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Italia vs USA- La lotta per l’indipendenza sta per cominciare?

Sovranità o barbarie. Sovranità o morte.
Tutta la storia contemporanea può essere letta anche come storia del conflitto tra nazioni ed imperi, tra comunità nazionali, che lottano per la propria indipendenza ed autodeterminazione, ed imperi aggressivi e coloniali, che cercano di assoggettare altri popoli per asservirli ai propri interessi. In questo periodo di transizione ad un nuovo ordine multipolare in cui, idealmente, l’autodeterminazione dei popoli diventerà veramente il principio fondante del nuovo equilibrio internazionale, nazioni coraggiose hanno cominciato, finalmente, ad alzare la testa e le armi contro i propri oppressori e contro il vecchio ordine mondiale fondato sull’egemonia del dollaro e sullo sfruttamento; e anche per il nostro paese, da 80 anni militarmente occupato da una potenza straniera a causa di una guerra persa, la questione nazionale è sempre più una questione dirimente e non più rimandabile, perché lo spaventoso declino economico, demografico e culturale che stiamo subendo è in gran parte frutto del fatto che non abbiamo la possibilità di portare avanti una nostra agenda dettata dai nostri interessi nazionali, che le nostre classi dirigenti sono selezionate a monte sulla base della loro mediocrità e servilismo e che, come ogni colonia, stiamo introiettando modelli culturali dal centro dell’impero che non hanno nulla a che fare con la nostra storia e che ci stanno dissolvendo dall’interno.

