alimentarsi a dismisura perché più gli USA si indebitano, più ovviamente – per attirare la mole gigantesca di capitali di cui hanno bisogno – devono offrire interessi sempre crescenti, che hanno già raggiunto una dimensione tale da non poter essere ripagati e quindi si vanno a sommare al debito, che quindi richiede interessi ancora superiori, e quindi ancora più soldi che non si riescono a pagare e che si vanno di nuovo ad aggiungere al debito, e così via, all’infinito. Ma non solo: indebitandosi sempre di più ed essendo, così, sempre di più obbligati ad aumentare gli interessi per attirare i capitali, gli USA continuano anche a rafforzare la loro moneta che, dall’inizio dell’estate, è tornata a rafforzarsi contro ogni altra valuta, a partire dalle più forti: se a inizio estate per comprare un euro servivano infatti 1,12 dollari, ora ne bastano 1,05. Se a inizio estate per comprare una sterlina servivano 1,31 dollari, ora ne bastano 1,21. E se per comprare un dollaro a inizio estate servivano 140 yen, ora ne servono più di 150; prima del febbraio del 2022 ne bastavano 115. E così oltre alla crescita, che si basa sull’esplosione del debito, ecco che si spiega anche quel dato anomalo sull’inflazione USA che è rimasta sotto controllo.
E graziarcazzo: importano tutto e la loro valuta s’è rafforzata di poco meno del 10% nei confronti di quelle dei paesi dai quali importano, quindi sia a pagargli la crescita che a pagargli il contenimento dell’inflazione sono sempre gli altri. Quanto a lungo potrà andare avanti?
Beh, dipende. Se fanno affidamento sugli stati sovrani del sud globale probabilmente non moltissimo: nonostante gli interessi più che appetitosi, nell’arco di un anno – dall’agosto 2022 all’agosto 2023 – la Cina, ad esempio, si è sbarazzata di ben 133 miliardi di dollari di titoli di Stato USA, poco meno del 15%; l’Arabia Saudita s’è sbarazzata di 10 miliardi, circa l’8%. Anche la Svizzera ha cominciato a nicchiare: nell’arco di un anno ha diminuito il suo portafoglio di titoli USA appena di 7 miliardi, e cioè di poco più del 2%. Ma, a guardare più nel dettaglio, si nota che fino a giugno aveva in realtà continuato a comprarne di nuovi e poi, nell’arco di due mesi, ne ha rivenduti o non rinnovati per poco meno di 20 miliardi, cioè oltre il 6%. Chi caspita è allora che se li compra?
Ma è chiaro! Noi, e con noi non intendo tanto l’Italia che, da questo punto di vista, conta abbastanza pochino; con noi intendo in generale noi vassalli, e più sono vassalli più ne hanno comprati: la Corea del Sud, ad esempio, gli è andata un bel pezzo in culo ed è ferma alla quota di un anno fa; la Germania ha comprato nuovi titoli per circa 8 miliardi, ma la Gran Bretagna, ad esempio, ne ha comprati per oltre 50 miliardi – 30 miliardi solo nel mese di luglio; il Canada addirittura per 67 miliardi, segnando un bel 30% tondo tondo. Ma il caso più divertente è quello del Giappone, che è in assoluto il primo creditore degli USA al mondo: nell’estate del 2022 aveva cominciato a sbarazzarsi di un po’ di titoli USA. Parecchi: 130 miliardi nell’arco di appena un paio di mesi. Poi qualcuno gli deve aver fatto presente che se volevano le migliori armi USA per difendersi dal pericolo cinese forse era meglio se ci ripensavano, e da allora ha ricominciato a comprare al ritmo di una decina di miliardi al mese. Cioè, non so se è chiaro: mentre gli USA e i Rampini di tutto il mondo brindano per i successi della Bidenomics, i vassalli sono in recessione e con i soldi che hanno, invece di investirli per tornare a crescere, ci comprano il debito americano che gli americani usano per scaricare su di noi la loro inflazione, per portare avanti la loro agenda geopolitica contro i nostri interessi e anche per corrompere le aziende e spingerle a non investire più da noi e andare a investire negli USA quando – tra infrastrutture che crollano e mancanza di competenze – gli USA, in realtà, sono uno dei peggiori paesi al mondo per produrre.

Piccola galleria di svendipatria

Quindi quando chiediamo fino a quando potrà durare il giochino, la risposta è semplice: fino a quando noi popoli dei paesi vassalli degli USA accetteremo di farci governare da una classe dirigente di svendipatria che ci sta letteralmente togliendo i quattrini di tasca per finanziare l’impero USA, e non smetteremo di ascoltare la propaganda che ha deciso di ribattezzare questa vera e propria rapina “difesa della democrazia” e “valori condivisi”. Qui, di valore, c’è solo il frutto del nostro lavoro e una manica di parassiti ha deciso di regalarlo a qualcun altro.
Io – sarà perché sono pigro e già di per se il fatto di dover lavorare per campare non è una cosa che mi abbia mai esaltato più di tanto – ma molto sinceramente mi sarei anche abbondantemente rotto i coglioni. Per carità, non è che voglio decidere per voi: se a voi vi sta bene andare faticare per arricchire uno stato che, coi vostri soldi, ci compra le bombe anti-bunker con le quali sterminano i bambini a Gaza, siete liberissimi di farlo. Per tutti gli altri sarebbe il caso, come minimo, di dotarci di un media che abbia il pudore di non chiamare questa barzelletta “condivisione di valori”, ma appunto, una rapina.

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E chi non aderisce è Federico Rampini

1 https://www.corriere.it/oriente-occidente-federico-rampini/23_ottobre_26/nuova-patologia-america-ricca-depressa-f10b7a3e-7418-11ee-9f65-66f00d5f7a1b.shtml

2 https://www.cnbc.com/2023/10/26/us-gdp-grew-at-a-4point9percent-annual-pace-in-the-third-quarter-better-than-expected.html

3https://twitter.com/JeffreyJRoach/status/1717896854913114199

4https://edition.cnn.com/2023/08/08/economy/us-household-credit-card-debt/index.html

5https://www.jdpower.com/business/press-releases/2023-us-credit-card-satisfaction-study

CHI DECIDE CHI È TERRORISTA?

@ottolinatv

CHI DECIDE CHI È TERRORISTA? Pill8lina – Come la propaganda strumentalizza senza ritegno un concetto ambiguo terrorismo hamas israele palestina conflitto terrorismodistato onu ottolinatv pill8lina

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Come la propaganda strumentalizza senza ritegno un concetto ambiguo.

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GAZA: l’incredibile scandalo del Business Plan per portare a termine la Pulizia Etnica

Make Ethnic Cleansing Cool Again! Rendiamo di nuovo la Pulizia Etnica una cosa figa, cool.
Questo, in estrema sintesi, il programma dell’Institute for Zionist Strategies, in assoluto uno dei più influenti think tank israeliani. I curriculum dei fondatori, infatti, farebbero invidia a qualsiasi altro centro di potere del pianeta: si va dal 3 volte ministro della difesa Moshe Arens al nobel per l’economia Robert Aumann, premiato nel 2005 per “aver accresciuto la nostra comprensione del conflitto e della cooperazione attraverso l’analisi della teoria dei giochi”.

