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Tag: sovranità

Contro Limes; il turbo-atlantismo è nel nostro interesse nazionale?

La rivista di geopolitica Limes ha recentemente ufficializzato una propria proposta strategica per l’Italia: nel numero “Una certa idea d’Italia”, il direttore Lucio Caracciolo e l’analista Federico Petroni, sicuramente mossi solo dal nobile intento di invertire il nostro declino geopolitico e tornare ad essere protagonisti nelle nostre potenziali aree di influenza, scrivono che l’Italia dovrebbe stipulare un nuovo accordo bilaterale con Gli Stati Uniti, dando vita da una sorta di rapporto speciale tra i due paesi che ci legherebbe ancora più saldamente all’agenda strategica e al comparto militare industriale americano in cambio di una loro maggiore copertura militare e al supporto ai nostri interessi nazionali nella regione mediterranea: “Un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti” si legge nell’editoriale “[…ri]costituente della nostra pressoché nulla deterrenza, onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti”. Il ragionamento è questo: visto che, volenti o nolenti, siamo provincie del loro impero e da Washington hanno deciso che la Russia e la Cina devono essere trattati come nemici dell’Occidente, l’unica cosa che possiamo fare noi per salvarci è invocare ancora maggiore dipendenza strategica dall’America in cambio di una maggiore copertura e di un po’ più di autonomia tattica nel Mediterraneo, una regione comunque secondaria nel conflitto tra USA, Russia e Cina che potrebbe permetterci di battere la concorrenza di nostri competitor regionali agguerriti come la Francia e la Turchia. L’idea è, insomma, che potremmo sfruttare meglio di quanto non stiamo facendo il nostro comunque inemendabile status di nazione occupata per portare avanti i nostri interessi nazionali nel nostro estero vicino; come vedremo in questa puntata, quella di Limes, per quanto ragionata e argomentata , appare una proposta miope da tanti punti di vista. E su La Fionda è uscito un interessantissimo articolo di Mimmo Porcaro, Il limite di Limes e il nostro, che analizza nel dettaglio la proposta della rivista del gruppo Gedi facendone emergere tutte le contraddizioni e avanzando un’altra possibile proposta strategica che si pone, invece, come chiaro obiettivo non la rassegnazione alla sudditanza – che è anche quanto di più lontano dal nostro interesse nazionale -, ma la lotta per la riconquista di una sovranità popolare e democratica e di una politica estera finalmente all’altezza della nostra storia e di questo compito.

Mimmo Porcaro

Come sottolinea giustamente Porcaro nell’articolo de La Fionda, Limes è un importante riferimento culturale per chi si occupa di geopolitica in Italia e per quanto riguarda gli articoli dedicati al nostro paese dà spesso voce ad interventi assai condivisibili che cercano di comprendere le cause strutturali del nostro declino e di indicare obiettivi politici realistici per invertire la tendenza: dalla ridiscussione dell’euro alla reindustrializzazione del paese, al rafforzamento dell’unità contro la frammentazione regionalistica, alle politiche demografiche, alla politica scolastica, alla gestione dell’immigrazione, ecc. Il pezzo forte dell’ultimo numero dedicato all’Italia, però, riguarda la politica estera e la collocazione del nostro paese nel grande conflitto geopolitico in atto – quella che a Limes piace chiamare La guerra grande – e sia nell’editoriale di Caracciolo che nell’articolo di Federico Petroni leggiamo, in sintesi, questo ragionamento: dato che il problema principale degli Stati Uniti è la Cina e che Washington non può più controllare tutte le aree critiche del pianeta e dato che una difesa comune europea è una prospettiva più mitologica che politica, l’Italia, per non rimanere indifesa, dovrebbe operare in stretta connessione con gli Stati Uniti una particolare funzione di controllo e sedazione delle crisi mediterranee anche grazie ad una integrazione crescente della nostra industria militare in quella nordamericana. Insomma: in questo clima di guerra degli Usa nei confronti di Russia e Cina che vedrà come area di conflitto anche il Mediterraneo (anche se solo come area secondaria), l’Italia deve ribadire con ancora più forza il proprio allineamento e la propria fedeltà al blocco atlantico svolgendo il ruolo di unico vero campione degli interessi americani nel mare nostrum, così da sfruttare questo rapporto privilegiato con il padrone a scapito, magari, delle altre potenze regionali vicine. Come sottolinea giustamente Porcaro, nonostante venga presentata come unica opzione possibile per assicurarci un ruolo di maggiore autonomia e potenza del paese nel nostro estero vicino, questa tesi deve essere respinta con decisione: “Prima di tutto” scrive Porcaro, per “anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti ci si getta in quello che è riconosciuto, anche da Limes, come uno spazio altamente conflittuale strettamente connesso alla guerra d’Ucraina. Seconda linea, sì: ma le seconde linee fanno presto a diventare prime o, comunque, a confondersi con esse, soprattutto quando passano da luoghi che, come il Mediterraneo, sono centrali per i flussi militari, energetici e commerciali.”
Uno dei problemi fondamentali di questa proposta, insomma, è che non siamo agli inizi degli anni 2000 e nemmeno a 10 anni fa, quando la pax americana ancora grossomodo reggeva e la guerra grande non era ancora cominciata: “Se gli Stati Uniti allentano la presa diretta sul Mediterraneo” continua Porcaro “non è per rattrappirsi a casa propria, ma per meglio affrontare il conflitto con la Cina, cosa che avrà pesanti contro-effetti nel Mediterraneo stesso”. Auspicare di prendere parte ad un conflitto mondiale potenzialmente devastante schierandosi, senza se e senza ma, con una delle due parti in causa non sembra – a dirla tutta – una strategia granché lungimirante e spacciarla per mero realismo politico e interesse nazionale appare addirittura irrazionale e contraddittorio; come spiega Porcaro, infatti, la tendenza in America a risolvere manu militari lo scontro con la Cina è molto più forte di quello che traspare dagli articoli di analisti statunitensi, quasi sempre moderati e realisti, ospitati dalla rivista. Come diciamo poi spesso ad Ottolina, più che politico-culturale, è una questione strutturale: il capitalismo finanziario americano può sopravvivere in questa forma e con questa costante crescita solo attraverso l’egemonia espansionistica militare degli USA a scapito del resto del mondo; un nuovo ordine multipolare o policentrico implicherebbe, invece, un’inevitabile implosione delle proprie bolle finanziarie, scenario molto più apocalittico per le oligarchie economiche americane rispetto ad una guerra, magari lontana dal proprio territorio, contro le altre superpotenze. “Il nodo essenziale è questo” scrive Porcaro: “per quanto il pensiero realista e moderato sia sempre stato presente, e influente, negli Stati Uniti, esso non è mai stato veramente egemone e a nostro parere ciò è dovuto anche al fatto che negli Stati Uniti mancano quelle condizioni strutturali che potrebbero consentire ad alcuni apparati di stato di esercitare un’autonomia relativa rispetto alle tendenze espansioniste del capitale (e del plesso militare-industriale). E mancano perché il sistema decisionale di Washington non risente semplicemente della pressione esterna delle varie lobby, ma dell’interna presenza di decisori che provengono direttamente, per la gran parte, dal mondo del capitalismo”; indipendentemente da Clinton, Bush od Obama, sono stati questi gli agenti economico/politici che hanno guidato per decenni la strategia nordamericana dell’open door, ossia del libero mercato mondiale inteso come penetrazione economica degli USA nel resto del mondo, in prima istanza grazie agli investimenti, ma sempre sotto la tutela delle armi.
E anche il recente protezionismo di Trump e di Biden, con annessa maggiore aggressività economica e militare nei confronti dei paesi non allineati, non è che un aggiornamento della politica imperialista del capitale alla luce della ormai ingestibile capacità economico-industriale cinese: “Stando così le cose” conclude il ragionamento Porcaro “stabilire una relazione speciale con gli Stati Uniti per evitare la guerra, o quantomeno per condurne una a bassissima intensità, è come affidarsi al diavolo per evitare il peccato. La predominante tendenza alla guerra è insita nella struttura degli apparati decisionali statunitensi ed è tale da spingere (anche grazie a una religiosità che legittima l’idea del popolo eletto) a comportamenti potenzialmente controproducenti”; affidarsi, insomma, completamente al popolo eletto – subordinando, oltretutto, ad esso in maniera quasi irreversibile la nostra industria militare – potrebbe non essere una scelta molto saggia in quanto non se ne ricaverebbe affatto una maggiore autonomia, sovranità e profondità strategica, ma soltanto un collaborazionismo ancora più servile e autolesionistico ad una potenza strutturalmente guerrafondaia pronta a sacrificarci senza troppi problemi qualora questo giovasse al loro interesse nazionale e magari, chissà, come estrema ratio a trascinarci negli inferi insieme a lei. Una proposta quindi paradossale, tanto che anche Petroni, nel suo articolo Per una relazione speciale con gli Stati Uniti, sottolinea come gli italiani non avrebbero alcun interesse a fare la guerra alla Russia e alla Cina e come la nostra idea di Occidente sostanzialmente fatto e finito e quella americana, in costante imperialistica espansione, non coincidano affatto: “A tutto voler concedere” scrive Porcaro “la proposta che qui discutiamo potrebbe essere interpretata anche come punto d’incontro tra un massimo di realismo e un massimo di tutela dell’interesse del paese. Il (prudentemente) sottaciuto ragionamento di Limes potrebbe essere il seguente: siccome in ogni caso un’alleanza particolare con gli Stati Uniti è al momento inevitabile, tanto vale proporla come nostra scelta autonoma, e quindi sottoporla a determinate condizioni, quali una certa libertà di manovra e magari la ridiscussione del pericoloso trattato (segreto) del 1954 sull’utilizzo delle basi americane presenti nel nostro territorio. Ma anche una simile finezza geopolitica sarebbe destituita di fondamento, per gli stessi motivi generali di cui si è detto prima” e cioè che, ripetiamo, è finita l’epoca in cui il massimo pericolo per l’Italia era la concorrenza nel Mediterraneo di altre potenze NATO, come Grecia o Francia e Turchia, e lo strapotere economico tedesco nell’area euro da cercare di bilanciare in qualche modo, ma siamo nell’epoca, come Limes riconosce, della guerra grande e, cioè, in una fase in cui la nostra potenza occupante e l’imperiale di riferimento si è resa conto che per mantenere la propria egemonia non può che fare la guerra ai propri nemici, a loro volta armati di bombe atomiche. La maggiore indipendenza ventilata da questo rapporto speciale sarebbe quindi solo un’illusione anche perché, come scrive Porcaro, “In guerra le pretese dell’egemone si rafforzano, limitando le manovre dell’alleato e rendendo addirittura possibile una riforma in peius degli accordi che si vorrebbero modificare.” Insomma: in questa impossibilità a staccarsi (forse sentimentalmente) dagli Stati Uniti sta tutto il limite della pur notevole impresa culturale di Limes e del suo tentativo di mettere comunque sempre in primo piano l’interesse nazionale.
Pur senza fare i conti in tasca alla rivista e concedendo un’assoluta indipendenza e onestà intellettuale al progetto editoriale, è chiaro che, per qualche motivo, manca il coraggio di porre come prospettiva di medio-lungo periodo una ritrovata sovranità democratica del nostro paese, che pure è l’unica prospettiva che coincide veramente con il nostro interesse nazionale; come raggiungere questo obiettivo? Questa è la domanda che ci dobbiamo fare e su cui Limes dovrebbe maggiormente discutere: rispetto a questo obiettivo strategico di medio-lungo periodo, tutto il resto è tattica e strategia e, magari, anche stipulare dei nuovi accordi di vassallaggio con gli Stati Uniti in determinate circostanze potrebbe avere senso, ma queste circostanze oggi ci dicono l’esatto opposto e, quindi, di questo collaborazionismo implicito (spacciato per disincantato realismo) non abbiamo davvero più bisogno. “Per Limes infatti” scrive Porcaro (e questo è, per quanto qui ci riguarda, il suo limite principale) “l’interesse nazionale italiano coincide con l’alleanza atlantica: la rivista non definisce in maniera indipendente l’interesse del paese per poi mediarlo, inevitabilmente, coi rapporti di forza, ma dice fin da subito che la relazione con Washington è parte integrante di tale interesse. Affermazione mesta, ma tutto sommato relativamente poco nociva in epoca di globalizzazione ascendente, tragica nell’epoca di guerra che anche Limes sa essere stata inaugurata proprio dal paese a cui proponiamo una special partnership che dalla guerra ci salvi”. “Ma noi cosa proponiamo?” si chiede infine Porcaro, intendendo con “noi” tutti coloro che rivendicano il nesso tra sovranità nazionale e democrazia e non si fanno attrarre da qualche snobistica prospettiva pseudo-realista; quando si passa alle proposte alternative concrete, spesso tra questi “noi” ci si limita agli slogan – fuori dalla NATO, fuori dall’euro – e non sappiamo andare oltre la pur giusta visione di un nuovo equilibrio multipolare. Ma quale posto spetterebbe all’Italia in questo nuovo equilibrio? E come fare a raggiungerlo? “Vogliamo essere l’estrema propaggine di un blocco occidentale, oppure di un blocco BRICS?” si domanda Porcaro; “Vogliamo far parte di un autonomo blocco europeo o mediterraneo? Oppure auspichiamo che gli eventi ci consegnino un ruolo di battitore libero consentendoci di lucrare dagli uni e dagli altri? Probabilmente l’incapacità di rispondere a questa domanda è uno dei motivi dell’attuale debolezza politica delle nostre posizioni.”
Tra gli obiettivi di Ottolina Tv c’è senz’altro quello di stimolare un dibattito serio e ragionato che possa superare tanto il collaborazionismo implicito di Limes quanto gli slogan di protesta privi di contenuto e chiarire le possibili prospettive strategiche alternative per il nostro paese. Per prima cosa, ragiona Porcaro, i principi guida dovrebbero essere due: “1) l’Italia non deve essere la periferia di qualche polo, ossia non deve essere sulla linea di confine, che diviene troppo facilmente linea di tiro, ma deve avere una posizione centrale e neutrale; 2) l’Italia deve far parte di un polo che le consenta il massimo di potere decisionale possibile. Dati questi principi, sono da scartare sia l’ipotesi dell’esser parte di un grande blocco atlantico sia quella opposta: in entrambi i casi saremmo sulla linea di tiro, in entrambi i casi il nostro potere di condizionamento delle decisioni del polo sarebbe minimale.” Nelle condizioni attuali, un pur affascinante polo mediterraneo appare irrealizzabile o, quantomeno, non è più perseguibile come strategia principale: “Il Mediterraneo si è fatto assai più affollato (e difficile) e noi ci siamo fatti assai più deboli, economicamente e politicamente (il piano Mattei senza la potenza dell’industria di Stato e senza una pur relativa autonomia da Washington è pura caricatura): un accesso parzialmente influente al Mediterraneo, al momento, ci sarebbe possibile soltanto nelle forme della “relazione speciale” con gli Stati Uniti già criticata sopra”; cosa resta quindi, conclude Porcaro? “Resta la prospettiva di un’alleanza economico-politica fra paesi europei, un’alleanza che nasca sulle ceneri dell’Unione europea o che comunque vada de facto oltre l’Unione e oltre l’euro e si basi sulla neutralità e sul ripudio del liberismo. Un’alleanza a cui l’Italia apporterebbe il proprio peso economico comunque ancora significativo, la propria proiezione mediterranea (che, allora sì, dall’alleanza sarebbe rafforzata e quindi di nuovo possibile al meglio), la valenza politica del proprio smarcarsi dagli Stati Uniti”. Quello che rimane da chiarire in questa condivisibile suggestione strategica di Porcaro è, però, cosa si intende con alleanza europea e soprattutto quali Stati ne dovrebbero fare parte: si intende un un’improbabile nuova alleanza tra i 27 Stati membri dell’Unione europea? Oppure – cosa forse più verosimile e gestibile – un nucleo europeo composto dagli Stati occidentali? Rispetto a questa condivisibile proposta strategica, benché ancora tutta da definire, si pongono allora allora due questioni primarie: “Quanto alla prima questione bisogna evitare equivoci: un blocco europeo come quello che abbiamo ipotizzato è totalmente contrario alla logica geopolitica ed economica che sottostà alla attuale Unione europea. Non nasce per rafforzare l’atlantismo, ma per decretarne la fine. Non riduce la politica a serva dell’economia, ma la rimette al posto di comando. Quel blocco non si realizza quindi come prosecuzione dell’esperienza attuale, come suo approfondimento in direzione dei famosi Stati Uniti d’Europa, ma come inversione di marcia: come rapporto fra stati sovrani fondato su una scelta politica di autonomia strategica. L’idea è che proprio perché abbiamo bisogno di un’alleanza economico-politica orientata alla neutralità, al controllo dei capitali e alle politiche espansive, proprio per questo dobbiamo superare le attuali istituzioni comunitarie invece di renderle più cogenti ed unitarie”. Quanto alla seconda questione, ricorda Porcaro, bisogna sempre ricordare che in politica e, soprattutto, in politica estera, si raggiunge lo scopo prefissato solo attraverso infinite mediazioni e svolte tattiche; pertanto, per quanto riguarda questa nuova alleanza europea, l’idea di questo spazio può essere costretta a fare alcuni passi avanti anche dentro la cornice della NATO e dell’Unione europea “ad esempio costruendo una coalizione anti-escalation all’interno della prima e forzando con decisioni intergovernative ad hoc i peggiori vincoli economici della seconda. Lo stesso superamento dell’euro può conoscere diverse forme, alcune anche momentaneamente interne all’Unione”.
Insomma: la chiarezza negli obiettivi strategici di medio-lungo periodo, fondamentali per la sopravvivenza della Nazione e quindi per il recupero della sovranità democratica, deve essere la premessa fondamentale per orientare la nostra azione politica; i piani e le svolte tattiche che saremo costretti a valutare per raggiungerli sono, in parte, imprevedibili. Quello che è sicuro è che di alcune posizioni servili e, nella sostanza, antinazionali (anche quando fatte con buona fede) sono oggi, per tutto quello che abbiamo detto, francamente irricevibili. E se anche vuoi contribuire a costruire un media veramente libero e indipendente che si occupi di proposte strategiche nazionali e in vista dell’emancipazione del 99 per cento, aderisci alla campagna di sottoscrizioni di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Una nuova strategia per l’Italia – Passo dopo passo, come riprenderci la nostra sovranità

