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Tag: stati uniti

Come la piovra militare della NATO ha inglobato l’Ucraina – ft. David Colantoni

Oggi il nostro Gabriele torna ad intervistare David Colantoni, scrittore e artista, presentando il panel in cui David esporrà le sue uniche teorie sulla classe militare, il suo ruolo all’interno della NATO e la penetrazione pluridecennale della NATO in Ucraina. Sullo sfondo, intrighi di potere e denaro, ricatti e manovre politiche che alla fine spinsero l’Ucraina nelle braccia di Regno Unito e Stati Uniti, fino ad arrivare ad essere il terzo contingente militare presente in Iraq per numero di uomini. Il panel di David Colantoni sarà a Pisa (Circolo Arci di Putignano) domenica 7 luglio alle 11 del mattino. Non mancate!

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Gli USA in Ucraina abbattono l’ultimo tabù e ufficializzano l’invio di armi ai neonazisti

La love story tra liberal americani e post-neofascisti europei si arricchisce di un nuovo capitolo ogni giorno che passa: dopo aver osannato i reduci nazisti della divisione Galizia, aver approfittato delle celebrazioni del D-Day per rivedere l’intera storia della seconda guerra mondiale come lotta del mondo libero contro il totalitarismo asiatico, e aver sdoganato i partiti politici post-fascisti alla vigilia delle elezioni – in quanto migliori referenti possibili immaginabili per trascinare il vecchio continente nella guerra totale contro il resto del mondo – lunedì scorso l’amministrazione revisionista USA ha infranto anche l’ultimo tabù. Che il partito unico della guerra e degli affari di Washington armi indiscriminatamente tutti i peggiori fondamentalisti invasati del pianeta e li sostenga nelle loro azioni terroristiche non è certo una novità, ma, fino ad oggi, si è sempre cercato di farlo un po’ di nascosto e mantenendo un minimo le forme, certi anche della complicità dei media mainstream sempre pronti a negare l’evidenza per coprire i peggiori crimini dell’impero; lunedì, invece, il leader del mondo libero ha approfittato del panico post-elettorale per revocare formalmente il divieto (in vigore da anni) di fornire direttamente armi USA ai neonazisti del battaglione Azov: d’altronde, come sottolinea il Washington Post, il battaglione, “noto per la sua tenace ma alla fine fallita difesa dell’acciaieria Azovstal a Mariupol… è considerato una forza combattente particolarmente efficace”. Peccato però che, nonostante le rassicurazioni di David Parenzo e di Bruno Vespa, “un decennio fa gli è stato impedito di usare armi americane perché i funzionari statunitensi hanno stabilito che alcuni dei suoi fondatori abbracciavano opinioni razziste, xenofobe e ultra-nazionaliste, e i funzionari delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno accusato il gruppo di violazioni umanitarie”; questo, ovviamente, non ha impedito fino ad oggi di armarli come, in passato, remore più o meno simili non hanno mai impedito di gestire il traffico internazionale di stupefacenti per finanziare operazioni sotto copertura, sostenere gruppi terroristici di estrema destra per reprimere movimenti sociali e architettare colpi di Stato o assistere tagliagole jihadisti per attentare alla sovranità nazionale di qualche stato in Medio Oriente. Ciononostante, dover passare da sotterfugi vari, in un modo o in un altro, complica comunque la vita e – vista la situazione sul campo – di aggiungere complicazioni che servono solo a tenere un po’ a bada gli analfoliberali più petalosi evidentemente, non è più cosa; e se questo significa arrampicarsi sugli specchi pazienza, che tanto ai media conniventi che je frega? Loro i nazisti di Azov li hanno già assolti e sdoganati da mo’.
Rispetto ai mezzi di produzione di propaganda e fake news, le istituzioni USA comunque devono rispettare qualche piccola formalità in più, almeno in teoria: il divieto a fornire armi ai neonazisti del battaglione Azov, in particolare, derivava dall’applicazione della cosiddetta Legge Leahy che, appunto, vieta al governo USA di fornire assistenza militare e finanziaria a unità straniere “laddove esistano informazioni credibili che imputano a tale unità gravi violazioni dei diritti umani”; in particolare, la legge fa riferimento esplicito a crimini quali “torture, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e stupri”, tutti crimini che “vengono esaminati sulla base dei fatti specifici”. Ergo, se gli USA non fornivano assistenza al battaglione Azov da 10 anni, in base a questa legge è perché aveva esaminato nello specifico alcuni episodi di “torture, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e stupri” dei quali i nostri beneamati lettori di Kant si erano resi colpevoli.

Sviatoslav Palamar

Inizialmente, questo divieto ha escluso il battaglione Azov dai salotti buoni, almeno a favore di telecamera: lo ribadisce con forza il vice comandante del battaglione Sviatoslav Palamar proprio al Washington Post; Palamar, nonostante i suoi appena 41 anni, è un vero e proprio pezzo di memoria storica del neonazismo ucraino che ha contribuito in primissima persona a costruire e consolidare, sin dalle origini, partecipando attivamente a ogni sua evoluzione. Nel 2000, ancora minorenne, è andato infatti a ingrossare le fila della neonata organizzazione dei patrioti dell’Ucraina, l’ala militare del Partito Nazional Socialista Ucraino che, ovviamente, si chiamava così perché era una specie di club del libro per cultori di Kant e non – come pretenderebbero i propagandisti putinisti – perché vivevano nel culto di Adolf Hitler; partecipando con entusiasmo al golpe eterodiretto dagli USA, sperava di venire adeguatamente premiato e, invece, proprio mentre si preparava ad andare a fare un po’ di carne da macello di quegli impuri dei secessionisti russofoni, ecco la doccia fredda: “Palamar” riporta il Post “viene a sapere che la sua unità è stata bandita dal ricevere armi e addestramento dagli USA”. Ed ecco così che altre truppe delle guardie nazionali, spesso ideologicamente non molto diverse dalla sua, erano “invitate ad addestrarsi all’estero”; quei poveri ragazzi volenterosi (ma ingiustamente discriminati) di Azov, no. Ma siccome sono veri eroi, invece di abbattersi “si scaricavano i manuali della NATO online e imparavano da soli i vari protocolli dalle varie fonti aperte”; insomma: un po’ Hermann Goering, ma anche un po’ MacGyver. Il divieto USA è rimasto in piedi anche quando il battaglione Azov s’è ritrovato sostanzialmente da solo a resistere all’avanzata russa, come nella lunga battaglia dell’Azovstal che Palamar ha guidato direttamente dal fronte; anche in quel caso, le armi fornite copiosamente dagli USA hanno dovuto comunque almeno fare finta di fare un giro e passare da altre truppe, e anche se l’affermazione che Palamar fa al Post – addirittura di non aver mai ricevuto, durante l’assedio, sistemi d’arma USA – è piuttosto palesemente una cazzata, evidentemente questo trabagai qualche problemino l’ha provocato e ancora oggi gli ucraini sono convinti che, senza il divieto, gli aitanti neonazisti di Azov avrebbero probabilmente potuto resistere meglio e più a lungo.
Ma allora com’è che questo divieto cade proprio adesso? E, a quanto mi risulta, una volta che hai determinato “sulla base di fatti specifici” che quell’unità si è resa colpevole delle violazioni previste dalla Legge Leahy, non è che poi, di punto in bianco, decidi che chi ha dato ha dato e scordammoc o’ passat: la legge, infatti, prevede che il caso possa essere nuovamente rianalizzato, ma solo nel caso il Segretario di Stato determini – e riporti formalmente al Congresso – che il governo del paese in questione abbia compiuto passi concreti per assicurare che i membri dell’unità in questione, ritenuti responsabili di quegli atti, vengano consegnati alla giustizia; ma in Ucraina negli ultimi 2 anni non solo (per quanto è a mia conoscenza) non c’è mai stato neanche un singolo caso di un tagliagole azovita che è stato chiamato a rispondere dei suoi crimini, ma piuttosto ci sono stati vari episodi dove i tagliagole azoviti hanno minacciato (più o meno esplicitamente) Zelensky per non avergli garantito l’assistenza necessaria.
Il punto è che nonostante – per stessa ammissione degli USA – si tratti di un battaglione capeggiato da criminali neonazisti, la guerra si fa con quello che si ha, soprattutto quando le cose diventano complicate; e che le cose siano complicate, soprattutto dal punto di vista dell’arruolamento, sembra abbastanza conclamato. L’ultimo indizio sono queste foto pubblicate dall’agenzia di stampa turca Anadolu: mostrano alcune fasi dell’addestramento di un reparto di mobilitati ucraini nella zona di Kahrkiv e, come sottolineava un paio di giorni fa il nostro dall’Aglio sul suo account Facebook tra un eufemismo e l’altro, “oltre ad essere piuttosto anziane, le reclute non sembrano nemmeno particolarmente in salute, conseguenza probabilmente dell’eliminazione della categoria parzialmente abile che ha consentito di arruolare personale che prima non era preso in considerazione per il servizio attivo”. Per non dare adito a eccessivo wishful thinking, il nostro Bulgaro sottolinea come la mobilitazione “tutto sommato funziona”, ma – sottolinea con un altro eufemismo – “il materiale umano che si riesce a trovare non è più di prima scelta”.
Gli unici che sembrano riuscire ancora ad attirare quel pochissimo che rimane di gente veramente arruolabile sono, appunto, gli azoviti: in particolare, dall’assedio dell’Azovstal il battaglione è diventato il simbolo per eccellenza della resistenza del popolo ucraino “e Azov libero” sottolinea il Post “è diventato un grido di battaglia comune nelle proteste a Kiev”; grazie a questa aura, in pochi mesi il battaglione che, da circa un anno, è stato trasformato definitivamente in brigata all’interno della Guardia Nazionale, è stato in grado di reclutare 5000 nuovi soldati in perfetta forma fisica e psichica. Continuare a dover fare i peggio rigiri per armarli come si deve e quando serve è un lusso che evidentemente non ci si può più permettere, anche se significa riabilitare formalmente dei criminali neonazisti e pure violare, in modo piuttosto palese, la stessa legge statunitense. E voi che pensavate che il problema era che ormai avevano sdoganato addirittura la Le Pen… L’impero in guerra contro il resto del mondo è costretto a gettare la maschera della fiction liberaloide e ad affidarsi sempre più alle care vecchie camice nere, da Bruxelles all’Ucraina: forse, sarebbe il caso di darsi una svegliata. Per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che al partito unico della guerra e degli affari, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bruno Vespa

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Come la Cina vuole mettere fine alla talassocrazia statunitense

Il concetto di libertà di navigazione è al centro di uno scontro politico internazionale che vede la Cina contrapporsi agli Stati Uniti. Quando si parla di libertà di navigazione, di Freedom of Navigation, non si sta parlando solo di navigazione civile commerciale, ma anche di navigazione militare; e se la Cina dovesse affermare la sua interpretazione della libertà di navigazione delle navi militari statunitensi sulle sue acque territoriali e sulla sua zone economica esclusiva, allora la talassocrazia americana sarebbe messa a forte rischio. Ne parliamo in questo video, ripercorrendo la storia del concetto di libertà di navigazione!

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A Singapore l’impero dichiara guerra alla Cina e riempie di missili Taiwan

Tutti i fronti della grande guerra ibrida dell’imperialismo contro la Cina ribelle sono in movimento: gli USA riempiono di armi Taiwan e supportano i deliri indipendentisti del suo nuovo presidente, mentre minacciano la Cina con le esercitazioni nelle Filippine; Xi Jinping risponde concentrandosi sulla sua battaglia per la sovranità tecnologica e striglia i funzionari del partito che non hanno ancora capito che lo sviluppo delle nuove forze produttive per il Dragone è questione di vita o di morte. Nel frattempo, il sogno USA di puntare sul Messico per portare avanti i suoi sogni di decoupling dal colosso manifatturiero cinese si infrangono sull’incredibile risultato elettorale della Sheinbaum e di tutta la nuova classe dirigente popolare e sovranista di MORENA e i risultati di Modi in India fanno emergere tutta la differenza tra propaganda e realtà quando si parla di disinvestire dalla Cina per puntare tutto sul subcontinente.

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Mondo Arabo: da che parte sta?

Nello scenario delle politica internazionale, una delle partite più complesse da decifrare è quella che riguarda i paesi arabi. La tensione nel Medio Oriente e lo scontro tra Iran e Israele vede il mondo arabo muoversi in maniera ambigua: da un lato abbiamo la ripresa dei rapporti tra Arabia Saudita e Iran mediata dalla Cina e dall’altro lato potremmo presto avere il riconoscimento ufficiale di Israele sempre da parte dell’Arabia Saudita mediato dagli Stati Uniti. Quindi, come interpretare la posizione dell’Arabia Saudita e del mondo arabo in generale? Ne parliamo in questo video!

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La condanna di Trump: trionfo dello stato di diritto o fine della democrazia liberale? – ft. Roberto Vivaldelli

La condanna di Trump cambia il futuro elettorale degli USA? Oggi è arrivata la condanna dell’ex Presidente e attuale candidato alla presidenza per i repubblicani nelle prossime elezioni. Anche negli USA la magistratura rivendica un ruolo politico e intanto ci dirigiamo verso una serie di dubbi: cosa succederà a Trump? Dovrà fare la campagna elettorale da casa? Mentre è praticamente sicuro che potrà continuare la sua campagna elettorale, si presume che qualsiasi pena verrà rinviata al dopo voto e eventuale mandato in caso di vittoria. Intanto si cerca di capire quanto e come una sentenza legata alla vita sessuale di Trump possa condizionare il voto religioso, in passato determinante. Su tutto questo aleggia anche la politica estera, il duro dibattito interno alla società USA e soprattutto la scelta del futuro vicepresidente di una nuova eventuale presidenza Trump. Ne parliamo con Roberto Vivaldelli. Buona visione!

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Crollo consumi e dividendi record: la doppia rapina di USA e oligarchie contro i lavoratori europei

Dividendi da record titolava entusiasta ieri Il Sole 24 Ore: “Le borse mondiali pagano 339 miliardi” e questo solo nei primi tre mesi del 2024; “Un nuovo massimo a livello globale” festeggia il giornale dell’1%. Se ne esistesse anche uno del 99% probabilmente festeggerebbe molto meno, soprattutto se si occupasse del 99% dei lavoratori europei. Come dimostra questo grafico pubblicato il giorno prima dal Financial Times, infatti, se i nostri azionisti ridono, le famiglie europee non c’hanno più nemmeno gli occhi per piangere: mentre il livello dei consumi delle famiglie USA, infatti, rispetto ai livelli prepandemia è cresciuto di ben oltre il 10%, il nostro è rimasto completamente invariato. Zero. Niente. Neanche un piccolo cenno di crescita; ed è solo l’antipasto. E il primo che ci stanno preparando sarà ancora più indigesto: questo ulteriore, gigantesco trasferimento di ricchezza dalle famiglie europee verso quelle USA, da un lato, e verso le oligarchie di entrambe le sponde dell’Atlantico dall’altro, infatti, non può che comportare un ulteriore svuotamento delle casse dello Stato alle quali, giustamente, non contribuiscono i cittadini USA, ma decisamente molto meno – giustamente, sempre di meno – anche le nostre oligarchie. Risultato: FMI, allarme sui conti come titolava ieri La Repubblichina; secondo il Fondo Monetario, riporta l’articolo, “Serve una manovra da 60 miliardi in due anni per sanare il bilancio” e, ovviamente, “bisogna fermare tutte le misure in deficit”. Eh, giustamente: chi ci crediamo d’essere, gli USA? Le misure in deficit sono una cosa da ricchi e su chi, alla fine, dovrà pagare il conto s’è scatenata una vera e propria guerra: Sorpresa redditometro titolava mercoledì La Stampa; “Torna lo strumento che stana gli evasori in base agli eccessi di spesa”. Strano: già 10 anni fa, infatti, Matteo Salvini aveva definito il redditometro “roba da regime comunista”; sostanzialmente, è una misura che dovrebbe permettere all’Agenzia delle entrate di andare a bussare alla porta di chi dichiara redditi al di sotto della soglia di sussistenza, ma poi, magari, ogni due anni si compra un SUV nuovo e non esce di casa senza un Rolex al polso. Insomma: lo zoccolo duro dell’elettorato della destra fintosovranista. Se la destra di governo arriva a introdurre una misura del genere – tra l’altro ad appena un paio di settimane da un appuntamento elettorale di tutto rilievo – vuol dire che sono veramente alla frutta; e, infatti, è bastato aspettare 24 ore ed ecco che, come titolava ieri La Repubblichina, Redditometro, marcia indietro del governo.
Insomma: se non siete tra quelli che hanno da parte montagne di azioni di qualche grande corporation e la scappatoia della piccola evasione proprio non vi riguarda perché le tasse, come a oltre il 70% dei lavoratori italiani, ve le prelevano di default dalla busta paga, ho come l’impressione che quelli che vi aspettano non siano esattamente tempi di vacche grasse. Oh, se poi pensate ne valga comunque la pena perché per difendere le democrazie liberali dall’invasione del plurimorto dittatore del Cremlino, dei cinesi e dei bambini palestinesi che c’hanno il terrorismo nel DNA, per carità, fate pure per carità; ma prima di provare a spiegarvi perché – probabilmente – non ne vale la pena, ricordatevi di mettere un like a questo video e aiutarci a combattere la nostra piccola battaglia quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi ai nostri canali social e attivare tutte le notifiche: è un’operazione che a voi costa meno tempo di quanto abbia impiegato il governo per fare retromarcia sul redditometro (o la tassa sugli extraprofitti delle banche), ma per noi fa comunque la differenza e ci permette di continuare a provare a costruire un vero e proprio media che, invece che dalla parte di Washington, delle oligarchie e degli svendipatria, sta dalla parte del 99%.
I lavoratori europei, da decenni, sono vittime non di una rapina, ma di due; e da quando gli USA e le oligarchie del Nord globale hanno dichiarato guerra al resto del mondo, il tasso di furti che subiamo quotidianamente ha raggiunto dimensioni mostruose. La prima rapina è raffigurata in modo chiaro in questo grafico pubblicato mercoledì scorso dal Financial Times:

Nel grafico viene confrontata la crescita dei consumi delle famiglie di USA, Eurozona e Gran Bretagna a partire dall’ultimo trimestre del 2019, vale a dire dall’inizio della crisi pandemica. Le linee tratteggiate indicano l’andamento che i consumi delle rispettive famiglie avrebbero dovuto avere se fosse stata confermata la crescita media registrata nei 6 anni precedenti e, già qui, abbiamo una rappresentazione chiara della prima rapina che i consumatori europei subiscono da quelli USA ormai da decenni: fatto 100 il consumo delle famiglie nell’ultimo trimestre del 2019, infatti, se avessimo continuato con il business as usual, nel 2024 i consumatori europei avrebbero raggiunto appena quota 106; quelli USA, 112. Insomma: i consumi statunitensi crescono a un ritmo doppio rispetto a quelli europei o, per dirla meglio, a discapito di quelli europei, un trend che – come abbiamo sottolineato decine di volte su questo canale – procede invariato da quasi 20 anni e, cioè, da quando l’economia mondiale è stata travolta dalla crisi finanziaria innescata dagli USA che ha segnato l’inizio di quella che l’amico Vijay Prashad definisce la terza grande depressione (col paradosso che chi ha scatenato la crisi in realtà non ha fatto che arricchirsi, mentre a pagare il conto ci pensavamo noi). Chi segue questo canale il dato lo conosce ormai benissimo, ma visto che – nonostante gridi vendetta – i media mainstream si scordano sistematicamente di riportarlo, è sempre bene ribadirlo: se infatti, ancora nel 2007, i paesi dell’Eurozona in media (e l’Italia in particolare) avevano un reddito e un patrimonio pro capite di poco inferiori a quelli statunitensi, oggi siamo a meno della metà.
La buona notizia è che ci sarebbe potuta andare peggio, che è esattamente quello che è successo dalla crisi pandemica in poi: nonostante il nostro trend di crescita, infatti, fosse già in partenza decisamente meno ambizioso, magicamente siamo riusciti a non cogliere manco quello; anzi, manco ad avvicinarci. A 4 anni di distanza, infatti, siamo sempre allo stesso identico punto: i nostri consumi non sono cresciuti di una virgola; quelli USA, di oltre il 10%. La prima differenza macroscopica risale immediatamente al periodo pandemico durante il quale, ovviamente, a crollare sono stati i consumi su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma con un’entità parecchio diversa: fatto 100 il consumo nell’ultimo trimestre 2019, il picco più basso raggiunto nei mesi successivi è stato di 90 negli USA, ma addirittura di meno di 85 nell’Eurozona. Dopodiché, se gli USA hanno raggiunto di nuovo il livello di consumo prepandemico subito all’inizio del 2021, noi abbiamo dovuto aspettare 6 mesi di più e da lì in poi, mentre noi ci siamo arenati, gli USA hanno continuato a correre ancora per alcuni mesi a ritmi cinesi; com’è possibile? Molto semplice: nonostante anche nell’Eurozona, per un periodo, si sia sospeso il delirante patto di instabilità e decrescita e, una volta tanto, gli Stati abbiano fatto quello che dovrebbero fare sempre gli Stati (e, cioè, mettere mano al portafoglio in periodi di crisi), l’euro comunque rimane l’euro e il dollaro rimane il dollaro; il che significa, banalmente, che gli USA si possono indebitare quanto gli pare senza mai pagare dazio, che tanto, grazie all’egemonia del dollaro, l’inflazione che generano stampandolo all’infinito mal che vada la possono sempre scaricare sugli altri. Poi è arrivato l’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina contro la Russia e contro l’economia europea e l’esorbitante privilegio del dollaro – come lo definiva l’ex presidente francese Giscard d’Estaing – s’è fatto sentire ancora di più: per tenere a freno l’inflazione che l’immissione di una quantità massiccia di soldi pubblici aveva scatenato, la Federal Reserve ha iniziato la lunga corsa all’aumento dei tassi di interesse e tutti gli altri le sono andati dietro.
Per cercare di spiegare quanto la corsa al rialzo dei tassi di interesse fosse la peggiore delle strategie possibili immaginabili per contrastare l’inflazione, nel corso di questi due anni e passa abbiamo speso ore e ore di video: l’inflazione in questa fase, infatti, oltre che alla liquidità in circolazione, aveva ovviamente a che fare non solo con le tensioni geopolitiche, ma anche con la speculazione che su queste tensioni ha trovato il modo di farci una montagna di quattrini e anche con quella che, con Isabella Weber, abbiamo imparato a chiamare greedflation e, cioè, l’inflazione che le aziende hanno contribuito ad alimentare aumentando i prezzi ancora di più di quanto non fossero aumentati i costi, approfittando del fatto che la concorrenza è morta e ormai il capitale privato, in quasi tutti i settori, è oligopolistico (se non, addirittura, monopolistico) e garantendosi così una montagna di profitti. La lotta all’inflazione a colpi di aumenti dei tassi, quindi, da questo punto di vista (come spesso accade) più che una vera motivazione, appare più che altro una scusa buona per gli analfoliberali e le bimbe di Cottarelli ed Elsa Fornero e che, stringi stringi, ha rappresentato un’altra arma nell’arsenale del rapinatore a stelle e strisce: con l’esplosione del debito registrata per contrastare gli effetti della pandemia, infatti, l’impennata dei tassi significa dover sborsare una quantità gigantesca di quattrini solo per pagare gli interessi sul debito e mentre gli USA – di nuovo per l’esorbitante privilegio del dollaro – se ne possono tranquillamente sbattere, per le semicolonie europee rappresenta un bel problemone, soprattutto dal momento che il patto di instabilità e decrescita non è che è stato cestinato per adottare una politica economica più realistica e ragionevole, ma soltanto temporaneamente sospeso per poi essere reintrodotto. Risultato: mentre noi ci ritroviamo a tagliare ulteriormente la spesa pubblica con l’accetta in ossequio ai deliranti parametri di Maastricht, gli USA continuano a crescere grazie a un deficit pubblico che fa letteralmente paura e, grazie a questo deficit, non solo continuano a pompare artificialmente la loro economia bollita, ma hanno una montagna di quattrini da regalare alle aziende che decidono di abbandonare l’Eurozona e andare a investire nella terra ri-promessa, al punto da creare più domanda di lavoro (in particolare qualificato) di quanto sia disponibile negli USA – in particolare dopo 40 anni di finanziarizzazione che ha distrutto tutto il know how possibile immaginabile. Ed ecco, così, che mentre da noi mancano gli investimenti e il top a cui ambire è fare la stagione in qualche località balneare con stipendi inferiori al vecchio reddito di cittadinanza (che, nel frattempo, abbiamo cestinato), gli investimenti multimiliardari – come quello di TMSC per costruire nuove fabbriche per riportare negli USA la produzione di microchip – vengono rinviati perché non si trova abbastanza manodopera qualificata e ovviamente quella poca che c’è, giustamente, ha tutti gli strumenti per farsi pagare a peso d’oro, come gli operai dell’automotive che hanno strappato aumenti da capogiro. Risultato, appunto: i consumi delle famiglie USA volano e i nostri sono al palo. “Povertà a livelli mai toccati da 10 anni” denuncia l’ultimo rapporto ISTAT pubblicato la settimana scorsa; nell’arco di un decennio, l’incidenza della povertà assoluta è passata dal 6,9 al 9,8%: un italiano su 10 è tecnicamente povero, anche se lavora. Tra gli operai, i poveri sono passati dal 9 al 14,6% e “tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5% mentre nelle altre maggiori economie dell’Ue27 è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1% della Francia e il 5,7% della Germania”.
Fortunatamente, però, chi – invece che del suo lavoro – campa di rendita, se la passa decisamente meglio perché, se continua imperterrito questo trasferimento di risorse da una parte all’altra dell’Atlantico, all’interno dei singoli paesi – allo stesso tempo – procede impunita un’altra rapina: quella che vede trasferire risorse da chi ha poco o niente a chi ha già troppo. “Dopo il 2023 da record” riportava ieri, infatti, Il Sole 24 Ore “il valore dei versamenti effettuati agli azionisti dalle società quotate ha registrato un nuovo massimo anche nei primi tre mesi del nuovo anno”; in particolare, come previsto, “la spinta al rialzo è arrivata sopratutto dal settore bancario”. Chi l’avrebbe mai detto? Grazie all’aumento dei tassi di interesse, infatti, le banche prendono i soldi dei correntisti (ai quali non riconoscono manco mezzo euro di interessi) e li depositano nelle banche centrali che, invece, gli riconoscono interessi del 4,5%: un furto con scasso talmente palese che anche la Giorgiona nazionale, qualche mese fa, aveva fatto finta di volere per lo meno tassare; dopo un paio di giorni i titoloni sui giornali, però, sono scomparsi insieme alla tassa e così oggi “I dividendi staccati dalle società del credito hanno rappresentato un quarto della crescita globale del primo trimestre, con un aumento del 12%”. E’ l’ultimo tassellino di un trend che va avanti, inesorabile, da oltre 40 anni: “Dagli anni ‘80” ricorda il nostro buon vecchio Andrea Roventini su Il Fatto, “la fetta del PIL che va al 50% più povero è in discesa mentre l’1% e lo 0,1% più ricco stanno incamerando una frazione sempre maggiore del reddito”. E il problema non è soltanto per quello che ci mettiamo in tasca noi persone comuni direttamente, ma anche per tutto quello che ci mettiamo indirettamente – e, cioè, quello che dovrebbe garantirci lo Stato – perché il 5% più ricco non si limita a incassare più quattrini, ma, in piena violazione del dettato costituzionale, più è ricco e meno tasse paga: “Il sistema fiscale italiano” continua infatti Roventini “è già piatto sostanzialmente per tutte le classi di reddito, e quando arriviamo al 5% più ricco diventa addirittura regressivo”. Insieme ad altri 134 economisti, il buon Roventini, allora, ha presentato una semplice proposta di una tassa sui grandi patrimoni; in soldoni, si tratterebbe di introdurre tre novità: la prima, una tassa progressiva sul patrimonio dello 0,1% più ricco, a partire dalle montagne di titoli azionari che i super-ricchi concentrano nelle loro mani e che sottraggono risorse all’economia. Poi si tratterebbe di aumentare le tasse su successioni e donazioni oltre una certa soglia, dal momento che – sottolineano gli economisti – “siamo una sorta di paradiso fiscale per le successioni”; e, infine, di introdurre nuovi scaglioni IRPEF che, negli anni, sono passati dai 32 del 1974 (quando l’Italia era ancora una democrazia moderna e cercava di applicare il dettato costituzionale) ai 3 di oggi.
Peccato che, invece dei nostri 134 economisti, al governo ci sia la peggiore destra svendipatria fintosovranista e vera amica di oligarchie ed evasori e che la delega fiscale – che è proprio adesso in fase di attuazione – vada ancora in senso diametralmente opposto. Insomma: invece che prima gli italiani, prima i padroni d’oltreoceano e poi gli italiani sì, ma esclusivamente ultraricchi. Contro la doppia rapina, è arrivata l’ora di tornare ad alzare la testa: per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della sinistra ZTL e della destra fintosovranista, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

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La guerra di trincea dell’impero che rafforza la Russia e il nuovo ordine multipolare – ft. Marco Bordoni

La guerra per procura dell’imperialismo contro la Russia di Putin si è trasformata in una devastante guerra di trincea che continua a macellare decine e decine di migliaia di vite di giovani ucraini, ottenendo in cambio una Russia sempre più solida e unita e il rafforzamento della cooperazione tra i paesi che ambiscono alla costruzione di un nuovo ordine multipolare. Ne abbiamo parlato con Marco Bordoni, fondatore del canale Telegram https://t.me/lamiarussia

Blinken porta l’ultimatum USA alla Cina (e la Cina fa la supercazzola della camicia e del bottone)

Il segretario di stato statunitense Blinken in questi giorni è atterrato a Pechino per consegnare un ultimatum: “Voi cinesi dovete smetterla di commerciare coi russi e dovete cambiare la vostra politica industriale” questa la richiesta di Blinken, “altrimenti ci saranno gravi conseguenze”. La risposta di Pechino è stata altrettanto netta: “O voi americani capite che le relazioni tra Cina e Stati Uniti sono cambiate strutturalmente, o ci saranno gravi conseguenze”. I discorsi sono diametralmente opposti, ma la conclusione è la stessa e, cioè, che ci saranno gravi conseguenze… Insomma, la relazione tra Cina e Stati Uniti è arrivata a un punto di alta tensione, probabilmente un punto di svolta, e la strada che si intraprenderà nei prossimi mesi è destinata a riflettersi nel futuro. Ne parliamo in questo video!

I deliri della propaganda filo-ucraina: se finiti missili e munizioni si moltiplicano le fake news

“Carissimi OttoliNERD” – ci scrive un nostro appassionato follower – “non raccontiamoci balle: onestamente, non puoi metterti contro la Russia dal punto di vista militare. E’ stupido. La Russia è un paese estremamente orgoglioso, un paese che non si fa schiacciare; non lo puoi trattare come un paese di secondo grado, come stanno tentando di fare gli americani da vent’anni, tradendo ogni accordo. Negli anni 90, ad esempio, la riunificazione della Germania era stata fatta con l’assenso della Russia in cambio della promessa da parte della NATO di non avere nessuna intenzione di espandere verso est i suoi confini: è la NATO che sta giocando da aggressore, non la Russia, anche per questioni economiche; se la Russia spende tanto in armamenti è perché è quasi costretta. Io non sono un russofilo, ma è paradossale spingere Estonia, Lettonia, Lituania, Ucraina e Polonia contro la Russia; è tutto un gioco politico americano per dividere la Russia dall’Europa, perché se la Russia si unisce all’Europa l’egemonia americana sul continente europeo finisce e noi, come europei, non dovremmo avere nessun interesse a porci come antagonisti con la Russia. La finta rivoluzione ucraina è nata semplicemente perché gli americani tentavano di bloccare il passaggio del gasdotto. Punto. Questo ormai è comprovato. Quando si sparò sulla folla, quelli che sparavano sulla folla erano dei mercenari e lo fecero per esacerbare la rivoluzione in modo che sembrasse che lo Stato sparasse sui cittadini e quindi, ovviamente, cascava giù il mondo. Non raccontiamoci balle”. A dire il vero, questa lettera è un po’ vecchiotta: risale ormai al gennaio 2022, prima dell’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. L’autore? Forse lo conoscete.

L’avete riconosciuto? Esatto, è proprio lui: Parabellum, al secolo Mirko Campochiari, il pibe de oro degli analisti filoucraini che, evidentemente, più studia e più si confonde le idee: lo fa, soprattutto quando frequenti cattive compagnie. Fino a questa live, infatti, Parabellum, da bravo nerd, si faceva sostanzialmente i cazzi suoi e, se frequentava qualcuno, erano grossomodo nerd come lui, secchioni un po’ fuori dal mondo il cui unico scopo è saperne una più di te e avere ragione, proprio come piacciono a noi. Dopodiché è stato tutto un profluvio di Stirpe, Parsi e Boldrin e, soprattutto, di tanta tanta miniera con quel raffinato intellettuale di Ivan Grieco, le truppe d’assalto della propaganda imperialista e suprematista al gran completo che, passo dopo passo, lo hanno aiutato a costruire una narrazione sempre più radicalmente distaccata dalla realtà il cui unico fine è convincere l’opinione pubblica che più armi mandiamo in Ucraina e meglio è per la pace, la democrazia, ma – soprattutto – per la carriera che, per Mirko, ha subìto una svolta incoraggiante. A quarant’anni suonati, dopo 10 anni dal conseguimento della laurea in storia, Campochiari, nel giro di pochi mesi, passa magicamente dall’anonimato più totale ad essere accolto nelle famiglie della rivista Dominio prima e, addirittura, Limes poi; e, dopo un altro annetto, è pronto per il grande salto: a novembre 2023 fonda la Parabellum & Partners, un “think tank di analisi geopolitica, strategica e consulenza per aziende”, come si legge dal suo profilo Linkedin. Cosa vuol dire posizionarsi nel modo giusto al momento giusto… Peccato, però, che quella che per Campochiari è stata una straordinaria occasione di carriera che ha saputo cogliere con grande lucidità e pragmatismo, per altri sia diventata un’altra delle tante religioni laiche che la propaganda riesce ad affermare e che obnubilano le capacità cognitive più basilari, come il vincolo esterno o l’austerity, come per questo jesse pinkman su X, che sotto allo spezzone di video – pubblicato sul suo profilo da Andrea Lombardi – ha uno sprazzo di genio e commenta: “Ma chi sei, Andrea Lucidi? Io non amo Parabellum ma quelle cose non le ha mai dette… è diffamazione…” .
Di fronte alla disfatta Ucraina, la guerra di propaganda rimane l’unica guerra che vede l’Occidente collettivo e le sue oligarchie nettamente in vantaggio; tutti i gruppi di interesse del mondo, ovviamente, investono in propaganda, ma per ogni euro che tutto il Sud globale messo assieme investe per manipolare l’opinione pubblica – tra testate giornalistiche, think tank e intrattenimento – l’Occidente collettivo e, in particolare, gli USA ne investono migliaia. Il problema, però, è che il compito della propaganda occidentale al servizio delle oligarchie è molto più complicato perché qui non si tratta semplicemente di dare alla realtà una lettura più o meno favorevole, ma proprio di stravolgerla tout court e di inventarsene una parallela. Il buon Billmon su Moon of Alabama ieri mi ha sbloccato un ricordo: ve lo ricordate “il fantasma di Kiev”? Eravamo proprio nelle primissime ore dello scoppio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina quando i media, improvvisamente, si riempirono di notizie di un leggendario pilota che, a bordo del suo mig-29, tirava giù gli aerei militari russi che si avvicinavano a Kiev come mosche: “Lottando contro ogni previsione con armi antiquate” ricordava Forbes “abbatté 40 aerei da guerra russi prima di soccombere finalmente al fuoco nemico tre settimane dopo l’inizio della guerra”; il ministro della difesa ucraino affermò che si trattava di uno delle dozzine di piloti esperti della riserva militare che erano tornati nelle forze armate dopo l’invasione russa e Poroshenko, l’oligarca ex presidente insediatosi dopo il golpe eterodiretto dagli USA dell’Euromaidan, nonché regista dei feroci crimini di guerra commessi contro le minoranze russofone del Donbass da lì in poi, pubblicò addirittura su Twitter quella che definiva una sua foto. Strano, perché due mesi dopo fu lo stesso comando dell’Air Force ucraina a dover ammettere che si trattava, ovviamente, di una leggenda inventata di sana pianta: la foto pubblicata da Poroshenko era una foto a caso presa dall’archivio del ministero della difesa.
“Due anni dopo” scrive Billmon “riecco la solita vecchia storia”; il riferimento è all’attacco dei droni ucraini in territorio russo la notte tra il 4 e il 5 aprile scorsi: Aerei russi distrutti in un grande attacco all’aeroporto di Morozovsk titolava il Telegraph. L’Ucraina lancia un massiccio attacco di droni distruggendo sei aerei e uccidendo 20 soldati russi replicava il Sun; L’Ucraina ha colpito aeroporti in Russia, distruggendo o danneggiando 19 aerei da guerra rilanciava col botto il sempre attendibilissimo Kyev Indipendent, ma forse si sono fatti prendere un po’ troppo dall’entusiasmo: “Non abbiamo ancora trovato alcuna prova visiva che le forze ucraine abbiano danneggiato o distrutto aerei o infrastrutture in una delle quattro basi aeree russe prese di mira dai droni nella notte tra il 4 e il 5 aprile”, dichiarava una fonte: contropropaganda ruZZa al soldo del Cremlino? Non esattamente: la citazione, infatti, è dell’Institute for the study of War, uno dei più prestigiosi think tank guerrafondai neocon americani, sempre in prima linea nel richiedere l’intervento a mano armata degli USA per qualsiasi cosa accada in ogni angolo del pianeta; d’altronde, appunto, terrorismo e guerra psicologica sono, sostanzialmente, le uniche armi rimaste a disposizione degli ucraini che se – dopo aver dilapidato tutto il dilapidabile in due anni abbondanti di guerra per procura – non possono più fare affidamento su copiose forniture di difese antiaeree e munizioni da parte dei pucciosissimi amici occidentali, possono comunque continuare a fare affidamento sui loro media e sulle decine di migliaia di persone che in Occidente, comprensibilmente, ritengono che scrivere vaccate e raccattare figure di merda seriali sia comunque meglio che lavorare.

Fino al degenero: nella giornata di lunedì, infatti, ad essere presa di mira è tornata la gigantesca centrale nucleare di Zaporizhzhia (foto), la più importante centrale nucleare non solo dell’Ucraina, ma dell’intera Europa; la centrale è entrata in pieno possesso delle forze armate russe già a partire dal marzo del 2022 ed era già stata oggetto di svariati attacchi, in particolare durante l’estate e l’inizio autunno dello stesso anno. La mattina del 7 aprile è stata nuovamente presa di mira: un primo drone, riporta sul suo canale Telegram il sempre impeccabile Andrea Lucidi, aveva colpito “un camion a cui si stava scaricando del cibo vicino alla mensa della centrale”; “Il secondo drone” continua Lucidi, risulta aver colpito “nell’area del porto di carico” mentre il terzo avrebbe colpito “la cupola dell’unità 6 della centrale”. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, per voce del suo direttore generale Raphael Grossi, ha fatto sapere che, ovviamente, non ci sono minacce per la sicurezza, rivelando che “il fondo di radiazioni” non è cambiato, e graziarcazzo, direi: se per bucare una centrale nucleare bastasse un drone sarebbe piuttosto grave; è giusto per fare un po’ di caciara. E chi mai potrebbe avere l’interesse ad attaccare una postazione russa per sollevare un po’ di caciara? Sentiamo un po’. Provate a darvi una risposta.
Eehhhh… la fate facile voi propagandisti putiniani, e invece no: è tutto estremamente complicato e, come dice David settecervelli Puente, rischiate di fare affermazioni fuorvianti con contesto mancante, come per il Nord stream. I giornalisti seri, invece, vedono la complessità in tutte le sue sfaccettature: Accuse nucleari titola a 6 colonne La Stampa; “Dinamica incerta. Kiev: vogliono incolparci”. A esporre la tesi, una fonte indipendente affidabilissima: Andriy Yusov, il portavoce dell’intelligence militare ucraina che, in un’intervista all’Ukrainska Pravda, accusa la Russia di aver organizzato un attacco false flag “per minare il sostegno internazionale all’Ucraina invasa”; a differenza dell’utilizzo delle pale come armi da parte dei russi, dei denti d’oro strappati ai prigionieri come bottino di guerra, del fantasma di Kiev e delle decapitazioni di bambini di Hamas – sottolinea La Stampa – in questo specifico caso purtroppo “Né la versione russa né quella ucraina sono verificabili in modo indipendente” anche se, come sottolinea il comunicato dell’AIEA stesso, “Mentre si trovavano sul tetto del reattore – unità 6, le truppe russe hanno ingaggiato quello che sembrava essere un drone in avvicinamento”. Cioè, non solo si bombardano la centrale da soli, ma si bombardano anche i droni che usano per bombardare la centrale e poi, magari, si bombardano pure le truppe che hanno bombardato il drone che hanno usato per bombardare la centrale e, alla fine, si scopre che Zelensky – in realtà – è Prigozhin; d’altronde, li avete mai visti insieme?
Questo tipo di propaganda becera, comunque, in Occidente comincia a fare sempre meno effetto: come diceva Abramo Lincoln “Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre” e, allora, quei pochi meglio selezionarli bene. E’ quello che sembra stiano cercando di fare gli Ucraini: lo avrebbe rivelato al britannico Times Andrei Kovalenko, capo del Centro per la lotta alla disinformazione presso il Consiglio di sicurezza ucraino; secondo Kovalenko, per l’Ucraina provocare tensioni tra gruppi etnici all’interno della Russia sarebbe “terreno fertile”. “Dopo l’attacco terroristico al Crocus di Mosca” sottolinea John Helmer “gli agenti ucraini sono diventati più attivi sui canali Telegram e cercano di incitare alla guerra etnica sfruttando l’origine etnica dei terroristi”; “Naturalmente” ha affermato Kovalenko “è molto utile per noi sostenere eventuali divisioni nazionali in Russia e fomentarle con l’aiuto dell’informazione… Stiamo usando tutto ciò che possiamo perché sappiamo che alimentando le tensioni etniche, stiamo indebolendo la Russia ”. Il Times rileva che il CPD dell’Ucraina sta cercando, attraverso i canali tagiki di Telegram, di suscitare simpatia per i terroristi che sono stati malmenati quando sono stati arrestati dalle forze di sicurezza russe: gli agenti ucraini provocano, così, i cittadini tagiki contro le forze dell’ordine russe; contemporaneamente, prosegue Kovalenko, “Kiev ha alimentato diverse voci per mettere l’uno contro l’altro russi e ceceni”. Sfortunatamente, è una tattica che non sta funzionando proprio benissimo, diciamo: secondo un recente sondaggio del centro Levada, infatti, in realtà “L’intensità complessiva degli atteggiamenti negativi nei confronti delle minoranze etniche della federazione, negli ultimi anni, è sensibilmente diminuita” e, in particolare, proprio nei confronti dei ceceni.
Insomma: anche le montagne di quattrini spesi per le migliaia di psyops portate avanti dall’Occidente collettivo nella sua guerra ibrida contro il resto del mondo rischiano, alla lunga, di rivelarsi uno spreco. Se, mano a mano che ve ne accorgete, vorrete cambiare strategia, ricordatevi degli amici che vi hanno dato buoni consiglio. Nel frattempo, se sei stanco di questa gigantesca mole di puttanate e di ciarlatani e vuoi aiutarci a tirare su il primo vero e proprio media che non ha come unico obiettivo quello di compiacere le oligarchie coloniali per arrivare a fine mese, come fare già lo sai: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Michele Boldrin

L’Imperialismo USA dichiara guerra anche al Messico sovranista di AMLO?

Andate al diavolo, fottuti yankees!”; il comunicato col quale i movimenti dell’ALBA hanno deciso di chiudere il lungo weekend della totale perdita di dignità dei regimi latinoamericani più vicini a Washington non va per il sottile: il tutto era iniziato venerdì di prima mattina quando, a Ushuaia, la città più a sud di tutta l’Argentina, un Milei con una grottesca tenuta mimetica riceveva in pompa magna Laura Richardson, l’implacabile comandante del SouthCom, il famigerato Comando Sud degli Stati Uniti responsabile, in passato, delle feroci e totalmente illegali invasioni imperialiste di Granada prima e di Panama poi. A questo giro, in ballo c’è la base navale integrata già proposta dall’ex presidente Fernandez: come ricorda Telesur, prevede la costruzione di “un porto per la riparazione e il rifornimento delle navi, che sarà la struttura più vicina all’Antartide e “la porta d’accesso al continente bianco”, come ha sottolineato lo stesso Milei”. Nei piani di Fernandez, doveva essere un’operazione tesa a tutelare gli interessi argentini nell’area, ma, evidentemente, erano altri tempi; da allora l’impero, per rinviare il suo ineluttabile declino, ha deciso di dichiarare guerra al resto del mondo e, per conservare ancora qualche remota chance di successo, ha bisogno di trasformare di nuovo il giardino di casa latinoamericano in una sua emanazione diretta, dove tutto quello che si muove si deve muovere esclusivamente in funzione dei suoi interessi: ed ecco, così, che la base argentina, una volta sostituito un presidente moderatamente sovranista con un campione degli svendipatria come Milei, diventa magicamente “congiunta”. “Durante un discorso ai militari di entrambi i paesi” riporta, infatti, sempre Telesur “il politico di estrema destra ha ribadito la sua volontà di stringere un’alleanza strategica con gli Stati Uniti e i suoi alleati, annunciando che il SouthCom parteciperà alla base navale integrata”; “Vestito da soldato coloniale per compiacere il comandante del SouthCom” ha dichiarato l’ex ambasciatrice argentina nel Regno Unito Alicia Castro, “Milei è determinato a cedere il controllo geopolitico, strategico e di sfruttamento delle risorse e dei beni naturali del nostro paese”. “Milei” ha rilanciato su X l’ex presidente Fernandez “ha tenuto un discorso non necessario che esprime la sottomissione dell’Argentina a una nazione straniera, e ci riempie di vergogna come Nazione”.

Jorge Glas

Poche ore dopo, in Ecuador, andava in scena una gravissima violazione del diritto internazionale che scatenava una ancor più grave crisi diplomatica: con un atto di forza del tutto illegittimo, illegale e ingiustificato, il neo presidente filo-occidentale Daniel Noboa ha ordinato ai suoi uomini di fare irruzione nell’ambasciata messicana e di trarre in arresto l’ex vicepresidente correista Jorge Glas. Tra i principali registi della rivoluzione cittadina guidata da Rafael Correa, Jorge Glas è stato vittima di una persecuzione giudiziaria terrificante che l’ha visto già scontare in carcere oltre 5 anni di pena: l’accusa era la stessa che poi ha travolto anche lo stesso Correa e, cioè, di aver incassato tangenti in cambio di appalti pubblici per finanziare il movimento. Insomma: una tangentopoli in salsa ecuadoregna e, cioè, un colpo di stato delle oligarchie compradore per sostituire a una classe dirigente democratica e sovranista la crème crème dei peggiori svendipatria, come era già successo a Christina Kirchner in Argentina e a Lula in Brasile. Una volta ottenuta una sorta di libertà provvisoria per aver già scontato oltre il 40% della pena, Glas, allora, ha cercato protezione contro la persecuzione giudiziaria presso l’ambasciata messicana che, da quando c’è Lopez Obrador, è diventata un po’ l’ancora di salvezza di tutti i leader perseguitati del continente: quando la presidenza Castillo, in Perù, è stata rovesciata da un golpe sostenuto dagli USA, il Messico è stato il primo a rompere le relazioni diplomatiche e quando in Bolivia i gruppi paramilitari di estrema destra, dopo il golpe del 2019, si sono messi a dare la caccia a Evo Morales, a offrirgli riparo è stata, ancora una volta, l’ambasciata messicana di La Paz.
“Ma cosa hanno in comune l’ecuadoriano Daniel Noboa e Javier Milei ?” si chiede Gustavo Veiga sul quotidiano kirchnerista argentino Pagina12; ovviamente, si risponde, “il loro allineamento incondizionato con gli Stati Uniti” che, in particolare, “è simboleggiato dallo stesso identico dono che i rispettivi governi hanno appena ricevuto a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro: una coppia di giganteschi aerei Hercules c-130. Il sigillo a un patto di ferro con la principale potenza militare del pianeta, che vede i due paesi rinunciare a una buona fetta della loro sovranità politica”. L’uno due tra Ecuador e Argentina a cui abbiamo assistito lo scorso weekend, secondo le 400 organizzazioni dei movimenti ALBA, segnala una sorta di nuova Operazione Condor 2.0, un remake all’altezza dei tempi della lunga serie di operazioni coordinate dalla CIA tra anni ‘70 e ‘80 a sostegno di tutte le più feroci dittature militari del continente: a giustificare l’aggressività USA, come sempre, c’è la Guerra Fredda – che, poi, tanto fredda ormai non è -, allora contro il blocco sovietico e i paesi non allineati e, adesso, contro quell’asse dei paesi del Sud globale che vogliono mettere fine all’unipolarismo dell’impero USA. In questa guerra ibrida totale, riuscire a imporre di nuovo un dominio pressoché totale di Washington su tutto il continente è una priorità strategica assoluta: solo attraverso questo dominio incondizionato, infatti, gli USA possono continuare a coltivare l’ambizione di riuscire a ricostruire una base industriale minimamente comparabile con quella cinese e, quindi, poter affrontare la grande guerra futura con qualche chance di uscirne vincitori. Ovviamente, in primissimo luogo, per le materie prime, come ha sottolineato chiaramente la stessa Robertson giusto un paio di anni fa: “Questa regione è così ricca di risorse” ha dichiarato di fronte al fior fiore dell’industria bellica USA nell’ambito dell’Aspen Security Forum del 2022 “e i nostri competitor e avversari anche loro sanno benissimo quanta ricchezza c’è in questa regione”, a partire dal 60% delle riserve di litio globali. E poi ancora “greggio pesante, terre rare”, “e ci sono nostri avversari che aumentano la loro presa su tutte queste risorse ogni singolo giorno, esattamente nel nostro vicinato”.
Come sempre, la lotta per il controllo delle risorse ha due giustificazioni: non solo avere accesso a delle risorse essenziali, ma – forse ancora di più – impedirne l’accesso ai tuoi competitor; gli ultimi decenni di guerre in Medio Oriente, principalmente – abbiamo sempre sostenuto – si giustificano proprio così: avere il controllo dell’accesso cinese alle fonti energetiche indispensabili per alimentare la sua impetuosa crescita economica. Evidentemente non ha funzionato proprio benissimo e, alla fine, qualche centinaia di migliaia di vittime civili sono state massacrate del tutto inutilmente; qui però, a questo giro, c’è una questione in più perché – almeno nella visione di Biden e, in generale, dello stato profondo neoconservatore – il cortile di casa è indispensabile proprio anche per permettere al capitale USA di avere sotto suo diretto controllo una capacità industriale minimamente comparabile a quella cinese.
A giocare un ruolo di primissimo piano in questa complicata partita è, in particolare, proprio il Messico: con quasi 130 milioni di abitanti e un PIL pro capite di meno di 12 mila dollari (inferiore a quello cinese e meno di un sesto di quello USA, nonostante – con oltre 2200 ore di lavoro medio a testa – sia il secondo paese OCSE dove si lavora in assoluto di più) il Messico, infatti, presenta quelle caratteristiche indispensabili per pensare di investire in una produzione manifatturiera che possa, in linea di principio, competere con quella cinese e che gli USA sicuramente non hanno. E lo si è già visto abbondantemente: grazie agli incentivi dell’inflation reduction act, non appena si è tornati a investire nell’automotive, i sindacati – forti della carenza di manodopera qualificata che perseguita gli USA dopo 40 anni di finanziarizzazione forzata dell’economia e sostegno artificiale dei consumi attraverso l’indebitamento privato – hanno intrapreso una battaglia eroica che, alla fine, gli ha portato a strappare aumenti salariali medi nell’ordine del 40%, che significa salari medi vicini ai 30 dollari l’ora, circa 6 volte i colleghi messicani; in particolare, i salari medi nell’industria messicana hanno subito una contrazione mostruosa in seguito all’ingresso nel NAFTA, l’accordo di libero scambio tra USA, Messico e Canada, risalente ormai al 1994. “Un trattato” ricorda Brandon Mancilla sulla testata USA specializzata su lavoro e battaglie sindacali LaborNotes “che ha completamente stravolto l’industria automotive del continente”, ma che alla fine non ha fatto altro, ovviamente, che “facilitare la crescita e i profitti dei padroni, mentre i lavoratori venivano colpiti a prescindere dalla nazionalità”; “Il NAFTA”, infatti, continua Mancill “è costato alla classe operaia statunitense milioni di posti di lavoro ben retribuiti nel settore manifatturiero. Prima della firma nel 1994, l’industria automobilistica statunitense era di gran lunga la più grande del continente. Successivamente, la forza lavoro automobilistica messicana da 112.000 lavoratori è cresciuta di sette volte, raggiungendo quasi 900.000 entro il 2019, un aumento concentrato soprattutto nel settore dei ricambi. Nel 2016, gli Stati Uniti impiegavano solo circa il 51% dei lavoratori automobilistici nordamericani, mentre il Messico ne impiegava il 42%”. Ma se pensate che i lavoratori messicani ne abbiano beneficiato, potreste rimanere delusi: “Dopo l’approvazione del NAFTA” svela infatti Mancilla “i salari dei lavoratori messicani del settore automobilistico sono diminuiti, da una media di 6,65 dollari l’ora per i lavori di assemblaggio finale nel 1994 a 3,14 dollari nel 2016”; e così “Ora i lavoratori automobilistici messicani guadagnano un decimo del salario dei lavoratori statunitensi”.
Ora il NAFTA non c’è più; al suo posto c’è lo USMCA che è stato voluto da Trump, che aveva introdotto qualche correttivo per incentivare il ritorno, almeno in piccola parte, della produzione negli USA, ma che – in sostanza – cambia poco o niente: oggi, quindi, i generosi incentivi che gli USA danno per tornare a Make America Great Again valgono anche, ad esempio, per le auto elettriche prodotte in Messico. Ecco, così, che il Messico è diventata la patria per eccellenza del nearshoring, il tentativo di sottrarre un pezzo di manifattura alla Cina per riportarlo vicino al centro dell’impero e il giochino ha pure funzionato: dopo quasi 30 anni di crescita inarrestabile degli scambi commerciali che avevano portato la Cina ad affermarsi come, di gran lunga, il primo partner commerciale degli USA, negli ultimi due anni il primo gradino del podio è stato conquistato, per la prima volta nella storia, proprio dal Messico. Peccato, però, che c’era il trucchetto: tra quelli che si sono catapultati in Messico per approfittare contemporaneamente di costi del lavoro contenuti e accesso agli incentivi fiscali USA ci sono, infatti, anche un sacco di cinesi. Il leader mondiale dell’auto elettrica BYD sta trattando con l’amministrazione della provincia di Jalisco per un impianto nuovo di pacca che prevede diverse centinaia di milioni di investimenti solo per iniziare e MG, che è un marchio del colosso statale dell’automotive cinese SAIC, ha già presentato i piani dettagliati per un investimento che si dovrebbe aggirare tra gli 1,5 e i 2 miliardi di dollari. In attesa di questi megainvestimenti da parte dei marchi più noti, intanto, a investire, sono arrivati una marea di fornitori e subfornitori; ed ecco, così, che se ancora nel 2023 la Cina non appariva nemmeno nella classifica dei primi 10 paesi per investimenti diretti esteri in Messico, dal primo gennaio al 15 marzo s’è subito guadagnata la quarta posizione.
Ma quello che preoccupa ancora di più è che tutte queste aziende dipendono fortemente dalle importazioni cinesi: “Le esportazioni di componenti automobilistici verso il Messico” ricorda infatti il South China Morning Post “sono aumentate del 260% nel 2023 rispetto alla vigilia della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina nel 2017”: se l’obiettivo è ricostruire una base industriale comparabile a quella cinese e disaccoppiare le economie, in modo da non dover temere un crollo della produzione quando si decide di innalzare ulteriormente il livello del conflitto, potrebbe non essere esattamente l’ideale; al momento, se gli USA vogliono considerare il Messico come un pezzo della loro base industriale, la dipendenza dai fornitori cinesi è aumentata (non certo diminuita), consegnando paradossalmente alla Cina una potenziale arma di ricatto in più, non in meno. Ora, siccome – per quello che abbiamo detto più sopra – gli USA non possono rinunciare a trasformare il Messico in una massiccia macchina produttiva di ferro e acciaio con cui oggi ci facciamo le macchine e magari domani, alla bisogna, i vari veicoli a guida autonoma che servono per fare la guerra alla Cina, chi governa il Messico – e che atteggiamento ha rispetto sia alla Cina che agli USA – diventa un fattore strategico dirimente e che, ad oggi, non depone a favore degli USA.

Andrés Manuel López Obrador

Il caro vecchio Lopez Obrador, infatti, non è esattamente il tipo da farsi infinocchiare dalla retorica sui valori immaginari da difendere come un Olaf Scholz o un Enrico Letta qualsiasi; ed ecco quindi che, come ampiamente anticipato, tra guerra dei cartelli del narcotraffico e incidenti diplomatici, parte la guerra ibrida al vicino ribelle nel tentativo disperato di influenzare l’esito delle elezioni presidenziali della prossima estate, un tentativo che però, al momento, non sembra dare chissà che frutti. Secondo i sondaggi, infatti, la candidata del partito di Lopez Obrador continuerebbe a viaggiare agevolmente sopra quota 60% e la percentuale di elettori che dichiarano che sarà lei a vincere senza troppi intoppi continua a crescere giorno dopo giorno; l’unico piano B che rimane, allora, è quello di Trump che, un paio di settimane fa, ha spiazzato gli osservatori di mezzo mondo quando, durante un suo comizio, ha dichiarato senza peli sulla lingua che “Se i produttori di auto cinesi vogliono venire a investire direttamente negli USA, sono i benvenuti”; ma non era quello anticinese? In realtà, l’idea di Trump è esattamente quella che più favorirebbe il disaccoppiamento dalla Cina e la creazione di una base industriale adeguata anche solo per pensare a un conflitto: l’idea di Trump, infatti, è sostanzialmente quella di limitare le importazioni sia dal Messico che dalla Cina e, invece, sfruttare la sete di affari dei privati cinesi per spingerli coi soldi loro a investire direttamente negli USA, sia i grandi marchi, sia tutti i fornitori e subfornitori. Trump si rivela così, ancora una volta, decisamente più lucido delle sue groupies italiche che quando, il mese scorso, Stellantis ha suggerito l’ipotesi di poter rivitalizzare l’impianto di Mirafiori portandoci la produzione di alcuni modelli della controllata cinese Leap Motor, sono andati subito nel panico e hanno dedicato pagine e pagine dei loro giornali alla svendita dell’Italia alla feroce dittatura comunista.
D’altronde, se uno corre per guidare l’impero e gli altri per un posto comodo da vassalli, alla fine un motivo ci sarà: il fronte latinoamericano è lontano dalle linee di faglia che sono già teatro della guerra vera o che rischiano di esserlo nel prossimo futuro; ciononostante, è un fronte fondamentale per permettere all’impero di coltivare ancora qualche speranza. Alcune partite, come l’incredibile elezione di un pagliaccio cosmico come Milei o l’essere riusciti a far abortire definitivamente l’esperienza democratica dell’Ecuador ai tempi di Correa, stanno indubbiamente dando il risultato sperato, ma che siano sufficienti a far deragliare completamente l’America latina dal suo percorso, storicamente necessario, di lottare per la sua indipendenza e per la sua sovranità mettendo definitivamente in soffitta il delirio suprematista della dottrina Monroe, sembra – tutto sommato – piuttosto difficile. Gli unici a non dare nessunissimo segno di dignità, alla fine, rimaniamo noi europei; magari sarebbe il caso cominciassimo a prenderne coscienza: per farlo, serve un vero e proprio media che non faccia da megafono ai deliri delle oligarchie compradore, ma che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani

Il fronte ucraino sta per crollare? – Ft. Alberto Fazolo

Oggi, nel suo consueto appuntamento del sabato, Alberto Fazolo ci parla di Medio Oriente e di Ucraina. Approfondiremo la strategia israeliana di regionalizzare il conflitto, coinvolgendo Siria e Iran, nel disperato tentativo di far attivare anche gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali. Situazione altrettanto drammatica in Ucraina, dove Kiev in sempre più seria difficoltà sembra temere il collasso del fronte e una pesante sconfitta. Buona visione!

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