Robert Aumann

La sua tesi è illuminante: la pace porta alla guerra, mentre per prevenire la guerra servono più armi e più guerra. Anche Moshe Ya’alon è stato ministro della difesa, il giusto coronamento di una lunga carriera nelle forze armate israeliane durante la quale ha avuto un ruolo di primissimo piano in tutte le più atroci operazioni condotte contro la resistenza palestinese negli ultimi 40 e passa anni. Anche Natan Sharansky è stato ministro svariate volte: prima dell’interno, poi della casa – dando carta bianca agli insediamenti illegali dei coloni e radendo al suolo migliaia di case palestinesi – e poi addirittura vice primo ministro. Di origine russe, Sharansky è stata una delle più famose spie statunitensi durante l’Unione Sovietica, tanto da beccarsi una condanna a 13 anni in un campo di lavoro in Siberia; insomma, siamo ai piani alti che più alti non si può, e i risultati si vedono.
L’idea di trasformare Israele in uno stato etnico, con la definizione ufficiale di “Stato-nazione per il popolo ebraico” formalizzata nell’ormai lontano 2018 senza che la propaganda suprematista gli dedicasse manco una riga, c’è infatti proprio l’Institute for Zionist Strategies, come d’altronde è sempre farina del sacco dell’istituto anche la proposta di riforma costituzionale antidemocratica e illiberale che negli ultimi mesi ha scatenato le proteste degli oppositori del governo Netanyahu, sostenitori di un apartheid più dolce e meno ostentato. Ma non pensate che si tratti di un istituto intriso di giudaofascismo come i ministri più impresentabili del governo in carica, eh?
Tutt’altro: semmai, sembrano più una sorta di Italia Viva o di Calenda israeliani, una cacofonia di retorica liberale dirittumanista mischiata a un po’ di sano suprematismo e a tanto tanto ultra-liberismo da stadio. Insomma, per sintetizzare, Michele Boldrin. Ecco, immaginatevi un paese dove Michele Boldrin, oltre a sproloquiare sul web, conta qualcosa. Un incubo.
“Israele” si legge nella presentazione sul loro sito “è la realizzazione del sogno vecchio di 2000 anni del popolo ebraico di ritornare nella sua terra come nazione libera e sovrana. Il moderno stato-nazione è stato fondato sui valori ebraici tradizionali, ed è una vivace democrazia ebraica che promuove gli interessi della nazione ebraica” e “l’Istituto per le Strategie Sioniste (IZS) promuove e rafforza il carattere ebraico di Israele”. Ma dove il suprematismo diventa pura distopia è qui: “Le libertà personali, la giustizia e i diritti umani” scrivono “sono parte integrante del sistema di valori ebraico e sono anche centrali per una forma di governo democratica. Esistono tuttavia” – sottolineano – “aree di potenziale tensione tra i due valori e occorre trovare soluzioni che sostengano il carattere ebraico di Israele tutelando al tempo stesso i diritti individuali. L’Istituto per le Strategie Sioniste” concludono, è “l’unica istituzione in cui le persone che sostengono i diritti umani e sostengono anche Israele come stato ebraico possono sentirsi a proprio agio sapendo che non dovranno sacrificare un ideale per l’altro”. Dirittumanismo suprematista su base etnica, cioè riconosciamo a tutti i diritti umani, ma quali siano i diritti umani da riconoscere lo devono decidere solo gli ebrei, e gli altri o si adeguano oppure ecco che scatta la Pulizia Etnica.
Il primo vero e proprio piano per la pulizia etnica dell’Istituto risale ormai a diversi anni fa: “Regional settlement” si chiamava il programma. Insediamento regionale; un programma talmente illuminato che, effettivamente, concedeva ai palestinesi la possibilità di costituire finalmente il loro stato, però da un’altra parte. Non è una battuta: il programma, infatti, consisteva nel convincere Egitto e Giordania a cedere una fetta di territorio sufficiente per trasferirci forzatamente il grosso dei palestinesi che sono sfuggiti alla prima pulizia etnica del ‘48, e a quel punto, con grande slancio di generosità, permettere ai palestinesi di fondare tutti gli stati nazionali che vogliono. Fortunatamente, nonostante la fonte autorevole, allora nessuno gli prestò particolare attenzione; nei dieci anni successivi, però, nel silenzio complice di tutti quanti – a partire da quelli che oggi si dichiarano solidali con la popolazione palestinese ma sdegnati dalla violenza scoppiata il 7 ottobre scorso e impartiscono lezioni non richieste alla resistenza palestinese sulle modalità giuste di lotta da impiegare – i rapporti di forza tra i carnefici e le vittime si sono spostati inesorabilmente a favore dei primi e quello che 10 anni fa sembrava una provocazione di qualche invasato, oggi è diventato argomento di dibattito nella classe dirigente. Ed ecco così che il piano delirante per la definitiva pulizia etnica si ripresenta, e a questo giro non più semplicemente come una visionaria provocazione per aprire un dibattito, ma proprio sotto forma di piano dettagliato, con tanto di numeri e bilanci. “Un piano per il reinsediamento e la riabilitazione definitiva in Egitto dell’intera popolazione di Gaza” si intitola il documento: “non c’è dubbio” si legge nell’incredibile report redatto pochi giorni fa dall’istituto e scovato nei meandri del web dagli amici di The Grayzone “che affinché questo piano possa realizzarsi devono coesistere molte condizioni contemporaneamente. Attualmente, queste condizioni si sono magicamente presentate, ma non è chiaro quando tale opportunità si ripresenterà, se mai si ripresenterà. Questo è il momento di agire. Ora”.
“Attualmente esiste un’opportunità unica e rara per evacuare l’intera Striscia di Gaza, in coordinamento con il governo egiziano”. L’incipit del rapporto segreto dell’Istituto per le Strategie Sioniste scovato da The Grayzone non lascia adito a dubbi: siamo di fronte esplicitamente a un piano per la Pulizia Etnica definitiva ma, forse aspetto ancora più inquietante, presentato sostanzialmente come un’opera di bene.

Il logo di The Grayzone

“Un piano immediato” si legge infatti nel rapporto “realistico e sostenibile per il reinsediamento umanitario” (giusto: dice proprio così, umanitario) “e la ricollocazione dell’intera popolazione araba della striscia di Gaza”. Un capolavoro di suprematismo neoliberista; l’intero rapporto, infatti, non si limita a definire umanitaria la Pulizia Etnica, ma soprattutto si concentra nell’indicare gli evidenti vantaggi economici di tutta l’operazione. Ci sono pure le tabelline coi numerini. L’idea di fondo, purtroppo, è un po’ peggiorativa rispetto al vecchio “insediamento regionale” perché l’ipotesi, generosissima, di poter costituire uno stato nazionale in casa di altri è scomparsa ma il succo è lo stesso: si tratta, infatti, di sfollare per sempre tutti i due milioni e passa di abitanti della striscia in Egitto. Un piano che, sottolinea il rapporto, “si allinea perfettamente con gli interessi economici e geopolitici sia dello Stato di Israele, quanto anche dell’Egitto stesso, e anche dell’Arabia Saudita”. Il rapporto, infatti, ricorda come nel 2017 sia stato affermato che in Egitto esisterebbero la bellezza di 10 milioni di unità abitative sfitte, in particolare in due gigantesche new town nell’area metropolitana del Cairo: la cittadina del Nuovo Cairo, e la città del decimo Ramadan.

Mappa di Nuovo Cairo

“La maggior parte della popolazione”, infatti, sottolinea il report, “non riesce ad acquistare gli appartamenti di nuova costruzione, che rimangono invenduti a milioni, e hanno raggiunto prezzi di mercato molto bassi, dai 150 ai 300 dollari al metro quadrato”. A questi prezzi, un confortevole appartamento per una famiglia di Gaza, che in media è composta da 5 elementi, si aggirerebbe attorno ai 19 mila dollari; significa che con meno di 8 miliardi di dollari si può agilmente trovare una sistemazione per tutti e “investire qualche miliardo di dollari per risolvere la difficile questione di Gaza” sottolinea giustamente il rapporto “sarebbe una soluzione innovativa, economica e sostenibile”. Altro che Pulizia Etnica! Questo è un vero e proprio affarone: ripulita dai subumani, Gaza infatti fornirebbe “alloggi di alta qualità a molti cittadini israeliani” e permetterebbe di estendere a dismisura l’area metropolitana di Tel Aviv, nota col nome Gush Dan, rendendola una specie di Los Angeles del Mediterraneo” e a trarne vantaggio sarebbero, ovviamente, anche gli insediamenti nel Negev – nelle zone desertiche ad est della striscia -penalizzati fino ad oggi dall’essere separati dal mare da questa vetusta e un po’ demodè presenza di questi soggetti qui – come si chiamano? Ah già, i palestinesi.
Ovviamente il problema principale, a questo punto, sarebbe convincere l’Egitto ma anche da questo punto di vista – sottolinea il rapporto – la situazione non è mai stata così favorevole; l’Egitto infatti si trova nel bel mezzo di una crisi economica devastante, con un’inflazione che ha sfiorato fino al 30%, e una svalutazione della sua valuta rispetto al dollaro che ne ha sostanzialmente dimezzato il valore. Questo ha spinto il paese sull’orlo del default: per evitarlo, è stato costretto a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale che, però, per concedere un prestito imporrebbe all’Egitto “condizioni e riforme economiche draconiane” la cui applicazione sembra “improbabile”. Questa situazione ha spinto le agenzie a degradare il rating del debito sovrano egiziano, declassato da 3B a 1C, “il punteggio più basso mai assegnato all’Egitto”, una situazione che, sottolinea il report, per gli Stati Uniti potrebbe tradursi in un “disastro strategico”. Se l’Egitto non fosse più in grado di ripagare i suoi debiti e dichiarasse il default, infatti, tra i vari creditori da soddisfare ci sarebbero anche i cinesi, con il rischio che gli vengano ceduti asset strategici, come è già avvenuto – ad esempio – in Sri Lanka con il porto di Hambantota.
Anche i paesi europei sono in allarme a causa dell’ondata di immigrazione clandestina che un patatrac dell’economia egiziana molto probabilmente comporterebbe; “il trasferimento dell’intera popolazione di Gaza in Egitto e la sua riabilitazione”, invece, rappresenterebbero una grande opportunità per ridare slancio all’economia egiziana riducendo tutti questi rischi, anche perché “la chiusura della questione di Gaza” sottolinea il report “garantirebbe una fornitura stabile di gas israeliano all’Egitto per la liquefazione, e anche un maggior controllo delle compagnie egiziane sulle riserve di gas esistenti al largo di Gaza”. La Pulizia Etnica di Gaza poi, sostiene il report, sarebbe un’ottima occasione anche per l’Arabia Saudita per almeno due motivi: il primo è che eliminerebbe, così, un importante alleato dell’Iran; il secondo è che potrebbe trovare una bella fonte di manodopera a basso costo per tutti i suoi ambiziosi progetti di ammodernamento infrastrutturale, a partire dalla costruzione da zero della megalopoli futuristica di Neom, che Mohammed Bin Salman vorrebbe diventasse la principale metropoli di tutta la regione – ovviamente, a quel punto, dopo la nuova Los Angeles israeliana.
Insomma, tutto torna, a parte la volontà degli abitanti di Gaza che, però, possono essere convinti: basta continuare a distruggergli le case, a tenerli sotto assedio e a terrorizzarli con le bombe. Non sarà proprio immediato ma, se duriamo abbastanza, alla fine “non pochi residenti di Gaza coglierebbero al volo l’opportunità di vivere in un paese ricco e avanzato piuttosto che continuare a vivere in questa situazione”. Convinti a suon di massacri gli abitanti di Gaza a lasciare da parte i loro preconcetti e abbracciare finalmente il futuro di luce che lo stato-nazione per il popolo ebraico gli offre generosamente, rimane allora un ultimo ostacolo: i quattrini. Perché se è vero che, alla lunga, l’investimento promette ritorni mirabolanti, nel breve finanziare un massacro e poi una pulizia etnica – soprattutto se democratica e umanitaria – costa, e il bancomat preferito del regime segregazionista di Tel Aviv nelle ultime settimane era temporaneamente fuori uso. Ma visto che, appunto, sono in missione per conto del Signore, ecco che magicamente mercoledì un miracolo l’ha fatto tornare in funzione: i repubblicani, dopo varie diatribe, finalmente hanno eletto il nuovo speaker della camera.