Bellissima intervista con l’analista Mimmo Porcaro, ex eurodeputato europeo e grande conoscitore delle dinamiche strategiche nazionali. Porcaro rifiuta l’idea paventata anche su Limes che l’Italia debba rinserrare ancora di più i rapporti con gli USA in funzione anti francese e anti tedesca per ritrovare una propria profondità strategica nel Mediterraneo. La proposta di Porcaro è opposta: una rivoluzione europea che porti ad un’alleanza forte tra gli Stati occidentali. Solo così il nostro paese potrà giocarsi le sue carte strategiche nel nuovo mondo multipolare e riottenere, passo dopo passo, la propria indipendenza e sovranità.

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L’asse Russia – Cina per la costruzione di Stati sovrani e indipendenti fa tremare l’imperialismo

Non ha manco finito di mettere in piedi il nuovo governo che ecco che Putin è già in visita a Pechino! D’altronde, che la prima visita ufficiale di Stato dopo una rielezione veda coinvolti i due paesi è ormai un’usanza da oltre 10 anni, da quando cioè Xi, nel 2013, inaugurò la sua presidenza con una visita a Mosca che vide i due leader intrattenersi in un faccia a faccia a porte chiuse durato la bellezza di 5 ore. Ora Putin non vuole certo essere da meno e in una lunga intervista pubblicata dall’agenzia cinese Xinhua – “una delle più importanti e affidabili al mondo” secondo le parole dello stesso Putin – il 5 volte presidente della Russia prova a delineare le direttrici fondamentali di questa amicizia senza limiti tra i due paesi, come viene definita nelle comunicazioni diplomatiche ufficiali. In questa fase di feroce revisionismo storico dove, piano piano, si fa spazio la narrazione che in realtà la seconda guerra mondiale è stata la guerra del mondo libero contro i due totalitarismi alleati tra loro, Putin decide di partire proprio dalla grande alleanza anticoloniale e antinazifascista tra Cina e Unione Sovietica cementata in quegli anni: “I nostri popoli” sottolinea Putin “sono legati da una lunga e forte tradizione di amicizia e cooperazione”; “Durante la seconda guerra mondiale” sottolinea “soldati sovietici e cinesi si opposero insieme al militarismo giapponese e noi oggi ricordiamo e celebriamo il contributo che il popolo cinese ha dato alla vittoria comune, perché fu la Cina a trattenere le principali forze militariste giapponesi, consentendo all’Unione Sovietica di concentrarsi sulla sconfitta del nazismo in Europa”. Ora gli eredi dei nazifascisti in Europa e in Giappone sono impegnati a terminare l’opera interrotta dalla gloriosa resistenza di cinesi e russi, come braccio armato dell’impero. Putin ricorda anche come l’URSS fu, in assoluto, il primo paese al mondo a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese nata dalla guerra anticoloniale; ricorda anche che, in questi tre quarti di secolo, il rapporto tra i due paesi ha attraversato momenti decisamente difficili, ma sottolinea come tutto questo sia servito da insegnamento e come oggi entrambi i Paesi siano pienamente consapevoli che “La sinergia di forze complementari fornisce un potente impulso per uno sviluppo rapido e globale”.
La complementarietà delle economie russe e cinesi, a questo stadio di sviluppo, è piuttosto palese: da una parte il paese più ricco di materie prime al mondo e, dall’altro, l’unica vera grande superpotenza manifatturiera globale che produce, da sola, circa un terzo di tutto quello che viene prodotto oggi in tutto il pianeta e che di quelle stesse materie prime ha una sete inesauribile; attenzione però, perché – ovviamente – questa complementarietà è anche il prodotto di uno squilibrio. Un’economia fondata sull’estrazione delle materie prime si colloca strutturalmente a uno stadio di sviluppo inferiore rispetto a un’economia trasformatrice e, se il rapporto fosse fondato esclusivamente sull’evoluzione spontanea delle dinamiche capitalistiche, con l’approfondirsi dell’integrazione economica questo squilibrio, nel tempo, necessariamente non farebbe che accentuarsi: la ragione è molto semplice e consiste nel fatto che nel capitalismo il più forte vince sempre e cannibalizza il più debole; quindi in regime di libero scambio puro, senza l’intervento di quelli che vengono definiti fattori esogeni (e quindi, in soldoni, della politica e dello Stato), quando due economie che hanno – in virtù delle dimensioni delle rispettive manifatture – due livelli di produttività così lontani come quella cinese e quella russa aumentano il livello di integrazione, alla fine del giro quella che è partita avvantaggiata non farà altro che aumentare il suo vantaggio sempre di più. Che è esattamente il motivo per cui nel mondo, anche dopo i processi di decolonizzazione (e, quindi, una volta terminata la sottomissione di un paese ad un altro tramite l’esercizio della forza bruta), invece di emanciparsi dai rapporti di dipendenza, i paesi sottosviluppati hanno spesso ulteriormente aggravato la loro subordinazione, in particolare laddove alla lotta di liberazione non ha fatto seguito la costruzione di uno Stato sovrano minimamente funzionante in grado, appunto, di intervenire e apportare dei correttivi sostanziosi.

Xi Jinping e Vladimir Putin

Che è, appunto, il nocciolo della faccenda: cresciuti ed educati in un sistema dove gli Stati, scientemente, sono Stati privati della loro capacità di intervenire per apportare dei correttivi – e, anzi, dopo la parentesi democratica del dopoguerra sono tornati ad essere sempre di più essi stessi veri e propri agenti del capitale (e cioè strutture il cui unico scopo è velocizzare e rendere ancora più efficaci e inarrestabili i meccanismi interni del capitalismo), i pennivendoli della propaganda neoliberista, spesso anche in perfetta buona fede, non possono che vedere nel rafforzamento dei rapporti tra due economie così diverse, come quella russa e quella cinese, un inevitabile processo di subordinazione dell’una nei confronti dell’altra. Ed ecco così che da anni, un giorno sì e l’altro pure, le pagine dei giornalacci cercano di convincerci che la Russia ha ben poco da festeggiare perché se, dopo essere stata isolata dall’Occidente democratico e liberale, è costretta ad andare in ginocchio a Pechino alla ricerca di un’alternativa, questo non potrà che renderla un paese vassallo, col petto gonfio di retorica, ma totalmente incapace di esercitare una qualsivoglia sovranità reale; d’altronde, se cane mangia cane e sono scomparse tutte le museruole in circolazione, che alla fine quello più grosso e allenato prevalga è del tutto normale e inevitabile. Fortunatamente, però, in realtà esistono parecchie più variabili di quelle che solitamente è in grado di prendere in considerazione il pensiero binario dell’uomo neoliberale ed è su questo che insiste Putin che, nell’intervista, torna più volte in particolare su due semplici ma essenziali concetti: il perseguimento dei rispettivi interessi nazionali e il rispetto della sovranità. “Vorrei sottolineare” dichiara ad esempio Putin subito all’inizio dell’intervista, che il rapporto tra i nostri due Paesi “si è sempre basato sui principi di uguaglianza e fiducia, di rispetto reciproco della sovranità e di considerazione degli interessi reciproci”.
Al di là della retorica e del politichese, cosa significa in soldoni? Per capirlo bene facciamo un controesempio: i trattati di libero scambio e di libera circolazione dei capitali promossi dall’Occidente, in piena osservanza dei dogmi neoliberali; in questo caso si tratta, appunto, di limitazioni della sovranità degli Stati, che rinunciano a controllare la fuga dei capitali verso l’estero e l’ingresso di merci verso l’interno. Risultato: invece che gli interessi nazionali, a trionfare sono gli interessi specifici dei capitalisti. Il giochino lo conosciamo tutti (è il funzionamento di base della globalizzazione neoliberista): il primo punto è che i capitalisti possono andare liberamente a caccia dei posti più redditizi per i loro investimenti scatenando, così, una concorrenza al ribasso tra i vari paesi per offrire le condizioni migliori per attrarli, sforzandosi di contenere i salari dei propri lavoratori oppure adottando regole sempre più permissive in termini di standard ambientali o di sicurezza – che, in soldoni, significa sempre meno soldi che vanno in salari e sempre di più in profitti; il secondo è che i Paesi (o i pezzi di oligarchia) che partono avvantaggiati dividono il processo produttivo in tanti pezzetti diversi e mentre relegano il lavoro povero ai paesi che offrono vantaggi salariali e regolativi, si tengono la testa per loro. Si va così a consolidare una divisione internazionale del lavoro con una gerarchia ben precisa dove i paesi periferici perdono completamente il controllo della filiera produttiva a favore di quelli più avanzati, che continuano ad ampliare la loro superiorità tecnologica; insomma: prima magari producevi dei trattori che non si possono vedere, ma li producevi come volevi te e potevi decidere quanti produrne, come e quanto pagare i lavoratori, quante tasse far pagare ai proprietari della fabbrica o magari, addirittura, la fabbrica nazionalizzarla. Ora, magari, i trattori che contribuisci a costruire possono anche essere il top di gamma, ma della tua vecchia indipendenza non c’è più traccia e a determinare tutti i fattori è la concorrenza imposta da chi sta in cima alla piramide, tra tutti i suoi sottoposti: sei una specie di gladiatore in un’arena che si deve prendere a sciabolate con gli altri, mentre chi detiene la testa di tutta la catena sta sugli spalti a godersi lo spettacolo e a incassare il cash; e da questa spirale, finché ti affidi alle magnifiche sorti e progressive del mercato, non c’è verso di uscire.
E non abbiamo manco ancora introdotto il terzo punto, che è forse quello più rilevante in assoluto e, cioè, l’aspetto finanziario: chi ha il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa. Ecco: quella è, in assoluto, la cima della piramide e che – grazie alla globalizzazione neoliberista – si stacca sempre di più da tutto il resto diventando irraggiungibile; grazie alla piena libertà di circolazione dei capitali garantita dalla globalizzazione neoliberista, i capitali hanno subìto un processo di concentrazione senza precedenti e chi detiene questi monopoli finanziari privati (e, quindi, decide dove vanno i soldi per farci cosa) ha il vero potere, ben al di sopra dei singoli Stati. Ecco: una cooperazione e un’integrazione economica fondata sul riconoscimento dei rispettivi interessi nazionali e della sovranità è, sostanzialmente, l’opposto di questo meccanismo; uno Stato sovrano, quindi, è uno Stato che decide politicamente le condizioni alle quali le merci possono entrare e i capitali uscire. Ed è per questo che nella neolingua dell’Occidente neoliberale, al termine sovrano abbiamo sostituito autoritario: per l’Occidente democratico, è autoritario ogni Stato abbastanza forte da limitare la libertà delle oligarchie di concentrare nelle loro mani il potere finanziario e trasformarlo, poi, in un potere politico superiore a quello dello Stato stesso; democratico, invece, è ogni Stato che lascia alle oligarchie il potere di fare un po’ cosa cazzo gli pare e le istituzioni possono accompagnare solo.
Da questo punto di vista, la Cina (di sicuro) e la Russia (in buona misura) sono senz’altro Stati autoritari e, quindi, la loro relazione è una relazione tra Stati autoritari, con nessuno dei due che è in grado di imporre niente all’altro e, men che meno, le rispettive oligarchie; per questo è un tipo di relazione che non ha niente a che vedere con quelle a cui siamo abituati nel giardino ordinato, sia perché – a differenza del rapporto tra impero e vassalli che regola le relazioni all’interno dell’Occidente collettivo – non c’è un rapporto gerarchico a livello militare e i due Paesi sono autonomi e indipendenti dal punto di vista prettamente geopolitico (e questo viene riconosciuto anche dagli analfoliberali), ma soprattutto perché, appunto, entrambi hanno mantenuto un discreto livello di sovranità rispetto allo strapotere delle rispettive oligarchie e quindi, di conseguenza, ognuno rispetto alle oligarchie dell’altro. Insomma: sotto tanti punti di vista, nonostante le enormi differenze e gli enormi squilibri che abbiamo già sottolineato, si tratta molto banalmente di un rapporto tra pari che per noi, nati e cresciuti nelle periferie dell’impero, è una cosa quasi inconcepibile ed ha molte conseguenze, anche contraddittorie. A differenza dei rapporti dove vige una gerarchia precisa, ad esempio, i rapporti tra pari sono incredibilmente complicati; lo sono all’interno di una coppia o tra amici: figurarsi tra Stati – e ancor di più tra due superpotenze del genere. E gli esempi abbondano: basti pensare a Forza della Siberia II, il gasdotto da 2600 chilometri che dovrebbe trasportare 50 miliardi di metri cubi di gas russo ogni anno in Cina, un’infrastruttura strategica che più strategica non si può; eppure, nonostante l’aria che tira e l’amicizia senza limiti, i negoziati sono ancora abbastanza in alto mare (come è giusto e normale che sia quando due enti autonomi e indipendenti devono trovare una quadra per una partita così complessa). Per fare un confronto, basta pensare alla vicenda dei due Nord Stream, quando uno Stato formalmente sovrano ha accettato che un suo supposto alleato compisse un atto terroristico di portata gigantesca sul suo territorio senza battere ciglio; oppure quando, in seguito allo scoppio della seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, i Paesi europei hanno aderito a delle sanzioni economiche progettate più per distruggere la loro economia che non quella dell’avversario. Ecco: se come parametro per capire la solidità di un’alleanza prendiamo questo, effettivamente no, l’alleanza tra Russia e Cina non è minimamente comparabile, ma da quando in qua il rapporto tra un imperatore e i suoi sudditi si chiama alleanza? E che fine hanno fatto tutte le filippiche degli analfoliberali sulla democrazia che è sì faticosa, ma, alla fine, è l’unica strada per stabilire legami sociali stabili e duraturi?
Ora, è proprio questo modello di rapporti democratici tra Stati autonomi e indipendenti che Russia e Cina stanno proponendo al resto del mondo; e uno degli organi multilaterali che dovrebbe servire da piattaforma per questo nuovo modello di relazioni internazionali sono ovviamente i BRICS che, quest’anno, vedono la presidenza di turno affidata proprio alla Russia che – afferma Putin – vuole utilizzare, appunto, il suo ruolo per “promuovere un’architettura più democratica, stabile ed equa delle relazioni internazionali”: Putin sottolinea che “la cooperazione all’interno dei BRICS si basa sui principi di rispetto reciproco, uguaglianza, apertura e consenso” ed è proprio per questo che, insiste, “i Paesi del Sud e dell’Est del mondo vedono nei BRICS una piattaforma in cui le loro voci possono essere ascoltate e prese in considerazione e trovano la nostra associazione così attraente”. La creazione di enti multilaterali fondati sulle relazioni paritarie e democratiche tra Paesi, però, è più complicata da fare che da dire perché il presupposto – appunto – è che gli Stati coinvolti siano davvero sovrani e quindi, appunto, autoritari (e, cioè, abbastanza forti da tenere a bada il potere delle loro oligarchie); ma molti dei paesi coinvolti hanno tutt’altro che terminato questo processo di emancipazione dal potere delle oligarchie, come è il caso – ad esempio – del Brasile o dell’India che, di fronte alle loro oligarchie perfettamente integrate nella finanza globale, sono in grado di esercitare soltanto una sovranità parziale. Per non parlare, poi, dei Paesi come l’Arabia Saudita, che sono premoderni e che esercitano una loro sovranità soltanto nella misura in cui lo Stato coincide esattamente con le loro oligarchie.
Se quindi, da un lato, l’imperialismo – che è, appunto, il sistema su cui si fonda il dominio dell’Occidente collettivo sul resto del pianeta e che annienta ogni sovranità in nome dello strapotere delle oligarchie finanziarie – è un sistema, oltre che barbaro e inaccettabile, anche oggettivamente in declino (e contro il quale la rivolta è ormai inarrestabile), la costruzione dell’alternativa è ancora lunga e piena di ostacoli; l’amicizia senza limiti tra Russia e Cina, però, costituisce un nucleo centrale per questo nuovo modello di relazioni internazionali più democratico, di una potenza senza precedenti, ed è per questo che rappresentano (e continueranno a rappresentare) il nemico principale dell’imperialismo, che vede nella loro disfatta l’unica possibilità di continuare a rimanere in piedi, costi quel che costi. A noi non rimane che fare la nostra parte contro la guerra finale dell’imperialismo e, per trasformare anche l’Italia e l’Europa in un insieme di Stati sovrani e indipendenti, pronti a dare il loro contributo per la costruzione di un mondo nuovo senza il quale la distruzione reciproca, più che un’ipotesi, diventa – giorno dopo giorno – una certezza; per farlo, nel nostro piccolo, come minimo ci serve un media che non faccia da megafono alla propaganda dell’impero, ma che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Mettiamo fine all’Unione europea? – Perché il progetto comunitario è fallito e deve finire

