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Tag: scienza

Antrop8lina – Efficacia simbolica della magia – ft. Alessandra Ciattini

Tornano per Antrop8lina le chiacchierate tra Alessandra Ciattini (docente di antropologia presso l’Università La Sapienza di Roma) e il nostro Gabriele. Oggi si parla di magia, funzione psicosociale del discorso e del pensiero magico e propaganda. La magia non è solo frode e la nostra società positivista, al di là della propaganda, non argomenta sempre e soltanto in modo scientifico e razionale. Gli attori sociali (politica e media) manipolano spesso l’opinione pubblica usando il principio di autorità e non sviluppando un reale discorso su base argomentativa. In questa discussione emergono gli aspetti antropologici della post-democrazia tipica del neoliberismo. Buona visione!

#antropologia #magia #neoliberismo #verità #scienza

Happycrazia: come la scienza della felicità ci fa assistere a un genocidio con ottimismo

Il genocidio in corso a Gaza per gli USA rappresenta un grattacapo di dimensioni cosmiche: da un lato il sostegno ad Israele, avamposto dell’imperialismo USA in Medio Oriente, è fuori discussione, come è fuori discussione la dipendenza di chiunque ambisca alla Casa Bianca dal sostegno della gigantesca e onnipresente lobby sionista statunitense; dall’altro, però, la guerra regionale che il genocidio rischia di far deflagrare è un lusso che gli USA, alla disperata ricerca di un modo per contenere manu militari l’inarrestabile ascesa cinese nel Pacifico, molto semplicemente non si possono permettere. Ma c’è anche dell’altro: da quando Israele ha definitivamente gettato la maschera sulla feroce natura suprematista e genocidiaria del suo regime coloniale, negli USA – e, in particolare, tra le giovani generazioni – si è fatta strada una vera e propria rivoluzione culturale di portata epica; per la prima volta nella storia del paese, la maggioranza della popolazione si è dichiarata favorevole alle istanze del popolo palestinese oppresso invece che a quelle del regime oppressore.

Rania Khalek

Un cambio di paradigma estremamente pericoloso per la tenuta stessa dell’egemonia dell’imperialismo USA, soprattutto dal momento che, all’opinione, è seguita anche la mobilitazione di dimensioni che non si vedevano dai tempi del Vietnam e un pezzo fondamentale di questa mobilitazione, è stata lei: si chiama Rania Khalek ed è uno dei volti di una delle più interessanti esperienze di controinformazione del web globale; si chiama BreakThrough News ed è la punta di diamante del variegato mondo dell’informazione antimperialista militante e, in particolare per noi di Ottolina Tv, una continua e inesauribile fonte di ispirazione anche perché, proprio come prevede il progetto di Ottolina, è molto di più di un canale Youtube. E’ il braccio mediatico di un movimento popolare che, giorno dopo giorno, sta guadagnando spazio nel cuore dell’impero: si chiama People’s forum e, come recita il loro sito, è “Un incubatore di movimento per la classe operaia e le comunità emarginate per costruire l’unità oltre le linee storiche di divisione in patria e all’estero”; con Rania abbiamo affrontato la tragedia del massacro in corso a Gaza e come, da quel massacro e dall’eroica resistenza del popolo palestinese non solo possiamo, ma dobbiamo trarre le energie necessarie per ricostruire un vero movimento antimperialista nell’Occidente collettivo che, al fianco dei popoli del Sud globale, metta fine a 5 secoli di feroce dominio della piccola tribù degli uomini bianchi sul resto del pianeta. Ma prima della voce di Rania, una piccola divagazione che, in realtà, ha molto a che vedere anche con la sua intervista perché mercoledì scorso le Nazioni Unite hanno pubblicato l’aggiornamento annuale dell’indice sulla felicità globale e Israele svetterebbe in quinta posizione su 143 paesi. Sterminare un intero popolo, a quanto pare, è fonte di felicità; com’è possibile?
Siete depressi per la crisi economica, i vari stermini di massa che ci circondano e per il pianeta che procede dritto verso l’autodistruzione? Beh, rimandate tutto a domani perché oggi si festeggia! Come tutti gli anni a partire dal 2012, infatti, oggi 20 marzo si festeggia nientepopodimeno che la giornata internazionale della Felicità che non è più un’ambizione e tantomeno un diritto, ma un vero e proprio dovere; benvenuti nell’era dell’HappyCrazia dove, se sei triste, sotto sotto – necessariamente – sei anche un po’ stronzo e, alla fine del giro, te la sei cercata: è questa, in estrema sintesi, la tesi di fondo della cosiddetta scienza della felicità e, cioè, la scienza che dovrebbe consentire a ogni individuo “di individuare e rafforzare i tratti positivi che già possiede in termini di serenità, ottimismo e progettualità, al fine di vivere sempre ai massimi livelli del proprio potenziale di benessere”; sono le parole usate direttamente da Martin Seligman, autore di testi dai titoli accattivanti come Imparare l’ottimismo, Come crescere un bambino ottimista, La costruzione della felicità. La cosa grave, però, è che non ci troviamo semplicemente di fronte a uno degli innumerevoli imbonitori da strapazzo che si fanno d’oro grazie al fiorente e delirante mercato delle vaccate motivazionali; Seligman, infatti, è stato a lungo nientepopodimeno che il presidente dell’American Psychological Association che, con la bellezza di 117500 membri, è l’associazione di psicologi più importante dell’intero Occidente collettivo e che detta la linea a tutti gli altri, una la linea che dal suo famoso discorso del 1998 è piuttosto chiara: gli sforzi degli psicologi non si devono più indirizzare alla cura della patologie mentali, ma a rendere la vita di tutti più appagante e, soprattutto, più produttiva – e non c’è al mondo persona più produttiva di una persona felice. Da lì in poi, per le masse teleguidate è stata tutta un’escalation di rinforzi positivi: “Se vuoi puoi”, “Se puoi sognarlo, puoi farlo” e via cianciando; la felicità, insomma, è qualcosa che è sempre a portata di mano e se non sei in grado di comprenderla e di afferrarla, nella migliore delle ipotesi è perché sei un po’ choosy e non ti impegni abbastanza; nella peggiore, appunto, sei proprio stronzo, una retorica che fa il paio con la fama che, negli ultimi anni, si è guadagnato il concetto di resilienza.