Nel libro Sovranità o Barbarie – Il ritorno della questione nazionale, Thomas Fazi e William Mitchell affrontano di petto questa questione e dimostrano come, nella storia, lo Stato Nazione sia stata la sola cornice istituzionale e culturale in cui le classi subalterne hanno migliorato le proprie condizioni di vita, hanno creato uno stato sociale fondato sulle tutele e sulla giustizia redistributiva e hanno allargato gli spazi di democrazia. Come sottolinea anche l’articolo 1 della nostra Costituzione, se non esiste sovranità popolare non esiste democrazia e, se non esiste democrazia – dobbiamo aggiungere – il popolo può solo subire le politiche delle oligarchie autoctone e straniere che, con il supporto del potere imperiale, depredano le ricchezze nazionali e fanno di tutto per conservare lo status quo. Citando ampi stralci dai discorsi e dagli scritti di figure come Togliatti, Basso e Di Vittorio, Mitchell e Fazi mettono in luce la profonda diffidenza – se non aperta avversione – che, per tutti questi motivi, la sinistra socialista nutriva contro ogni dissolvimento dello Stato italiano in una qualche istituzione sovranazionale poco o per nulla democratica. Le loro parole, oltre alla consapevolezza del fatto che l’internazionalismo dei popoli non ha alcunché da spartire con la globalizzazione finanziaria e capitalista, esprimono con ancora più chiara consapevolezza che la sovranità nazionale era il presupposto indispensabile per qualsiasi realizzazione dei bisogni e dell’emancipazione degli ultimi.
Ma anche Costanzo Preve, all’inizio di questo secolo, quando quasi tutti guardavano alla globalizzazione capitalista come al migliore dei mondi possibili e all’America come a un padrone benevolo, ci aveva avvertito e, in un libretto chiamato La questione nazionale alle soglie del XXI secolo, già denunciava l’inglobamento della nuova sinistra liberista nella sfera culturale delle élite capitaliste, mostrando quanto ideologica e strumentale fosse la sua nuova visione dello Stato nazionale come semplice residuo artificiale del passato e un residuo, perlopiù, di cui sbarazzarsi il più in fretta possibile, data la sua intrinseca pericolosità e aggressività nei confronti delle altre nazioni; in verità, ci ricorda Preve, nazionalismo ed imperialismo sono fenomeni politici opposti e da sempre in conflitto tra loro e chi nega la sovranità nazionale di un altro popolo con comportamenti coloniali e predatori non deve essere chiamato nazionalista, ma imperialista. E nel mondo attuale, in cui la storia sembra essersi rimessa in moto, è proprio da questa consapevolezza e da queste analisi che chi ha a cuore la pace e la democrazia dovrebbe ripartire. In questa puntata parleremo, quindi, del modo in cui l’ideologia neoliberista degli ultimi decenni ha cercato di distruggere il concetto di Nazione e di Stato sovrano per poter espandere le proprie logiche in ogni spazio e dimensione della vita comunitaria; vedremo poi la differenza tra i veri nazionalismi e le sue aberranti perversioni imperialistiche nel ‘900 e perché, oggi, la lotta per l’indipendenza nazionale ed europea dagli Stati Uniti non è davvero più rimandabile.
La famosa globalizzazione a guida americana non ha significato solo accelerazione delle comunicazioni, dei trasporti e delle transazioni finanziare, ma – soprattutto – restaurazione del pieno funzionamento dei rapporti capitalistici di produzione dopo l’intervallo del comunismo storico novecentesco dal 1917 al 1991; durante questa restaurazione, messa oggi in discussione dall’emergere di nuove potenze economiche e culturali concorrenti, gli Stati occidentali hanno perso alcune funzioni tipiche dei decenni felici (dal 1945 al 1991), come la redistribuzione della ricchezza e l’implementazione dei diritti sociali, rafforzando il loro ruolo di appoggio economico, politico e militare agli interessi delle oligarchie economiche; un processo, sostengono Fazi e Mitchell, che sarebbe sbagliato interpretare come indebolimento dello Stato e che ha, invece, a che fare con la volontà delle classi dirigenti di utilizzare lo Stato come strumento di profitto, di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia.
Nonostante le contraddizioni di questo sistema stiano chiaramente scoppiando, In Italia la necessità quasi teologica della globalizzazione capitalista a guida americana non viene ancora messa in discussione e l’opposizione destra – sinistra, ormai del tutto artificiale e virtuale, continua ad essere riprodotta dall’alto per non far vedere ai cittadini queste contraddizioni e continuare a dividerli su questioni di pettegolezzo e di costume: sul tema della nostra sovranità e indipendenza nazionale, ad esempio, che sarebbe una chiara minaccia per la globalizzazione americana, la finta destra svolge da sempre il ruolo di cantore dell’occupazione militare del nostro suolo e sogna un’Italia finalmente americanizzata in cui i poveri possano essere sfruttati senza rompere troppo i coglioni e in cui la socialdemocrazia venga smantellata in ogni sua parte; la finta sinistra, invece, presa da un’incredibile crush per il partito democratico americano e per l’Unione Europea, sogna che l’Italia cessi proprio di esistere e questo perché, per loro, l’identità nazionale sarebbe roba da popolino e da medioevo, mentre l’America e le organizzazioni internazionali sono sinonimo di modernità, moda e umanitarismo.
Tutta questa ideologia antinazionalista, sottolinea anche il sociologo tedesco Wolfgang Streeck in Che fine farà il capitalismo?, serve proprio perché lo Stato nazionale sovrano è incompatibile con la forma imperiale americana e perché, storicamente, è stata la forma più efficace a disposizione delle classi popolari per controllare e socializzare l’economia: “Anche per questo” scrive Streeck, “anche se in modo spesso confuso o ambiguo, oggi le forme di opposizione prevalente al regime neoliberista globalizzato si presentano come rivendicazioni di sovranità nazionale o substatale.”; in Europa, aggiunge Preve, questo odio viscerale della sinistra liberal per la nazione “È diventata la questione culturale principale per cui la tradizione definita comunemente di sinistra è sostanzialmente inutilizzabile oggi per motivare un serio atteggiamento di critica e di resistenza all’attuale globalizzazione capitalistica ed imperialistica.” “E” continua “è uno dei fatti principali per i quali la sinistra, che negli ultimi due secoli nonostante difetti evidenti ha difeso cause sociali giuste, invece da 40 anni ha cambiato radicalmente natura.” Non è certo la prima volta nella storia che, in paesi sconfitti e occupati e con classi dirigenti collaborazioniste con l’occupante, diffondono idee che delegittimano l’idea stessa di sovranità e indipendenza e cerchino, in tutti i modi, di far passare l’idea che in fondo è meglio così e che il padrone è un padrone benevolo che sa fare al meglio gli interessi di tutti. Ma nel nostro caso, ricorda Preve, si è diffuso anche uno strisciante revisionismo che delegittima l’idea stessa di Nazione, per il quale le nazioni sarebbero solo il prodotto di un’ingegneria sociale priva di alcun fondamento culturale e di cui bisognerebbe liberarsi il più in fretta possibile, data la loro intrinseca aggressività nei confronti delle altre Nazioni; i più cauti su questo punto dicono che il nazionalismo guerrafondaio ed espansionistico – come, ad esempio, quello europeo e americano degli ultimi secoli – sarebbe una perversione e deviazione dell’originario ed autentico concetto di Nazione. “Ma invece bisogna dire” scrive Preve “che il nazionalismo militaristico e il colonialismo imperialistico sono stati la negazione e il nemico frontale della realtà nazionale per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo. Il colonialismo imperialistico è la negazione, è il più grande nemico del riconoscimento della legittimità dell’identità nazionale.”

Wolfgang Streeck

Un secondo pregiudizio a proposito della questione nazionale, da sempre caro ad un certa sinistra internazionalista, è che l’idea di nazione sarebbe nemica delle classi popolari e dell’emancipazione sociale; secondo questa teoria, il concetto di nazione implicherebbe una falsa unità tra le classi sociali e l’identità nazionale non sarebbe altro che un’identità borghese e capitalistica mascherata e venduta ai proletari dagli apparati ideologici di Stato per non far fare loro la rivoluzione e mandarli a morire in guerra per i propri interessi: questa obiezione, riflette Preve, rilevata da Marx e da gran parte dei marxisti successivi, è solo in parte pertinente. Dire che il nazionalismo distrarrebbe i proletari è ingenuo: “La gente è forse un po’ cogliona” ragiona il filosofo di Valenza “ma non cogliona fino a questo punto. La questione nazionale non distrae mai dalla questione sociale quando essa è realmente radicata in forze sociali reali. Lo sviluppo dialettico della lotta tra le differenti classi sociali della società capitalistica, ha anzi come presupposto storico la precedente identità nazionale.”; e infatti, se si guarda alla storia, possiamo tranquillamente dire che la rivoluzione classista pura è un’invenzione dei dogmatici. Tutte le rivoluzioni sociali concretamente avvenute – come quella russa, cinese, vietnamita e cubana – sono tutte sorte da una precedente questione nazionale non risolta a causa, appunto, dell’imperialismo, ossia la negazione assoluta del nazionalismo. Patria o muerte diceva Ernesto Guevara.
Bisogna prendere poi atto del fatto che la stragrande maggioranza delle persone non appartiene – e mai apparterrà – all’élite cosmopolita postnazionale “E per queste persone” scrive Carlo Formenti nelle conclusioni al libro di Fazi e Mitchell “nozioni quali cittadinanza, identità collettiva, senso di appartenenza, sono inestricabilmente legate a un determinato territorio e, nella maggior parte dei casi, a una nazione intesa come comunità caratterizzata dalla presenza di lingua, storia, cultura, geografia, usi e costumi comuni, o di almeno alcuni di questi caratteri (che di per sé non hanno nulla di organicista e/o di razziale).”; “In ultima analisi” conclude “cosa significa essere cittadini se non appartenere a una comunità che stabilisce autonomamente come organizzare la vita sociale ed economica all’interno di un dato territorio?”. È per questo che le destre che oggi hanno ancora con una retorica nazionalista (anche se prontamente tradita una volta al governo) sono egemoniche tra le classi popolari: perché sono in grado di tessere nuove narrazioni identitarie fondate sulla sovranità nazionale. Le forze veramente sociali e popolari invece, per tornare a vincere, oltre ad avere una chiara visione della necessaria trasformazione socioeconomica e istituzionale della società, devono anche essere in grado di produrre miti e narrazioni altrettanto potenti che riconoscano il bisogno di appartenenza delle persone e il loro legame col territorio in cui vivono e con le persone con cui condividono quello spazio.
Purtroppo, dobbiamo invece constatare che, mentre noi passiamo il tempo a delegittimare noi stessi mandando all’aria anche i nostri interessi economici, gli americani hanno ereditato dagli anglosassoni puritani la spiacevole illusione di avere un qualche primato sul mondo e, pertanto, di rappresentare una sorta di destino manifesto; come dichiarava Bill Clinton qualche anno fa “L’America è l’unica nazione indispensabile del mondo” e tutte le altre possono esistere solo se le riconoscono questo primato: “E qui si innesta appunto la pertinenza della questione nazionale” scrive Preve “perché l’imperialismo americano si arroga il diritto di decidere sovranamente in base ai propri interessi quali nazioni possono esistere sovranamente e quali no”. In conclusione, possiamo – insomma – dire che oggi questione nazionale significa battaglia per la democrazia e resistenza contro l’imperialismo e chi parla oggi di democrazia senza lotta concreta per l’autodeterminazione dei popoli, allude ad una sorta di proceduralismo e garantismo formale dietro cui le oligarchie straniere e autoctone non hanno nessun problema a nascondersi e a portare avanti i loro interessi antidemocratici.
Ovviamente, la solidarietà tra nazioni resistenti è una necessità: in un mondo sempre più interconnesso, aiutare gli altri vuol dire aiutare se stessi e lo sguardo degli oppressi ci rimanda al nostro stesso destino; anche per questo possiamo dire che è sicuramente preferibile l’internazionalismo al nazionalismo, ma nel suo significato etimologico, ossia come rapporto tra nazioni differenti ed eguali fondato su un diritto internazionale che riconosca la legittimità di tutte le nazioni – e non sulla retorica del cosmopolitismo pop e delle bombe umanitarie. “L’universalismo” conclude Preve “deve essere un dialogo tra le differenze, e non certo un altoparlante che diffonde orwellianamente ad una plebe livellata un unico messaggio universale obbligatorio.” E se anche tu vorresti che l’Italia sfruttasse al meglio il nuovo ordine multipolare nascente per riconquistare la propria libertà perduta, aiutaci costruire un media veramente libero e indipendente che combatta la propaganda dei media collaborazionisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giorgia Meloni

OttolinaTV

14 Aprile 2024

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