Ti dichiari un europeista convinto? Pensi che, per essere competitiva, il destino dell’Italia non possa che essere negli Stati Uniti d’Europa? Sogni il giorno in cui, finalmente, portoghesi e moldavi potranno vivere in uno stesso Stato? Allora questo è il video giusto per te perché a giugno ci saranno le elezioni europee e, come ogni 4 anni, si presentano partiti e liste minacciose e figure ancora più ambigue e sinistre che si candidano a guidare le istituzioni: e, allora, oggi ci tocca fare un discorso che sappiamo un po’ per tutti difficile da digerire perché si tratta di nientepopodimeno che di mettere in discussione l’ultima grande utopia politica di almeno un paio di generazioni di europei (e anche noi, in fondo in fondo, ci abbiamo un po’ creduto); ma, arrivati a questo punto, sarebbe peggio continuare a far finta di nulla, riempirci la testa di rassicurante propaganda e aspettare che la catastrofe diventi irreversibile. E allora facciamo un bel respirone e diciamocelo senza paura: l’entrata dell’Italia nell’euro è stata un fallimento e questa Unione europea è un progetto finito. E, preso atto di tutto questo, le forze popolari europee hanno oggi il compito urgente di proporre una seria alternativa sociale e democratica a queste istituzioni comunitarie fondate sugli interessi delle oligarchie finanziarie, sulla guerra e sulla politica estera americana.
“Ma certo, hai ragione” penserà adesso l’europeista convinto “e il problema sono i sovranisti che impediscono una vera federazione; la soluzione è che ci vuole ancora più Europa! Il nostro destino sono gli Stati Uniti d’Europa; da soli gli Stati nazionali non potranno mai farcela da soli” (cit. europeista convinto). Calma! Calma! Perché su questo argomento non possiamo più permetterci di essere banali, superficiali o ideologici, ed è anzi questa adesione quasi religiosa al progetto di questa Unione europea e alla sua moneta ad aver causato i maggiori danni e ad aver tradito la speranza e l’idea di un vero soggetto geopolitico indipendente e competitivo con le altre superpotenze del mondo. Sì, perché – purtroppo – quando in Italia si parla di euro ed Unione europea ci si scontra ancora con un muro; un muro – come scrive il professore di economia Eugenio Pavarani nel suo articolo per La Fionda Il male della banalità – fatto prima di tutto di “luoghi comuni, di false credenze, di falsi miti, di informazioni distorte, di banalità”.
L’europeismo in Italia non è, infatti, una posizione politica tra le altre, ma è diventato come un tabù religioso; e persino sugli effetti negativi della moneta unica per la nostra economia, ormai dimostrati da una copiosa letteratura scientifica, non si può avere una discussione franca e razionale e, piuttosto che mettere in discussione la bontà e la speranza del suo sogno federalista, l’europeista convinto preferisce non ascoltare e guardare dall’altra parte. “L’euro è assurto a ruolo di indicibile, di totem, di feticcio” scrive il professore di economia a Cassino Gabriele Guzzi su Limes; “Invece di procedere in analisi equanimi ci si nasconde dietro a una religiosità europeista spesso molto sterile. Malgrado questo” conclude “lo iato tra l’immagine edulcorata di Europa e l’Europa reale si fa ogni anno più insostenibile.” In questo video, non solo richiameremo alcuni dati fondamentali che dimostrano i danni del mercato unico e dell’euro per molte economie europee (compresa la nostra), ma ci soffermeremo soprattutto sulle resistenze culturali che, ancora oggi, impediscono a tanta opinione pubblica di affrontare in maniera obiettiva e realistica l’argomento della moneta comune e del progetto comunitario; un video europeista nello spirito perché avere a cuore il destino del nostro continente e dei popoli europei significa oggi ammettere il fallimento delle sue recenti e contingenti istituzioni politiche e la necessità, dalle loro ceneri, di costruire qualcosa di completamente nuovo.
Partiamo da un presupposto che dovrebbe essere ovvio e che, invece, non lo è per nulla: criticare la moneta unica, o le forme giuridiche e istituzionali dell’attuale unione a 27 membri, non vuol dire essere anti – europeisti; già questa equazione tra l’essere europeisti ed essere a favore del progetto delle politiche della Banca Centrale Europea e della Commissione puzza di ideologia e di propaganda da lontano un miglio. “Un paese maturo” scrive infatti Guzzi “dovrebbe valutare razionalmente l’opportunità di rimanere in un’istituzione come l’Ue. Non dovrebbe cimentarsi in petizioni di principio del tutto astratte. Uno Stato potrebbe considerare l’Europa il proprio punto di riferimento da un punto di vista storico, culturale, persino politico. Ma non dovrebbe porre nell’ambito dei valori una particolare istituzione storica, nata trent’anni fa, o peggio una moneta come l’euro. Su questa tipologia di decisioni è il pensiero critico, ossia la continua valutazione realistica delle opportunità, la dimensione su cui uno Stato maturo dovrebbe porsi. Non vaghi atti di fede.” E quindi questo video, lo sottolineo, non è nemmeno lontanamente un video anti – europeista, ma un video mosso da spirito costruttivo che, da una parte, riporta alcuni dati che dimostrano come l’Italia, insieme a molti altri paesi, sia stata oggettivamente danneggiata dalla moneta unica e, dall’altra, che riflette sul fatto che una nuova Unione tra le nazioni europee fondata sulla solidarietà, sul primato della politica sull’economia e sull’indipendenza strategica dagli Stati Uniti è, nei fatti, strutturalmente incompatibile con le attuali istituzioni comunitarie.
Partiamo dalla situazione attuale; negli ultimi due anni, l’idea che l’epidemia avesse rappresentato un momento rifondativo per l’Ue grazie all’emissione di eurobond si è scontrata con la realtà: non c’è stato nessun salto di qualità, nessuna prospettiva federalista. “Mentre il mondo brucia tra guerre e divisioni” scrive Guzzi “l’Ue continua a discutere di zero virgola, di percentuali, di saldo strutturale. L’ideologia contabilistica e ragionieristica di Bruxelles si mostra ancora l’unico collante economico realmente esistente oggi in Europa” e questo, come vedremo, non perché lo impediscono i sovranisti alla Orban (come subito starà pensando l’europeista convinto), ma perché sono esattamente queste le fondamenta e il progetto dell’Unione europea che emergono dai trattati. E’ esattamente questa l’Unione europea che hanno voluto le élite e che continuano a volere. Non è un incidente. Non è un errore da correggere per poter tornare sulla giusta carreggiata. È così che funziona perché è così che è stata pensata e, oltre agli Stati Uniti che sono da sempre dietro al progetto comunitario, anche piccole cerchie del grande capitale stanno infatti continuando a beneficiarne, naturalmente a spese dei ceti medi e popolari.
Ma partiamo dalla moneta unica: l’euro, ci dicevano, avrebbe reso più ricco e competitivo tutto il continente; a vent’anni dalla sua introduzione, i dati ci dicono esattamente l’opposto. L’Europa, prima dell’euro, aveva il PIL pro capite pari a quello degli Stati Uniti; oggi è a circa la metà. Nel frattempo, nessuna politica fiscale comune è stata fatta e questo non perché ci sono i sovranisti cattivi che lo hanno impedito (come ribatterà il nostro europeista convinto), ma perché non è nemmeno mai stata proposta in quanto non coerente con gli stessi principi fondativi dell’Unione europea. Nel contesto poi di questa perdita di competitività di tutto il continente – che già confuta uno degli argomenti preferiti degli europeisti secondo cui l’Unione europea e l’euro sarebbero fondamentali a competere meglio con le superopotenze – alcune economie hanno ricavato vantaggi dalla moneta unica e altre no (vantaggi a danno degli altri paesi membri, si intende). “Nei propositi iniziali” scrive Guzzi “l’euro avrebbe dovuto raggiungere diversi obiettivi. Tra gli altri, promuovere la crescita economica, ridurre le divergenze tra paesi, diventare un credibile competitore rispetto al dollaro. Dopo venticinque anni, possiamo dire che tutti questi obiettivi non sono stati raggiunti.” “Certo!” penserà l’europeista convinto: “E’ successo perché alcune classi dirigenti nazionali sono state più in grado di altre di sfruttare la moneta unica; non è colpa dell’euro, non è colpa della UE: è, come al solito, colpa dell’incompetenza dei singoli Stati nazionali ed è la prova che ci vuole più Europa!” (europeista convinto)
Ma, ormai, lo abbiamo imparato a conoscere il nostro europeista convinto; è la solita strategia argomentativa del benaltrismo, utile per non mettere mai in discussione la sua fede a prescindere da qualunque dato o argomento: per la strategia del benaltrismo i problemi non sono mai e poi mai legati all’Unione europea e all’euro che sono, sempre e comunque, un bene in sé, ma sempre e solo ai problemi interni delle nazioni, problemi che, invece, si risolverebbero – ça va sans dire – se queste si donassero completamente alle istituzioni comunitarie. Peccato che le cose non stiano proprio così e il caso dell’Italia è paradigmatico: da circa 20 anni il nostro paese ha smesso di crescere e sta vivendo un drammatico declino strutturale che ha inizio nella seconda metà degli anni ’90, proprio in coincidenza temporale con la fissazione del cambio nei confronti dell’ECU che poi, in continuità, è divenuto euro nel 1999; due grafici, che ricaviamo dall’illuminante articolo di Pavarani, fotografano la tempistica e l’entità del declino e non richiedono molti commenti.

Ecco: qui vediamo la famosa Italietta della liretta aumentare stabilmente il proprio PIL pro capite fino alla metà degli anni 90, diventando una delle più ricche e prospere comunità del pianeta, per poi cominciare il suo triste declino in coincidenza con l’introduzione dell’euro; questa curiosa coincidenza temporale, come scrive Pavarani, appare ancora più marcata se confrontiamo – secondo i dati Eurostat – il reddito pro capite italiano con la media dei 15 Paesi dell’eurozona più sviluppati.
Dalla tabella seguente e dal relativo grafico è possibile rilevare che, dopo un lungo inseguimento culminato a metà degli anni ’90, la distanza del reddito pro capite italiano dalla media (livello zero nel grafico) è bruscamente tornata su valori negativi e fortemente decrescenti.