Il trait d’union è piuttosto evidente: ti girano i coglioni perché fai un lavoro di merda e le relazioni sociali – in un mondo distopico fondato sull’iperindividualismo e la mercificazione di qualsiasi ambito vitale – ti mandano in paranoia? Ma fottitene! Coltiva il tuo orticello e pensa al successo e alla salute; un’ideologia che – scrivono Edgar Cabanas e Eva Ilouz nel loro Happycracy, come la scienza della felicità controlla le nostre vite – permette “di scaricare sulle spalle dei dipendenti i problemi legati all’instabilità del mercato, alla scarsità delle prospettive d’impiego, all’inefficacia strutturale del sistema e alla concorrenza”. Ma la scienza della felicità non si limita a tentare di convincerci che il mondo è bello com’è e che se, non ci piace, è solo perché siamo degli inguaribili frignoni; va ben oltre: “Le ricerche sulle banche dati” dei paladini del giustificazionismo delle ingiustizie e delle diseguaglianze, sottolineano infatti Cabanas e Ilouz, arriverebbero a dimostrare addirittura che “la disparità economica e la concentrazione del capitale hanno un rapporto positivo con la felicità” e che “più le diseguaglianze sono marcate e più gli individui sono contenti perché vedono maggiori opportunità per se stessi”. Insomma: un potentissimo apparato ideologico teso a fornire alle più feroci politiche neoliberiste nientepopodimeno che un fondamento scientifico basato sulle caratteristiche intrinseche dell’essere umano stesso; “Sotto la veste del positivismo” sottolineano, infatti, i due autori “lo studio scientifico della felicità umana ha trasformato questa nozione in un potente strumento ideologico, che sottolinea la responsabilità individuale per il proprio destino e veicola valori fortemente individualisti, camuffandoli da teorie psicologiche ed economiche”. Grazie a questa fuffa scientista, così, l’equa redistribuzione dei redditi, una sanità efficiente e alla portata di tutti e, in generale, i pilastri dello stato sociale diventano magicamente contrari agli interessi stessi di chi si vorrebbe difendere, un approccio profondamente reazionario che ormai permea completamente la psicologia collettiva e che si traduce in un concetto molto semplice e molto comodo per le élite al potere: a cambiare devono essere le persone, non la società.
Contrariamente al senso comune di noi residuati bellici del ‘900, la felicità non è più un obiettivo da perseguire una volta che sono state soddisfatte le condizioni basilari di serenità e sicurezza economica, ma, al contrario, diventa un prerequisito per il raggiungimento delle stesse; a incarnare al meglio i valori fondanti di questa ideologia distopica, ovviamente, non possono che essere gli imprenditori: “Resiliente, strategico, autonomo, temerario e motivato” sottolineano Cabanas e Ilouz, “l’imprenditore viene visto come il motore del cambiamento sociale e del progresso economico: il cittadino neoliberista per eccellenza”. In questa ottica, il perseguimento della felicità diventa l’unico imperativo morale possibile immaginabile: essere felice è un dovere e qualsiasi azione compiuta per raggiungere la felicità è non solo giustificata, ma dovuta; “Seligman” ricordano i nostri due autori “afferma che qualsiasi azione derivata dall’espressione delle proprie qualità individuali è per forza felice, e poco importa se si sta parlando di un sadomasochista che che gode ad ammazzare le persone […], o di un killer che trae enorme gratificazione nel pedinare e poi trucidare le sue vittime […]”. Ed ecco, così, come si spiega il quinto posto nella classifica mondiale della felicità per un paese che sta commettendo il più grande massacro del XXI secolo e anche perché, alla fine, questo dato sconvolgente non ha fatto notizia: se gli piace, chi siamo noi per dirgli di darsi una regolata?

Dimitri d’Andrea

Se volete approfondire il tema, l’appuntamento è per stasera mercoledì 20 marzo alle 21 con la nuova puntata di Ottosofia: a guidarci nei meandri della scienza della felicità ci penserà Dimitri d’Andrea, docente di filosofia politica all’Università di Firenze; nel frattempo, ecco in esclusiva per il pubblico di Ottolina Tv Rania Khalek, la regina dell’informazione antimperialista globale. Disgustati e sconvolti dal comportamento di Israele a Gaza e dal fatto che il proprio paese stia attivamente supportando e contribuendo al primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità, molti cittadini statunitensi – in particolare i più giovani e gli appartenenti alle minoranze, sostiene Rania Khaelk – stanno cominciando ad aprire gli occhi: mai si erano visti nella storia USA così tanti giovani partecipare a organizzazioni e manifestazioni pro Palestina e mai il partito democratico era stato così tanto in imbarazzo con il proprio elettorato per questioni di politica estera. E non solo: questi movimenti dal basso stanno diffondendo, forse per la prima volta dalla guerra nel Vietnam, anche idee e correnti di pensiero smaccatamente anti – imperialiste e anti – suprematiste, quando addirittura non dichiaratamente socialiste, che cominciano a esercitare un’influenza sempre crescente sulle nuove generazioni e aprono finalmente uno spazio concreto per una svolta storica nella sinistra americana che, fino ad oggi, non si era mai riuscita ad emancipare dall’eccezionalismo suprematista americano. L’esempio di Rania e di BreakThrough ci insegna che per dare basi solide a questo cambio di paradigma, prima di tutto serve lavorare giorno e notte alla costruzione di un vero e proprio media che dia voce al 99% – negli USA come in Italia – e per farlo, proprio come BreakThrough negli USA, abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.