Mike Johnson e Donald Trump nel 2019

Si chiama Mike Johnson e per Israele è una vera e propria manna: evangelico oltranzista, come per i fautori dello stato etnico e confessionale di Israele è un fiero sostenitore delle ingerenze della chiesa sullo stato. “Quando i fondatori pensavano alla così detta separazione tra chiesa e stato” avrebbe affermato in passato, era perché “volevano proteggere la chiesa da uno stato invadente, non il contrario”, e il suo discorso di insediamento è roba da fare sembrare il più invasato degli ayatollah un illuminista.

MIKE JOHNSON – nuovo speaker del congresso USA: “Credo che le sacre scritture siano molto chiare su questo: è solo Dio che può darci l’autorità. E credo che se oggi ci ritroviamo qui, sia perché a permetterlo, e a volerlo, è stato l’Onnipotente. Nel 1962 il nostro motto nazionale, In God we trust, venne scolpito sopra questa tribuna; venne fatto come forma di rimprovero contro la filosofia dell’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda. Quella filosofia si chiamava marxismo e comunismo, e partiva dal presupposto che Dio, appunto, non esiste. E quali sono invece i valori fondamentali, i principi fondamentali sui quali si basa la nostra nazione? Questi principi sono la libertà individuale, un governo dai poteri ristretti, lo stato di diritto, il mantenimento della pace attraverso la forza, la responsabilità fiscale, il libero mercato e la dignità umana. Sono questi i principi che ci hanno reso la nazione straordinaria che siamo. E noi tutti, oggi, siamo i custodi di quei principi che ci hanno reso la nazione più libera, potente e di maggior successo nella storia del mondo, una nazione assolutamente unica ed eccezionale che sola è in grado di affrontare questi tempi di crisi perché oggi il nostro più caro e fedele alleato in Medio Oriente è di nuovo sotto attacco. Ed ecco perché il primo disegno di legge che presenterò qui tra poco sarà proprio a sostegno del nostro caro, fraterno amico Israele, perché anche se il nostro sistema di governo non è perfetto, rimane ancora senza dubbio il migliore del mondo e noi abbiamo il dovere assoluto di preservarlo a ogni costo. Facciamo in modo che in tutto il mondo i nemici della libertà ci sentano forte e chiaro: siamo tornati in carreggiata”.
Come ha detto la mia amica Clara Statello, se dovessimo riassumere con due slogan il comizio di insediamento di Mike Johnson, la scelta non potrebbe che cadere su Gott Mit Uns e USA Uber Alles. Cosa mai potrebbe andare storto?
Contro i deliri suprematisti che stanno definitivamente trasformando il nord globale nell’impero del male, abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte della pace e della ragione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFoundMe e su Paypal

E chi non aderisce è Benyamin Netanyahu

SCANDALO NEWSGUARD: come l’intelligence paga un’azienda privata per censurare i pochi giornalisti rimasti.

NewsGuard è un’estensione per browser internet, che ti aiuta a rimanere sempre al passo con la propaganda suprematista. Il programma infatti contrassegna le pagine web che apri con un distintivo: quando è rosso vuol dire che è una fake news, e quando è verde invece che piace ai re David, sia Puente che Parenzo, e pure all’intelligence USA.

NewsGuard infatti nel settembre del 2021 ha firmato un contratto da 750 mila dollari con il Dipartimento della Difesa USA nell’ambito di un programma che si chiama “misinformation fingerprints”, le impronte digitali della disinformazione, dove per disinformazione si intende quello che non coincide con la narrazione ufficiale del Pentagono e della Casa Bianca e il risultato si vede.

Nel sito italiano di NewsGuard,ci sono elencate le bufale che hanno smascherato da quando è iniziata questa nuova fase della pulizia etnica di Israele contro la popolazione palestinese,che uno pensa subito: “ah, meno male!” ci troverò due cose sensate sulla bufala gigantesca delle teste dei bambini mozzati che ha occupato le prime pagine di tutti i giornali italiani, oppure il debunking di tutte le fake news spacciate dai sostenitori del genocidio per attribuire così un po’ alla cazzo la tragedia dell’ospedale di Al-Ahli a un errore di Hamas, macchè! solo ed esclusivamente roba filo-Israeliana, e filo-Usa.
Perchè noi civiltà superiore mica siamo come gli untermenschen arabi, certe cose non le facciamo, che uno allora dice, eh vabbè, che danni farà mai, tanto uno che si scarica una roba del genere sul browser quello vuole: solo pura e sana propaganda suprematista ufficiale occidentale.

Purtroppo però grazie a un po’ di sano lobbysmo NewsGuard, sopratutto negli USA, è diventato uno strumento piuttosto diffuso anche nelle istituzioni, incluse numerose librerie e università, e tramite un accordo con Microsoft, pure a parecchi insegnanti e associazioni di insegnanti.
D’altronde, la potenza di fuoco di NewsGuard è tanta roba, lungi dall’essere un ente benefico, è una società privata dalle spalle larghe, tra i fondatori infatti c’è Publici Groupe, il colosso francese della pubblicità e del marketing, una tra le 5 principali aziende del settore al mondo.

Quindi riassumendo: c’è un’azienda privata oligopolista che su mandato dell’intelligence USA dice alle università e alle insegnanti cosa è vero e cosa è falso, cosa mai potrebbe andare storto?

Nell’ambito di questa attività di censura per conto della propaganda di governo USA, nel settembre del 2022 NewsGuard, ha individuato 6 articoli che contenevano “fake news” da parte di una piccola ma prestigiosa e combattiva testata indipendente americana.La testata in questione si chiama Consortium News, e chi segue Ottolina ne ha già sentito parlare svariate volte, è stata fondata a fine anni ‘90 da Robert Parry, il mio amico Robert Parry, tristemente venuto a mancare nel 2018 dopo una lunga malattia.

FOTO: Diane Duston, Associated Press.

