L’Imperialismo USA dichiara guerra anche al Messico sovranista di AMLO?
“Andate al diavolo, fottuti yankees!”; il comunicato col quale i movimenti dell’ALBA hanno deciso di chiudere il lungo weekend della totale perdita di dignità dei regimi latinoamericani più vicini a Washington non va per il sottile: il tutto era iniziato venerdì di prima mattina quando, a Ushuaia, la città più a sud di tutta l’Argentina, un Milei con una grottesca tenuta mimetica riceveva in pompa magna Laura Richardson, l’implacabile comandante del SouthCom, il famigerato Comando Sud degli Stati Uniti responsabile, in passato, delle feroci e totalmente illegali invasioni imperialiste di Granada prima e di Panama poi. A questo giro, in ballo c’è la base navale integrata già proposta dall’ex presidente Fernandez: come ricorda Telesur, prevede la costruzione di “un porto per la riparazione e il rifornimento delle navi, che sarà la struttura più vicina all’Antartide e “la porta d’accesso al continente bianco”, come ha sottolineato lo stesso Milei”. Nei piani di Fernandez, doveva essere un’operazione tesa a tutelare gli interessi argentini nell’area, ma, evidentemente, erano altri tempi; da allora l’impero, per rinviare il suo ineluttabile declino, ha deciso di dichiarare guerra al resto del mondo e, per conservare ancora qualche remota chance di successo, ha bisogno di trasformare di nuovo il giardino di casa latinoamericano in una sua emanazione diretta, dove tutto quello che si muove si deve muovere esclusivamente in funzione dei suoi interessi: ed ecco, così, che la base argentina, una volta sostituito un presidente moderatamente sovranista con un campione degli svendipatria come Milei, diventa magicamente “congiunta”. “Durante un discorso ai militari di entrambi i paesi” riporta, infatti, sempre Telesur “il politico di estrema destra ha ribadito la sua volontà di stringere un’alleanza strategica con gli Stati Uniti e i suoi alleati, annunciando che il SouthCom parteciperà alla base navale integrata”; “Vestito da soldato coloniale per compiacere il comandante del SouthCom” ha dichiarato l’ex ambasciatrice argentina nel Regno Unito Alicia Castro, “Milei è determinato a cedere il controllo geopolitico, strategico e di sfruttamento delle risorse e dei beni naturali del nostro paese”. “Milei” ha rilanciato su X l’ex presidente Fernandez “ha tenuto un discorso non necessario che esprime la sottomissione dell’Argentina a una nazione straniera, e ci riempie di vergogna come Nazione”.
Poche ore dopo, in Ecuador, andava in scena una gravissima violazione del diritto internazionale che scatenava una ancor più grave crisi diplomatica: con un atto di forza del tutto illegittimo, illegale e ingiustificato, il neo presidente filo-occidentale Daniel Noboa ha ordinato ai suoi uomini di fare irruzione nell’ambasciata messicana e di trarre in arresto l’ex vicepresidente correista Jorge Glas. Tra i principali registi della rivoluzione cittadina guidata da Rafael Correa, Jorge Glas è stato vittima di una persecuzione giudiziaria terrificante che l’ha visto già scontare in carcere oltre 5 anni di pena: l’accusa era la stessa che poi ha travolto anche lo stesso Correa e, cioè, di aver incassato tangenti in cambio di appalti pubblici per finanziare il movimento. Insomma: una tangentopoli in salsa ecuadoregna e, cioè, un colpo di stato delle oligarchie compradore per sostituire a una classe dirigente democratica e sovranista la crème crème dei peggiori svendipatria, come era già successo a Christina Kirchner in Argentina e a Lula in Brasile. Una volta ottenuta una sorta di libertà provvisoria per aver già scontato oltre il 40% della pena, Glas, allora, ha cercato protezione contro la persecuzione giudiziaria presso l’ambasciata messicana che, da quando c’è Lopez Obrador, è diventata un po’ l’ancora di salvezza di tutti i leader perseguitati del continente: quando la presidenza Castillo, in Perù, è stata rovesciata da un golpe sostenuto dagli USA, il Messico è stato il primo a rompere le relazioni diplomatiche e quando in Bolivia i gruppi paramilitari di estrema destra, dopo il golpe del 2019, si sono messi a dare la caccia a Evo Morales, a offrirgli riparo è stata, ancora una volta, l’ambasciata messicana di La Paz.
“Ma cosa hanno in comune l’ecuadoriano Daniel Noboa e Javier Milei ?” si chiede Gustavo Veiga sul quotidiano kirchnerista argentino Pagina12; ovviamente, si risponde, “il loro allineamento incondizionato con gli Stati Uniti” che, in particolare, “è simboleggiato dallo stesso identico dono che i rispettivi governi hanno appena ricevuto a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro: una coppia di giganteschi aerei Hercules c-130. Il sigillo a un patto di ferro con la principale potenza militare del pianeta, che vede i due paesi rinunciare a una buona fetta della loro sovranità politica”. L’uno due tra Ecuador e Argentina a cui abbiamo assistito lo scorso weekend, secondo le 400 organizzazioni dei movimenti ALBA, segnala una sorta di nuova Operazione Condor 2.0, un remake all’altezza dei tempi della lunga serie di operazioni coordinate dalla CIA tra anni ‘70 e ‘80 a sostegno di tutte le più feroci dittature militari del continente: a giustificare l’aggressività USA, come sempre, c’è la Guerra Fredda – che, poi, tanto fredda ormai non è -, allora contro il blocco sovietico e i paesi non allineati e, adesso, contro quell’asse dei paesi del Sud globale che vogliono mettere fine all’unipolarismo dell’impero USA. In questa guerra ibrida totale, riuscire a imporre di nuovo un dominio pressoché totale di Washington su tutto il continente è una priorità strategica assoluta: solo attraverso questo dominio incondizionato, infatti, gli USA possono continuare a coltivare l’ambizione di riuscire a ricostruire una base industriale minimamente comparabile con quella cinese e, quindi, poter affrontare la grande guerra futura con qualche chance di uscirne vincitori. Ovviamente, in primissimo luogo, per le materie prime, come ha sottolineato chiaramente la stessa Robertson giusto un paio di anni fa: “Questa regione è così ricca di risorse” ha dichiarato di fronte al fior fiore dell’industria bellica USA nell’ambito dell’Aspen Security Forum del 2022 “e i nostri competitor e avversari anche loro sanno benissimo quanta ricchezza c’è in questa regione”, a partire dal 60% delle riserve di litio globali. E poi ancora “greggio pesante, terre rare”, “e ci sono nostri avversari che aumentano la loro presa su tutte queste risorse ogni singolo giorno, esattamente nel nostro vicinato”.
Come sempre, la lotta per il controllo delle risorse ha due giustificazioni: non solo avere accesso a delle risorse essenziali, ma – forse ancora di più – impedirne l’accesso ai tuoi competitor; gli ultimi decenni di guerre in Medio Oriente, principalmente – abbiamo sempre sostenuto – si giustificano proprio così: avere il controllo dell’accesso cinese alle fonti energetiche indispensabili per alimentare la sua impetuosa crescita economica. Evidentemente non ha funzionato proprio benissimo e, alla fine, qualche centinaia di migliaia di vittime civili sono state massacrate del tutto inutilmente; qui però, a questo giro, c’è una questione in più perché – almeno nella visione di Biden e, in generale, dello stato profondo neoconservatore – il cortile di casa è indispensabile proprio anche per permettere al capitale USA di avere sotto suo diretto controllo una capacità industriale minimamente comparabile a quella cinese.
A giocare un ruolo di primissimo piano in questa complicata partita è, in particolare, proprio il Messico: con quasi 130 milioni di abitanti e un PIL pro capite di meno di 12 mila dollari (inferiore a quello cinese e meno di un sesto di quello USA, nonostante – con oltre 2200 ore di lavoro medio a testa – sia il secondo paese OCSE dove si lavora in assoluto di più) il Messico, infatti, presenta quelle caratteristiche indispensabili per pensare di investire in una produzione manifatturiera che possa, in linea di principio, competere con quella cinese e che gli USA sicuramente non hanno. E lo si è già visto abbondantemente: grazie agli incentivi dell’inflation reduction act, non appena si è tornati a investire nell’automotive, i sindacati – forti della carenza di manodopera qualificata che perseguita gli USA dopo 40 anni di finanziarizzazione forzata dell’economia e sostegno artificiale dei consumi attraverso l’indebitamento privato – hanno intrapreso una battaglia eroica che, alla fine, gli ha portato a strappare aumenti salariali medi nell’ordine del 40%, che significa salari medi vicini ai 30 dollari l’ora, circa 6 volte i colleghi messicani; in particolare, i salari medi nell’industria messicana hanno subito una contrazione mostruosa in seguito all’ingresso nel NAFTA, l’accordo di libero scambio tra USA, Messico e Canada, risalente ormai al 1994. “Un trattato” ricorda Brandon Mancilla sulla testata USA specializzata su lavoro e battaglie sindacali LaborNotes “che ha completamente stravolto l’industria automotive del continente”, ma che alla fine non ha fatto altro, ovviamente, che “facilitare la crescita e i profitti dei padroni, mentre i lavoratori venivano colpiti a prescindere dalla nazionalità”; “Il NAFTA”, infatti, continua Mancill “è costato alla classe operaia statunitense milioni di posti di lavoro ben retribuiti nel settore manifatturiero. Prima della firma nel 1994, l’industria automobilistica statunitense era di gran lunga la più grande del continente. Successivamente, la forza lavoro automobilistica messicana da 112.000 lavoratori è cresciuta di sette volte, raggiungendo quasi 900.000 entro il 2019, un aumento concentrato soprattutto nel settore dei ricambi. Nel 2016, gli Stati Uniti impiegavano solo circa il 51% dei lavoratori automobilistici nordamericani, mentre il Messico ne impiegava il 42%”. Ma se pensate che i lavoratori messicani ne abbiano beneficiato, potreste rimanere delusi: “Dopo l’approvazione del NAFTA” svela infatti Mancilla “i salari dei lavoratori messicani del settore automobilistico sono diminuiti, da una media di 6,65 dollari l’ora per i lavori di assemblaggio finale nel 1994 a 3,14 dollari nel 2016”; e così “Ora i lavoratori automobilistici messicani guadagnano un decimo del salario dei lavoratori statunitensi”.
Ora il NAFTA non c’è più; al suo posto c’è lo USMCA che è stato voluto da Trump, che aveva introdotto qualche correttivo per incentivare il ritorno, almeno in piccola parte, della produzione negli USA, ma che – in sostanza – cambia poco o niente: oggi, quindi, i generosi incentivi che gli USA danno per tornare a Make America Great Again valgono anche, ad esempio, per le auto elettriche prodotte in Messico. Ecco, così, che il Messico è diventata la patria per eccellenza del nearshoring, il tentativo di sottrarre un pezzo di manifattura alla Cina per riportarlo vicino al centro dell’impero e il giochino ha pure funzionato: dopo quasi 30 anni di crescita inarrestabile degli scambi commerciali che avevano portato la Cina ad affermarsi come, di gran lunga, il primo partner commerciale degli USA, negli ultimi due anni il primo gradino del podio è stato conquistato, per la prima volta nella storia, proprio dal Messico. Peccato, però, che c’era il trucchetto: tra quelli che si sono catapultati in Messico per approfittare contemporaneamente di costi del lavoro contenuti e accesso agli incentivi fiscali USA ci sono, infatti, anche un sacco di cinesi. Il leader mondiale dell’auto elettrica BYD sta trattando con l’amministrazione della provincia di Jalisco per un impianto nuovo di pacca che prevede diverse centinaia di milioni di investimenti solo per iniziare e MG, che è un marchio del colosso statale dell’automotive cinese SAIC, ha già presentato i piani dettagliati per un investimento che si dovrebbe aggirare tra gli 1,5 e i 2 miliardi di dollari. In attesa di questi megainvestimenti da parte dei marchi più noti, intanto, a investire, sono arrivati una marea di fornitori e subfornitori; ed ecco, così, che se ancora nel 2023 la Cina non appariva nemmeno nella classifica dei primi 10 paesi per investimenti diretti esteri in Messico, dal primo gennaio al 15 marzo s’è subito guadagnata la quarta posizione.
Ma quello che preoccupa ancora di più è che tutte queste aziende dipendono fortemente dalle importazioni cinesi: “Le esportazioni di componenti automobilistici verso il Messico” ricorda infatti il South China Morning Post “sono aumentate del 260% nel 2023 rispetto alla vigilia della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina nel 2017”: se l’obiettivo è ricostruire una base industriale comparabile a quella cinese e disaccoppiare le economie, in modo da non dover temere un crollo della produzione quando si decide di innalzare ulteriormente il livello del conflitto, potrebbe non essere esattamente l’ideale; al momento, se gli USA vogliono considerare il Messico come un pezzo della loro base industriale, la dipendenza dai fornitori cinesi è aumentata (non certo diminuita), consegnando paradossalmente alla Cina una potenziale arma di ricatto in più, non in meno. Ora, siccome – per quello che abbiamo detto più sopra – gli USA non possono rinunciare a trasformare il Messico in una massiccia macchina produttiva di ferro e acciaio con cui oggi ci facciamo le macchine e magari domani, alla bisogna, i vari veicoli a guida autonoma che servono per fare la guerra alla Cina, chi governa il Messico – e che atteggiamento ha rispetto sia alla Cina che agli USA – diventa un fattore strategico dirimente e che, ad oggi, non depone a favore degli USA.
Il caro vecchio Lopez Obrador, infatti, non è esattamente il tipo da farsi infinocchiare dalla retorica sui valori immaginari da difendere come un Olaf Scholz o un Enrico Letta qualsiasi; ed ecco quindi che, come ampiamente anticipato, tra guerra dei cartelli del narcotraffico e incidenti diplomatici, parte la guerra ibrida al vicino ribelle nel tentativo disperato di influenzare l’esito delle elezioni presidenziali della prossima estate, un tentativo che però, al momento, non sembra dare chissà che frutti. Secondo i sondaggi, infatti, la candidata del partito di Lopez Obrador continuerebbe a viaggiare agevolmente sopra quota 60% e la percentuale di elettori che dichiarano che sarà lei a vincere senza troppi intoppi continua a crescere giorno dopo giorno; l’unico piano B che rimane, allora, è quello di Trump che, un paio di settimane fa, ha spiazzato gli osservatori di mezzo mondo quando, durante un suo comizio, ha dichiarato senza peli sulla lingua che “Se i produttori di auto cinesi vogliono venire a investire direttamente negli USA, sono i benvenuti”; ma non era quello anticinese? In realtà, l’idea di Trump è esattamente quella che più favorirebbe il disaccoppiamento dalla Cina e la creazione di una base industriale adeguata anche solo per pensare a un conflitto: l’idea di Trump, infatti, è sostanzialmente quella di limitare le importazioni sia dal Messico che dalla Cina e, invece, sfruttare la sete di affari dei privati cinesi per spingerli coi soldi loro a investire direttamente negli USA, sia i grandi marchi, sia tutti i fornitori e subfornitori. Trump si rivela così, ancora una volta, decisamente più lucido delle sue groupies italiche che quando, il mese scorso, Stellantis ha suggerito l’ipotesi di poter rivitalizzare l’impianto di Mirafiori portandoci la produzione di alcuni modelli della controllata cinese Leap Motor, sono andati subito nel panico e hanno dedicato pagine e pagine dei loro giornali alla svendita dell’Italia alla feroce dittatura comunista.
D’altronde, se uno corre per guidare l’impero e gli altri per un posto comodo da vassalli, alla fine un motivo ci sarà: il fronte latinoamericano è lontano dalle linee di faglia che sono già teatro della guerra vera o che rischiano di esserlo nel prossimo futuro; ciononostante, è un fronte fondamentale per permettere all’impero di coltivare ancora qualche speranza. Alcune partite, come l’incredibile elezione di un pagliaccio cosmico come Milei o l’essere riusciti a far abortire definitivamente l’esperienza democratica dell’Ecuador ai tempi di Correa, stanno indubbiamente dando il risultato sperato, ma che siano sufficienti a far deragliare completamente l’America latina dal suo percorso, storicamente necessario, di lottare per la sua indipendenza e per la sua sovranità mettendo definitivamente in soffitta il delirio suprematista della dottrina Monroe, sembra – tutto sommato – piuttosto difficile. Gli unici a non dare nessunissimo segno di dignità, alla fine, rimaniamo noi europei; magari sarebbe il caso cominciassimo a prenderne coscienza: per farlo, serve un vero e proprio media che non faccia da megafono ai deliri delle oligarchie compradore, ma che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Antonio Tajani
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