E chi non aderisce è Giuliano Ferrara

P.S.: L’intervista a Rania che avete visto è un estratto dell’intervista che trovate in forma integrale sul nostro canale Youtube in lingua inglese.

Antrop8lina PSICHEDELICA su Terence McKenna – ft. Marco Maculotti

Per la prima puntata di Antrop8lina intervistiamo Marco Maculotti (fondatore del blog, rivista e casa editrice Axis Mundi ed esperto di antropologia religiosa e storia del folklore) con cui parleremo di un controverso autore psichedelico della controcultura statunitense: Terence McKenna, etnobotanico, esperto di sciamanesimo, visionario, onironauta, scrittore e teorico metafisico. Un pensatore di cui non sempre condividiamo le idee, ma su cui è interessante sviluppare una chiacchierata di approfondimento.

La Meloni SVENDE il Paese a Washington e Wall Street e viene nominata REGINETTA DI DAVOS

Dopo 15 mesi di governo, la Meloni passa a pieni voti l’esame di sudditanza geopolitica e di tecniche avanzate di svendita del paese alle oligarchie finanziarie, e Davos la incorona ufficialmente reginetta del ballo annuale del globalismo targato World Economic Forum; mentre i riflettori si concentravano tutti sulla performance dello scemo del villaggio globale, Javier motosega Milei, e della rappresentazione plastica del livello di degrado umano e culturale nel quale le oligarchie vorrebbero intrappolare il Sud globale nella speranza che la grande decolonizzazione segni una battuta d’arresto, lontano dalle luci della ribalta – e in modo molto più subdolo – persone molto più misurate e presentabili ma ancora più spietate e prive di scrupoli tessevano la trama del mondo distopico che ci aspetta. In una sorta di raffinato rituale pieno di simbolismi, Giorgia la madrecristiana ha offerto lo scalpo del paese ai fondi speculativi che dominano la finanza globale e ha siglato un patto di sangue col demonio che prevede il sacrificio dei cittadini italiani e di quel che rimane della nostra democrazia in cambio della salvezza di un ristrettissimo gruppo di potere. Ma in cosa consiste concretamente questo patto demoniaco?

Kenneth Rogoff

La Stampa, venerdì 19 gennaio; in diretta dalla lounge del Centro Congressi di Davos, ecco che torna in grande style una delle principali star internazionali dell’economia mainstream: Kenneth Rogoff, una specie di vademecum del perfetto analfoliberale suprematista. Il neocidio a Gaza? Colpa dell’Iran. L’inflazione? Colpa dei terroristi yemeniti. La guerra in Ucraina? Colpa della Russia, e pure della Corea del Nord, e anche della Cina, che la riempiono di armi. La crisi in Europa? Colpa di Donald Trump. La nota positiva? Tenetevi forte: GIORGIA MELONI. Serio, eh? Da buon analfoliberale, Rogoff inizialmente su Giorgia la madrecristiana aveva espresso più di qualche perplessità: “Dopo un anno di governo Meloni” gli chiede l’intervistatore “è ancora spaventato?”. “No,” risponde Rogoff “affatto. Sono giorni che continuo a sentire persone parlare bene di lei”; Rogoff racconta di come tra i corridoi di Davos abbia cercato di capire da banchieri e policy makers quali pensavano potessero essere i leader più promettenti in Europa: “Beh,” dichiara “in molti hanno tirato fuori il nome proprio di Giorgia Meloni”. “Il cancelliere tedesco è debole,” continua “il presidente francese è in declino. E di certo, non possiamo guardare al Regno Unito. Meloni invece” ribadisce Rogoff “è stata una sorpresa positiva. Potrebbe essere davvero lei la risposta giusta per questa Europa alla disperata ricerca di leader”; ed ecco che immediatamente la propaganda filogovernativa si dimentica per un attimo della sua retorica antiglobalista e festeggia come di fronte a un’investitura papale: Meloni, l’economista Rogoff: “leader d’Europa”, titola Libero.
Ma chi è esattamente Kenneth Rogoff? Ve la ricordate la teoria dell’austerità espansiva? Per anni è stata la parola d’ordine per eccellenza del mainstream, e indovinate un po’ chi l’ha inventata? Esatto: proprio lui, di persona personalmente; sulla base di quelli che allora vennero spacciati come una grossa mole di dati empirici certificati e inequivocabili, Kenneth Rogoff nel 2010, infatti, riuscì a dimostrare una cosa che avrebbe scioccato tutti gli economisti keynesiani: secondo gli economisti keynesiani, infatti, l’unico modo concreto per stimolare l’economia è che lo Stato metta nell’economia – sottoforma di servizi, investimenti e sussidi – più di quanto ci preleva sottoforma di tasse. Rogoff stravolge questo principio: dimostra come quando il debito pubblico supera il 90% del PIL, la crescita dei paesi – in media – diventa negativa e non supera il -0,1% e come, invece, se lo Stato mette meno soldi nell’economia di quanti ne preleva – e quindi diminuisce il debito – incomprensibilmente, come per magia, i consumi e gli investimenti privati aumentano; l’austerità, conclude Rogoff, al contrario di quello che sostengono gli statalisti, le zecche rosse e tutte le persone accecate dall’invidia e dal rancore verso i ricchi e il capitale, non deprime l’economia ma, al contrario, la rilancia. Un risultato totalmente controintuitivo che però per le élite e l’oligarchia è una vera e propria gigantesca manna dal cielo: se non fosse arrivato, toccava inventarselo. A partire dal 2009, infatti, i famigerati PIIGS entrano in una profonda recessione: se ci fossimo ancora attenuti al verbo delle zecche rosse e dei socialisti, saremmo per forza dovuti intervenire con soldi pubblici per stimolare l’economia; però lo Stato è brutto e il debito è cattivo, e quindi n se po’ fa. Come si risolve allora l’inghippo? Grazie alla teoria dell’austerità espansiva la soluzione è semplicissima: basta prendere l’autostrada in contromano e tagliare ancora un po’ e, per magia, l’economia riprenderà; ed ecco così che, in men che non si dica, questo risultato viene propagandato ai quattro venti da tutti i principali economisti di regime.
Citazioni entusiastiche si moltiplicano sul Financial Times, sull’Economist e sul Wall Street Journal: Paul Ryan, speaker alla camera USA dal 2015 al 2019, lo userà come base per una risoluzione a suo nome a sostegno delle politiche di austerity europee; l’attuale governatore della Banca di Finlandia Olli Rehn che, all’epoca, era nientepopodimeno che vice presidente della Commissione europea, in una lettera indirizzata ai ministri economici e finanziari della UE, al FMI e alla BCE, scriverà che “È largamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca accademica, che quando i livelli del debito pubblico superano il 90%, tendono ad avere un impatto negativo sull’andamento dell’economia, che si traduce in bassa crescita per molti anni”. Vi imponiamo ricette lacrime e sangue che vi riducono in miseria? Ma è per il vostro bene! Lo dicono i numeri di Rogoff! Lo dice la scienziaaah!
Particolarmente entusiasti della nuova rivoluzione copernicana di Rogoff da noi saranno i vari Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e, in generale, gli economisti che gravitano attorno alla Bocconi che, da lì in poi, diventeranno vere e proprie superstar; i risultati li conoscete tutti benissimo: ovviamente il PIL, invece che ripartire, non ha fatto che contrarsi ulteriormente. La disoccupazione è aumentata, il tenore di vita è peggiorato, i consumi sono diminuiti e paradossalmente poi, per mettere le toppe, pure il debito è aumentato molto di più di quanto non sarebbe stato necessario per introdurre politiche espansive prima; l’austerità espansiva ha funzionato talmente male da riuscire – addirittura – a far tornare qualche accenno di combattività anche tra le masse popolari anestetizzate ormai da decenni di controrivoluzione neoliberista e dalle sue conseguenze antropologiche. Nel 2013 se n’è accorto addirittura il Fondo Monetario Internazionale: ogni euro di contrazione fiscale – ha sottolineato – ha avuto un impatto recessivo di 1,5 euro; secondo i nostri prestigiosissimi teorici dell’austerità espansiva l’impatto recessivo sarebbe dovuto essere di 0,5 euri. In confronto, le previsioni di Mario Draghi sugli effetti delle sanzioni alla Russia sono state già più affidabili. Ma com’è possibile?
A differenza delle puttanate di Draghi sulle sanzioni russe, che erano palesemente solo propaganda e wishful thinking della peggiore specie, l’austerità espansiva non si fondava su un fondamentale studio empirico di indiscutibile rigore scientifico? Ecco, appunto. No. Il fondamentale studio di Rogoff, osannato da tutti gli economisti mainstream come una grande rivoluzione scientifica al pari di quelle di Newton e di Galileo, era in realtà un discreto troiaio: “Lo studio intitolato Growth in a time of debt – La crescita al tempo del debito – e pubblicato nel 2010 sulla prestigiosa American Economic Reviewricorda Vittorio Daniele su economiaepolitica.it “non è stato smentito da sofisticate applicazioni econometriche ma, come nella favola di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, da un umile studente di dottorato dell’Università del Massachusetts che, utilizzando proprio i dati di Reinahrt e Rogoff per un’esercitazione, si è accorto che qualcosa non quadrava nelle stime dei due economisti”.

Rogoff, in sostanza, sosteneva che la crescita dei paesi afflitti da un insostenibile debito – di oltre il 90% rispetto al PIL – avessero registrato in media una crescita negativa del – 0,1%; lo studentello dimostrò che, invece, la crescita era stata positiva, e manco di poco: +2,2%. Nel tempo, tutti i grandi sostenitori dell’austerità espansiva si sono rimangiati tutto: da Mario Monti a Mario Draghi, passando anche per lo stesso Giavazzi; ovviamente, non possiamo che esserne felici. Rimane il dubbio, però, del perché a governare la nostra economia poi siano stati richiamati sempre loro, invece del ragazzino che ha smontato il pessimo studio di Rogoff e tutte le persone minimamente ragionevoli che non ci sono mai cascate. Non è che più che la competenza tecnica e scientifica, pesa la fedeltà ad alcuniinteressi specifici? Perché se, dal punto di vista dell’economia generale, l’austerità espansiva è stata una disastro totale, non è che ci hanno perso tutti: le oligarchie finanziarie ci hanno guadagnato eccome, e quando dici oligarchie finanziarie, dici Washington. Guarda qua: dall’arrivo dell’austerità espansiva ad oggi i mercati finanziari americani si sono quintuplicati, e se a guidarli – e a garantirgli il posto di comando – non sono le competenze ma la fedeltà agli interessi delle oligarchie, non è che ora che i Monti, i Draghi e i Giavazzi sono stati illuminati e si sono riscoperti moderatamente keynesiani, ci sta dietro una fregatura?
Il sospetto, sinceramente, viene: il nuovo tormentone di questi prestigiosi e sofisticati economisti infatti è che sì, lo Stato dovrebbe tornare a investire un po’ – come fa Biden con la Bidenomics –, però i soldi che mette sul tavolo non devono servire ad aumentare di nuovo il ruolo dello Stato nell’economia, ma solo a incentivare i privati ad investire nella giusta direzione, azzerando i rischi; non è che questa idea non è fondata su solide basi scientifiche, ma non è altro che un’altra gigantesca cazzata come quella dell’austerità espansiva, utile solo agli interessi che hanno già dimostrato di tutelare così bene? E quando Rogoff si complimenta con la nostra Giorgiona, non è che non lo fa sulla base di solide valutazioni sul tipo di politica necessaria per rilanciare l’economia in Europa, ma esclusivamente in base al fatto che è quella che, più di ogni altro, è in grado di garantire che quegli stessi interessi saranno difesi anche a costo di dover passare sul cadavere dell’ultimo cittadino europeo?
Da questo punto di vista – bisogna ammetterlo – la nostra Giorgiona non s’è fatta mancare niente: ovviamente, prima di tutto, dal punto di vista geopolitico, dove i padroni a stelle e strisce non si sono accontentati – come con altri paesi vassalli – della totale sudditanza di Roma all’agenda di Washington a spese dell’interesse nazionale. Per lavare via i peccati di alcune affermazioni del passato decisamente ostili nei confronti della globalizzazione neoliberista e dei suoi architetti, hanno preteso anche un gesto simbolico eclatante: l’uscita dalla via della seta. La maggioranza dei paesi europei, infatti, continua ad aderire al memorandum – a partire dai paesi strutturalmente più vicini a Washington, dai baltici alla Polonia e, addirittura, la colonia ucraina; a nessuno Washington ha chiesto di uscire, a parte a Roma: non bastava garantire eterna fedeltà. Per suggellare il patto di sangue ci voleva proprio l’umiliazione in mondovisione, e Roma è stata ben felice di accontentarli perché la sua sudditanza non doveva essere nota solo a Biden e ai suoi uomini: bisognava convincere anche le oligarchie finanziarie e gli economisti come Rogoff che, però, non campano solo di posizionamenti geopolitici e gesti simbolici; vogliono la ciccia, al sangue. Che eccola che a Davos è arrivata puntualmente: Mossa a sorpresa del ministero dell’economia titolava entusiasta venerdì Il Giornanale; “ENI, il tesoro cederà il 4% per rassicurare i mercati”, dove – ovviamente – per mercati si intendono le poche decine di oligarchi presenti a Davos e che, tra un festino a base di escort e l’altro, hanno concesso un po’ dei loro sterminati capitali ai governanti più servizievoli dell’impero.

Giancarlo Giorgetti

A Davos Giorgetti si è intrattenuto un po’ con tutti: dal mitico Ray Dalio di Bridgewater, all’amministratore delegato di Bank of America Brian Moynihan, a quello di Jp Morgan Jamie Dimon e, oltre a ENI, sul piatto c’erano anche Poste e, in prospettiva, anche Ferrovie dello Stato; L’Italia in vendita titola indignata addirittura La Repubblichina. Il bue che dà del cornuto all’asino: l’obiettivo infatti, come sapete, sarebbe quello di fare un po’ di cassa per abbattere un po’ di debole, ma è fuffa allo stato puro; in tutto, secondo il governo stesso, si parlerebbe al massimo di una ventina di miliardi, che ai nostri quasi 3 mila miliardi di debito, ovviamente, gli fanno come il cazzo alle vecchie. L’idea che il debito non si possa abbattere vendendo i gioielli di famiglia non è esattamente un’esclusiva di noi oltranzisti bolscevichi: lo dice chiaramente su La Stampa anche l’ultramoderato Mario Deaglio che, da liberale, non è in linea di principio contrario a vendere quel poco di partecipazioni statali che ci rimane ma, sempre da buon liberale, capisce anche quali dovrebbero essere i paletti minimi essenziali, e cioè che questo ingresso dei capitali privati avvenga nell’ambito di una politica industriale degna di questo nome, e che sia capace di mettere al servizio di questa politica i capitali, e non viceversa -che però, è più facile da dire che da fare.
La Cina, ad esempio, segue esattamente questa strada: anche la Cina, infatti, cerca di attirare capitali privati per finanziare le sue gigantesche e potentissime aziende di Stato, ma – appunto – lo fa nell’ambito di una politica industriale precisa decisa dal governo. L’operazione, però, non è che stia dando chissà che frutti, e graziarcazzo: seguire una precisa politica industriale, infatti, molto banalmente vuol dire che la remunerazione dei capitali impiegati dipende dal successo di quelle politiche industriali e dalla loro capacità di generare plusvalore; la finalità non è generare profitti in se, ma ottenere qualcosa di concreto per l’economia nazionale – che sia energia più pulita o un servizio postale più efficiente: ovviamente il tutto viene fatto e pensato in modo che possa generare dei profitti, ma non è per niente scontato e quando si dovrà decidere se i profitti fatti vanno redistribuiti tra i soci o reinvestiti, il fatto di dover perseguire una finalità concreta peserà. Insomma: chi porta capitali si accolla un certo rischio di impresa. Nel nostro modello di derisking state, come lo chiama la Gabor, l’ingresso di capitali invece ha una logica completamente diversa; se manca una politica industriale non è un caso: è semplicemente perché l’unica politica industriale che ci deve essere è quella di garantire in ogni modo che i capitali vengano remunerati adeguatamente; per il capitale finanziario non ci deve essere nessuna forma di rischio, e se questo implica trasformare un’azienda produttiva in un carrozzone inutile, pazienza. L’importante è che il dividendo sia sempre garantito: ovvio, quindi, che se i capitali possono scegliere se entrare nella compagine azionaria di un’azienda che deve rispettare una determinata politica industriale o in una dove l’unica politica industriale è riempirli di soldi, opteranno sempre per la seconda; ed ecco perché le aziende di Stato cinesi fanno fatica ad attirare capitale privato, e perché Giorgetti va col piattino in mano a Davos a svendere pezzi di Stato senza avere uno straccio di politica industriale. Qualcuno cerca di minimizzare la cosa sottolineando come, alla fine – ad esempio nel caso di ENI – si tratterebbe soltanto del 4%: in realtà, con questa logica, potrebbe anche essere l’1%; la dinamica non cambierebbe. A guidare l’azienda rimarrebbe sempre e comunque la stretta logica del capitale finanziario: la remunerazione il prossimo trimestre e chi s’è visto s’è visto.
Ma allora, se non serve ad abbattere il debito pubblico e costringe a trasformare le poche aziende decenti che ci rimangono in pure e semplici macchine da dividendi incapaci di creare valore reale per il paese, perché Giorgetti si abbassa al ruolo di mendicante per raccattare questi miseri 20 miliardi? Semplice: come per l’uscita dell’Italia dalla via della seta, è un atto plateale di sottomissione e di sudditanza, ma il masochismo come forma di piacere fine a se stessa non c’entra; molto più banalmente, Giorgetti deve assicurare le oligarchie e i grandi fondi che l’Italia è al loro servizio e che, aiutandola a rimanere in piedi, ci saranno ottimi affari per tutti. E del sostegno dei fondi per non affondare definitivamente, a breve ce ne sarà parecchio bisogno: anche quest’anno, infatti, il Tesoro italiano dovrà collocare sui mercati – che non esistono – 350 miliardi di euro di titoli di Stato. Fino all’anno scorso, una fetta consistente glieli comprava la BCE; quest’anno non solo non ne comprerà, ma venderà anche una fetta di quelli che ha già al ritmo di 7,5 miliardi al mese, e una mole del genere di titoli hanno un solo acquirente: i grandi fondi. Il resto è fuffa: il mercato, i risparmiatori… tutte leggende metropolitane. Quando il debito è a questi livelli, i titoli li possono comprare solo le banche centrali e i fondi, e siccome la nostra politica è al servizio delle oligarchie finanziarie private, la Banca Centrale ha deciso di tirare i remi in barca, cosicché il manico del coltello rimane esclusivamente in mano ai fondi che, quindi, possono pretendere dai paesi indebitati tutto quello che vogliono. Se non lo fai, i titoli non te li comprano, e loro vogliono due cose: impossessarsi dei gioielli di famiglia per spolparli per bene e che lo stato privatizzi tutti i servizi essenziali.
L’unico modo per vedere il bicchiere mezzo pieno è accontentarsi del fatto che a Davos, a quanto pare, Giorgetti il secondo tema non sembra averlo affrontato; ma la strada è tracciata e non sarà certo La Repubblichina che si riscopre statalista per il tempo di un titolone – dopo decenni passati a osannare i Rogoff, il rigore affamapopoli di Bruxelles e la lotta di classe dall’altro contro il basso condotta dai suoi editori e dai loro amicici senza esclusione di colpi – a fermarli: dalla geopolitica alla politica economica, il governo dei fintosovranisti e l’opposizione dei veri svendipatria – di comune accordo – hanno svenduto e stanno continuando a svendere gli interessi nazionali a Washington e alle oligarchie finanziarie.
Contro questo asse del male è arrivata l’ora di riorganizzare un vero fronte popolare, ampio, plurale democratico che dia di nuovo rappresentanza alla stragrande maggioranza del paese affrontando le contraddizioni alla radice: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si fondi davvero su dati solidi e informazioni reali, invece di inventarsele di sana pianta per far contente le oligarchie. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Kenneth Rogoff

L’economia cinese torna sul tavolo operatorio

“L’economia cinese è attualmente sul tavolo operatorio, con la cavità toracica spalancata, collegata a una macchina cardiopolmonare, circondata da infermieri che fissano i monitor”. Questo l’incipit di un articolo di Han Feizi, osservatore di Asia Times, che ci racconta il suo punto di vista sull’economia cinese e suoi suoi obiettivi “irrealisticamente ambiziosi”. Un po’ di ottimismo, misto al gusto per lo splatter socio-economico!

Cambiamento climatico: Chi sono gli eco-imperialisti?

Il disastro delle Marche è soltanto l’ultimo degli eventi atmosferici catastrofici che hanno caratterizzato questi ultimi mesi. La cronostoria degli eventi climatici che hanno travolto l’Africa centrale durante l’estate è un vero e proprio bollettino di guerra: dai 100 mila sfollati a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, ai 150 mila del Sudan. Secondo il coordinamento degli affari umanitari dell’ONU, il doppio rispetto soltanto all’anno scorso. In Kentucky ad agosto le inondazioni hanno causato 30 vittime, in Iran, a fine luglio, nell’arco di una settimana, 80.

Quisquilie: in Pakistan 8 cicli monsonici contro i soliti 3,4, hanno stravolto la vita di oltre 30 milioni, inondando circa un terzo dell’intero paese, e causando oltre 1500 vittime: “La peggior catastrofe umanitaria degli ultimi 15 anni” – ha dichiarato Sherry Rehman, ministro del cambiamento climatico. Perché ovviamente il tema è quello: il cambiamento climatico.

Perché se è vero che nessun evento atmosferico catastrofico può essere linearmente e semplicemente ricondotto all’innalzamento di 1,1 gradi della temperatura media globale, mettendo in fila i puntini ad un certo punto anche al ragionier Fantozzi venne un leggero sospetto.

Il bello è che il problema non è che piove troppo: è che piove troppo poco! Terna ha comunicato che la produzione idroelettrica ad agosto è calata di oltre il 40%. Idem in Cina, dove il corso principale del fiume Yangtze, che da solo da da bere a 400 milioni di persone, è arrivato ad essere il 50% più basso della media degli ultimi 10 anni e dove il calo della produzione idroelettrica ha costretto alla chiusura fabbriche-città come quella della Toyota e della Foxconn. In Germania la siccità ha reso sostanzialmente impossibile utilizzare il fiume Reno per i trasporti commerciali. Henry Ford nel 1930 aveva deciso di aprire la prima fabbrica Ford in Europa a Colonia proprio perché poteva trasportare le auto via fiume verso il porto di Anversa. Per decenni 5 navi hanno fatto la spola, trasportando 500 veicoli a volta: hanno dovuto ridurli a 150, altrimenti le navi si incagliavano. I problemi di navigabilità del Reno da soli si stima costeranno alla Germania mezzo punto di PIL tondo tondo. È la peggiore siccità da 500 anni, si stima e il record non risaliva a 50 anni fa, ma a 4, al 2018.

D’altronde, ha fatto caldino: secondo il centro europeo di monitoraggio climatico, l’estata più calda mai registrata, + 0,8 gradi rispetto anche all’anno scorso, che già aveva fatto registrare temperature record. L’unica soluzione realistica l’hanno adottata a Bajardo, in provincia di Imperia: hanno assoldato un rabdomante. “Di scientifico non c’è nulla, lo so – ha spiegato il sindaco – ma due delle nostre cinque sorgenti si sono seccate negli ultimi mesi. non sapevo dove sbattere la testa. Un po’ come quando si ha una malattia e si è disperati: si provano tutte”.

Sarebbe meglio concentrarsi sulle cose che sappiamo possono dare qualche risultato a partire da mettere in sicurezza il territorio. 

Torniamo alle Marche e a quel maledetto fiume Misa. A maggio 2018 erano state bandite due gare d’appalto per la manutenzione del fiume per complessivi 2,5 miliardi. C’erano da rifare gli argini, da togliere i detriti, da adeguare gli scarichi e le paratie, ma ad oggi i lavori sono terminati solo su una porzione minuscola rispetto al previsto. I quattrini hanno preso altre vie. Per la gestione degli appalti a giugno erano scattate le manette per ben 8 funzionari. Capi d’accusa: corruzione e turbativa d’asta. 
Più in generale è il “piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico”, che, letteralmente, fa acqua da tutte le parti. Lo ha certificato l’ottobre scorso la relazione di Rossanna Rummo, consigliera della corte dei conti: “la capacità progettuale delle regioni e la scarsa pianificazione del territorio restano criticità non risolte”. Secondo Massimo Gargano dell’associazione nazionale dei consorzi di bacino: “per ogni euro che si potrebbe spendere in prevenzione, se ne spendono cinque in interventi di emergenza”. 

Senza contare il costo inestimabile delle vittime.

I soldi, in teoria, ci sarebbero. 14,3 miliardi, stanziati ormai 4 anni fa e da spendere entro il 2030, ma ad oggi siamo al palo. In Italia quando si dice che una cosa è da fare entro solitamente significa alla cazzo di cane la settimana dopo la scadenza. Con i fondi europei, ad esempio, è la regola. È andata comunque meglio che al piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici: è stato completato nel 2017, ma è ancora in attesa di autorizzazione. Nel 1984 frane e alluvioni costarono al nostro paese 87 milioni, aggiustati al valore di oggi. Dal 2011 non si è quasi mai rimasti al di sotto del miliardo. Conto complessivo: 51 miliardi; campioni d’Europa, davanti ai 36 della Germania e ai 35 della Francia.
Insomma, al di là dei massimi sistemi ci mettiamo sempre del nostro, ma le due cose, ritardo nella lotta ai cambiamenti climatici e incapacità di adattarsi e prendere le cautele necessarie, non sono così separate come appare: entrambe sono frutto di una sistematica e in parte fisiologica sottovalutazione di cosa siamo chiamati ad affrontare. Non ci arriviamo e ancora meno ci arrivano le istituzioni delle quali la specie umana ad oggi è riuscita a dotarsi: la mano invisibile del Mercato, da un lato, e la competizione geopolitica o alleanze militari tra Stati nazionali, dall’altro, molto semplicemente non sono all’altezza e rischiano di fare buchi più grandi della toppa. In un mondo caratterizzato da disuguaglianze intollerabili, le nostre classi dirigenti, che piano piano stanno realizzando come il contrasto al cambiamento climatico non sia più rinviabile, più che ad affrontare il problema in sé, sembrano occupate a trovare il modo per scaricare tutti i costi su chi se la passa già maluccio ed aumentare i guadagni e il potere di chi se la passa già alla grande.
Poi si dice che la gente comune si rifugia nel complottismo e non accetta la verità della scienza! Ma te guarda: se strumentalizzi la scienza per trovare un altro modo per fregarci, ti dovrei dire anche bravo? Le conseguenze le abbiamo viste chiaramente noi di Ottolina. Un paio di giorni fa abbiamo pubblicato un estratto dell’intervista che avevamo fatto a luglio al climatologo Luca Mercalli.  Apriti cielo!
“Che schifo! Ma sto tipo non si rende conto di quello che dice?”; “pessima trasmissione e pessime domande”; “dal World Economic forum è tutto, a voi la linea”; “perché non dite delle scie chimiche dei jet?”; “Ottolina, state abbracciando il gretinismo e l’élite satanica del new world order?”.
Certo, uno potrebbe limitarsi a puntare il dito contro i complottismi che ostacolano le sorti progressive della scienza e del buon governo delle democrazie liberali illuminate, ma per quello c’è già Carlo Calenda.  Noi invece vorremmo provare a fare un passetto in più, perché a differenza di Carlo Calenda questa roba ci riguarda da vicino. Il punto è che la totale irresponsabilità di chi detiene il potere rischia di essere in assoluto l’ostacolo più grande in questa sfida esistenziale per la specie umana anche perché una sfida del genere non può essere vinta soltanto imponendo qualche cambiamento dall’alto, ha chiaramente bisogno di una rivoluzione copernicana nello stile di vita di ognuno, ma chiedere sacrifici a chi di sacrifici ne ha sempre fatti, mentre dall’altro lato riempi le tasche di chi le ha già stracolme e magari mi percula pure perché si nutre solo di prodotti bio a chilometro zero che costano 15 volte di più quelli del supermercato e si muove solo in bici perché tanto vive di rendita e non ha mai lavorato mezz’ora in vita sua, non solo è ingiusto, ma è proprio poco realistico.

Idem sul piano internazionale. È inutile che in campagna elettorale mi presenti il tuo libro dei sogni per la transizione ecologica, con l’impegno a tappezzare il paese di pale eoliche e pannelli fotovoltaici, e poi ti arrapi di fronte alla guerra. Se non esiste il socialismo in un solo paese, figurarsi la transizione ecologica. La lotta ai cambiamenti climatici può ottenere qualche risultato se la fanno tutti, ma se te a tutti fai la guerra commerciale, la vedo dura.

Lo hanno sottolineato chiaramente i leader dei paesi che si sono riuniti la settimana scorsa a Samarcanda per il summit annuale della Shanghai Cooperation Organization e che rappresentano metà popolazione mondiale. Hanno riconosciuto le implicazioni catastrofiche del cambiamento climatico e hanno ribadito il bisogno di adottare misure urgenti straordinarie, ma hanno anche detto che – cito -: “misure unilaterali coercitive minano seriamente la cooperazione multilaterale e indeboliscono la capacità dei singoli paesi di affrontare i cambiamenti climatici”. Tradotto: se pensate di sfruttare la catastrofe climatica per imporci misure che fanno comodo a voi e impediscono a noi di ridurre il divario nei vostri confronti, accomodatevi! 

Senza questa cooperazione multilaterale, i libri dei sogni degli ambientali imperialisti si trasformano come d’incanto in carta da cesso. Lo sa bene il ministro dell’economia e della protezione climatica tedesco, Robert Habeck, presidente del partito ambientalista e uno dei più convinti sostenitori del coinvolgimento europeo nella guerra ucraina, a causa del quale ha dovuto dare il via libera al ritorno del carbone e anche della lignite, che è la fonte energetica di gran lunga più inquinante del pianeta.
Per ripartire col piede giusto c’è solo un’opzione sensata: andare a prendere le risorse laddove ci sono, a partire dall’industria fossile, a partire dall’Italia. In Italia ad oggi Eni, Shell e Total estraggono ogni anno dal nostro sottosuolo 4,8 milioni di tonnellate di petrolio e 3,5 miliardi di metri cubi di gas, su cui dovrebbero pagare delle royalties, ma dal 1998 ad oggi lo Stato ha incassato in tutto poco più di 5 miliardi. Niente. Lo Stato italiano applica infatti royalties che vanno dal 4 al 10%. In Germania, nello Schleswig-Holstein, il principale territorio tedesco per estrazione di fonti fossili, l’aliquota è del 21, nonostante i costi di produzione siano sensibilmente superiori a quelli medi italiani. Se avessimo fatto altrettanto, oggi avremmo in cassa poco meno di 13 miliardi e ai prezzi attuali, con 13 miliardi, ci fai nuovi impianti per 15 GW, il 12,4% della potenza lorda attualmente installata.

Che ci fanno un po’ schifo si può dire o anche quello è complottismo?