Nel 1996 fu definitivamente stabilito il cambio della lira prima nei confronti dell’ECU, divenuto poi euro. “Dal confronto dei due grafici” scrive Pavarani “emerge una più precisa puntualizzazione temporale dell’inizio del declino, che viene a coincidere con la definitiva perdita della flessibilità del cambio”. Semplice coincidenza temporale? Si può anche continuare a pensarlo e sostenere che sia tutta colpa dei populisti che parlano alla pancia invece che alla testa delle persone, ma – come sottolinea Pavarani – ci si pone allora in aperto contrasto con una ormai corposa letteratura scientifica che ha individuato chiare relazioni di causa ed effetto; ad esempio l’economista J. E. Stiglitz che, nella sua opera dedicata all’euro (L’Euro), scrive che “La causa della crisi è da attribuire alla struttura stessa dell’Eurozona e alle politiche da essa imposte, non alle mancanze dei singoli Paesi”. Persino Giuliano Amato, non proprio un sovranista della prima ora, dichiarava “Abbiamo fatto una moneta senza Stato; abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire una moneta, senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e da quei modi che sono propri dello Stato […]; non abbiamo voluto ascoltare le indicazioni della letteratura e oggi possiamo dire che era davvero difficile che l’unione monetaria potesse funzionare e ne abbiamo visto tutti i problemi”.
Non mi soffermerò adesso sugli aspetti tecnico – economici che stanno alla base dei gravi effetti negativi che l’euro ha avuto per la nostra economia e, per chi avesse voglia di farsi una prima idea su questo argomento, metto qui sotto in descrizione gli articoli di Pavarani e Guzzi; sta di fatto che il processo di integrazione e la moneta unica, per come sono stati progettati, non potevano che essere fonte di vantaggi per alcuni e, simmetricamente, di svantaggi per altri: fa parte del suo DNA, ma questo non ci deve stupire. Nata nel clima culturale della controrivoluzione neoliberista, è questa l’ideologia politica su cui si fondano i Trattati Europei e l’euro e che, tutt’oggi, guidano le istituzioni comunitarie; un’ideologia, come sappiamo bene, intrinsecamente oligarchica e fondata sul primato dell’economia sulla politica: “L’intervento dello Stato nel mercato, le politiche distributive, la tutela dei diritti sociali, sono contrastate dalle regole che l’Ue si è data e ostacolate dalle riforme che essa richiede ai Paesi membri” scrive Pavarani. “Le regole del gioco sono quelle del mercato e della concorrenza che premiano e penalizzano”; “Naturalmente” conclude il professore di economia all’Università di Parma “tutto questo è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto al progetto di società prefigurato nella nostra Costituzione, e infatti l’Italia è stata fortemente penalizzata dalle dinamiche comunitarie, anche più di altri Stati, proprio per la difficoltà di adeguare il proprio modello sociale (e gli assetti giuridici, economici, politici e sociali) al paradigma imposto dall’UE.”
Ma se la stragrande maggioranza dell’impresa italiana è stata colpita, anche se in modi diversi, dalle politiche di austerità e dalla desertificazione industriale vissuta dal nostro paese e solo piccole cerchie del grande capitale hanno beneficiato (e continuano a beneficiarne), come spiegare la persistente adesione di buona parte della classe media italiana alla fede europeista senza se e senza ma? È chiaro che le ragioni economiche non bastano e che siamo di fronte ad una forte resistenza ideologica e culturale che impedisce di guardare in maniera lucida e pragmatica alla realtà; e per capire più in profondità cosa ha significato e significa l’euro e l’Unione europea nel nostro inconscio collettivo, bisogna fare un po’ di storia. La firma del trattato di Maastricht avvenne nel 1992: l’anno di Tangentopoli, della speculazione contro la lira, delle stragi di mafia; l’anno prima c’era stata la caduta dell’Unione Sovietica con le sue catastrofiche conseguenze sul pensiero di sinistra occidentale. In quegli anni, insomma, l’Italia – con la fine della DC e del PCI – si ritrova in piena crisi istituzionale e sprovvista delle due grandi ideologie politiche che avevano dato un senso alla sua vita politica fino a quel momento: “Un intero sistema era collassato” riflette Guzzi “e le élite italiane valutarono il nostro paese come sprovvisto di quelle energie sufficienti per affrontare in sicurezza i nuovi scenari globali”; è allora qui che troviamo le radici dell’adesione pseudoreligiosa dell’Italia alla moneta unica e al progetto comunitario che, per noi, non sono mai stati solo un utile strumento per mantenere la pace e portare avanti gli interessi nazionali, ma sono diventati la nuova grande utopia politica a cui fare riferimento, un’ideologia politica con caratteri quasi millenaristici che permea tutta la nostra cultura politica del terzo millennio. “L’unificazione europea divenne la nuova narrazione sostitutiva, il sol dell’avvenire verso cui convogliare quelle attese millenaristiche che caratterizzavano entrambe le tradizioni [comunista e cattolica]” sottolinea Guzzi: “un marchingegno teologico – politico per risolvere la propria crisi d’identità senza interrogarsi troppo sul passato”; “Anche l’euro” continua “fu interpretato come la soluzione della crisi sistemica e generale dei partiti, dell’economia, della cultura e delle istituzioni italiane. Esso non è mai stato per noi solo uno strumento economico. È stato il modo con cui le élite impostarono la nuova identità strategico – culturale del paese”.
Ed è per questo che è così difficile, in molti ambienti, parlare realisticamente e serenamente di queste cose: perché l’ideologia europeista è fortemente intrecciata con la vicenda biografia del paese, con la nostra identità individuale e collettiva, con tutto il senso del nostro agire politico. Alla fine, però, la forza dell’evidenza colpisce sempre più forte e la realtà sono anni che ha incominciato a bussare nuovamente alla porta. Arrivati a questo punto manca, però, un ultimo gradino: senz’altro, l’europeista convinto si sente adesso un po’ scosso e sente forse i primi dubbi presentarsi alla sua coscienza, ma non si sente ancora pronto a rinunciare al suo sogno, alla sua più intima speranza e, cioè, che tra mille inciampi e contraddizioni, è in fondo solo questione di tempo e, prima o poi, gli Stati nazionali europei metteranno da parte le divergenze, di litigare tra loro e si convinceranno che l’unica cosa veramente razionale da fare è di dare vita agli Stati Uniti d’Europa “perché sarà anche vero che l’Unione europea è un progetto neoliberista che ha contributo a distruggere la nostra socialdemocrazia, sarà anche vero che l’euro ci ha danneggiati, che l’Europa ha perso competitività con le altre superpotenze e che gli Stati Uniti dirigono oggi la politica estera europea con ancora più facilità. Ma la federazione delle nazioni europee in stile americano! Quello, se vogliamo sopravvivere, non può che essere il nostro destino!” pensa l’europeista convinto. E non essendo altro che una fede, di fronte a questa prospettiva tutto è possibile, tutto è permesso, tutti i sacrifici sono giustificati; per l’europeista convinto gli italiani potranno, tra 30 anni, anche finire a cibarsi di vermi purché gli dicano che stiamo comunque andando nella direzione del Grande Progetto Federale. Scriveva Carlo Caracciolo su La Stampa il 16.11.2022: “L’idea d’Europa è immortale. Perché perfettamente irrealistica. Non mettendosi alla prova o rifiutandone gli esiti, resta articolo di fede… L’europeismo ideale è indifferente alle miserie dell’europeismo reale”.
Per approcciarci in maniera più realistica a questo tema, proviamo a porci le seguenti domande: quanto è verosimile, ad oggi, che i Paesi membri decidano di aderire ad un ordinamento federale che li priverebbe di ogni sovranità allo stesso modo in cui ne sono privi i singoli Stati della federazione americana? Quanto è probabile che i cittadini francesi, tedeschi, greci e croati rinuncino tutti insieme, nello stesso momento, alla loro Costituzione? Quanto è credibile che un cittadino della Baviera o della Lombardia possa gradire che le imposte da lui versate vadano a beneficio di cittadini della Romania o dell’Estonia? Ora, ammesso e non concesso che una federazione di Stati europei in stile americano che va dal Portogallo alla Lettonia risolverebbe qualcuno dei nostri problemi nazionali ed europei, ha però ragione l’europeista irremovibile? E, tra mille difficoltà e contraddizioni, le istituzioni europee stanno veramente remando in quella direzione e, ogni anno che passa, facciamo un piccolo passettino nella realizzazione di questo progetto?
No: pur ammessa la bontà del sogno dell’europeismo ideale, anche in questo l’europeismo reale è pronto a smentirlo perché non solo, come vedremo subito, la federazione degli Stati Uniti d’Europa non è nell’agenda e nei programmi delle istituzioni europee, ma è anzi in totale contraddizione con i Trattati e con lo spirito neoliberista su cui l’Unione è stata fondata; “La stragrande maggioranza delle persone che conosco sono certe che l’Ue sta seguendo un percorso lineare, diretto, ma ancora incompleto, che porterà alla creazione di uno Stato europeo” scrive Pavarani. “Sono altrettanto certo che, se prendessero coscienza che questa prospettiva appartiene esclusivamente alla dimensione del mito e che non ha nessuna radice nella realtà, la loro eurofilia probabilmente si scioglierebbe come neve al sole.” Benché lo faccia credere ai suoi cittadini, infatti, l’Unione europea non vuole avere una dimensione politica, autonoma e sovrana di tipo statuale: “L’attuale Unione europea” scrive Pavarani “non ha alcun bisogno dello Stato, della politica, di compiuti poteri legislativi ed esecutivi: le scelte politiche, quantomeno in materia economica, sono già state fatte; sono stabilite a monte, sin dall’origine, e sono cristallizzate nei Trattati, una volta per tutte”.
È vero che la costruzione che è stata realizzata presenta un evidente deficit democratico, ma questo era esattamente nei piani perché la democrazia implicherebbe che, con il voto, gli elettori possano cambiare la politica economica e in Europa non deve funzionare così; la sovranità che è consentita al popolo è soltanto la possibilità di cambiare il governo nazionale, ma senza cambiare politica economica perché questa è impostata sul pilota automatico determinato dalle regole e dai Trattati europei. In pieno stile neoliberista, il mitologico mercato – e quindi, in realtà, delle ristrettissime oligarchie che traggono beneficio dallo status quo – deve avere l’ultima parola e deve essere tenuto ben al riparo dalle interferenze e dalle distorsioni prodotte dalle istanze democratiche. Per quale ragione, chiediamoci, le élite economiche, che guidano le istituzioni europee con l’avvallo statunitense, dovrebbero volere sopra di sé il controllo di uno Stato federale democraticamente eletto? “I sognatori sonnambuli non hanno capito che l’ordinamento istituito dai Trattati non si colloca nella direttrice del loro sogno, non è una tappa nel percorso che porta ad un nuovo Stato sovrano, gli Stati Uniti d’Europa. Si è realizzato un altro sogno, ben diverso, che si colloca nella direzione opposta. È il sogno di coloro che si proponevano di liberare l’economia dall’ingombrante presenza pubblica; si proponevano di liberare il mercato dagli effetti distorsivi generati dall’intervento dello Stato nel conflitto distributivo e a garanzia dei diritti sociali attraverso politiche di welfare; si proponevano di sottrarre agli Stati le sovranità nazionali sulle politiche economiche e non certo per riproporle in una dimensione statuale più grande a livello accentrato” scrive Pavarani.
L’obbiettivo, raggiunto e consolidato nell’attuale assetto dell’Unione, era ed è il depotenziamento degli Stati nazionali e lo svuotamento dei poteri di intervento pubblico; non certo l’obbiettivo di costruire un nuovo Stato più grande che riproponesse su scala più ampia, a livello europeo, il modello degli Stati nazionali e, quindi, diciamolo una volta per tutte: l’attuale Unione europea non è un assetto istituzionale incompiuto da completare in senso federale attraverso alcune riforme. È già completa ed è perfettamente coerente al disegno iniziale: “Lo Stato federale non può essere un modello per il futuro per la semplice ragione che questo, come gli Stati nazionali, è concepito in base all’idea di sovranità statuale” conclude Pavarani “mentre l’idea che sta alla base del progetto di integrazione europea nasce, al contrario, proprio dall’istanza del superamento degli Stati nazione e della loro sovranità”. E questo non sono quei disfattisti anti-occidentali di Ottolina, Guzzi e Pavarani a dirlo, ma la stessa Unione europea: il 9 maggio 2022 si è conclusa la Conferenza sul futuro dell’Europa voluta dal presidente francese Macron; la mission della Conferenza è stata delineata in una dichiarazione comune e divisa in 9 temi su cui incentrarsi per il futuro:[1] cambiamento climatico e ambiente;
[2] salute;
[3] un’economia più forte, giustizia sociale e posti di lavoro;
[4] l’Ue nel mondo;
[5] valori e diritti, stato di diritto, sicurezza;
[6] trasformazione digitale;
[7] democrazia europea;
[8] migrazioni;
[9] istruzione, cultura, giovani e sport.
Come si evince, quando l’Unione europea si interroga sul suo futuro non prende nemmeno in considerazione l’opportunità di mettere all’ordine del giorno e di avviare una discussione in merito ai passi necessari, il tragitto verso un assetto statuale di tipo federale (e, infatti, non se ne fa cenno nel documento finale); la costituzione di uno Stato federale non è in alcun modo contemplata.
Insomma, dovrebbe essere ormai chiaro che il mito degli Stati Uniti d’Europa ci viene venduto fin da bambini per continuare ad ingoiare tutte le schifezze e tragedie che il vero progetto dell’Unione europea, quello oligarchico, neoliberista e figlio dell’occupazione americana, ci costringe a subire; quello che contribuisce allo smantellamento della socialdemocrazia e alla lotta di classe dall’alto verso il basso. Gli Stati Uniti d’Europa come il nuovo oppio dei popoli europei, l’oppio a causa del quale da 30 anni abbiamo smesso di guardare con lucidità politica a quello che succede intorno a noi. E se anche tu non sei un europeista convinto e, quindi, non ti illudi che le oligarchie economiche filo americane che traggono vantaggio da questa Unione europea decideranno di suicidarsi da sole e pensi che solo la lotta e il conflitto politico faranno nascere un nuovo progetto politico ed economico dei popoli europei, aiutaci a costruire un media libero e indipendente che combatta la loro propaganda finto europeista. Aderisci alla campagna di campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Draghi

Il “piùEuropa” e il male della banalità | La Fionda

Un manuale per rivoluzionari – ft. Alessandro Pascale

Alessandro Pascale presenta Comunismo o barbarie, il suo ultimo lavoro dedicato a Marx, la storia del socialismo reale e il totalitarismo liberale. Contro le oligarchie finanziarie e contro gli USA dobbiamo metterci in testa nuovo movimento politico rivoluzionario: dovrà fare i conti con tutta la storia del ‘900 e abbandonare ogni legame con l’attuale sinistra della ZTL. Sovranità, socialismo cinese e anti-imperialismo sono le parole d’ordine da cui ripartire.

Italia vs USA- La lotta per l’indipendenza sta per cominciare?

Sovranità o barbarie. Sovranità o morte.
Tutta la storia contemporanea può essere letta anche come storia del conflitto tra nazioni ed imperi, tra comunità nazionali, che lottano per la propria indipendenza ed autodeterminazione, ed imperi aggressivi e coloniali, che cercano di assoggettare altri popoli per asservirli ai propri interessi. In questo periodo di transizione ad un nuovo ordine multipolare in cui, idealmente, l’autodeterminazione dei popoli diventerà veramente il principio fondante del nuovo equilibrio internazionale, nazioni coraggiose hanno cominciato, finalmente, ad alzare la testa e le armi contro i propri oppressori e contro il vecchio ordine mondiale fondato sull’egemonia del dollaro e sullo sfruttamento; e anche per il nostro paese, da 80 anni militarmente occupato da una potenza straniera a causa di una guerra persa, la questione nazionale è sempre più una questione dirimente e non più rimandabile, perché lo spaventoso declino economico, demografico e culturale che stiamo subendo è in gran parte frutto del fatto che non abbiamo la possibilità di portare avanti una nostra agenda dettata dai nostri interessi nazionali, che le nostre classi dirigenti sono selezionate a monte sulla base della loro mediocrità e servilismo e che, come ogni colonia, stiamo introiettando modelli culturali dal centro dell’impero che non hanno nulla a che fare con la nostra storia e che ci stanno dissolvendo dall’interno.

Nel libro Sovranità o Barbarie – Il ritorno della questione nazionale, Thomas Fazi e William Mitchell affrontano di petto questa questione e dimostrano come, nella storia, lo Stato Nazione sia stata la sola cornice istituzionale e culturale in cui le classi subalterne hanno migliorato le proprie condizioni di vita, hanno creato uno stato sociale fondato sulle tutele e sulla giustizia redistributiva e hanno allargato gli spazi di democrazia. Come sottolinea anche l’articolo 1 della nostra Costituzione, se non esiste sovranità popolare non esiste democrazia e, se non esiste democrazia – dobbiamo aggiungere – il popolo può solo subire le politiche delle oligarchie autoctone e straniere che, con il supporto del potere imperiale, depredano le ricchezze nazionali e fanno di tutto per conservare lo status quo. Citando ampi stralci dai discorsi e dagli scritti di figure come Togliatti, Basso e Di Vittorio, Mitchell e Fazi mettono in luce la profonda diffidenza – se non aperta avversione – che, per tutti questi motivi, la sinistra socialista nutriva contro ogni dissolvimento dello Stato italiano in una qualche istituzione sovranazionale poco o per nulla democratica. Le loro parole, oltre alla consapevolezza del fatto che l’internazionalismo dei popoli non ha alcunché da spartire con la globalizzazione finanziaria e capitalista, esprimono con ancora più chiara consapevolezza che la sovranità nazionale era il presupposto indispensabile per qualsiasi realizzazione dei bisogni e dell’emancipazione degli ultimi.
Ma anche Costanzo Preve, all’inizio di questo secolo, quando quasi tutti guardavano alla globalizzazione capitalista come al migliore dei mondi possibili e all’America come a un padrone benevolo, ci aveva avvertito e, in un libretto chiamato La questione nazionale alle soglie del XXI secolo, già denunciava l’inglobamento della nuova sinistra liberista nella sfera culturale delle élite capitaliste, mostrando quanto ideologica e strumentale fosse la sua nuova visione dello Stato nazionale come semplice residuo artificiale del passato e un residuo, perlopiù, di cui sbarazzarsi il più in fretta possibile, data la sua intrinseca pericolosità e aggressività nei confronti delle altre nazioni; in verità, ci ricorda Preve, nazionalismo ed imperialismo sono fenomeni politici opposti e da sempre in conflitto tra loro e chi nega la sovranità nazionale di un altro popolo con comportamenti coloniali e predatori non deve essere chiamato nazionalista, ma imperialista. E nel mondo attuale, in cui la storia sembra essersi rimessa in moto, è proprio da questa consapevolezza e da queste analisi che chi ha a cuore la pace e la democrazia dovrebbe ripartire. In questa puntata parleremo, quindi, del modo in cui l’ideologia neoliberista degli ultimi decenni ha cercato di distruggere il concetto di Nazione e di Stato sovrano per poter espandere le proprie logiche in ogni spazio e dimensione della vita comunitaria; vedremo poi la differenza tra i veri nazionalismi e le sue aberranti perversioni imperialistiche nel ‘900 e perché, oggi, la lotta per l’indipendenza nazionale ed europea dagli Stati Uniti non è davvero più rimandabile.
La famosa globalizzazione a guida americana non ha significato solo accelerazione delle comunicazioni, dei trasporti e delle transazioni finanziare, ma – soprattutto – restaurazione del pieno funzionamento dei rapporti capitalistici di produzione dopo l’intervallo del comunismo storico novecentesco dal 1917 al 1991; durante questa restaurazione, messa oggi in discussione dall’emergere di nuove potenze economiche e culturali concorrenti, gli Stati occidentali hanno perso alcune funzioni tipiche dei decenni felici (dal 1945 al 1991), come la redistribuzione della ricchezza e l’implementazione dei diritti sociali, rafforzando il loro ruolo di appoggio economico, politico e militare agli interessi delle oligarchie economiche; un processo, sostengono Fazi e Mitchell, che sarebbe sbagliato interpretare come indebolimento dello Stato e che ha, invece, a che fare con la volontà delle classi dirigenti di utilizzare lo Stato come strumento di profitto, di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia.
Nonostante le contraddizioni di questo sistema stiano chiaramente scoppiando, In Italia la necessità quasi teologica della globalizzazione capitalista a guida americana non viene ancora messa in discussione e l’opposizione destra – sinistra, ormai del tutto artificiale e virtuale, continua ad essere riprodotta dall’alto per non far vedere ai cittadini queste contraddizioni e continuare a dividerli su questioni di pettegolezzo e di costume: sul tema della nostra sovranità e indipendenza nazionale, ad esempio, che sarebbe una chiara minaccia per la globalizzazione americana, la finta destra svolge da sempre il ruolo di cantore dell’occupazione militare del nostro suolo e sogna un’Italia finalmente americanizzata in cui i poveri possano essere sfruttati senza rompere troppo i coglioni e in cui la socialdemocrazia venga smantellata in ogni sua parte; la finta sinistra, invece, presa da un’incredibile crush per il partito democratico americano e per l’Unione Europea, sogna che l’Italia cessi proprio di esistere e questo perché, per loro, l’identità nazionale sarebbe roba da popolino e da medioevo, mentre l’America e le organizzazioni internazionali sono sinonimo di modernità, moda e umanitarismo.
Tutta questa ideologia antinazionalista, sottolinea anche il sociologo tedesco Wolfgang Streeck in Che fine farà il capitalismo?, serve proprio perché lo Stato nazionale sovrano è incompatibile con la forma imperiale americana e perché, storicamente, è stata la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia: “Anche per questo” scrive Streeck, “anche se in modo spesso confuso o ambiguo, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale.”; in Europa, aggiunge Preve, questo odio viscerale della sinistra liberal per la nazione “È diventata la questione culturale principale per cui la tradizione definita comunemente di sinistra è sostanzialmente inutilizzabile oggi per motivare un serio atteggiamento di critica e di resistenza all’attuale globalizzazione capitalistica ed imperialistica.” “E” continua “è uno dei fatti principali per i quali la sinistra, che negli ultimi due secoli nonostante difetti evidenti ha difeso cause sociali giuste, invece da 40 anni ha cambiato radicalmente natura.” Non è certo la prima volta nella storia che, in paesi sconfitti e occupati e con classi dirigenti collaborazioniste con l’occupante, diffondono idee che delegittimano l’idea stessa di sovranità e indipendenza e cerchino, in tutti i modi, di far passare l’idea che in fondo è meglio così e che il padrone è un padrone benevolo che sa fare al meglio gli interessi di tutti. Ma nel nostro caso, ricorda Preve, si è diffuso anche uno strisciante revisionismo che delegittima l’idea stessa di Nazione, per il quale le nazioni sarebbero solo il prodotto di un’ingegneria sociale priva di alcun fondamento culturale e di cui bisognerebbe liberarsi il più in fretta possibile, data la loro intrinseca aggressività nei confronti delle altre Nazioni; i più cauti su questo punto dicono che il nazionalismo guerrafondaio ed espansionistico – come, ad esempio, quello europeo e americano degli ultimi secoli – sarebbe una perversione e deviazione dell’originario ed autentico concetto di Nazione. “Ma invece bisogna dire” scrive Preve “che il nazionalismo militaristico e il colonialismo imperialistico sono stati la negazione e il nemico frontale della realtà nazionale per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo. Il colonialismo imperialistico è la negazione, è il più grande nemico del riconoscimento della legittimità dell’identità nazionale.”

Wolfgang Streeck

Un secondo pregiudizio a proposito della questione nazionale, da sempre caro ad un certa sinistra internazionalista, è che l’idea di nazione sarebbe nemica delle classi popolari e dell’emancipazione sociale; secondo questa teoria, il concetto di nazione implicherebbe una falsa unità tra le classi sociali e l’identità nazionale non sarebbe altro che un’identità borghese e capitalistica mascherata e venduta ai proletari dagli apparati ideologici di Stato per non far fare loro la rivoluzione e mandarli a morire in guerra per i propri interessi: questa obiezione, riflette Preve, rilevata da Marx e da gran parte dei marxisti successivi, è solo in parte pertinente. Dire che il nazionalismo distrarrebbe i proletari è ingenuo: “La gente è forse un po’ cogliona” ragiona il filosofo di Valenza “ma non cogliona fino a questo punto. La questione nazionale non distrae mai dalla questione sociale quando essa è realmente radicata in forze sociali reali. Lo sviluppo dialettico della lotta tra le differenti classi sociali della società capitalistica, ha anzi come presupposto storico la precedente identità nazionale.”; e infatti, se si guarda alla storia, possiamo tranquillamente dire che la rivoluzione classista pura è un’invenzione dei dogmatici. Tutte le rivoluzioni sociali concretamente avvenute – come quella russa, cinese, vietnamita e cubana – sono tutte sorte da una precedente questione nazionale non risolta a causa, appunto, dell’imperialismo, ossia la negazione assoluta del nazionalismo. Patria o muerte diceva Ernesto Guevara.
Bisogna prendere poi atto del fatto che la stragrande maggioranza delle persone non appartiene – e mai apparterrà – all’élite cosmopolita postnazionale “E per queste persone” scrive Carlo Formenti nelle conclusioni al libro di Fazi e Mitchell “nozioni quali cittadinanza, identità collettiva, senso di appartenenza, sono inestricabilmente legate a un determinato territorio e, nella maggior parte dei casi, a una nazione intesa come comunità caratterizzata dalla presenza di lingua, storia, cultura, geografia, usi e costumi comuni, o di almeno alcuni di questi caratteri (che di per sé non hanno nulla di organicista e/o di razziale).”; “In ultima analisi” conclude “cosa significa essere cittadini se non appartenere a una comunità che stabilisce autonomamente come organizzare la vita sociale ed economica all’interno di un dato territorio?”. È per questo che le destre che oggi hanno ancora con una retorica nazionalista (anche se prontamente tradita una volta al governo) sono egemoniche tra le classi popolari: perché sono in grado di tessere nuove narrazioni identitarie fondate sulla sovranità nazionale. Le forze veramente sociali e popolari invece, per tornare a vincere, oltre ad avere una chiara visione della necessaria trasformazione socioeconomica e istituzionale della società, devono anche essere in grado di produrre miti e narrazioni altrettanto potenti che riconoscano il bisogno di appartenenza delle persone e il loro legame col territorio in cui vivono e con le persone con cui condividono quello spazio.
Purtroppo, dobbiamo invece constatare che, mentre noi passiamo il tempo a delegittimare noi stessi mandando all’aria anche i nostri interessi economici, gli americani hanno ereditato dagli anglosassoni puritani la spiacevole illusione di avere un qualche primato sul mondo e, pertanto, di rappresentare una sorta di destino manifesto; come dichiarava Bill Clinton qualche anno fa “L’America è l’unica nazione indispensabile del mondo” e tutte le altre possono esistere solo se le riconoscono questo primato: “E qui si innesta appunto la pertinenza della questione nazionale” scrive Preve “perché l’imperialismo americano si arroga il diritto di decidere sovranamente in base ai propri interessi quali nazioni possono esistere sovranamente e quali no”. In conclusione, possiamo – insomma – dire che oggi questione nazionale significa battaglia per la democrazia e resistenza contro l’imperialismo e chi parla oggi di democrazia senza lotta concreta per l’autodeterminazione dei popoli, allude ad una sorta di proceduralismo e garantismo formale dietro cui le oligarchie straniere e autoctone non hanno nessun problema a nascondersi e a portare avanti i loro interessi antidemocratici.
Ovviamente, la solidarietà tra nazioni resistenti è una necessità: in un mondo sempre più interconnesso, aiutare gli altri vuol dire aiutare se stessi e lo sguardo degli oppressi ci rimanda al nostro stesso destino; anche per questo possiamo dire che è sicuramente preferibile l’internazionalismo al nazionalismo, ma nel suo significato etimologico, ossia come rapporto tra nazioni differenti ed eguali fondato su un diritto internazionale che riconosca la legittimità di tutte le nazioni – e non sulla retorica del cosmopolitismo pop e delle bombe umanitarie. “L’universalismo” conclude Preve “deve essere un dialogo tra le differenze, e non certo un altoparlante che diffonde orwellianamente ad una plebe livellata un unico messaggio universale obbligatorio.” E se anche tu vorresti che l’Italia sfruttasse al meglio il nuovo ordine multipolare nascente per riconquistare la propria libertà perduta, aiutaci costruire un media veramente libero e indipendente che combatta la propaganda dei media collaborazionisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giorgia Meloni

Lo scandalo Putin: se ne sbatte delle minacce europee e parla di asili, ospedali e salario minimo

Politico: “Putin minaccia la NATO con un attacco nucleare”; Bloomberg: “Putin avverte la NATO sui rischi di una guerra nucleare”; New York Times: “Putin afferma che l’Occidente rischia un conflitto nucleare”. Come sempre in questo periodo, ieri Putin ha ripetuto il rituale del suo lungo discorso annuale di fronte all’assemblea federale e, come ogni anno, la propaganda del partito unico della guerra e degli affari dell’Occidente collettivo fa di tutto affinché non ci si capisca una seganiente: ne avevamo già parlato a lungo l’anno scorso in questo video; anche quest’anno il copione è abbastanza simile. La propaganda occidentale, ormai assuefatta alle sparate a caso del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron e alla ricerca disperata del titolone, scatena panico e si dimentica di dire che, anche a questo giro, la stragrande maggioranza del tempo Putin lo ha dedicato a parlare di welfare state e di sviluppo economico; d’altronde, farebbe strano: come lo giustifichi il fatto che tutto il mondo occidentale come un sol uomo è concentrato a fare la guerra per procura a un singolo Stato che continuano a spacciare come sull’orlo della bancarotta, e quello dedica più tempo agli asili, agli ospedali, al salario minimo, ai data center e al sostegno alle piccole medie aziende che non al rischio della scesa in campo direttamente di uomini della NATO?

Vladimir Putin

Un anno fa, Putin si prendeva gioco della propaganda senza capo né coda dei media e delle istituzioni occidentali ricordando come “inizialmente alcuni analisti avevano previsto un crollo del PIL russo superiore al 20%. Poi si sono corretti: saremmo dovuti crollare almeno del 10. Secondo gli ultimi dati, il nostro PIL si è contratto appena del 2,1%” e a partire dal terzo trimestre del 2022, continuava Putin, è tornato a crescere; un anno dopo, il bilancio è migliore delle più rosee aspettative: “Nel 2023” afferma Putin davanti all’Assemblea Federale “l’economia russa è cresciuta più della media mondiale”. Gli ingredienti di quella crescita li aveva anticipati, appunto, un anno fa e ora si cominciano a raccogliere i frutti; Putin, a questo giro, ricorda infatti come sono state avviate 1 milione di nuove attività imprenditoriali e commerciali di ogni genere: un record assoluto. Un bel traino è stato l’edilizia, come un daddy Conte qualsiasi: 110 milioni di metri quadrati di superficie residenziale solo l’anno scorso, “il 50% in più rispetto al livello più alto dell’era sovietica, raggiunto nel 1987” e che si vanno ad aggiungere agli oltre 4 milioni di metri quadri di superficie in più destinata alla produzione; “I nostri imprenditori” ha affermato Putin “credono in loro stessi, nelle loro capacità, e nel loro paese”.
E questo nonostante le sanzioni; anzi, in parte proprio grazie a loro: come ricorda Putin, infatti, nel 2023 “centinaia di nuovi marchi russi hanno fatto il loro esordio sul mercato”. “Nel 1999” sottolinea ancora “la quota delle importazioni nel nostro Paese ha raggiunto il 26% del PIL. L’anno scorso è stata pari al 19% del PIL e il nostro obiettivo è, prima del 2030, raggiungere un livello di importazioni non superiore al 17% del PIL”. Sempre nonostante le sanzioni, sottolinea ancora Putin, nel 2023 i porti russi hanno movimento oltre 5 volte la quantità di merce movimentata nell’anno del massimo splendore dell’ex Unione Sovietica: tutto questo, sottolinea Putin, è stato possibile grazie al fatto che il mondo finalmente sta attraversando cambiamenti di un’entità mai vista sino ad oggi. “Ad esempio” sottolinea Putin “nel 2028, i paesi BRICS, tenendo conto dei nuovi membri, creeranno circa il 37% del PIL globale, mentre i numeri del G7 scenderanno al di sotto del 28%”; nel 1992 i paesi del G7 pesavano per il 45,7 e i paesi BRICS per appena il 16,5: “Queste sono le tendenze globali” ha sottolineato Putin “e non è possibile allontanarsi da questa realtà oggettiva, che rimarrà tale qualunque cosa accada, anche in Ucraina”. Putin sottolinea poi come il segreto dei BRICS sta nel “rispetto per gli interessi reciproci che ci guida nell’interazione con i nostri partner, e questo è il motivo per cui sempre più paesi sono interessati a far parte di organizzazioni multilaterali come l’Unione Economica Eurasiatica o la Shanghai Cooperation Organization”: tutti vedono grandi opportunità,in particolare “nel progetto di costruzione di un Grande Partenariato Eurasiatico” e nell’adesione “all’iniziativa cinese della Nuova via della seta”. La Russia, continua Putin, ha approfondito il suo rapporto con l’ASEAN, con gli stati arabi e con l’America Latina e, ancora di più, con l’Africa, a partire dal vertice Russia – Africa che “ha rappresentato una vera svolta, con il continente africano che è diventato sempre più assertivo nel perseguire i propri interessi e nell’esercitare un’autentica sovranità. Aspirazioni che noi continueremo a sostenere sinceramente”: quindi il Mondo Nuovo che avanza, e la ferma volontà da parte della Russia di coglierne tutte le opportunità; altro che dittatore isolato e paranoico! Qui quelli isolati e paranoici siamo noi.
Ma la cosa forse più interessante del lungo discorso di Putin, in realtà, è ancora un’altra e l’ha sottolineata lui stesso: “Tutto quello che ho detto fino ad ora è importante, ma quello di cui parlerò ora è la questione più importante di tutte”; saranno i missili? I contingenti che la NATO minaccia di dispiegare direttamente in Ucraina? La Transnistria? Macché: la questione più importante di tutte, secondo Putin, sono “I bassi redditi, in particolare di molte famiglie numerose”; se leggi La Repubblichina ti aspetti Hitler e, invece, ti ritrovi di fronte Fanfani. “Nel 2000” ricorda Putin “42 milioni di russi vivevano al di sotto della soglia di povertà. Da allora la situazione è radicalmente cambiata. Alla fine dello scorso anno” continua con enfasi “il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è sceso a 13,5 milioni”; un dato clamoroso, ma – frena gli entusiasmi Putin – “ancora troppo elevato” e il nostro primo dovere è “concentrarsi costantemente sulla ricerca di una soluzione”. Una prima misura, sottolinea Putin, è stata introdotta il primo gennaio del 2023 e consiste in “un assegno mensile per le famiglie a basso reddito” che l’anno scorso ha riguardato “più di 11 milioni di persone”, ma “la povertà resta un problema acuto” in particolare per le famiglie numerose, che sono povere in circa un caso ogni 3: il nostro obiettivo, scandisce Putin, è che “entro il 2030 questa percentuale non sia superiore al 12%, meno della metà di oggi”, a partire dalle regioni della Russia centrale e nordoccidentale che, a partire dal prossimo anno, riceveranno circa 750 milioni di finanziamenti pubblici per cominciare ad affrontare il problema.
La questione demografica porta via un quarto d’ora buona di discorso, una carrellata di aiuti per incentivare i figli e la famiglia tradizionale che democrazia cristiana scansate, e poi tutto quello che serve affinché questi bambini crescano in salute e diventino adulti produttivi: 4 miliardi di euro per la manutenzione straordinaria di 18.500 edifici scolastici, a partire dagli asili, ai quali si aggiungono altri 4 miliardi per 40 nuovi campus universitari, 1 miliardo e mezzo per 800 strutture per la specializzazione professionale e non ho capito bene quanto per la nascita di 25 nuove università in tutto il paese; d’altronde, sottolinea Putin, “Nel 2035 avremo 2,4 milioni di cittadini in più con un’età compresa tra i 20 e i 25 anni” ed è su loro che la Russia deve puntare per aumentare in modo considerevole la produttività. E devono fare in fretta perché da qui al 2028, spiega Putin, avranno bisogno di 1 milione di giovani tecnici formati nei settori elettronico, farmaceutico e, soprattutto, in campo medico; ma, soprattutto, perché la Russia vuole raggiungere la sovranità tecnologica in una lunga serie di settori – dalla chimica all’aerospazio passando per l’energia nucleare e la new space economy.
“La percentuale di produzione ad alto contenuto energetico deve aumentare del 50% nei prossimi 6 anni” sottolinea Putin: per farlo, Stato e aziende private devono lavorare fianco a fianco; a questo fine, Putin offre agli imprenditori un patto fiscale. Le aziende russe infatti , come in tutto il resto del mondo, sono ricorse a ogni sorta di stratagemmi per pagare meno tasse possibili; questo ha comportato spesso un ostacolo alla crescita delle aziende stesse che, per evitare di passare da un regime fiscale agevolato a uno più gravoso, sono ricorse spesso a frammentare il loro business incorrendo in una sostanziosa perdita di produttività: “Queste aziende d’ora in avanti dovranno evitare la pratica della divisione artificiale, essenzialmente fraudolenta, delle attività e abbracciare modelli civili e trasparenti”. Per chi si adeguerà a questo new normal “non ci saranno multe, sanzioni, ricalcoli delle imposte per i periodi precedenti”; insomma: un bel condono, rafforzato anche da una bella “moratoria sulle ispezioni” perché “Le aziende che garantiscono la qualità dei loro prodotti e servizi e agiscono in modo responsabile nei confronti dei consumatori possono e devono godere della nostra fiducia”. E non è ancora finita; Putin, infatti, propone di rendere il condono stabile: una volta ogni 5 anni si azzera tutto perché “dobbiamo creare condizioni adeguate affinché le piccole e medie imprese possano crescere in modo dinamico e migliorare la qualità di questa crescita attraverso forme di produzione ad alta tecnologia. E per questo, in generale, il regime fiscale per le piccole e medie imprese manifatturiere dovrebbe essere allentato”.
Insomma: siamo di fronte a un piano complessivo a medio lungo termine per trasformare definitivamente la Russia in un moderno paese capitalista fondato sulla libertà di impresa e sul profitto e così, dopo la leggenda del pazzo dittatore isolato, cade anche quella del regime autocratico tenuto in piedi da una sorta di economia di guerra. Dove sta, allora, la differenza con noi? La parolina magica di Putin si chiama sovranità: in cambio, infatti, “Le imprese russe” continua Putin “devono investire le proprie risorse in Russia e nelle sue regioni, nello sviluppo delle imprese e nella formazione del personale”; in questo modo – è la ratio – l’economia reale crescerà e anche i salari ne beneficeranno, spinti anche dall’aumento del salario minimo. “A partire dal 2020” ricorda infatti Putin “il salario minimo è cresciuto del 50%. Entro il 2030 dovrà raddoppiare”; “Dobbiamo garantire” continua Putin “che il reddito medio dei lavoratori delle PMI superi la crescita del PIL nei prossimi sei anni. E ciò significa che queste imprese devono migliorare la propria efficienza e fare un salto di qualità nelle loro prestazioni”. Per farlo, servono i capitali: una complessiva riforma del mercato dei capitali che “permetta di aumentare gli investimenti nei settori chiavi del 70% entro il 2030” e senza ricorrere ai capitali internazionali; “In linea di principio” punzecchia Putin “le aziende russe dovrebbero operare all’interno della nostra giurisdizione nazionale e astenersi dal trasferire i propri fondi all’estero dove, a quanto pare, si può perdere tutto. Quindi ora, io e i miei colleghi della comunità imprenditoriale dobbiamo tenere sessioni di brainstorming per trovare modi per aiutarli a recuperare i loro soldi. Ma il metodo migliore, appunto, sarebbe semplicemente non trasferire i tuoi soldi lì. In questo modo non dovremo pensare a come recuperarli”. Quindi stop alla fuga dei capitali: lo Stato, tra investimenti in infrastrutture sia materiali che immateriali e un impianto regolatorio a maglie larghe, vi permette di fare tutti i soldi che volete, ma voi dovete rimanere qui a investire e sostenere la crescita economica generale. Insomma: lo dipingono come un feroce dittatore ma, in realtà, sembra uno dei pochi autentici liberali rimasti, una bimba di Adam Smith che, da autentico seguace di Adam Smith, sa che una cosa è il capitalismo industriale e produttivo – con anche tutto lo sfruttamento che comporta, ma nel quale, per fare quattrini, si deve produrre qualcosa – e un’altra cosa è il ritorno al feudalesimo che l’imperialismo occidentale ha in serbo per la Russia sin dai tempi di quell’alcolizzato svendipatria di Eltsin.