Forse definirlo un altro Seymour Hersh potrebbe essere un po’ eccessivo, ma ci manca poco.
Ex reporter di Associated Press e Newsweek infatti, il buon Robert, aveva rivestito un ruolo fondamentale nello smascherare alcuni dei retroscena più inquietanti dell’operazione Iran-Contra.
Si deve a lui ad esempio, la conoscenza del ruolo ricoperto nello scandalo da Oliver North, già membro del consiglio per la sicurezza nazionale, e gran regista della vendita di armi all’Iran per finanziare le attività dei contras, le feroci milizie nicaraguensi che tentarono di far precipitare nel sangue la gloriosa rivoluzione sandinista attraverso innumerevoli agguati terroristici.

Grazie a queste inchieste Parry è stato insignito, come d’altronde anche seymour hersh, del prestigioso George Polk Award, l’unico vero premio giornalistico che significhi davvero qualcosa al mondo.
Proprio come Hersh, Parry, nonostante la sua brillante carriera, ha un certo punto decide di sbattere la porta in faccia al mainstream, che negli anni ha smesso di finanziare inchieste importanti che vanno contro la narrazione ufficiale del governo, e insieme a un gruppo di prim’ordine di giornalisti indipendenti ha deciso di fondare una sua testata che non accetta finanziamenti né dai governi, né dagli inserzionisti, e già questa cosa da sola probabilmente agli occhi di affaristi spregiudicati come quelli di NewsGuard deve suonare di per se come una fake news. Oggi a guidare Consortium News c’è un altro pezzo da novanta: si chiama Joe Lauria, firma di peso prima del New York Times, poi del Boston globe e infine anche del Wall Street Journal. Il cda di Consortium News poi sembra un vero e proprio museo del giornalismo: dal premio pulitzer Christopher Hedges, al recentemente defunto Daniel Ellsberg, il più importante whistleblower della storia degli USA, fino a John Pilger, vincitore per due volte del titolo di miglior giornalista d’inchiesta del Regno Unito. Ma niente che possa scoraggiare i David Puente di oltreoceano, che hanno individuato appunto 6 fake news che al gotha del giornalismo indipendente globale erano sfuggite, e cioè, le seguenti:

  1. Washington nel 2014 avrebbe sostenuto un colpo di stato a danno di un governo democraticamente eletto in Ucraina.
  2. il governo ucraino avrebbe adottato politiche genocide nei confronti delle minoranze russofone
  3. la NATO in Ucraina starebbe armando un regime infestato di neonazisti.
  4. il bombardamento di Douma, in Siria, era una false flag sfociata poi in bombardamenti illegali e illegittimi da parte dei governi di  USA, UK e Francia.
  5. il Russiagate era una bufala.

Faccio sinceramente parecchia fatica a vederci anche solo mezzo errore. Ma d’altronde, in un mondo dove la Russia si autobombarda i gasdotti, fa la guerra con le pale, e per giustificare lo sterminio di centinaia di migliaia di civili inermi basta una fialetta di borotalco da agitare all’ONU come se fosse un’arma chimica, posso capire che, anche solo suggerire che le cose non siano andate esattamente come ce le hanno raccontate eserciti di pennivendoli a libro paga, e senza nessuna credibilità professionale possa risultare sconveniente.
Ma la cosa più divertente è che sulla base di questi 6 articoli, NewsGuard ha segnalato come inattendibili tutti gli oltre 20 mila articoli dell’archivio di Consortium News.

Di ritorno da Tel Aviv, dove era andato a rimarcare con forza il sostegno incondizionato degli USA al genocidio perpetrato da Israele contro i civili palestinesi, Rimbambiden ha lanciato un accorato appello alla nazione:
“è in momenti come questo”, ha dichiarato, “che dobbiamo ricordare: dobbiamo ricordare chi siamo. Siamo gli Stati Uniti d’America. Gli Stati Uniti d’America”. Non mi sto sbagiando io eh. E’ proprio lui che deve ripetere tutto due volte. La prima se la scorda mentre parla. “E non c’è niente, niente”, altra ripetizione, “che vada oltre le nostre capacità se lo facciamo insieme”

E’ da un po’ che a Rimbambiden gli è presa la scimmia di ripetere ogni tre per due questo concetto,”siamo i più forti”, “siamo invincibili”, siamo stocazzo!
Ma come sottolinea sempre il nostro mitico Dall’Aglio, quando uno si sente in dovere di ripetere in ogni occasione quanto è forte e invincibile, c’è una buona probabilità che sotto sotto tanto forte e invincibile non si senta più.
D’altronde, gli indizi diciamo che non gli mancherebbero, purtroppo però è proprio quando uno comincia a realizzare che l’era “dell’io sono io e voi non siete un cazzo” sta volgendo al tramonto, che potrebbe essere spinto ai gesti più sconsiderati.

Fino ad oggi, ci siamo sempre lamentati di quanto sia falsa e ipocrita la retorica dell’occidente come luogo di libertà e di pluralismo, e di come in realtà la proprietà dei mezzi di produzione del consenso in mano a un manipolo di oligarchi ostacoli il dissenso e il pensiero critico.
A breve però potremmo ricordare questa epoca di dittatura dolce del pensiero unico con una certa nostalgia.
Quel che rimane della retorica liberale, mano a mano che la situazione continua a sfuggire di mano, potrebbe diventare un lontano ricordo, la Grande svolta autoritaria del finto liberalismo del nord globale è ormai dietro l’angolo, ed è arrivata l’ora di costruire la resistenza.

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I’m just a lonely boy: come il sostegno al genocidio di Gaza sta isolando Biden e gli USA.

A gestire le decine e decine di miliardi di aiuti militari che gli USA hanno inviato all’Ucraina negli ultimi ormai poco meno di due anni, c’è un piccolissimo ufficio con appena una decina di dipendenti che negli ambienti militari statunitensi ormai sono diventati leggendari; dal giorno alla notte hanno gestito, senza battere ciglio, un aumento del carico di lavoro del 15 mila % imparando a “svolgere in poche ore quello che prima richiedeva mesi”, come riportava enfaticamente Defenseone. Tra quei 10 eroi della patria, con ruolo apicale, c’è anche lui: Josh Paul.

“Sono entrato a far parte dell’Ufficio per gli affari politico-militari (PM) più di 11 anni fa” ha scritto Josh “e l’ho trovato immediatamente un lavoro affascinante e coinvolgente, fatto di compiti e obiettivi estremamente impegnativi sia intellettualmente che moralmente. Sono molto orgoglioso” continua Josh “di aver fatto molte volte la differenza, sia visibilmente che dietro le quinte, dalla difesa dei rifugiati afghani, all’aver influenzato le decisioni dell’amministrazione sul trasferimento di armi letali in paesi accusati di mancato rispetto dei diritti umani. Quando sono arrivato in questo ufficio, che è l’ente governativo degli Stati Uniti maggiormente responsabile del trasferimento e della fornitura di armi a partner e alleati, sapevo benissimo che il mio compito era tutt’altro che privo di complessità morale e di compromessi delicati, e mi sono ripromesso che sarei rimasto finché i danni che ero costretto a fare fossero stati controbilanciati da sufficienti contributi positivi. E in questi 11 anni ho fatto più compromessi morali di quanti riesco a ricordare, ma senza mai venir meno a quel patto con me stesso”. Ma dopo 11 anni, conclude Josh, “oggi finalmente sento il dovere di andarmene”. E questa è la sua lettera di dimissioni.
A convincere Josh che ormai quel patto si era rotto, infatti, sarebbe “la fornitura continuata, anzi, ampliata, e accelerata, di armi letali a Israele” che lo ha posto di fronte a una contraddizione insanabile: “non possiamo essere una volta contrari alle occupazioni, e un’altra volta a favore. Non possiamo essere una volta a favore della libertà, e un’altra contro. E non possiamo dirci a favore di un mondo migliore, mentre contribuiamo concretamente a crearne uno peggiore”. Josh condanna senza appello l’azione di Hamas “ma sono profondamente convinto” sottolinea “che la risposta che Israele sta dando, e il sostegno americano a quella risposta, non possa che portare inevitabilmente a sempre maggiore sofferenza sia per il popolo israeliano che per quello palestinese. E alla lunga, danneggiare anche gli interessi del nostro paese”. Secondo Josh, infatti, “la risposta di questa Amministrazione – e anche di gran parte del Congresso – non è altro che una reazione impulsiva basata solo su bias cognitivi, mera convenienza politica, e una tragica bancarotta intellettuale”. Josh si dichiara enormemente deluso, ma non sorpreso: “Il fatto” sottolinea Josh “è che il sostegno cieco a una parte a lungo termine è distruttivo per gli interessi dei cittadini di entrambe”. Il timore di Josh, insomma, è che “si stiano ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni. E io mi rifiuto di farne ancora parte”. Secondo Josh, infatti, in questo genere di conflitti “non dovremmo schierarci con uno dei combattenti, ma con le persone prese in mezzo, e quelle delle generazioni future. La nostra responsabilità” continua “dovrebbe essere aiutare le parti in conflitto a trovare una soluzione, mettendo sempre al centro i diritti umani, invece di cercare di eluderli. E, quando accadono, denunciarne le violazioni, indipendentemente da chi le commette, sia quando sono avversari, il che è facile, ma ancora di più quando sono nostri partner”. Ed è proprio per questi motivi, conclude Josh, “che mi sono dimesso dal governo degli Stati Uniti: perché se posso lavorare, e ho lavorato duramente per migliorare le politiche in materia di sicurezza, non posso lavorare a sostegno di una serie di decisioni politiche che ritengo miopi, distruttive, ingiuste e in palese contraddizione con i valori che sosteniamo pubblicamente e che sostengo con tutto il cuore: un ordine internazionale fondato sulle regole, e che promuova l’uguaglianza e l’equità”.
Abituati a esercitare un’egemonia totale in campo militare grazie all’esercito più grande e dispendioso della storia umana, in campo economico grazie allo strapotere del dollaro, e in campo ideologico grazie alla proprietà di tutti i mezzi di produzione del consenso, gli USA si sono illusi di poter applicare spudoratamente doppi standard a tutto quello che li riguarda senza mai dover pagare pegno, ma da Josh Paul ai vecchi alleati in Medio Oriente che a Biden, ormai, manco gli rispondono più al telefono perché hanno paura di essere linciati dalle loro opinioni pubbliche, il fascino indiscreto e totalizzante dell’impero sembra perdere continuamente smalto. E se a far crollare definitivamente l’impero non fosse qualche nemico esterno, ma semplicemente la sua ormai insostenibile tracotanza?

“L’America è la causa principale dell’ultima guerra tra Israele e Palestina”; nell’ultimo lungo articolo per Foreign Policy, il buon vecchio Stephen Walt, come gli capita spesso, ha deciso di toccarla pianissimo. Blasonato professorone di politica internazionale all’Università di Harvard, 15 anni fa divenne il bersaglio preferito della potente lobby israeliana dopo averne descritto, senza tanti fronzoli, la gigantesca influenza in un celebre libro scritto a 4 mani insieme al leggendario John Mearsheimer e pubblicato in Italia con il titolo “La Israel lobby e la politica estera americana”. Walt non può fare a meno di notare come “mentre israeliani e palestinesi piangono ognuno i loro morti, sembra impossibile riuscire a resistere alla tentazione di cercare qualcuno in particolare da incolpare. Gli israeliani e i loro sostenitori” continua Walt “vogliono attribuire tutta la colpa ad Hamas. Mentre coloro che sono solidali con la causa palestinese, vedono la tragedia come il risultato inevitabile di decenni di occupazione”. Walt, invece, propone un filone un po’ diverso e si propone di ricostruire a grandi linee “come 30 anni di politica estera americana si sono conclusi con un disastro”. La ricostruzione di Walt, infatti, parte dal 1991, l’anno della prima guerra del Golfo: “una straordinaria dimostrazione della potenza militare e dell’abilità diplomatica degli USA” sottolinea Walt “che sono stati in grado di eliminare la minaccia posta da Saddam Hussein agli equilibri regionali”. Walt ricorda come, all’epoca, l’Unione Sovietica fosse ormai sull’orlo del collasso, come gli USA utilizzarono questa schiacciante vittoria per consolidare la loro posizione di unica potenza globale “saldamente al posto di guida”, e anche come decisero di sfruttare questa posizione di dominio incontrastato per imporre,nell’ottobre del 1991, una conferenza di pace in grado di mettere attorno a un tavolo Israele, Siria, Libano, Egitto, Comunità Economica Europea, Unione Sovietica e una delegazione giordano-palestinese: è la famosa Conferenza di pace di Madrid che, secondo Walt, “sebbene non abbia prodotto risultati tangibili, aveva gettato le basi per un serio sforzo per costruire un ordine regionale pacifico”. Eppure, riconosce Walt, “Madrid conteneva anche un fatidico difetto, che avrebbe generato innumerevoli problemi nei decenni successivi”: a Madrid, infatti, mancava l’Iran. Non la presero proprio benissimo, diciamo; come osservava Trita Parsi nel suo Treacherous Alliance, infatti, “l’Iran vedeva in Madrid non solo una conferenza sul conflitto israelo-palestinese, ma come il momento decisivo nella formazione del nuovo ordine in Medio Oriente” e ovviamente, da grande potenza regionale quale indubbiamente era e continua ad essere, “si aspettava un posto a tavola”. E visto che quel posto a tavola non c’era, decise di prenotare un tavolo tutto suo in un ristorante diverso. Ospiti d’onore: Hamas e la Jihad islamica, due gruppi della resistenza palestinese in odor di fondamentalismo,che fino ad allora non s’era cacata di pezza. “Una risposta principalmente strategica, piuttosto che ideologica”, sottolinea Walt, per “dimostrare agli Stati Uniti e agli altri che se i suoi interessi non fossero stati presi in considerazione, era in grado di far fallire i loro piani”. Che, fa notare Walt, è esattamente quello che è successo poco dopo, “quando gli attentati suicidi e altri atti di violenza estremista hanno interrotto il processo di negoziazione degli accordi di Oslo e minato il sostegno israeliano a una soluzione negoziata”.
Per arrivare al secondo capitolo della ricostruzione di Walt, invece, bisognerà aspettare un’altra decina di anni; il riferimento, ovviamente, è all’11 settembre prima e all’invasione dell’Iraq del 2003 poi, che oltre ad essere stata una carneficina di dimensioni inaudite, in grado di trasformare in sanguinarie terroriste anche le suore Orsoline, alla fine è stata pure un altro regalo all’Iran. Come ricordava ieri il Financial Times, infatti, con quella specie di piccolo genocidio democratico “Washington non aveva fatto altro che rimuovere la minaccia più imminente ed esistenziale per la teocrazia, per poi lasciarle in eredità uno stato iracheno de debole infestato di quinte colonne iraniane”; un’evoluzione, sottolinea Walt, che “ha allarmato l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo”. Da lì in poi, prosegue Walt, “la percezione di una minaccia condivisa da parte dell’Iran ha cominciato a rimodellare le relazioni regionali in modo significativo, alterando anche le relazioni di alcuni stati arabi con Israele”.
Il terzo atto di questa lenta e inesorabile tragedia, poi, arriverà nel 2015, quando l’amministrazione Trump deciderà di abbandonare unilateralmente il patto per il nucleare iraniano. Una decisione scellerata che ha indotto l’Iran a “riavviare il suo programma nucleare e avvicinarsi molto a possedere finalmente la bomba” e, di conseguenza, ha indotto anche l’Arabia a ritenere indispensabile lo sviluppo di un nucleare suo, magari con l’aiutino di Tel Aviv.
Il quarto atto, infine, sarebbero gli Accordi di Abramo che, secondo Walt, sono un’estensione logica del ritiro unilaterale dal patto sul nucleare: “Nati da un’idea dello stratega dilettante, nonché genero di Trump, Jared Kishner” sottolinea Walt “hanno fatto relativamente poco per promuovere la causa della pace perché nessuno dei governi arabi partecipanti era attivamente ostile a Israele o capace di danneggiarlo”.

Che il piano di Trump per il Medio Oriente fosse totalmente fallimentare l’aveva capito addirittura un pezzo di classe dirigente USA e così tra le promesse elettorali di Biden, ecco che fa capolino l’intenzione di tornare a sottoscrivere il patto sul nucleare che però, appunto, rimane solo un’intenzione, e forse manco quella. In compenso Biden si è astenuto scientificamente dal provare a ostacolare in qualche modo la deriva ultra-reazionaria del governo israeliano, ormai esplicitamente clerico-fascista e impegnato a sostenere la ferocia estremista di coloni criminali che hanno spinto a un ulteriore radicalizzazione la maggioranza della popolazione palestinese. Intanto l’amministrazione Biden, nonostante la riapertura dei rapporti diplomatici tra sauditi e iraniani raggiunta grazie alla mediazione cinese, puntava tutto sul geniale Patto di Abramo del geniale Jared Kushner ma questa opzione, sottolinea Walt, “aveva poco a che fare con la pace tra israeliani e palestinesi, ed era piuttosto finalizzata esclusivamente a impedire un ulteriore avvicinamento dei sauditi alla Cina”. Insomma, la questione palestinese è completamente uscita dai radar: “Come il primo ministro Netanyau e il suo gabinetto” sottolinea Walt “i massimi funzionari statunitensi sembrano aver dato per scontato che non ci fosse nulla che un gruppo palestinese potesse fare per far deragliare o rallentare questo processo o attirare nuovamente l’attenzione sulla loro difficile situazione. Sfortunatamente” continua Walt “questo presunto accordo, invece, ha rappresentato per Hamas un potente incentivo a dimostrare quanto fosse sbagliata questa ipotesi”. Secondo Walt, quindi, il tipo di azione e la sua tempistica non sono stati altro che una risposta di Hamas – da questo punto di vista perfettamente razionale – “a sviluppi regionali che sono stati guidati in misura considerevole da preoccupazioni di tutt’altro genere”. Insomma, sottolinea Walt, “dagli accordi di Oslo Washington ha monopolizzato la gestione del processo di pace, ma i suoi sforzi alla fine non hanno portato assolutamente a nulla, e nel corso degli anni la soluzione dei due stati non ha fatto che allontanarsi sempre di più fino a diventare oggi probabilmente impossibile”. Un fallimento totale che offre un assist preziosissimo alle potenze che più coerentemente si battono per l’emergere di un nuovo ordine multipolare che, da questo punto di vista, risulterebbe semplicemente necessario, di fronte all’unipolarismo USA che, molto banalmente, non riesce a garantire la sicurezza per nessuno: “Gli Stati Uniti gestiscono da soli la regione da più di 3 decenni, e con quali risultati?” si chiede Walt: “assistiamo a guerre devastanti in Iraq, Siria, Sudan e Yemen” elenca Walt. “Il Libano è in fin di vita, in Libia c’è l’anarchia, l’Egitto sta barcollando verso il collasso. I gruppi terroristici si sono trasformati, e continuano a seminare terrore in tutti gli angoli del pianeta, mentre l’Iran si avvicina sempre di più alla bomba. Non c’è né sicurezza per Israele, né giustizia per la Palestina. Ecco cosa ottieni quando lasci che a gestire tutto sia Washington. A prescindere dall’idea che ognuno di noi ha su quali siano le reali intenzioni di Washington, il dato è che i leader USA ci hanno ripetutamente dimostrato che non hanno la saggezza e l’obiettività necessarie per ottenere risultati positivi. Nemmeno per se stessi”.

in foto: Joe Biden

Dall’altra parte c’è la Cina che può vantare il fatto di aver costruito relazioni costruttive con tutti gli attori regionali senza eccezione, al punto da riuscire a far tornare a dialogare anche due acerrimi nemici storici come Arabia Saudita e Iran: “non è ovvio che il mondo trarrebbe beneficio se il ruolo degli Stati Uniti diminuisse e quello dei cinesi aumentasse?”. Ovviamente quella di Walt, che come Mearsheimer è un conservatore e non ha nessuna simpatia per l’ascesa cinese e del sud globale in generale, è una provocazione e un campanello d’allarme: “se anche tu pensi che affrontare la sfida di una Cina in ascesa sia una priorità assoluta” scrive infatti “potresti voler riflettere su come le azioni passate degli USA hanno contribuito alla crisi attuale”. Walt infine, al contrario di quanto sosteniamo noi da giorni, riconosce all’amministrazione Biden lo sforzo in queste ore di provare a contenere l’escalation del conflitto, “ma” sottolinea “il team di politica estera dell’amministrazione assomiglia più a una squadra di meccanici che non di architetti” e potrebbe non essere minimamente attrezzato ad affrontare un’epoca in cui “l’architettura istituzionale della politica mondiale è sempre più un problema e sono necessari nuovi progetti. E’ ovvio” insiste Walt “che hanno interpretato male la direzione in cui era diretto il Medio Oriente, e l’applicazione dei cerotti oggi – anche se viene fatta con energia e abilità – lascerà comunque le ferite sottostanti non curate. Se il risultato finale delle attuali amministrazioni di Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken fosse semplicemente un ritorno allo status quo pre 7 ottobre” conclude Walt “temo che il resto del mondo starà a guardare, scuoterà la testa con sgomento e disapprovazione, e concluderà che è arrivato il tempo per un approccio diverso”.
Se anche tu, quando vedi rimbambiden e i suoi vassalli in giro per il mondo, scuoti la testa e pensi che sarebbe arrivato il momento per un approccio leggermente diverso, aiutaci a costruire il primo media che guarda al mondo nuovo che avanza senza le lenti annebbiate dei vecchi babbioni suprematisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Chicco Mentana

Il genocidio di Gaza: se per risolvere il rebus la propaganda non basta più

“BREAKING: L’aeronautica israeliana ha colpito una base terroristica di Hamas dentro un ospedale a Gaza”: a scriverlo su Twitter è Hananya Naftali, giovane influencer israeliano diventato ultra-popolare a suon di boutade islamofobe e suprematiste e che da poco è entrato ufficialmente a far parte del team digitale preposto alla propaganda online del governo più reazionario della storia del paese. Pochi minuti prima, una gigantesca esplosione aveva letteralmente raso al suolo l’ospedale Al-Ahli Arab di Gaza. Non era la prima volta: come ha rivelato alla BBC il prete della diocesi anglicana proprietaria dell’ospedale, infatti, “sabato scorso un missile aveva già colpito l’ospedale, causando gravi danni alla struttura e ferendo 4 persone”. Il prete ha anche affermato che, per quanto ne sapeva lui, si trattava ovviamente di un missile israeliano: “era un avvertimento”, ha dichiarato, “volevano fosse chiaro che non si trattava di un posto sicuro”. Il timore delle forze armate israeliane, non privo di fondamento, è che Hamas utilizzi in modo spregiudicato luoghi come scuole e ospedali per mettere al riparo uomini e attrezzature. Ovviamente escluderlo è impossibile; in tutte le guerre asimmetriche,. l’utilizzo spregiudicato degli scudi umani è spesso una componente essenziale, esattamente come facevano i lettori di Kant dei battaglioni Azov durante la battaglia di Mariupol. Colpire questi bersagli, per quanto cinico e spregiudicato possa apparire, non è sadismo ingiustificato, ma serve a mettere in chiaro che non ci sarà scudo umano in grado di ostacolare la forza distruttrice della vendetta sionista.
D’altronde è una storia antica: durante i bombardamenti del 2014, ad esempio, vennero rase al suolo numerose scuole dell’Agenzia per i rifugiati palestinesi delle Nazioni Unite che venivano utilizzate come rifugio dai civili. Le vittime furono in tutto 44 e oltre 200 i feriti; le indagini successive rivelarono che effettivamente 3 delle 7 strutture rase al suolo erano state utilizzate come deposito di armi da parte delle milizie della resistenza. Negli altri 4 casi, invece, si erano sbagliati e avevano bombardato civili inermi senza nessunissimo motivo. Insomma, in questo contesto qualche decina di vittime innocenti non sarà particolarmente educato, ma da parte di Israele non viene considerato comunque niente di particolare di cui vergognarsi, tanto comunque la verità – se mai si saprà – arriverà mesi se non anni dopo e l’imbarazzo per l’ennesima carneficina degli israeliani avrà già bell’e che lasciato lo spazio all’ammirazione per i bellissimi pride e il rispetto per le minoranze sessuali.
Ma a questo giro però qualcosa deve essere andato storto; dopo poco, infatti, Naftali – il genocida mattacchione – decide improvvisamente di cancellare il suo tweet e la rivendicazione di Israele di un atto di guerra certo feroce, ma indispensabile, sparisce. Il punto è che l’ospedale di Al-Ahli è un ospedale piccolino (poco più di 80 posti letto); quante vittime vorrai che faccia mai un bel razzetto… 50, 60? Rispetto agli oltre 1000 bambini che sono stati trucidati in questa settimana, dettagli. Purtroppo, però, a questo giro i calcoli non tornano: dentro il piccolo ospedale infatti si erano rifugiati in oltre 1000 e il bilancio è disastroso. Il grosso dei resoconti parla di almeno 500 vittime; secondo l’organizzazione umanitaria MedGlobal è “il peggior attacco a una struttura sanitaria del 21esimo secolo”. Giustificarlo con la possibile presenza di qualche razzo Qassam, potrebbe risultare un po’ difficile, ed ecco allora che magicamente il copione cambia completamente. Al posto del vecchio tweet, Naftali pubblica questo

“La misteriosa esplosione a Gaza” scrive. “Hamas incolpa Israele per questo” e invece, procede arrampicandosi, “credo che si tratti di un razzo fallito che ha colpito l’ospedale o di qualcosa che è stato fatto apposta per ottenere il sostegno internazionale”. Da lì in poi la linea della propaganda sarà quella: l’efficiente missile israeliano che aveva sgominato l’ennesima base nascosta di Hamas, si trasformerà magicamente in una false flag architettata dagli untermensch, dai subumani. D’altronde avete visto tutti di cosa sono capaci: “tutto il mondo ha visto Hamas tagliare teste di bambini” ha affermato in un’intervista su Skynews l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito. Ma che davvero? Cioè, gli avete visti tutti e a me non mi avete detto niente? Vatti a fidare. D’altronde, forse, non è una fonte proprio affidabilissima: sempre nella stessa intervista, infatti, ha dichiarato che “a Gaza non c’è nessuna crisi umanitaria”.
Chi di sicuro aveva detto di averli visti di persona personalmente i bimbi decapitati comunque era stato Joe Biden che poi aveva costretto a una smentita addirittura il suo stesso staff. E a questo giro ci risiamo; costretto a trovare una giustificazione ragionevole al fatto di aver deciso di portare la sua solidarietà a un regime terrorista poche ore dopo averlo visto commettere un atto genocida di dimensioni epiche, da Tel Aviv – più rimbambiden che mai – ecco che gioca di nuovo la carta della post-verità. “In base a quello che ho visto, è stato fatto dall’altro team, non da voi” ha dichiarato a un compagno Netanyahu evidentemente compiaciuto. Che poi io, ormai, mi son fatto questa idea: che zio Joe sia rimbambiden secondo me è una messa in scena. Fa finta, così la può sparare grossa quanto gli pare, e al limite poi con una piccola smentita si aggiusta tutto.
E’ un po’ la strategia che ha deciso di adottare anche Naftali.

“Oggi”, ha scritto in un tweet, “ho condiviso un rapporto pubblicato su @reuters sull’attentato all’ospedale di Gaza in cui si affermava falsamente che Israele aveva colpito l’ospedale. Ho erroneamente condiviso queste informazioni in un post cancellato in cui facevo riferimento all’uso di routine degli ospedali da parte di Hamas per immagazzinare depositi di armi e condurre attività terroristiche. Mi scuso per questo errore. Dato che l’IDF non bombarda gli ospedali, ho pensato che Israele stesse prendendo di mira una delle basi di Hamas a Gaza”. Geniale! L’IDF non bombarda gli ospedali – dice – a parte quando li bombarda, tipo 94 volte dall’inizio di questo conflitto, e in tal caso però fa bene perché potrebbero nascondere armi di Hamas, anche quando non le nascondono. Ma sopratutto: cioè, te fai parte del team digitale per la propaganda online di un governo che in quanto a propaganda non teme confronti al mondo, e su una cosa così delicata ti basi su un articolo a cazzo della Reuters, che tra l’altro si basa sulle dichiarazioni di funzionari di Hamas? Quello di Naftali non è stato l’unico epic fail della blasonatissima propaganda israeliana; per sostenere la pista del razzo della contraerea palestinese fuori rotta, l’account Twitter ufficiale dello Stato israeliano martedì sera infatti pubblica questo post: “Secondo informazioni di intelligence provenienti da diverse fonti in nostro possesso”, scrivono, “l’organizzazione terroristica della Jihad islamica è responsabile della fallita sparatoria che ha colpito l’ospedale”. A prova di questa tesi allegano un video dove si vede la contraerea di Gaza in azione proprio in quell’area, ma gli è sfuggito un piccolo dettaglio: il video è stato registrato 40 minuti dopo il massacro. Soluzione? Semplice: si cancella il video, ma rimane il testo. Tanto ai sostenitori del genocidio gli basta. Ed ecco infatti che, subito dopo, arriva la nostra Ursulona a metterci il suo carico da 90: a “causare immense sofferenze al popolo palestinese” – afferma con sicurezza Ursolona 7cervelli – è stato “il terrorismo di Hamas”.
Se, per risolvere il rebus, la propaganda non basta più e la prova provata di chi fosse in definitiva il missile che ha sterminato oltre 500 civili inermi martedì sera probabilmente non ce l’avremo mai, di chi è la responsabilità morale – invece – lo sappiamo benissimo. Lunedì scorso, infatti, la Russia aveva presentato al consiglio di sicurezza dell’ONU una risoluzione per imporre immediatamente il cessate il fuoco; i rappresentanti dell’occidente globale l’hanno respinta in blocco e a Tel Aviv hanno brindato. Era il semaforo verde: qualunque azione decidiamo di intraprendere per portare a termine il genocidio, il sostegno degli alleati non si discute. Il giorno dopo, ecco che la pioggia di bombe cade più fitta che mai, tanto se la situazione poi sfugge di mano, la propaganda una toppa sicuro la trova.
Sterminare e terrorizzare il maggior numero possibile di civili non è un atto di puro sadismo: fa parte di una precisa strategia militare che, tanto per iniziare, prevede che in tutta la parte nord della striscia non rimanga sostanzialmente nessun civile. Sgomberare completamente il terreno attraverso questa democratica pulizia etnica è indispensabile perché, prima di entrare via terra, è necessario radere Gaza completamente al suolo. “Il concetto”, ricorda Seymour Hersh in un lungo articolo sul suo profilo Substack, “risale ai primi anni della guerra del Vietnam in America, quando l’amministrazione del presidente John F. Kennedy autorizzò il Piano Strategico Amleto che prevedeva il trasferimento forzato dei civili vietnamiti in aree ritenute essere controllate dai vietnamiti del sud. Le loro terre deserte furono poi dichiarate zone di fuoco libero dove chiunque fosse rimasto avrebbe potuto essere preso di mira dalle truppe americane”. La differenza, a questo giro, è che radere tutto al suolo potrebbe non bastare; bisognerà andare più giù, molto più giù.
Uno dei punti di forza principali della resistenza palestinese a Gaza, infatti, è lo sterminato reticolo di tunnel e magazzini sotterranei costruiti negli ultimi anni, “la metropolitana di Gaza”, come è stata ribattezzata. Un “campo di battaglia chiave per Israele” scrive l’Economist,che sottolinea: “La guerra sotterranea è terrificante, claustrofobica e lenta. Individuare, ripulire e far crollare diverse centinaia di chilometri di cunicoli sotterranei”, continua l’Economist, “sarà un lavoro di anni, non di settimane o mesi”. A meno, appunto, che non si faccia prima dall’alto: come scrive Seymour Hersh, una volta rasa al suolo Gaza Nord, “Israele” infatti “inizierà a sganciare bombe da 5.000 libbre di fabbricazione americana note come “bunker busters” o JDAM, nelle aree rase al suolo dove è noto che i combattenti di Hamas vivono e fabbricano i loro missili e altre armi sottoterra. Gli attuali pianificatori di guerra israeliani sono convinti, mi ha dichiarato un insider, che la versione aggiornata dei JDAM con testate più grandi penetrerebbe abbastanza in profondità nel sottosuolo prima di esplodere – da trenta a cinquanta metri – con l’esplosione e la conseguente onda sonora in grado di uccidere tutti entro mezzo miglio”. A quel punto, continua Hersh, “nello scenario dei pianificatori, la fanteria israeliana sarà assegnata alle operazioni di rastrellamento: ricercare e uccidere quei combattenti e lavoratori di Hamas che sono riusciti a sopravvivere agli attacchi della JDAM”.
In realtà, però, potrebbe essere più semplice da dire che da fare. Primo ostacolo: nonostante vengano impiegate pratiche genocide per imporla, la pulizia etnica del nord di Gaza potrebbe non essere così semplice da portare a termine; a pesare, il fatto che persone che sono state rinchiuse per 20 anni in gabbia tendenzialmente pensano di non avere poi tantissimo da perdere, e consapevoli del fatto che, una volta sfollate, con ogni probabilità a casa non ci potranno tornare più, sembrano quasi più propense ad andare incontro alla morte che non a soddisfare i desiderata di Tel Aviv. Ma, sostiene Hersh, c’è anche dell’altro: una fonte interna al governo israeliano, infatti, avrebbe confidato ad Hersh che Israele sta cercando di convincere il Qatar a finanziare una tendopoli per i rifugiati subito oltre il valico di Rafah. Nello specifico, il vecchio sito di Yamit, colonizzato da Israele dopo la guerra dei 6 giorni del 1967 e poi evacuato e raso al suolo dagli israeliani stessi nel 1982, subito prima che il Sinai venisse restituito all’Egitto. Ma come potrebbero mai riuscire a convincere l’Egitto ad accollarsi un milione e più di profughi palestinesi? “Teniamo gli egiziani per le palle”, avrebbe dichiarato ad Hersh la sua fonte. “Si riferiva” – specifica Hersh – “alle recenti incriminazioni del senatore democratico Bob Menendez del New Jersey e di sua moglie, accusati di corruzione in seguito a vari rapporti d’affari con alti funzionari egiziani, e alla presunta trasmissione di informazioni su persone in servizio presso l’ambasciata americana al Cairo”.
Per convincere le persone ad evacuare, comunque, la strategia più convincente rimane quella di bombardarli ovunque senza pietà, come non ci fosse un domani. Cosa che Israele sicuramente sta facendo con un certo impegno; però anche qui, forse, c’è un limite. Qualche prima timida avvisaglia si è avuta proprio ieri, con le reazioni al massacro dell’ospedale: in tutto il mondo arabo la gente è scesa per strada a decine di migliaia, costringendo i paesi arabi a una rara dimostrazione di unità. Ad Amman le proteste hanno preso di mira l’ambasciata israeliana e hanno imposto al re Abdullah II di cancellare l’incontro previsto con Biden. A Beirut, visto che l’ambasciata israeliana non c’è, le proteste si sono indirizzate contro quella francese prima e, sopratutto, il consolato statunitense poi, che è stata dato alle fiamme. Anche ad Istanbul i manifestanti hanno preso di mira l’ambasciata USA e a Ramallah, invece, l’oggetto delle proteste è stata direttamente l’autorità palestinese, con le forze di polizia accusate di essere al soldo delle forze di occupazione che sono state attaccate con le care vecchie sassaiole e qualche botto non meglio identificato. Insomma: la carneficina che serve a Israele per sgomberare il campo è la stessa che sta riaccendendo la fiaccola della solidarietà filo-palestinese in tutta la regione, nonostante la cautela dei vari governi che, alla causa palestinese, hanno sempre preferito accordi commerciali generosi con Washington. Il ruolo diplomatico che stanno provando a svolgere gli USA sembrerebbe in buona parte consistere proprio in questo: garantire agli interlocutori regionali che, se collaborano, riuscirà a tenere a freno la ferocia del regime sionista e quindi evitare altri scoppi d’ira delle popolazioni che metterebbero a repentaglio la stabilità dei governi stessi. Peccato che per ora, però, la strategia di Biden non stia dando grandi risultati e la sete di sangue del governo più reazionario della storia di Israele non sembra conoscere mediazioni.
Ma i problemi non finiscono qua perché, nella remota ipotesi che in qualche modo la campagna aerea alla fine permetta di portare a termine la pulizia etnica senza che, nel frattempo, qualche vicino arabo perda definitivamente la pazienza, anche la fase due – quella della distruzione dall’alto della “metropolitana di Gaza” – potrebbe non essere esattamente una passeggiata. “Sembra quasi”, scrive sempre Hersh, “che Hamas non stia aspettando altro. D’altronde l’operazione diluvio di Al-Aqsa è stata pianificata nei minimi dettagli, e Hamas sapeva esattamente quale sarebbe stata la reazione israeliana. Il problema” sottolinea Hersh “è che le bombe anti-bunker israeliane potrebbero non essere in grado di penetrate abbastanza in profondità. Secondo la mia fonte infatti Hamas starebbe operando in tunnel costruiti a 60 metri di profondità che sarebbero in grado di resistere agli attacchi dei JDAM”. Per quanto devastante, quindi, la campagna aerea potrebbe non essere in grado di danneggiare Hamas quanto necessario, il che significa che – per quanto preparata nei dettagli – l’invasione via terra comporterebbe comunque da parte delle forze armate israeliane uno sforzo notevole di uomini e di mezzi, che se gli impieghi tutti da una parte, poi ce n’è un’altra che rimane scoperta. Sicuramente la Cisgiordania.
Ma – quel che sarebbe ancora più devastante – il confine a nord con il Libano dove, secondo alcuni, le milizie di Hezbollah non starebbero aspettando altro. Una bella rogna, come ricorda Hasan Illaik su The Cradle; infatti “Hezbollah potrebbe contare su circa 100 mila uomini” e “gli analisti regionali e occidentali stimano che abbia un arsenale di oltre 130 mila missili. Per la maggior parte sarebbero non guidati, ma il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, avrebbe dichiarato in un intervista del febbraio del 2022 che Hezbollah avrebbe la capacità di convertirne una buona parte in missili di precisione”. E potrebbero non essere da soli: nonostante il bordello che era scoppiato a Gaza, infatti, nell’ultima settimana Israele s’è preso la briga di bombardare per ben due volte l’aeroporto di Aleppo, in Siria. L’obiettivo sarebbero le milizie filosciite legate a doppio filo a Teheran, che starebbero spostando uomini e mezzi in quantità dalle regioni più orientali. Insomma: se l’obiettivo di Israele, come dichiarato più volte, è quello di annientare totalmente Hamas, ogni tentativo di evitare di allargare il conflitto potrebbe alla fine risultare velleitario. Un contributo importante da questo punto di vista è arrivato dallo zio Sam, che ha pensato bene di mandare subito ben due portaerei e anche di rinforzare la flotta di caccia presenti nelle sue numerose basi nell’area; lo scopo, appunto, è quello di funzionare da deterrenti nei confronti di attori terzi che si fossero messi in testa strane idee. Da questo punto di vista, un incentivo diretto nei confronti di Israele a perpetrare il genocidio senza doversi troppo curare delle conseguenze, perché alle conseguenze ci penserebbero – appunto – gli USA, se ci riescono: come titola il Financial Times, infatti, “La guerra tra Israele e Hamas mette alla prova il settore della difesa statunitense già messo a dura prova dal conflitto in Ucraina”. Secondo il Times, “I produttori di armi statunitensi si stanno preparando ad accelerare le forniture di armi a Israele in un momento in cui sono già sotto pressione per armare l’Ucraina e ricostituire le scorte esaurite del Pentagono. Una sfida” sottolinea il Times “che secondo gli analisti metterà a dura prova una base industriale della difesa già estesa”. Al momento, in realtà, si tratta principalmente di fornire “bombe di piccolo diametro, munizioni di precisione aria-terra e proiettili per carri armati calibro 120 millimetri” e cioè roba diversa da quella spedita in Ucraina, “ma se il conflitto dovesse estendersi” sottolinea il Times “le forze di difesa israeliane potrebbero aver bisogno dello stesso tipo di sistemi missilistici guidati che attualmente scarseggiano in Ucraina, compresi droni armati e proiettili di artiglieria da 155 mm”.
Biden ostenta sicurezza: “Siamo gli Stati Uniti d’America, per l’amor di Dio” ha dichiarato enfaticamente domenica scorsa durante una lunga intervista. “La nazione più potente della storia – non del mondo, nella storia del mondo. Possiamo occuparci di entrambi questi aspetti e mantenere comunque la nostra difesa internazionale complessiva”. Per tenere fede a questa volontà di potenza, Biden sarebbe in procinto di presentare al Congresso l’autorizzazione per un pacchetto gigantesco di aiuti che tenga insieme il sostegno all’Ucraina, quello ad Israele e anche una montagna di soldi per rafforzare la sicurezza al confine col Messico, come richiesto dai Repubblicani. Peccato che al momento, dopo la defenestrazione dello speaker McCarthy, l’attività del Congresso sia sospesa, e per ora non siano stati neanche in grado di fare il nome del potenziale successore. Probabilmente, alla fine, una quadra magari la trovano pure; quando si tratta di difendere gli interessi imperiali la trovano sempre. Solo che, grazie alla dittatura globale del dollaro, la fanno pagare sempre agli altri e a questo giro gli altri potrebbero essersi scocciati; mentre Biden, infatti, pagava il suo sostegno incondizionato al genocidio sionista con l’isolamento – almeno temporaneo – rispetto anche agli alleati arabi più storici, dall’altra parte del mondo, a Pechino, atterrava Putin per partecipare al summit che festeggia i dieci anni di vita della Belt and Road Initiative, da dove la nuova “partnership senza limiti” tra Russia e Cina lanciava al mondo un messaggio piuttosto chiaro: di fronte all’arroganza unilaterale del vecchio impero, è arrivata l’ora di non arretrare di un millimetro.
Il rebus del nuovo ordine globale per Washington e il nord globale è un vero rompicapo; l’unica cosa certa è che se sperano di risolverlo semplicemente a suon di propaganda stantia, buona solo per rafforzare l’autostima suprematista della piccola tribù dell’uomo occidentale, a questo giro il fallimento potrebbe essere inevitabile.
Contro la propaganda del nord globale che giustifica i genocidi e ci trascina nel baratro, abbiamo bisogno di un media che racconti il mondo per quel che è e non per quello che vorrebbero fosse un manipolo di suprematisti scollegati dalla realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu








Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde