Live del 16/11/2023 ore 21 – La visita di Xi a San Francisco, come prevedibile, non ha partorito niente di particolarmente succulento e -allo stesso tempo – è stata epocale. In questa chiacchierata proviamo a spiegare perché con Lorenzo Battisti, Giambattista Cadoppi, Alberto Gabriele e Francesco Maringiò.
“Tagliarsi le palle per far dispetto alla moglie”: è così, in soldoni, che quello che probabilmente è in assoluto il principale esperto di energia di tutta la Russia descrive la politica energetica europea dopo l’adesione, senza se e senza ma, dell’intero continente alle sanzioni made in USA.
Konstantin Simonov
Si chiama Konstantin Simonov, è a capo del dipartimento di politologia dell’università finanziaria del governo della Federazione Russa e, da oltre 10 anni, dirige la NESF – che sta per National Energy Security Foundation – la fondazione per la sicurezza energetica nazionale, il più importante think tank specializzato sull’industria energetica del gigante eurasiatico. Una voce molto nota anche ai media mainstream dell’Occidente collettivo, almeno fino allo scoppio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina quando, oltre all’energia, abbiamo deciso di porre l’embargo anche sul buon senso; da allora, la voce di Simonov e della sua fondazione sono state gradualmente ma inesorabilmente espulse dal circo mediatico occidentale, dove il pluralismo – ormai – è ristretto esclusivamente alle diverse sfumature della propaganda suprematista, dalla più rozza alla più sofisticata. Meno male, però, che in mezzo a mille difficoltà c’è chi non si arrende e continua a remare controcorrente, come il professor Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia e fondatore del Forum Economico Eurasiatico di Verona che, dopo 14 anni di attività nel capoluogo veneto – durante i quali si sono alternati sul suo palco tutti i principali rappresentanti della politica e del mondo degli affari europeo -, da due anni si è trovato costretto a traslocare nell’Asia centrale: l’anno scorso a Baku e quest’anno a Samarcanda. Ed è proprio a Samarcanda che abbiamo avuto l’opportunità e l’onore di intervistare in esclusiva, insieme alla nostra allegra brigata di agit prop, proprio Simonov; un grande motivo d’orgoglio e anche l’ennesima prova provata che se volete capire qualcosa del mondo nuovo che avanza, dovete spegnere i vecchi media e accendere Ottolina Tv. Se la fantomatica controffensiva ucraina è ormai definitivamente scomparsa dai radar, figurarsi che fine ha fatto sui media mainstream l’annosa vicenda dell’attentato al Nord Stream, il caso più clamoroso di sempre di fuoco amico rivolto direttamente contro un’infrastruttura strategica, che più strategica non si può, di un fedele alleato:
Konstantin Simonov: “Dal mio punto di vista, la vicenda del Nord stream continua a mettere l’Unione Europea in forte imbarazzo. Per oltre un anno si è parlato di fantomatiche indagini ma senza nessun risultato, e questo è molto sospetto. Nel caso dei danni causati al gasdotto baltico che unisce Finlandia ed Estonia, le autorità si sono espresse nell’arco di pochi giorni; ora, in oltre un anno, nemmeno una parola. È decisamente molto sospetto, e io credo che il motivo sia che l’Unione Europea è molto cauta nel portare avanti le indagini perché teme che queste non possano che rivelare qualcosa che, dal mio punto di vista, è molto chiaro dal primo minuto, e cioè che esiste un unico beneficiario di tutta questa storia. E questo beneficiario, ovviamente, sono gli Stati Uniti d’America: basta vedere cosa sta succedendo al loro mercato del Gas Naturale Liquefatto, con decisioni molto importanti su nuovi massicci investimenti per aumentarne in modo importante produzione ed esportazione. Ovviamente tutto questo non ha niente a che vedere con la concorrenza e la competizione e, senza concorrenze e competizione, a pagare il prezzo più alto alla fine saranno i consumatori perché il gas, molto semplicemente, sarà più caro. Ora, se il tuo obiettivo è aumentare la spesa, benissimo. Ma, dal mio punto di vista, se l’Unione Europea tornasse a occuparsi dei suoi interessi, o l’Italia tornasse a occuparsi degli interessi economici degli italiani, beh, allora sicuramente la situazione potrebbe cambiare rapidamente. Vedete: l’Unione Europea, da un po’ di tempo, sta perseguendo questa idea della diversificazione delle forniture; ma la diversificazione è un servizio di lusso, e a pagare questo servizio di lusso sono tutti gli europei. E questo ancora non ha niente a che vedere con la competizione sul mercato del gas, anzi! La competizione è il meccanismo che permette di ridurre i costi che i consumatori sono tenuti a sostenere, mentre la diversificazione, al contrario, comporta che questi costi aumentino perché sei costretto a finanziare approvvigionamenti alternativi che non sono competitivi. Ad esempio, sei costretto a ricorrere – appunto – al gas naturale liquefatto, che è strutturalmente molto più costoso e così via. E, da questo punto di vista, è importante sottolineare come la Russia non sia mai stata contraria alla competizione con altre modalità alternative di approvvigionamento: ad esempio, quando è stato deciso di investire nel gasdotto Nabucco ci siamo limitati a sottolineare come non sarebbe mai stato profittevole e come mancassero le risorse sulle quali fondarlo, ma non abbiamo mai intimato o supplicato Bruxelles di fermarsi. Non abbiamo detto che se non avessero fermato il Nabucco noi avremmo interrotto le nostre forniture; è stata Bruxelles a capire che non era fattibile. Quindi noi abbiamo sempre desiderato semplicemente una competizione onesta, ma quello a cui abbiamo assistito ultimamente da parte dei paesi dell’unione è una continua violazione degli accordi. E lo vediamo un po’ ovunque: non è soltanto il caso eclatante della Polonia, ma anche la Germania – dove le autorità sono intervenute a gamba tesa in alcune raffinerie – e adesso lo stesso sta avvenendo in Bulgaria. La domanda quindi è: è così che sarà l’Europa nel futuro? Sarà un territorio dove vige un ordine medievale privo di regole e di leggi o torneremo, prima o poi, a una situazione più trasparente dove esistono dei contratti e degli accordi, e questi contratti vengono rispettati? Se l’Europa dovesse tornare a questo tipo di comportamento, allora certo sarebbe possibile per noi tornare ad avere un rapporto proficuo a partire proprio dal Nord Stream, perché il Nord Stream – ricordiamo – è ancora vivo perché, per entrambi i Nord Stream, parliamo di due condotte e una delle quattro condotte è rimasta integra, quindi tecnicamente sarebbe piuttosto semplice tornare a fornire gas attraverso la condotta del Nord Stream 2 rimasta intatta. Purtroppo, però, quello che tecnicamente è ancora possibile non lo è politicamente, e questo non solo per i rapporti con la Russia ma proprio perché prima l’Europa dovrebbe tornare ad essere la patria della legge e delle regole. La distruzione di questa credibilità, purtroppo, oggi è più devastante anche della situazione energetica in se perché rischia di compromettere la situazione per un periodo di tempo enormemente più lungo”.
La politica energetica suicida dell’Unione Europea parte da un assunto: il gas che, fino a ieri, ricevevamo via gasdotto dalla Russia può essere sostituito dal gas naturale liquefatto. Ovviamente, economicamente è un mezzo disastro non solo perché, strutturalmente, i costi sono molto maggiori, ma anche perché quei costi sono in balia totale delle ondate speculative. Non solo: con il passaggio dai gasdotti alle navi gasiere, facciamo anche ciao ciao con la manina a ogni retorica sulla transizione ecologica che, sulla carta, significherebbe decarbonizzazione totale entro il 2050, ma i nuovi contratti in essere e i tempi di ammortamento dei nuovi investimenti – necessari per cambiare font di approvvigionamento – ci costringono a prevedere di continuare a consumare gas ben oltre. In questo giochino, ovviamente, a guadagnarci sono gli USA, che il gas ce l’hanno e che stanno investendo una montagna di quattrini per vendercene sempre di più mentre la competitività del nostro sistema produttivo va a farsi benedire. Gli effetti sono già visibili, soprattutto in Germania che, sul gas a basso costo, aveva fondato l’intera sua politica industriale e che oggi, guarda caso, torna ad essere il grande malato d’Europa. “-1,4%”, titolava ancora mercoledì scorso Il Sole 24 Ore: è “il calo mensile della produzione industriale in Germania” sottolineava l’articolo, “il quarto consecutivo e molto peggiore delle attese, che avevano previsto un calo contenuto in una forbice tra il -0,1 e il -0,4%”. E il tracollo della produzione tedesca, ovviamente, equivale a un tracollo generale di una fetta consistente di tutto il continente che, in buona parte, alla Germania gli fa da terzista e da sub-fornitore: a partire dall’Italia dove, infatti, l’indice pmi manifatturiero a ottobre è ripiombato sotto quota 45 punti che – in soldoni – significa una bella nuova dose di deindustrializzazione. E il bello è che, tutto sommato, c’è andata anche parecchio di culo perché l’anno scorso, per lo meno, a farci concorrenza sui mercati internazionali per acquistare gas naturale liquefatto è mancata la Cina, alle prese con le politiche zero covid. La ripresa della produzione cinese – finito lo zero covid – è stata inferiore alle attese, ma questo inverno – comunque – si farà sentire eccome: quanto a lungo riusciremo a resistere?
Konstantin Simonov: “Ora, l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha da poco pubblicato questo report dove si prevede che, già a partire dal 2026, nel mondo ci sarà addirittura un eccesso di offerta di gas naturale liquefatto, e va bene. Ma io vorrei sottolineare un paio di cose: prima di tutto devo sottolineare che, da 25 anni, leggo ogni rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia e devo segnalare che, molto spesso, si tratta di previsioni completamente sballate; quindi valutate voi se è davvero il caso di continuare ad affidarsi a queste previsioni. Ma, soprattutto, c’è un secondo punto che forse è ancora più importante perché, effettivamente, noi abbiamo assistito a questa nuova grande ondata di investimenti negli Stati Uniti, poi abbiamo visto i paesi europei firmare contratti a lungo termine con la Scozia e quindi magari – non dico certo nel 2025 ma, diciamo, a partire dal 2026 – 2027 – vedremo davvero questa nuova grande ondata di gas naturale liquefatto in arrivo, in particolare dagli USA e dal Qatar. Ma rimane un dubbio, perché qui parliamo, appunto, del 2026 e noi adesso siamo nel 2023: quindi – come minimo – ci saranno altri 3 inverni da affrontare prima che questo scenario, nella migliore delle ipotesi, si concretizzi davvero. E allora mi chiedo: “quali saranno gli effetti di altri due o tre inverni senza una fornitura sufficiente di gas naturale liquefatto?”, perché lo scorso inverno, ad esempio, la Cina ha aiutato parecchio l’Europa. Il consumo di gas in Cina l’anno scorso è stato estremamente ridotto a causa delle politiche zero covid e, quindi, il grosso del gas liquefatto è stato venduto ai paesi europei, ma già quest’anno il popolo cinese non ci farà più questo enorme regalo; ciò nonostante, certamente alla fine l’Europa troverà il gas da fornire a tutte le abitazioni e per garantire i servizi delle municipalità ma, come ho già detto, un calo dei consumi del 20% è qualcosa di enorme, una cifra molto pericolosa per le economie europee, e altri due o tre anni così potrebbero significare la totale distruzione delle economie europee. Per carità, se volete continuare con la distruzione sistematica della vostra economia, ovviamente potete continuare con questo esperimento. Magari ci ritroviamo tra tre anni e commentiamo com’è diventata l’Europa.”
Sempre che, fra tre anni, l’Europa ci sia ancora: oltre a tutto quello che abbiamo elencato, infatti, oggi a rompere i coglioni ci si è messa pure l’ennesima crisi in Medio Oriente, che dal genocidio di Gaza rischia di allargarsi a tutta la regione, e se si allargherà a tutta la regione anche a questo giro potremo ringraziare sempre Washington che, da caro vecchio arsenale della democrazia qual è, ha deciso di coprire la guerra di Israele contro i bambini arabi con le sue portaerei.
La Giorgiona nazionale
Un altro attentato bello e buono alla sicurezza e alla sostenibilità economica del vecchio continente, tant’è che qualcuno in Europa s’è pure incazzato; i belgi, ad esempio, dove la vice premier ha dichiarato ufficialmente l’intenzione di chiedere sanzioni economiche contro Israele, ma non l’Italia. Non sia mai, nonostante sia quella che, probabilmente, ha di più da rimetterci e che qualcosina c’ha rimesso già: sostenendo acriticamente la carneficina dei clerico-fascisti di Tel Aviv, infatti, è naufragata definitivamente ogni minima possibilità di trasformare quella gran vaccata del nuovo piano Mattei – escogitato dalla Giorgiona nazionale – in qualcosa di diverso da una favoletta buona per la propaganda dei media.
Konstantin Simonov: “Ovviamente se questo conflitto dovesse allargarsi fino a coinvolgere una fetta consistente del Medio Oriente, diventerebbe molto difficile anche solo prevedere il livello reale dei prezzi. In questo scenario credo che anche 150 dollari al barile sarebbe da considerare un buon prezzo, ma io spero che non si arrivi a tanto e, al momento, anche i mercati sembrano non credere in uno scenario del genere e questo è il motivo per il quale i prezzi, al momento, tutto sommato non sono ancora così alti rispetto al gigantesco rischio che stiamo correndo. Vedete: pensare che la Russia sia in attesa di una gigantesca crisi in grado di spingere verso l’alto i prezzi di gas e petrolio è una gigantesca mistificazione, e questo perché siamo convinti che una grossa crisi porrebbe dei problemi enormi al consumo di gas su scala globale. Il nostro obiettivo è vendere petrolio e gas come commodities sul lungo termine; non è nel nostro interesse distruggere interi mercati con prezzi insostenibili; questo è il motivo per cui ci stiamo adoperando per evitare l’allargamento del conflitto in Medio Oriente, perché – vedi – prezzi che oscillano tra gli 80 e i 90 dollari al barile per noi sono più che sufficienti. Abbiamo venduto gas per anni all’Europa a 250/300 dollari per 1000 metri cubi: per noi era sufficiente. Non siamo così ingordi come ci dipingete.”
Ora il prezzo del gas è stabilmente 2 – 3 volte superiore – quando va bene – e la nostra bolletta energetica complessiva, rispetto al 2019, è più che raddoppiata portandoci via qualcosa come 4 punti di PIL: un’enormità. Ma c’è anche una buona notizia perché, nonostante tutte le scelte folli fatte dalla politica europea per compiacere il padrone di Washington, potrebbe non essere ancora troppo tardi per invertire la rotta perché il matrimonio di convenienza tra paesi dell’Unione Europea e Russia – fondato sul commercio del gas – non conveniva, appunto, solo a noi, ma pure a loro che, come sottolinea Simonov, “puntano a vendere gas come commodity sul lungo termine” e che erano felicissimi di vendercela in gran quantità a noi a 250/300 euro per mille metri cubi e che una vera alternativa, tranquilla, liscia e serena al ricco mercato europeo, tutto sommato non l’hanno ancora trovata:
Konstantin Simonov: “E’ inutile negare che trovare un sostituto immediato al mercato europeo non è possibile. Nel 2021, la Russia ha fornito all’Europa la bellezza di 146 miliardi di metri cubi di gas; quest’anno la quantità totale sarà inferiore a 30 miliardi di metri cubi. Quindi parliamo di un crollo di poco meno di 120 miliardi di metri cubi, che è una cifra gigantesca; trovare rapidamente un mercato sostitutivo per una quantità del genere è letteralmente impossibile. Ovviamente, per quanto riguarda il petrolio, trovare un sostituto per noi non è stato particolarmente difficile, e quando parliamo di petrolio – come d’altronde anche dei vari prodotti di raffinazione – siamo sugli stessi livelli di esportazione che registravamo all’inizio del 2022 perché ovviamente, grazie al trasporto via mare, abbiamo avuto la possibilità di espanderci in altri mercati a partire dall’India, la Cina e altri paesi asiatici. Ma per il gas, ovviamente, la questione è enormemente più complicata. Qualcosa è stato fatto: ad esempio, oggi esportiamo in Uzebkistan 3 miliardi di metri cubi, ma crediamo che potremo raggiungere i 10 miliardi molto presto; abbiamo firmato un nuovo contratto con l’Azerbaijan e dovremmo firmarne di nuovi a breve anche con Kazakhstan e Kyrghizistan, ma non saranno mai sufficienti a rimpiazzare una tale quantità di domanda. È per questo che, ovviamente, la nostra principale speranza rimane la Cina e il Siberia 2 che, da solo, garantirebbe forniture per 50 miliardi di metri cubi. Ovviamente anche i cinesi sono tentati di approfittare della situazione per strappare condizioni di favore: sono convinti che questo contratto sia più importante per Gazprom che non per i consumatori cinesi. Ma io credo che, in realtà, la Cina abbia bisogno di gas a buon mercato, e la Russia è in grado di fornirglielo. Anche qua è questione di competizione, e il nostro gas sarà sicuramente più conveniente del gas naturale liquefatto ma anche del gas che arriva dall’Asia centrale; per questo sono fiducioso che il prossimo anno riusciremo a firmare finalmente il contratto. Ma ciò nonostante, non è un segreto per nessuno che, anche siglato questo accordo, per la Russia trovare in Asia una domanda tale da sostituire il mercato europeo rimarrà comunque molto complicato. Da questo punto di vista, un altro fattore su cui stiamo puntando è il consumo interno: prevediamo di aumentare il consumo interno di gas di circa 30 miliardi di metri cubi l’anno entro la fine del 2030, e questo è dovuto al fatto che in buona parte della regioni orientali ancora oggi manca un sistema unificato di distribuzione del gas. Prendi ad esempio una città come Krasnoyarsk: è un grande città con oltre 1 milione di abitanti e, al momento, la principale fonte di energia è ancora il carbone. Ovviamente, anche dal punto di vista ambientale è una situazione molto complicata, ma anche con questa aggiunta non riusciremo ancora a sostituire pienamente la domanda europea. È impossibile. Ma, d’altronde, se per l’Europa questa situazione è ok, se siete contenti di veder diminuire il consumo di gas – non dico di gas russo ma di gas in generale – di oltre il 20%, noi cosa possiamo farci? Se siete convinti di proseguire verso la deindustrializzazione allora sì, bisogna ammettere che la Russia avrà perso per sempre una fetta di mercato. Va bene, ma dal mio punto di vista questo è un problema reciproco. Fino a poco tempo fa, noi avevamo il gas e vendevamo il gas all’Europa, eravamo una fonte affidabile di gas a buon prezzo per l’Europa. Ora avete deciso di distruggere questo business e ora vi ritrovate in grosse difficoltà economiche. Se questo vi fa piacere, cosa vi posiamo dire? E io sottolineerei anche un’altra cosa: la Russia ha cominciato a fornire gas all’Europa occidentale a partire dal 1968. Sono oltre 50 anni ininterrotti di forniture. Ora vi invito a trovare un singolo caso di interruzione di fornitura del gas da parte della Russia, e per favore non mi citate la storia dell’Ucraina nel 2009 perché, come sapete tutti, in quel caso fu l’Ucraina a stoppare il trasporto. Ecco perché è importante sottolineare che la leggenda secondo la quale la Russia avrebbe usato politicamente il gas come strumento di pressione è una gigantesca mistificazione: non abbiamo mai fatto pressioni politiche sull’Europa utilizzando la leva del gas. Come sapete, da decenni ormai abbiamo relazioni molto complicate con gli stati del Baltico e ciò nonostante non abbiamo mai interrotto la fornitura di gas, mai. Quindi gli europei hanno distrutto un ottimo affare e l’unica cosa che avranno in cambio è che anche la Russia avrà qualche conseguenza negativa. Non credo sia un approccio molto lungimirante.”
Contro ogni forma di disfattismo, sarebbe il caso di ripartire da qui. La prova di forza della guerra per procura in Ucraina è stata, e purtroppo ancora è, una vera e propria catastrofe che non è servita ad altro che sottomettere ancora di più l’Europa al dominio di Washington e che, ormai, sembra procedere a passo spedito verso una debacle totale. Di fronte alla totale irrazionalità suprematista delle élite europee che ci hanno infilato in questo tunnel non ci sarebbe nessun motivo, per qualsiasi interlocutore sano di mente, di voler avere di nuovo a che fare col vecchio continente guidato da questo manipolo di inaffidabili cialtroni svendi-patria. Fortunatamente, però, al di là della antipatie gli interessi economici rimangono e l’integrazione di due economie complementari – come quella russa e quelle europee – non è la velleità di qualche sognatore pacifista, ma una necessità storica che non può essere cancellata con un tratto di penna dalla nostra classe dirigente, per quanto ci si applichi. Ed è proprio per questo che iniziative come quelle del Forum Economico Eurasiatico, per quanto osteggiato, non sono passerelle velleitarie, ma hanno un’importanza strategica.
Gli agit-prop a Samarcanda
Chi ha gambe e testa, mai come oggi le dovrebbe utilizzare per continuare, in mezzo a mille ostacoli, a tenere aperti i pochi ponti che ancora non abbiamo fatto saltare in aria: certo, abbiamo contro quello che, ancora oggi, è il centro dell’impero e la sua gigantesca macchina propagandistica, ma proprio oggi – di fronte alla loro evidente crisi egemonica – pensare che abbiano partita facile nell’invertire il corso naturale della storia sarebbe un errore imperdonabile. A quasi due anni dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’esigenza storica dell’integrazione del super -continente eurasiatico non solo non è stata derubricata ma, a ben vedere, appare più chiara ed evidente che mai. Altro che disfattismo! Altro che partita chiusa! Qui la partita non è mai stata così aperta e ora tocca a noi riprenderci il nostro malandato continente, estirpare il tumore del partito unico degli affari e della guerra al servizio di Washington e restituire a tutti la possibilità di un futuro di lavoro e di pace. Per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un media capace di rovesciare come un calzino sia il trionfalismo dei suprematisti che il piagnisteo dei disfattisti. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Make Ethnic Cleansing Cool Again! Rendiamo di nuovo la Pulizia Etnica una cosa figa, cool. Questo, in estrema sintesi, il programma dell’Institute for Zionist Strategies, in assoluto uno dei più influenti think tank israeliani. I curriculum dei fondatori, infatti, farebbero invidia a qualsiasi altro centro di potere del pianeta: si va dal 3 volte ministro della difesa Moshe Arens al nobel per l’economia Robert Aumann, premiato nel 2005 per “aver accresciuto la nostra comprensione del conflitto e della cooperazione attraverso l’analisi della teoria dei giochi”.
Robert Aumann
La sua tesi è illuminante: la pace porta alla guerra, mentre per prevenire la guerra servono più armi e più guerra. Anche Moshe Ya’alon è stato ministro della difesa, il giusto coronamento di una lunga carriera nelle forze armate israeliane durante la quale ha avuto un ruolo di primissimo piano in tutte le più atroci operazioni condotte contro la resistenza palestinese negli ultimi 40 e passa anni. Anche Natan Sharansky è stato ministro svariate volte: prima dell’interno, poi della casa – dando carta bianca agli insediamenti illegali dei coloni e radendo al suolo migliaia di case palestinesi – e poi addirittura vice primo ministro. Di origine russe, Sharansky è stata una delle più famose spie statunitensi durante l’Unione Sovietica, tanto da beccarsi una condanna a 13 anni in un campo di lavoro in Siberia; insomma, siamo ai piani alti che più alti non si può, e i risultati si vedono. L’idea di trasformare Israele in uno stato etnico, con la definizione ufficiale di “Stato-nazione per il popolo ebraico” formalizzata nell’ormai lontano 2018 senza che la propaganda suprematista gli dedicasse manco una riga, c’è infatti proprio l’Institute for Zionist Strategies, come d’altronde è sempre farina del sacco dell’istituto anche la proposta di riforma costituzionale antidemocratica e illiberale che negli ultimi mesi ha scatenato le proteste degli oppositori del governo Netanyahu, sostenitori di un apartheid più dolce e meno ostentato. Ma non pensate che si tratti di un istituto intriso di giudaofascismo come i ministri più impresentabili del governo in carica, eh? Tutt’altro: semmai, sembrano più una sorta di Italia Viva o di Calenda israeliani, una cacofonia di retorica liberale dirittumanista mischiata a un po’ di sano suprematismo e a tanto tanto ultra-liberismo da stadio. Insomma, per sintetizzare, Michele Boldrin. Ecco, immaginatevi un paese dove Michele Boldrin, oltre a sproloquiare sul web, conta qualcosa. Un incubo. “Israele” si legge nella presentazione sul loro sito “è la realizzazione del sogno vecchio di 2000 anni del popolo ebraico di ritornare nella sua terra come nazione libera e sovrana. Il moderno stato-nazione è stato fondato sui valori ebraici tradizionali, ed è una vivace democrazia ebraica che promuove gli interessi della nazione ebraica” e “l’Istituto per le Strategie Sioniste (IZS) promuove e rafforza il carattere ebraico di Israele”. Ma dove il suprematismo diventa pura distopia è qui: “Le libertà personali, la giustizia e i diritti umani” scrivono “sono parte integrante del sistema di valori ebraico e sono anche centrali per una forma di governo democratica. Esistono tuttavia” – sottolineano – “aree di potenziale tensione tra i due valori e occorre trovare soluzioni che sostengano il carattere ebraico di Israele tutelando al tempo stesso i diritti individuali. L’Istituto per le Strategie Sioniste” concludono, è “l’unica istituzione in cui le persone che sostengono i diritti umani e sostengono anche Israele come stato ebraico possono sentirsi a proprio agio sapendo che non dovranno sacrificare un ideale per l’altro”. Dirittumanismo suprematista su base etnica, cioè riconosciamo a tutti i diritti umani, ma quali siano i diritti umani da riconoscere lo devono decidere solo gli ebrei, e gli altri o si adeguano oppure ecco che scatta la Pulizia Etnica. Il primo vero e proprio piano per la pulizia etnica dell’Istituto risale ormai a diversi anni fa: “Regional settlement” si chiamava il programma. Insediamento regionale; un programma talmente illuminato che, effettivamente, concedeva ai palestinesi la possibilità di costituire finalmente il loro stato, però da un’altra parte. Non è una battuta: il programma, infatti, consisteva nel convincere Egitto e Giordania a cedere una fetta di territorio sufficiente per trasferirci forzatamente il grosso dei palestinesi che sono sfuggiti alla prima pulizia etnica del ‘48, e a quel punto, con grande slancio di generosità, permettere ai palestinesi di fondare tutti gli stati nazionali che vogliono. Fortunatamente, nonostante la fonte autorevole, allora nessuno gli prestò particolare attenzione; nei dieci anni successivi, però, nel silenzio complice di tutti quanti – a partire da quelli che oggi si dichiarano solidali con la popolazione palestinese ma sdegnati dalla violenza scoppiata il 7 ottobre scorso e impartiscono lezioni non richieste alla resistenza palestinese sulle modalità giuste di lotta da impiegare – i rapporti di forza tra i carnefici e le vittime si sono spostati inesorabilmente a favore dei primi e quello che 10 anni fa sembrava una provocazione di qualche invasato, oggi è diventato argomento di dibattito nella classe dirigente. Ed ecco così che il piano delirante per la definitiva pulizia etnica si ripresenta, e a questo giro non più semplicemente come una visionaria provocazione per aprire un dibattito, ma proprio sotto forma di piano dettagliato, con tanto di numeri e bilanci. “Un piano per il reinsediamento e la riabilitazione definitiva in Egitto dell’intera popolazione di Gaza” si intitola il documento: “non c’è dubbio” si legge nell’incredibile report redatto pochi giorni fa dall’istituto e scovato nei meandri del web dagli amici di The Grayzone “che affinché questo piano possa realizzarsi devono coesistere molte condizioni contemporaneamente. Attualmente, queste condizioni si sono magicamente presentate, ma non è chiaro quando tale opportunità si ripresenterà, se mai si ripresenterà. Questo è il momento di agire. Ora”. “Attualmente esiste un’opportunità unica e rara per evacuare l’intera Striscia di Gaza, in coordinamento con il governo egiziano”. L’incipit del rapporto segreto dell’Istituto per le Strategie Sioniste scovato da The Grayzone non lascia adito a dubbi: siamo di fronte esplicitamente a un piano per la Pulizia Etnica definitiva ma, forse aspetto ancora più inquietante, presentato sostanzialmente come un’opera di bene.
Il logo di The Grayzone
“Un piano immediato” si legge infatti nel rapporto “realistico e sostenibile per il reinsediamento umanitario” (giusto: dice proprio così, umanitario) “e la ricollocazione dell’intera popolazione araba della striscia di Gaza”. Un capolavoro di suprematismo neoliberista; l’intero rapporto, infatti, non si limita a definire umanitaria la Pulizia Etnica, ma soprattutto si concentra nell’indicare gli evidenti vantaggi economici di tutta l’operazione. Ci sono pure le tabelline coi numerini. L’idea di fondo, purtroppo, è un po’ peggiorativa rispetto al vecchio “insediamento regionale” perché l’ipotesi, generosissima, di poter costituire uno stato nazionale in casa di altri è scomparsa ma il succo è lo stesso: si tratta, infatti, di sfollare per sempre tutti i due milioni e passa di abitanti della striscia in Egitto. Un piano che, sottolinea il rapporto, “si allinea perfettamente con gli interessi economici e geopolitici sia dello Stato di Israele, quanto anche dell’Egitto stesso, e anche dell’Arabia Saudita”. Il rapporto, infatti, ricorda come nel 2017 sia stato affermato che in Egitto esisterebbero la bellezza di 10 milioni di unità abitative sfitte, in particolare in due gigantesche new town nell’area metropolitana del Cairo: la cittadina del Nuovo Cairo, e la città del decimo Ramadan.
Mappa di Nuovo Cairo
“La maggior parte della popolazione”, infatti, sottolinea il report, “non riesce ad acquistare gli appartamenti di nuova costruzione, che rimangono invenduti a milioni, e hanno raggiunto prezzi di mercato molto bassi, dai 150 ai 300 dollari al metro quadrato”. A questi prezzi, un confortevole appartamento per una famiglia di Gaza, che in media è composta da 5 elementi, si aggirerebbe attorno ai 19 mila dollari; significa che con meno di 8 miliardi di dollari si può agilmente trovare una sistemazione per tutti e “investire qualche miliardo di dollari per risolvere la difficile questione di Gaza” sottolinea giustamente il rapporto “sarebbe una soluzione innovativa, economica e sostenibile”. Altro che Pulizia Etnica! Questo è un vero e proprio affarone: ripulita dai subumani, Gaza infatti fornirebbe “alloggi di alta qualità a molti cittadini israeliani” e permetterebbe di estendere a dismisura l’area metropolitana di Tel Aviv, nota col nome Gush Dan, rendendola una specie di Los Angeles del Mediterraneo” e a trarne vantaggio sarebbero, ovviamente, anche gli insediamenti nel Negev – nelle zone desertiche ad est della striscia -penalizzati fino ad oggi dall’essere separati dal mare da questa vetusta e un po’ demodè presenza di questi soggetti qui – come si chiamano? Ah già, i palestinesi. Ovviamente il problema principale, a questo punto, sarebbe convincere l’Egitto ma anche da questo punto di vista – sottolinea il rapporto – la situazione non è mai stata così favorevole; l’Egitto infatti si trova nel bel mezzo di una crisi economica devastante, con un’inflazione che ha sfiorato fino al 30%, e una svalutazione della sua valuta rispetto al dollaro che ne ha sostanzialmente dimezzato il valore. Questo ha spinto il paese sull’orlo del default: per evitarlo, è stato costretto a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale che, però, per concedere un prestito imporrebbe all’Egitto “condizioni e riforme economiche draconiane” la cui applicazione sembra “improbabile”. Questa situazione ha spinto le agenzie a degradare il rating del debito sovrano egiziano, declassato da 3B a 1C, “il punteggio più basso mai assegnato all’Egitto”, una situazione che, sottolinea il report, per gli Stati Uniti potrebbe tradursi in un “disastro strategico”. Se l’Egitto non fosse più in grado di ripagare i suoi debiti e dichiarasse il default, infatti, tra i vari creditori da soddisfare ci sarebbero anche i cinesi, con il rischio che gli vengano ceduti asset strategici, come è già avvenuto – ad esempio – in Sri Lanka con il porto di Hambantota. Anche i paesi europei sono in allarme a causa dell’ondata di immigrazione clandestina che un patatrac dell’economia egiziana molto probabilmente comporterebbe; “il trasferimento dell’intera popolazione di Gaza in Egitto e la sua riabilitazione”, invece, rappresenterebbero una grande opportunità per ridare slancio all’economia egiziana riducendo tutti questi rischi, anche perché “la chiusura della questione di Gaza” sottolinea il report “garantirebbe una fornitura stabile di gas israeliano all’Egitto per la liquefazione, e anche un maggior controllo delle compagnie egiziane sulle riserve di gas esistenti al largo di Gaza”. La Pulizia Etnica di Gaza poi, sostiene il report, sarebbe un’ottima occasione anche per l’Arabia Saudita per almeno due motivi: il primo è che eliminerebbe, così, un importante alleato dell’Iran; il secondo è che potrebbe trovare una bella fonte di manodopera a basso costo per tutti i suoi ambiziosi progetti di ammodernamento infrastrutturale, a partire dalla costruzione da zero della megalopoli futuristica di Neom, che Mohammed Bin Salman vorrebbe diventasse la principale metropoli di tutta la regione – ovviamente, a quel punto, dopo la nuova Los Angeles israeliana. Insomma, tutto torna, a parte la volontà degli abitanti di Gaza che, però, possono essere convinti: basta continuare a distruggergli le case, a tenerli sotto assedio e a terrorizzarli con le bombe. Non sarà proprio immediato ma, se duriamo abbastanza, alla fine “non pochi residenti di Gaza coglierebbero al volo l’opportunità di vivere in un paese ricco e avanzato piuttosto che continuare a vivere in questa situazione”. Convinti a suon di massacri gli abitanti di Gaza a lasciare da parte i loro preconcetti e abbracciare finalmente il futuro di luce che lo stato-nazione per il popolo ebraico gli offre generosamente, rimane allora un ultimo ostacolo: i quattrini. Perché se è vero che, alla lunga, l’investimento promette ritorni mirabolanti, nel breve finanziare un massacro e poi una pulizia etnica – soprattutto se democratica e umanitaria – costa, e il bancomat preferito del regime segregazionista di Tel Aviv nelle ultime settimane era temporaneamente fuori uso. Ma visto che, appunto, sono in missione per conto del Signore, ecco che magicamente mercoledì un miracolo l’ha fatto tornare in funzione: i repubblicani, dopo varie diatribe, finalmente hanno eletto il nuovo speaker della camera.
Mike Johnson e Donald Trump nel 2019
Si chiama Mike Johnson e per Israele è una vera e propria manna: evangelico oltranzista, come per i fautori dello stato etnico e confessionale di Israele è un fiero sostenitore delle ingerenze della chiesa sullo stato. “Quando i fondatori pensavano alla così detta separazione tra chiesa e stato” avrebbe affermato in passato, era perché “volevano proteggere la chiesa da uno stato invadente, non il contrario”, e il suo discorso di insediamento è roba da fare sembrare il più invasato degli ayatollah un illuminista.
MIKE JOHNSON – nuovo speaker del congresso USA: “Credo che le sacre scritture siano molto chiare su questo: è solo Dio che può darci l’autorità. E credo che se oggi ci ritroviamo qui, sia perché a permetterlo, e a volerlo, è stato l’Onnipotente. Nel 1962 il nostro motto nazionale, In God we trust, venne scolpito sopra questa tribuna; venne fatto come forma di rimprovero contro la filosofia dell’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda. Quella filosofia si chiamava marxismo e comunismo, e partiva dal presupposto che Dio, appunto, non esiste. E quali sono invece i valori fondamentali, i principi fondamentali sui quali si basa la nostra nazione? Questi principi sono la libertà individuale, un governo dai poteri ristretti, lo stato di diritto, il mantenimento della pace attraverso la forza, la responsabilità fiscale, il libero mercato e la dignità umana. Sono questi i principi che ci hanno reso la nazione straordinaria che siamo. E noi tutti, oggi, siamo i custodi di quei principi che ci hanno reso la nazione più libera, potente e di maggior successo nella storia del mondo, una nazione assolutamente unica ed eccezionale che sola è in grado di affrontare questi tempi di crisi perché oggi il nostro più caro e fedele alleato in Medio Oriente è di nuovo sotto attacco. Ed ecco perché il primo disegno di legge che presenterò qui tra poco sarà proprio a sostegno del nostro caro, fraterno amico Israele, perché anche se il nostro sistema di governo non è perfetto, rimane ancora senza dubbio il migliore del mondo e noi abbiamo il dovere assoluto di preservarlo a ogni costo. Facciamo in modo che in tutto il mondo i nemici della libertà ci sentano forte e chiaro: siamo tornati in carreggiata”. Come ha detto la mia amica Clara Statello, se dovessimo riassumere con due slogan il comizio di insediamento di Mike Johnson, la scelta non potrebbe che cadere su Gott Mit Uns e USA Uber Alles. Cosa mai potrebbe andare storto? Contro i deliri suprematisti che stanno definitivamente trasformando il nord globale nell’impero del male, abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte della pace e della ragione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFoundMe e su Paypal
Siamo sicuri che l’attuale unione europea a 27 sia l’istituzione giusta per affrontare queste sfide e governare questa transizione?
Il risveglio geopolitico dell’Europa: così l’aveva definito Josep Borrell subito dopo il deflagrare del conflitto Russo-Ucraino. Lo aspettavamo da tempo: sembrava arrivata l’ora per le sempre più deboli e irrilevanti nazioni europee di invertire finalmente questo declino e tornare ad essere protagoniste sul palcoscenico globale. Negli ultimi decenni infatti, rinunciando completamente a ogni forma di pensiero strategico, cullandosi in un torpore museale da fine della storia e puntando tutto su un’ inedita politica di “potenza dell’impotenza”, gli Stati europei hanno sistematicamente avvantaggiato i loro rivali strategici.
Purtroppo, però, a quasi due anni dallo scoppio della guerra, abbiamo avuto la conferma che le attuali classi dirigenti nazionali e comunitarie non sono in grado di attuare questo risveglio. A partire proprio dai più ferventi europeisti, che si vagheggiano sognanti di Stati Uniti d’Europa, ma alla prova dei fatti non fanno altro che rendere ogni giorno sempre più irreversibile la nostra sottomissione agli Stati Uniti d’America e alle loro oligarchi finanziarie. Ed ecco così che oltre all’irrilevanza sul palcoscenico internazionale, si accompagna inevitabilmente anche il declino delle condizioni di vita interne, a partire dell’impoverimento costante dalle classi medie-basse e dalla distruzione degli strumenti di Welfare conquistati nel 900.
Esiste un modo per invertire questa deriva?
Ai suoi albori, la costruzione europea era stata pensata come un processo di pacificazione tra Stati storicamente in guerra che avrebbe generato una dinamica virtuosa e una vocazione universale alla pace. Impegnandosi sulla via dell’unificazione e di una pace duratura, la pax europea sarebbe stata la premessa per la pax universalis. Gli stati europei, invasi e occupati durante la seconda guerra mondiale, appaltarono la propria sicurezza strategica agli Stati Uniti, abbandonarono apparentemente ogni retorica imperialista e svilupparono una mentalità prevalentemente economicista. Tuttavia, il nobile afflato alla pax-universalis, assolutamente fisiologico dopo due guerre mondiali, poggiava su alcuni difetti strutturali e molte ingenue illusioni. In primis, sebbene l’europa effettivamente abbia evitato conflitti fratricidi per qualche decennio, nel resto del mondo gli Stati hanno continuato a farsi la guerra, e a ragionare in termini di potenza e sfere di influenza. Inoltre, lo straniero che occupa gentilmente il nostro suolo con centinaia di basi militari e testate nucleari ha continuato e continua a ragionare in termini imperialistici, e non ha affatto abbandonato il linguaggio delle armi. La storia insomma è andata avanti e oggi, dopo un periodo di relativa calma dopo la guerra fredda, ci ritroviamo in una situazione di collasso delle economie nazionali, di smantellamento dello stato sociale a causa di attacchi ai debiti nazionali da parte delle speculazioni finanziare, e in un mondo sempre più conflittuale, dove numerosi Stati si stanno riorganizzando per mettere in discussione il vecchio ordine mondiale unipolare. Le istituzioni che rappresentano il diritto internazionale, vero capolavoro dello spirito politico filosofico europeo, stanno perdendo di efficacia, delegittimate dall’uso strumentale che ne è stato fatto in questi anni. Infine, negli ultimi trent’anni i pacifici stati europei hanno condotto o appoggiato guerre per la democrazia e bombardamenti umanitari nei Balcani, in Africa, in Medioriente e adesso anche in Europa orientale.
Spiace dirlo, ma spacciarci come i buoni e sofisticati europei che hanno capito che la pace è meglio della guerra, diventa sempre più difficile. Agli occhi del resto del mondo, in reltà non siamo altro che le ipocrite stampelle militari di un impero armato fino ai denti e con mire egemoniche. L’idea un’Europa priva di potenza e quindi potere decisionale si è quindi rivelata sbagliata e dannosa, e da questo fallimento deriva oggi l’esigenza di ripensare il fine dell’unificazione europea ai tempi del ritorno della “geopolitica”, capire che nuova forma possa assumere, e sulla base di quali principi. Questioni complesse ma di vitale importanza, che purtroppo avendo interiorizzato la mentalità dei servi che sperano solo nel prossimo pasto caldo, continuiamo a far finta che non ci riguardino. Una bella eccezione in questo senso è l’articolo La transizione geopolitica europea di Florian Louis, professore di storia alla Scuola di Alt studi di Scienze sociali di Parigi, pubblicato su Le grand Continent. Secondo Louis, sovranità strategica e cosmopolitismo in realtà possono coincidere, e pur tornando a pensare in maniera geopolitica gli europei non dovrebbero rinunciare al loro ethos pacifista e cosmopolita. Il rischio infatti è che l’aggravarsi delle fratture geopolitiche che contrappongono le grandi potenze ci conducano a un ripiego egoistico su noi stessi, impedendoci di operare di concerto su vitali interessi comuni come le migrazioni o il contrasto al cambiamento climatico.
“Per molti anni” si legge nell’articolo “l’errore degli Europei è stato pensare che il paradigma cosmopolita di cui essi stessi si reputavano l’incarnazione su scala regionale, avesse reso obsoleto il paradigma geopolitico. Se oggi hanno capito che non era così e che dovevano dotarsi dei mezzi per agire geopoliticamente in un mondo la cui evoluzione non si conformava alla loro visione irenica, ciò non deve spingerli a rinunciare all’esperienza cosmopolita acquisita, che è più che mai necessaria non solo all’Europa ma al mondo. In questo modo la transizione geopolitica Eruopea non sarà una rinuncia a ciò che siamo, ma un lucido superamento delle nostre debolezze al servizio della diffusione della nostra forza”.
Per quanto condivisibile, però, la proposta di Louis rischia di rivelarsi irrealizzabile, a meno che non vengano prima definite due questioni essenziali. Primo: che cosa si intende con Europa? quali nazioni comprende? E poi: siamo sicuri che l’attuale unione europea a 27 sia l’istituzione giusta per affrontare queste sfide e governare questa transizione? Ma il vero elefante nella stanza, in realtà, è ancora un altro: i rapporti con gli Usa. Teoricamente la lotta per l’indipendenza dagli Stati Uniti dovrebbe appassionare e metter d’accordo sia sovranisti che europeisti. I nord americani rappresentano infatti il principale ostacolo tanto per la riconquista della sovranità democratica delle singole nazioni europee, quanto per un’ipotetica Federazione, i tanto agognati Stati Uniti d’Europa, che potrebbero determinare la fine del dominio USA sul nostro continente.
A questo proposito, prendiamo atto con sconcerto che i più ferventi europeisti che parlano di questa utopica Federazione europea a 27 o più membri, sono solitamente anche i più convinti filoamericani. Alcuni sono evidentemente in malafede, altri invece cercano in tutti modi di autoconvincersi che questo è il migliore dei mondi possibili e che gli interessi dei nordamericani coincidano magicamente con i nostri.
Emblematiche in questo senso sono sempre le analisi della nostra amatissima Nathalie Tocci, la stratega preferita dalla propaganda filo-imperiale, che in un articolo pubblicato su La Stampa dal titolo Perché ci serve il gendarme Usa, arriva a scrivere: “Noi europei abbiamo vissuto nell’illusione di una pace perpetua. Ora siamo costretti a svegliarci di scatto e ci ritroviamo impreparati. La verità è che senza gli Stati Uniti, oggi l’Europa non sarebbe in grado di difendersi. […] Oggi che ci siamo svegliati non possiamo non ritenerci fortunati di far parte di un’Alleanza disposta a proteggerci.”
Il disegno dei padri fondatori europei era quello di un Europa democratica e sovrana capace di competere alla pari con le superpotenze del futuro e di trasmettere ideali di pace e cooperazione. Ma questa seconda giusta aspirazione non potrà mai essere raggiunta se non verrà prima riconquistata l’indipendenza e non verrò ridato un significato sostanziale alla parola democrazia. I giornali in questi giorni sono alle prese con il libro del generale Vannacci e gli Spot dell’Esselunga. Se anche tu vuoi fare la tua parte nel risvegliare dall’anestesia l’opinione pubblica italiana, supportaci nella costruzione di un media libero e indipendente:
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