Il sempre più pimpante Manuelino Macaron

Ed ecco, allora, che si arriva al tema della guerra: “Il cosiddetto Occidente, con le sue pratiche coloniali e la propensione a incitare conflitti etnici in tutto il mondo” sottolinea infatti Putin “non solo cerca di impedire il nostro progresso, ma immagina anche una Russia che sia uno spazio dipendente, in declino e morente dove possono fare ciò che vogliono”; niente di nuovo sotto il sole, continua: “Vorrebbero solo replicare in Russia ciò che hanno fatto in numerosi altri paesi, tra cui l’Ucraina: seminare discordia in casa nostra e indebolirci dall’interno. Ma si sbagliavano, e ciò è diventato evidente ora che si sono scontrati con la ferma determinazione e determinazione del nostro popolo multietnico” – e contro la forza del possente apparato militare russo. Putin ricorda come, nel conflitto in Ucraina, la Russia abbia potuto dimostrare la potenza e l’efficacia dei suoi missili ipersonici Kinzhal e Zircon, e la lista della spesa continua ancora a lungo: dagli “ICBM ipersonici Avangard” ai “complessi laser Peresvet”, dal “missile da crociera a portata illimitata Burevestnik” al “veicolo sottomarino senza pilota Poseidon”, per finire con “i primi missili balistici pesanti Sarmat prodotti in serie”; “Sistemi”, sottolinea Putin, che “hanno dimostrato di soddisfare gli standard più elevati e non sarebbe esagerato affermare che offrono funzionalità uniche”.
Dopo aver fatto un po’ lo sborone, Putin allora fa il diplomatico: “La Russia” afferma “è pronta al dialogo con gli Stati Uniti su questioni di stabilità strategica. Tuttavia” sottolinea “è importante chiarire che in questo caso abbiamo a che fare con uno Stato i cui ambienti dominanti stanno adottando azioni apertamente ostili nei nostri confronti”; insomma, “intendono discutere con noi questioni di sicurezza strategica, ma allo stesso tempo cercano attivamente di infliggere una sconfitta strategica alla Russia sul campo di battaglia”. Un caso eclatante di questa ipocrisia, sostiene Putin, sono state le “accuse infondate” mosse recentemente alla Russia “riguardo ai piani di dispiegamento di armi nucleari nello spazio”, una storiella che Putin non solo definisce “inequivocabilmente falsa”, ma che fa palesemente a cazzotti col fatto che “Nel 2008 abbiamo redatto una proposta di accordo sulla prevenzione dello spiegamento di armi nello spazio”, ma in oltre 15 anni “Non vi è stata alcuna reazione”. Il tentativo, suggerisce Putin, è quello di “trascinarci di nuovo in una corsa agli armamenti”, esattamente come fatto “con successo con l’Unione Sovietica negli anni ’80”, ma a ‘sto giro non ci fregate: “Il nostro attuale imperativo infatti” è che si rafforza l’industria della difesa, ma in modo che influisca direttamente in modo positivo sulle “capacità scientifiche, tecnologiche e industriali del nostro Paese”; insomma, mentre miglioriamo “la qualità delle attrezzature per l’esercito e la marina russa”, “Per noi rimane fondamentale accelerare la risoluzione dei problemi sociali, demografici e infrastrutturali che abbiamo di fronte”. “L’Occidente”, continua Putin, “ha provocato conflitti in Ucraina, Medio Oriente e in altre regioni del mondo, diffondendo costantemente falsità. Ora hanno l’audacia di dire che la Russia nutre l’intenzione di attaccare l’Europa” ma, ovviamente, “Sappiamo tutti che le loro affermazioni sono del tutto infondate”, eppure le usano come scusa per cominciare a “ parlare della possibilità di schierare contingenti militari della NATO in Ucraina”. Ora, ricordate “cosa è successo a coloro che già una volta hanno inviato i loro contingenti nel territorio del nostro Paese ?” Ecco: “Oggi, qualsiasi potenziale aggressore dovrebbe affrontare conseguenze molto più gravi” perché “disponiamo anche di armi capaci di colpire obiettivi sul loro territorio”; ora stanno “spaventando il mondo con la minaccia di un conflitto che coinvolga armi nucleari”, ma si rendono conto che “potenzialmente significa la fine della civiltà”? Il problema, continua Putin è che “proprio come qualsiasi altra ideologia che promuove il razzismo, la superiorità nazionale o l’eccezionalismo, la russofobia è in grado di acciecare”. “Il problema”, conclude, “è che si tratta di persone che non hanno mai affrontato avversità profonde, e non hanno idea degli orrori della guerra”. Insomma: in soldoni, il Putin che s’è presentato di fronte all’assemblea federale è un De Mita che ce l’ha fatta; conservatore e liberale, ha capito che nel mondo dell’unipolarismo USA, anche solo per portare avanti un’agenda moderata e interclassista – ma non platealmente al soldo delle peggiori oligarchie transnazionali – ti devi armare fino ai denti.
La palla ora, in buona parte, sta a noi: fino a che punto i fanatici al soldo dell’impero neofeudale di Washington che governano i nostri paesi saranno intenzionati a mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa dei loro popoli per compiacere le oligarchie di turno? Putin, dal tono del suo lungo discorso, sembra essere ottimista: nessuno è così stupido da andare verso l’autodistruzione certa per fare gli interessi del suo padrone. Noi rimaniamo moderatamente agnostici: non sarebbe la prima volta che ripone una fiducia ingiustificata sulla peggiore classe dirigente della storia dell’Occidente. Di sicuro, quello che ci dovremmo impegnare a fare noi qui e ora, senza aspettare di vedere come va a finire questa partita, sarebbe mandarli tutti a casina, anche perché questa è una di quelle partite che non è detto che gli spettatori riescano a vedere fino al fischio finale; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media un po’ strambo che, ad esempio, quando parla per due ore il presidente della più grande potenza nucleare del pianeta, invece che ascoltarlo per i primi 30 secondi perché poi c’ha judo e inventarsi i virgolettati, cerca un po’ di capire cos’ha detto sul serio – anche se non vive nel giardino ordinato. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è (di nuovo) il pimpante Manuelino Macaron

GURU DELL’ECONOMIA DELLA PRIMA REPUBBLICA SVELA COME CI HANNO SVENDUTO ALLE OLIGARCHIE USA

Buongiorno Ottoliner e bentornati alle intervista di OttolinaTv: oggi, intervistiamo una leggenda.

Collaboratore storico di Federico Caffé, poi funzionario di alto rilievo del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, quando ancora in Italia la politica economica la facevano lo stato e i governi e non Bruxelles e Wall Street, e poi ancora direttore generale del Ministero del Lavoro per oltre 10 anni, Nino Galloni da anni è uno degli economisti italiani che con più forza e coerenza si è scagliato contro i deliri della religione dell’austerity e dei vincoli esterni: d’altronde, sapeva di cosa parlava.

A cavallo tra la prima e la seconda repubblica ha vissuto in prima persona lo smantellamento progressivo di ogni capacità dello stato di mettere l’economia al servizio dello sviluppo dell’essere umano, per svenderci tutti agli interessi delle oligarchie finanziarie. Ma da uomo delle istituzioni, e da tecnico, Galloni non si è mai limitato a denunciare le perversioni del neoliberismo, ha sempre continuato a lottare in prima persona per delle alternative concrete, realistiche, necessarie, a partire dal grande e complicatissimo tema delle monete complementari e della moneta fiscale. Ripartiamo da lì

C’era una volta la democrazia italiana

Premierato, presidenzialismo, semipresidenzialismo: anche tu ti sei accorto che nella nostra democrazia c’è qualcosa che non funziona? Nessun problema: come accade immancabilmente con ogni nuovo governo, anche la Meloni ha la sua bacchetta magica a forma di riforma costituzionale. Obiettivo (come sempre): garantire la governabilità. Ma sono davvero l’eccessivo potere del parlamento e la nostra Costituzione ad aver mandato in crisi la democrazia in Italia?
A ben vedere, queste discussioni sulla nostra Costituzione formale sembrano solo utili a distrarci dai veri problemi, molto più sostanziali, che hanno progressivamente distrutto la nostra socialdemocrazia e ci hanno privato di qualsiasi sovranità. Dopo il trentennio d’oro che va dall’immediato dopoguerra all’assassinio di Aldo Moro nel 1978, durante il quale l’Italia era stabilmente tra le prime sei potenze economiche mondiali e in cui il 99 per cento ha visto un incredibile miglioramento delle proprie condizioni di vita, è infatti cominciata quella controrivoluzione neoliberista e quella politica del vincolo esterno che ci hanno, anno dopo anno, messo in ginocchio. E allora, invece che continuare ad illudersi che modificando la Costituzione del ‘48 l’Italia ricomincerà a correre, forse sarebbe il caso di mettere finalmente in questione le vere cause di questo disastro, dal fallimento dell’integrazione europea al nostro rapporto con gli Stati Uniti, alla nostra cultura sempre meno imperniata da valori comunitari e solidaristici. In questa puntata cercheremo di capire come fece l’Italia, negli anni dopo la seconda guerra mondiale, a diventare una delle nazioni più sviluppate al mondo e ripercorreremo quei passaggi politici decisivi negli anni tra la prima e la seconda Repubblica che hanno stravolto per sempre il volto della nostra ex democrazia perché, come scrive il professore di filosofia del diritto Alfredo D’Attorre “Ogni superamento della condizione attuale di crisi e svuotamento della rappresentanza democratica dovrà fare i conti con una ricostruzione realistica delle origini e delle implicazioni del passaggio tra la prima e la seconda repubblica ben oltre le caricature propagandistiche che hanno dominato negli ultimi anni”.
Vincenzo Russo, patriota e martire della repubblica partenopea, già nel 1799 dichiarava:

Vincenzo Russo

La democrazia non consiste nelle favole della Costituzione democratica! Questa soltanto accenna a quello che si debba fare per avere democrazia, ma da sé stessa nol fa. La democrazia convien piantarla negli animi”, ma a più di 200 anni di distanza sembra che questo messaggio non lo abbiamo ancora capito. Una Repubblica, scrive il giurista Umberto Vincenti su La Fionda, non è semplicemente una struttura normativa, e cioè una forma di stato o di governo specifica; il termine Repubblica si riferisce invece a qualcosa di molto più profondo e strutturale: la partecipazione al potere dei cittadini ed implica, come primo dovere, il rispetto del legame sociale e il primato dell’interesse comune. In astratto, quindi, non ci sarebbe alcun problema a modificare – anche in profondità – la Costituzione del ‘48, ma nella realtà dovrebbero essere gli attuali rapporti di forza a dover essere cambiati: come sappiamo ormai tutti, nell’Italia del 2024 i rapporti di forza sono tutti a favore di una ristrettissima oligarchia che, con il sostegno di Bruxelles e di Washington, vorrebbe portare a termine la devastazione sociale del nostro paese senza ostacolo in parlamento e nella Costituzione, ma non è sempre stato così.
Nel 1948, ad esempio, i rapporti di forza erano molto diversi e quella Costituzione ne fu la perfetta espressione; l’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale e fondata sulla resistenza antifascista è un’Italia dove le masse popolari e le loro organizzazioni hanno un potere enorme e sono in grado di imporre al capitale e alle élite al suo servizio un equilibrio politico e sociale di cui l’intero paese beneficerà per i successivi 30 anni. Nel trentennio successivo, infatti, la tanto bistrattata Prima Repubblica riesce a sprigionare gran parte delle potenzialità della nostra Nazione: sul piano economico l’Italia diventa una delle prime 6 economie del pianeta, con una crescita media annua della produttività che si mantenne su livelli superiori a Germania e Francia; per la prima e unica volta nell’intera nostra storia unitaria gli indici economici segnalano anche una riduzione del divario Nord-Sud a partire dal dato del PIL pro capite, un risultato reso possibile anche da una relativa autonomia sia della politica economica che anche di quella monetaria, in grado da un lato di assicurare il legame tra politica fiscale e monetaria e dall’altro di mantenere un elevato livello di controllo sul movimento dei capitali. “Questo impianto” scrive Alfredo D’Attorre “ha consentito il mantenimento di una lunga stagione di cambi sostanzialmente fissi, che in quel contesto hanno fatto della lira una della valute più stabili del pianeta”.
Sul piano politico, grazie ad una forma istituzionale parlamentare imperniata sul sistema dei partiti e, in particolare, grazie alla presenza del più grande partito comunista d’Occidente, l’Italia conobbe una stagione riformatrice senza precedenti che la trasformò in un paese ricco, piuttosto democratico e con una chiara inclinazione socialista; è la stagione delle grandi conquiste nel campo dei diritti sociali e di una straordinaria partecipazione dei cittadini alla politica: ancora a metà degli anni Settanta gli iscritti ai partiti di massa superavano i quattro milioni e la partecipazione al voto si attestava in media sopra il 90 per cento. Sul piano geopolitico, la collocazione dell’Italia come paese di frontiera è un fattore che garantisce una notevole rendita di posizione politica ed economica – sia rispetto all’occupante americano sia rispetto ai paesi del Mediterraneo – e che la nostra classe dirigente riesce a sfruttare sapientemente; insomma, un equilibro retto da un certo tintinnar di sciabole, secondo l’espressione usata da Pietro Nenni, e in apparenza fragile per il continuo alternarsi di governi di durata media inferiore ai 12 mesi ma, in realtà, forte e stabile nei suoi indirizzi politici di fondo, che permise anche un grande fermento culturale e artistico e, soprattutto, di resistere a un’offensiva terroristica su più fronti evitando derive di tipo greco e cileno.
Tutti questi elementi essenziali vennero però progressivamente meno con il vento neoliberista proveniente dal Nord America e poi con la drammatica caduta del blocco socialista; in particolare, le cose cominciarono a cambiare nella seconda metà degli anni ‘70, in coincidenza con il mutamento di contesto economico internazionale legato al superamento dell’assetto di Bretton Woods e alla crisi del keynesismo: in una parola, con l’inizio della grande controrivoluzione neoliberista. Questo mutare di contesto, i cui effetti vennero accelerati dalla crisi petrolifera, convinsero parte rilevante del capitalismo italiano e dei ceti dirigenti ad esso collegato che il vecchio equilibrio economico sociale doveva cambiare: comincia così quello che è stato definito lo sciopero degli investimenti di consistenti settori del mondo finanziario e industriale, che accentua la spinta verso la progressiva liberalizzazione dei movimenti del capitale; è, questa, la svolta decisiva che rese di fatto insostenibile una politica economica e monetaria autonoma sul piano nazionale. “Guido Carli e Tommaso Padoa Schioppa” scrive Alfredo D’Attorre “hanno parlato a riguardo di un quartetto inconciliabile; le 4 variabili che, secondo Carli e Padoa Schioppa, non possono mai coesistere sarebbero:
1- la piena libertà degli scambi commerciali
2- la completa libertà di movimento dei capitali
3- l’esistenza di cambi fissi o governati e
4- una politica monetaria autonoma a livello nazionale

Alfredo D’Attorre

La rinuncia all’ultimo elemento viene così presentata come una necessità inderogabile per evitare una ricaduta e il conseguente continuo riaccendersi di una dinamica inflazionistica”. Parte così un percorso che si snoda dall’adesione al Sistema Monetario Europeo nel 1979, al divorzio Tesoro –Bankitalia del 1981, fino poi all’Atto Unico Europeo del 1986, al Trattato di Maastricht del 1992 e all’ingresso nella moneta unica nel 1999: un successone che, tra i vari entusiasmanti risultati, tra gli anni ‘80 e ‘90 fa anche crescere il debito pubblico italiano dal 58 al 120 per cento del PIL; sul piano politico, poi, l’attacco alla partitocrazia con la scusa di “restituire il potere ai cittadini” si è concretizzata in una lunga fase di egemonia dell’antipolitica che, alla fine, ha favorito solamente le oligarchie economiche e i nostri cosiddetti alleati europei e americani pronti a banchettare sulle nostre debolezze. Il sistema maggioritario, che avrebbe dovuto restituire “lo scettro all’elettore”, si accompagnerà invece a una costante diminuzione della partecipazione al voto, con un astensionismo che ormai sfiora il 50 per cento alle elezioni amministrative e il 40 per cento alle politiche; in questo contesto la stessa dialettica politica – anche in virtù di un irrigidimento dei vincoli esterni – è stata ridotta a mera competizione di potere tra partiti ideologicamente sempre più indistinguibili. “La combinazione di sistema maggioritario e forte irrigidimento del vincolo economico esterno” conclude il Prof. D’Attorre “è il vero DNA della seconda Repubblica”, un DNA che ha sostituito la sovranità popolare, che si esprimeva attraverso il continuum partiti – parlamento – governo, con la sovranità finanziaria e tecnocratica americana e comunitaria.
Per tornare alle riforme costituzionali, sembra quasi di sentirlo il rumore della mente dei costituzionalisti che si ingegnano nel cercare qualche formula che garantisca al tempo stesso rappresentanza e governabilità. Un falso problema: come scrive la professoressa di diritto pubblico Fiammetta Salmoni sempre su La fionda, infatti “l’integrazione europea, i Trattati, il mercato aperto e in libera concorrenza, la stabilità finanziaria, la stabilità dei prezzi e così via hanno già trasformato radicalmente sia la nostra forma di Stato sostituendo i principi fondamentali costituzionali come la garanzia dei diritti sociali, l’eguaglianza sostanziale, la finanza redistributiva, sia la forma di governo”, e non sarà certo qualche formuletta magica a restituirci ciò che ci è stato tolto.
Insomma, se anche tu credi che, in queste condizioni strutturali, modificare o non modificare la Costituzione sia un problema del tutto falso e strumentale, e se anche tu vorresti che l’Italia tornasse ad essere una Repubblica democratica, abbiamo bisogno di un media veramente libero che non si faccia prendere in giro da queste campagne di distrazione di massa. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

L’Italia non è occidentale: storia di un concetto strumentale alla sottomissione del nostro Paese

in foto: sede della TIM

In questi giorni nel silenzio generale, il Governo Meloni ha dato il via libera alla vendita della rete fissa di Telecom Italia al fondo speculativo statunitense Kohlberg Kravis Roberts. L’infrastruttura più strategica tra tutte le infrastrutture strategiche, soprattutto sul piano militare, finisce in mano a uno dei centri di potere dell’oligarchia finanziaria legata a doppio filo al comparto militare industriale americano. Nel suo top management, per darvi un’ idea, figura anche l’ex direttore della CIA il generale David Petraeus. Un vero e proprio attentato alla nostra sovranità e alla nostra sicurezza nazionale, fatto con la piena collaborazione di una maggioranza politica che si era venduta ai suoi elettori come baluardo del patriottismo e di difesa sovranità nazionale.
“Per chi avesse ancora avuto dei dubbi”, ha sottolineato giustamente il filosofo Andrea Zhok, “la destra italiana è parte del progetto di svendita del paese agli USA esattamente quanto la sinistra”. E a questo punto, dopo decenni di palese cessione di sovranità nazionale agli Stati Uniti, sarebbe forse arrivata l’ora di chiamare le cose con il loro nome: “Essendo ormai l’Italia una colonia” continua Zhok “il termine giusto per la nostra classe dirigente è quello di “collaborazionisti con le forze di occupazione coloniale”.
Come prevedibile, su alcuni giornali la notizia è passata in sordina per evidente imbarazzo, su altri invece hanno osato addirittura esultare per il fatto che almeno Telecom non è stata venduta ai Cinesi o ai Russi, ma bensì al nostro “principale alleato occidentale”. Questa notizia fa il paio in questi giorni con il totale quanto prevedibile appiattimento italiano ed europeo sulla linea politica del governo americano riguardo al massacro israeliano in Palestina. Una linea politica, come tutti sanno, pregna di meschina ipocrisia, che va contro i nostri interessi nazionale nel mondo arabo, e che ci lascerà per sempre le mani sporche di sangue. Anche in questo caso, questa assoluta sottomissione agli interessi nordamericani che un tempo si sarebbe chiamata tradimento, viene mistificata con la retorica dell’unità dell’Occidente e dei valori occidentali.

Allora è proprio su questo aggettivo “occidentale” che merita oggi concentrarsi. Da quando, dobbiamo chiederci, in Italia e in Europa si è cominciato a usare le parole Occidente e occidentale nei termini bellicisti e americanocentrici con cui ne parliamo oggi? È una delle domande che si è posto Franco Cardini nel suo ultimo libro “la deriva dell’Occidente”, e in cui il professore di Storia all’università di Firenze ci spiega come nei prossimi anni, la possibilità dei popoli europei di liberarsi dal giogo nordamericano passerà anche dalla loro capacità di dare un nuovo significato a questo importantissimo concetto.

Nonostante media, politici e intellettuali di ogni specie si riempiano la bocca con “occidente” e “occidentale” dando per scontato che esista un qualche significato univoco del termine, la verità è che fino ad oggi ogni tentativo di trovare una definizione condivisa è miseramente fallito. A prima vista, “occidente” sembrerebbe avere un’accezione prettamente geografica, designando per esempio gli Stati che si trovano all’interno di un certo gruppo di meridiani. Tuttavia, tale definizione non riesce a spiegare per quale ragione nazioni africane o del Sudamerica, che si trovano geograficamente parlando “in occidente” non sono mai considerati parte del mondo occidentale. Da più di un secolo filosofi e politologi invece, partendo dal presupposto che si tratti non di un concetto geografico ma culturale, hanno cercato di stabilire cosa contraddistingua la cultura occidentale e quali popoli ne farebbero parte. Tra i tentativi più importanti ci sono stati quelli Oswald Spengler, Samuel P. Huntington, e Niall Ferguson, che però hanno tutti proposto tesi e interpretazioni differenti. La triste verità, come si evince anche dal testo di Cardini che ripercorre i diversi significati che questo concetto ha assunto nel corso della storia, è che ogni tentativo di definire il significato ultimo di occidente è destinato all’insuccesso, in quanto è un concetto che oscilla per sua natura tra un’accezione geografica, politica e culturale allo stesso tempo, rimanendo così sempre ambiguo e privo di contorni precisi. Originariamente, il termine comincia a diffondersi nel 16° sec. per designare i popoli europei cristiani contrapposti all’Oriente mussulmano, e fino al 20 esimo secolo rimane sostanzialmente un sinonimo di “Europa cristiana”. Ma con l’arrivo del XX secolo, le cose cominciano a cambiare. Con il progressivo emergere della potenza statunitense infatti, il concetto di “occidente” ha smesso di coincidere con quello di “Europa cristiana”, e si è cominciato a parlare di una più ampia “civiltà occidentale” di cui gli Stati uniti sarebbero la più fulgida e compiuta incarnazione.
Come scrive Cardini, quando pensiamo al concetto di “civiltà occidentale” crediamo sempre di pensare a qualcosa di lontanissima e antica origine. Ma la verità è che si tratta di qualcosa di molto, molto più recente: “Siamo davanti a un’idea nata negli Stati Uniti in un corso didattico della Columbia University fondato nel 1919 e denominato appunto Western Civilization.” scrive Cardini “La tesi sottostante a questa definizione corrispondeva al disegno del processo evolutivo di una civiltà che dalla Grecia classica e dall’eredità romana attraverso l’Europa rinascimentale giungerebbe al ruolo odierno degli Stati Uniti”.

“Nel 1949 il congresso dell’American Historical Association”, ricorda ancora Cardini “suggerì un percorso di sintesi secondo il quale le esigenze care all’Occidente di verità e di libertà, ambìto traguardo del genere umano, si sarebbero allora incarnate nella democrazia statunitense, baluardo contro qualunque dogmatismo (quello cattolico compreso) e qualunque dittatura.”
Con la fine della seconda guerra mondiale e l’occupazione americana dell’Europa, possiamo dire quindi che è esattamente questo lo specifico significato di “occidente” che si è di fatto imposto anche nel discorso pubblico e nell’immaginario europeo. A riprova di ciò, durante la Guerra Fredda è stato chiamato “occidentale” il raggruppamento degli Stati che andavano dall’europa occidentale al pacifico e che gravitavano intorno alla superpotenza nord-americana. Nonostante la propaganda battesse molto su questo punto, la democraticità degli stati in questione non era un requisito necessario per far parte dell’alleanza, come dimostrava ad esempio la presenza della Spagna di Franco e della Turchia.
Con la caduta dell’URSS e l’espansione della Nato nell’Europa orientale infine, anche Stati come l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, da sempre considerati “orientali”, sono stati inclusi nella grande famiglia della civiltà Occidentale.

E non scordiamoci naturalmente Israele, l’unico luminoso faro di luce e di speranza occidentale nelle folte tenebre del vicino oriente. Quello che appare certo insomma, è che da dopo la Seconda Guerra mondiale i perimetri della civiltà occidentale sono variati con il variare del perimetro della sfera di influenza nordamericana. Come scrive l’analista politico Marco Ghisetti in un articolo pubblicato sull’Osservatorio globalizzazione, dobbiamo constatare come: “il concetto di occidente (e per estensione, di mondo/civiltà occidentale) storicamente sia evoluto e sia stato declinato, dal 1945 in poi, in maniera funzionale al dominio statunitense nei confronti degli Stati subalterni, oltre che ad offrire la giustificazione ideologica per l’aggressione ai danni degli Stati non occidentali. Ciò che accomuna il concetto di “occidente”, in tutte queste definizioni, è che esso è stato, gramscianamente parlando, declinato secondo le necessità del caso e sempre in funzione giustificatoria ai rapporti di forza esistenti tra Stato dominante, Stati dominati e Stati non subalterni.”

Ma perchè questo concetto funziona così bene a livello propagandistico?

La risposta è che la parola occidente porta con sé una forte carica emotiva grazie al riferimento ad una presunta secolare identità comune. Se i giornali e i media europei dicessero ai propri popoli che le infrastrutture strategiche che stanno svendendo, le armi che stanno mandando e le guerre che stanno appoggiando sono funzionali all’interesse nazionale americano e al mantenimento del suo stato di nazione egemone nel mondo, probabilmente non ne sarebbero così felici. Ma se invece ad essere in gioco è il bene supremo e collettivo della sicurezza dell’Occidente e della salvaguardia dei valori condivisi, allora siamo disposti a fare quasi qualunque sacrificio anche a scapito dei nostri veri interessi nazionali. Ricordiamocelo sempre: non c’è nessuna contraddizione con i propri presunti valori umanitari e democratici quando vediamo l’occidente invadere nazioni, bombardare civili, sanzionare paesi non allineati e via dicendo.

Semplicemente perché l’occidente non esiste. Esiste molto più concretamente un impero americano in Europa al quale tutti devono rispondere anche a scapito degli interessi dei propri cittadini. E basta che infatti cambiamo la parola “occidente” con quella di “interesse nazionale americano”, e vediamo che le ipocrisie si dissolvono, e tutto il quadro politico e geopolitico si fa immediatamente più chiaro. “E quando una qualunque compagine politica”, sottolinea Cardini, “si dichiara con fierezza “sovranista”, ma persegue poi una politica “collaborazionista” con una forza esterna formalmente alleata, ma sostanzialmente egemone, siamo all’accettazione – poco importa se esplicita o implicita – della “sovranità limitata””.


Per riprenderci la nostra sovranità e quindi indipendenza e democrazia, diventa necessario formulare una nuova idea di “occidente” degna della nostra storia, e compatibile con i nostri interessi concreti per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che combatta la propaganda collaborazionista.

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e chi non aderisce è Maurizio Molinari

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

L’Italia è fallita? La resa dei conti finale dopo 30 anni di devastazione dell’economia italiana

Bentornato 2011

Vi ricordate? L’anno della crisi del debito sovrano. Trending topic su ogni genere di piattaforma e nei titoli di ogni media possibile immaginabile un solo termine: SPREAD.

l’Italia era sull’orlo del baratro al punto che la trojka ha architettato un vero e proprio colpo di stato, e noi gli abbiamo pure detto bravi.

A 12 anni di distanza, spiace dirlo, abbiamo la prova provata: non solo non è servito, ma non ha fatto che aggravare la situazione; ora siamo di nuovo di fronte allo stesso identico baratro, solo che a questo giro è ancora più profondo e le vie di fuga sono enormemente più ristrette, troppo per permettere a questo governo di cialtroni e svendipatria di riuscire a percorrerle, tant’è, che manco ci provano. Preferiscono rifugiarsi nella più cringe delle propagande: “governo-gufi 4 a 0” titolava martedì entusiasta il Giornale, elencando 4 goal totalmente immaginari.

Il primo il governo l’avrebbe segnato riuscendo a vendere ai risparmiatori italiani il Btp Valore, per la bellezza di – sottolineano enfaticamente – 4,6 miliardi. Evidentemente, hanno qualche problemino con i numeri e con le virgole: quei 4,6 miliardi al debito italiano, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie. Niente. Zero. Nemmeno un friccicorino. A breve di miliardi, infatti, ce ne serviranno pochi meno di 150, e per piazzarli ci dovremo letteralmente disssanguare.

Il secondo goal il governo l’avrebbe segnato grazie allo spread, che invece della cifra astronomica di 500 punti abbondanti raggiunta nel 2011, ora sarebbe sotto quota 200.

Che culo eh? Peccato che non significhi assolutamente niente.

Prof. Alessandro Volpi: “Ma io […] la smetterei di parlare di spread, perché lo spread è un indicatore che ha un senso nella misura in cui i titoli tedeschi, che sono i titoli di riferimento, paga rendimenti bassi. In questo momento la Germania sta pagando rendimenti che sono significativamente alti, vicini al 3%. Quindi è chiaro che se la Germania invece che pagare lo zero o poco più come accadeva nel 2011, paga il 3%, lo spread rimane a 200. […] Quello che conta non è il differenziale con la Germania, è quanto paghiamo ad oggi. […] Cioè noi stiamo pagando il decennale sopra il 5%. […] Alla fine tutta questa roba qui vuol dire che il conto interessi dello Stato italiano è passato dai 57 miliardi del 2020 a una stima che dice che nel 2025 saranno 132 miliardi ed è molto probabile che sia una stima per difetto.”

Non so se è chiaro: la propaganda filogovernativa stappa lo champagne, mentre nei prossimi 2 anni dobbiamo trovare 80 miliardi l’anno in più solo per pagare gli interessi sul debito.

80 miliardi sono 5,6 manovre finanziarie e 4 volte i 20 miliardi che il governo si appresta già quest’anno a recuperare privatizzando i gioielli di famiglia. Ogni anno,forever and ever. Non volevamo fare la fine della Grecia e ci hanno accontentati: sarà molto, ma molto peggio.

l’Italia è nel bel mezzo di una nuova gigantesca crisi del debito; non forse, chissà, magari, nel futuro. No, no, proprio adesso. Qui. Ora.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] C’è una regoletta del debito che è molto semplice, che consiste in questo, cioè: quando i rendimenti dei titoli a breve termine è vicino al rendimento dei titoli a lungo termine, vuol dire che quello che, un po’ pomposamente si chiama mercato e che io chiamerei il luogo delle speculazioni, è sostanzialmente convinto che per quel Paese ci sia delle serissime difficoltà nel corso dei prossimi mesi. Cosa sta succedendo in Italia in questo momento? […] i buoni del Tesoro emessi a sei mesi pagano il 4%, i Btp pagano il cinque, quindi vuol dire che chi presta i soldi allo Stato italiano e sa che lo Stato ieri restituirà fra sei mesi, chiede il quattro e passa per cento. Chi glielo presta per dieci anni, il cinque. Ora questo è un differenziale assolutamente anomalo, perché se io presto i soldi a dieci anni è chiaro che chiedo maggiori garanzie perché vincolo quel titolo per dieci anni. Quindi normalmente il differenziale fra il breve e il lungo termine è molto ampio. Ora questo fenomeno si sta riducendo. Nel 2011, nel famigerato novembre 2011, i tassi a breve superarono i tassi a lungo termine. Questo vuol dire che in quel momento c’era chi scommetteva su una crisi dello Stato italiano e chi era che scommetteva che lo Stato italiano? Tutti quelli che possedevano le scommesse sul debito, i famosi credit default swap che sono ripartiti nonostante la normativa europea, dice che non è possibile che si rimettano scommesse titoli derivati su titoli di Stato senza possederli… Ecco, nonostante tutto questo, […] è ripartita anche la scommessa contro il debito italiano. […] È nell’aria una grande e sempre più marcata aggressione nei confronti del debito italiano. In primis, io direi dai grandi fondi che intervengono in questo tipo di mercato.

Chi si sveglia oggi, o è completamente suonato, o è in malafede.

Il punto, come abbiamo ripetuto ormai milioni di volte, è che le cause che hanno portato alla crisi finanziaria globale del 2008, e poi a quella dei debiti sovrani del 2011, non solo non sono state minimamente risolte, ma sono state enormemente aggravate.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Noi abbiamo affrontato anche la crisi del 2011, come se fosse una deroga alla normalità. […] La stessa Whatever it takes (pronunciata da Mario Draghi, ndr) aveva la implicita affermazione secondo cui era una situazione di emergenza. Si affrontava una situazione di emergenza con una deroga, si produceva l’acquisto del debito perché quella era una situazione particolarmente critica, eccetera eccetera eccetera. […] Poi c’è stato il covid che ha prorogato la deroga e ora siamo arrivati alla fine della deroga. […] Ora le cose più o meno sono tornate come erano, ritorniamo alle vecchie regole: è lì errore cioè fino a che noi non capiamo che non è una questione di deroga.”

Durante questa deroga, molto banalmente, la Banca Centrale Europea è tornata a fare quello che le banche centrali hanno sempre fatto fino a quando l’obiettivo del capitalismo era la crescita economica, e non la sua distruzione sistematica: il prestatore di ultima istanza, che in soldoni significa che a comprare il debito, e a stabilire quanto si deve pagare di interessi, non sono i mercati, che non esistono, ma lei.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Nella storia il prestatore di ultima istanza esiste dalla nascita della Banca d’Inghilterra alla fine del Seicento, e fattelo dire da uno che queste cose ci ha perso tempo a studiare. È sempre esistito un prestatore di ultima istanza. […] Lo faceva la Banca di Francia al tempo di Napoleone; lo ha fatto la Banca di Francia al tempo del Secondo Impero di Napoleone terzo e Zola lo ha scritto con grande chiarezza; l’ha fatto storicamente la Banca d’Inghilterra; l’ha fatto storicamente la Federal Reserve, che è nata dopo le altre banche. […] Lo ha fatto la Banca d’Italia quando era una società per azioni privata nel 1893; L’ha fatto durante il fascismo con la legge 36, lo ha fatto nel dopoguerra. Ma perché ci dobbiamo inventare una roba che non è mai esistita? Perché noi consideriamo la normalità quello che nella storia non è mai esistito e andiamo in deroga perché riteniamo che la normalità sia quella roba lì per cui la banca centrale non ha senso di essere.”

Oggi infatti la deroga è finita e il debito bisogna tornare a piazzarlo sul mercato, che in concreto, in realtà, significa semplicemente che dobbiamo convincere a comprarlo i fondi speculativi, e per convincerli gli dobbiamo riconoscere interessi che, molto banalmente, non sono sostenibili; oggi più che mai perchè il problema del whatever it takes di Draghi non è soltanto che era solo una deroga, e poi il conto si sarebbe comunque ripresentato, ma – forse ancora più grave – è che durante quella deroga si è fatto di tutto per aggravare il problema. Invece che andare in investimenti nell’economia reale, e quindi permettere all’economia nel suo insieme di tornare a creare ricchezza, quella montagna di quattrini sono andati a gonfiare le bolle speculative, e il debito prima non si è ridotto per qualche anno manco di un centesimo, e poi, col covid, è letteralmente esploso.

Prof. Alessandro Volpi: “Qui il problema del debito è diventato essenziale. D’altra parte noi siamo stati in piedi, come Paese nel corso degli ultimi anni, almeno dal 2020, e abbiamo fatto una spesa pubblica complessivamente intorno ai 100-112 miliardi di euro. Più della metà, quasi il 70%, l’abbiamo finanziata emettendo debito, che però era debito, pagando lo 0,5%, addirittura con la Bce che comprava o prestava i soldi alla Banca d’Italia, che comprava i titoli di Stato italiano e su quei titoli riceveva un interesse che girava al Tesoro italiano. Ecco, questa partita è finita. Questa partita è completamente esaurita. […] Cioè qui non non esiste modo per finanziare perché ormai la spesa pubblica è strutturalmente finanziata a debito. […] Quando gli interessi non costavano cinquanta miliardi, tu potevi fare la spesa pubblica. Se la spesa da cinquanta arriva a centocinquanta, cosa che non è impossibile perché non c’è più una banca centrale che compra i titoli e fa anche un’azione di calmiere. […] Perché è chiaro che se io so che una parte di titoli se li compra la Bce alla fine è solo che il tasso lo fa la Bce. Il whatever it takes di Draghi, in quel momento era servito anche a frenare i meccanismi speculativi, perché le scommesse sul debito ci sono. E se si sa che a un certo punto la Bce inonda il mercato di liquidità alla fine, qualche speculatore rischia di rimanere scottato. Tutta questa roba qui non c’è più. Gli speculatori giocano a senso unico, la Bce, questa fenomenale Madame Lagarde ha detto e continua a dire “noi finché non arriva il 2% terremo i tassi alti”. Non compriamo più niente. Ma come la sostituiamo questa roba qui? Che io voglio capire come la sostituiamo. […] Perché la Bce ha detto chiaramente noi non compriamo più niente fino a che l’inflazione arriva al 2%, che è una roba veramente lunare, lunare.”

Ad aggravare la situazione, 10 anni dopo la crisi del debito sovrano del 2011, è che ormai nella corsia del pronto soccorso delle economie in stato comatoso non ci sono più soltanto i paesi più deboli della periferia europea, ma letteralmente tutto il nord globale, alla disperata ricerca di capitali per tenere in piedi un debito pubblico che nel frattempo è letteralmente esploso, scatenando una guerra al rialzo dei tassi della quale non si vede la fine.

Come abbiamo già detto, i titoli tedeschi, che nel 2011 fruttavano lo 0,2% di interessi, ora si avvicinano alla soglia del 3; ma la situazione è ancora più estrema oltreoceano, a Washington, dove il rendimento dei titoli di stato si sta avvicinando al 5%.

Non so se è chiaro: i titoli in assoluto più liquidi e sicuri sul mercato globale, pagano oggi il 5% di interessi.

Prof. Alessandro Volpi: “E questo vuol dire che in giro per il mondo c’è un competitor fortissimo che sono gli Stati Uniti. I quali appunto emettono debito a tassi di interesse così alti che sono il target con cui fare riferimento. In questo ricorda molto la politica di Paul Volcker e del primo Reagan, cioè quando Reagan arriva porta i tassi della Federal Reserve, attraverso Paul Volcker, da cinque, sei per cento al 14%. E il nostro debito si è scassato lì […]. Non è che il debito pubblico italiano è cresciuto perché abbiamo fatto la riforma delle pensioni, perché abbiamo fatto una riforma sanitaria… è cresciuto perché a un certo punto abbiamo dovuto pagare interessi altissimi per fare concorrenza al debito degli Stati Uniti e non ce l’abbiamo più fatta. […] Ma ancora nel ’90 il debito italiano era il 70% del Pil. È esploso per effetto non delle politiche Craxiane e tutta sta roba, ma perché per ogni titolo di Stato emesso si pagava il 14%. Cioè 1994 c’erano i buoni del Tesoro [così come] nel ’93 e nel ’92, pagavano undici, dodici perché c’era la concorrenza internazionale, non c’era la banca centrale.”

Perchè il punto, ovviamente, è che questi rendimenti faranno sì che tutti i soldi che ci sono in circolazione eviteranno come la peste di impelagarsi in mezzo a tutti i rischi che comportano gli investimenti nell’economia reale. Chi te lo fa fare di produrre qualcosa se semplicemente comprando titoli del tesoro hai un rendimento di oltre il 5%?

Questo significa una cosa sola, semplicissima: recessione. E con l’economia che entra in una lunga e dolorosa recessione, da dove li tiri fuori i 120/130 miliardi l’anno che ti servono per pagare gli interessi sul debito?

La risposta purtroppo la conoscete fin troppo bene: privatizzazioni, che a noi che siamo un po’ complottisti, più che l’unica soluzione possibile, sembra molto sinceramente la vera ragione ultima che ha determinato queste scellerate scelte di politica economica.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] In questo momento la politica della Bce è una politica irresponsabile . […] Una politica che ha come fine evidente la privatizzazione. […] È partita una concorrenza internazionale sui titoli del debito che provocherà un aumento dei tassi di interesse che vorrà dire per gli Stati più deboli: privatizzare obbligatoriamente. Perché quando la seconda voce di spesa del bilancio sono centocinquanta miliardi di interessi su mille miliardi di spesa pubblica di cui ce ne sono una parte significativa vincolata fra pensioni e cose di questo tipo… ma di cosa stiamo parlando? È evidente che andremo verso la privatizzazione. I fondi costruiranno le pensioni integrative, la sanità integrativa e andiamo avanti così.”

In realtà un’alternativa ci sarebbe anche: far pagare chi in questi anni di devastazione sistematica dell’economia, casualmente, si è arricchito come non mai prima ma il vento politico, sempre casualmente – ci mancherebbe – sembra spirare in una direzione leggermente diversa.

Prof. Alessandro Volpi: “Non so se hai notato, è un inciso, ma l’eredità del vecchio uno dei temi per cui, come dire, gli eredi del Vecchio cercano di pagare l’imposta di successione in Italia e non in Francia è perché in Francia pagherebbero il 70%. […] A differenza di quella percentuale poco distante del dieci che pagherebbero in Italia. Quindi è evidente che noi dobbiamo riformulare il sistema fiscale: riformulare il sistema fiscale in forma equa, progressiva, colpendo le rendite, eliminando questa bega delle cedolari secche che sono gli affitti per coloro che hanno fasce di reddito di un certo tipo, recuperando certamente l’imposizione fiscale sul tema dei dividendi, cioè noi non possiamo continuare ad avere un’imposizione fiscale per cui i profitti sono penalizzati molto di più dei dividendi e quindi tutto si sposta in questo modo sui dividendi. [..] Cioè se noi non teniamo insieme debito e riforma fiscale, una delle due non è sufficiente. […] Se anche mettessimo la patrimoniale più esasperata, pesantissima modello governo Parri del maggio dei 45, non riusciremo ad avere in queste condizioni il gettito sufficiente. Creeremo certamente dei meccanismi di riduzione delle disuguaglianze, creeremo finalmente dei meccanismi di incentivazione a una economia che non è un’economia di finanza e di rapina, però abbiamo bisogno di una banca centrale che ci finanzi il debito, che è una parte essenziale della finanza pubblica. Se non facciamo questo. […] non ce la faremo, quindi ci vuole una riforma fiscale, ma contestualmente ci vuole una politica monetaria, come diresti tu (riferito a Giuliano Marrucci, ndr) di natura sovrana, ma nel senso che sia in grado di rispondere alle esigenze di un’economia che è un’economia produttiva, di una collettività.”

Ed ecco così che si ritorna a bomba. Ormai vi uscirà dalle orecchie, ma noi continueremo a ripeterlo a oltranza fino a quando quello che diciamo non si trasformerà in un progetto politico serio, in grado di mandare definitivamente a casa tutti i portaborse delle oligarchie finanziarie che si sono avvicendati negli ultimi 30 e passa anni: è in corso una guerra totale dell’1% contro il resto del mondo, combattuta a colpi di finanziarizzazione e distruzione degli assi portanti dello stato e della democrazia moderna, una guerra che l’1% combatte ferocemente con tutte le armi a disposizione, a partire dal monopolio totale della cultura e dei mezzi di produzione del consenso.

Ripartiamo da lì e costruiamo il primo vero media che dia voce al paese reale e ai subalterni.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde