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Tag: proteste

Israele ruba gli organi dei palestinesi?

Prosegue la protesta degli studenti nelle università e nelle piazze contro Israele. Oggi torna ad Ottolina Dalia dei Giovani Palestinesi per raccontarci come procede la mobilitazione in Italia e nel mondo, quali sono gli obiettivi degli studenti e perché è fondamentale interrompere i rapporti con le università israeliane. L’intera economia israeliana ruota attorno la guerra e la repressione; le borse di studio e il turismo vogliono normalizzare un regime di apartheid; è quindi fondamentale che gli occhi del mondo rimangano puntati su quanto accade a Gaza e dire no al genocidio.

#Gaza #Palestina #FreePalestine #GiovaniPalestinesi

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

LIVE – La feroce repressione che sta colpendo gli studenti proPal nel silenzio generale

Collegamento live con gli studenti dell’università La Sapienza di Roma per gli ultimi aggiornamenti sulle proteste che li vedono impegnati.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Le proteste ProPal rompono l’egemonia liberale sull’Occidente – Ft. Paolo Borioni

Oggi il nostro Gabriele intervista Paolo Borioni per parlare delle proteste #ProPal in Europa. Dopo una prima analisi sul caso tedesco e sul più generale funzionamento europeo, il discorso si sposta sulla acampada a La Sapienza di Roma, dove Borioni è insegnante e si confronta quotidianamente con gli studenti. Le proteste a favore della Palestina segnano la riapertura di un dissenso sociale in Italia come non si vedeva da decenni. Il movimento studentesco si allarga e procede per tentativi, cercando di ritrovare la forza di aprire nuovi spazi di democrazia e dialogo. La democrazia diventa quindi scontro-confronto, dialogo tra diversi e momento di crescita sociale e politico in cui le nuove generazioni (rarefatte demograficamente, sfiduciate politicamente e con tante incertezze economiche) cercano la chiave per farsi sentire dalle istituzioni e influenzare i processi decisionali. Buona visione!

#ProPal #acampada #università #NoGenocidio

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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La Palestina è il nuovo Vietnam: i governi europei scatenano una brutale repressione

La protesta studentesca dilaga in tutta Europa e Nord America: era dai tempi del Vietnam che non si vedeva una mobilitazione così massiccia degli studenti, dei sindacati e del movimento progressista. L’impero vacilla davanti al dilagare delle manifestazioni di solidarietà e l’ordine mondiale imperialista viene minacciato fuori casa dai BRICS e dentro casa dall’incipiente lotta sociale. Intanto la polizia in Texas, in California, a Pisa o Torino picchia gli studenti, a La Spezia un comune cittadino viene identificato per un cartello contro la NATO fuori dalla finestra e una ragazza viene fermata e messa in arresto da sette agenti in borghese per una bandiera palestinese sulle spalle, mentre protestava all’arrivo del Giro d’Italia. L’impero colpisce ancora e la scure repressiva taglia la testa al movimento anti-coloniale e anti-sionista. Buona visione!

#Palestina #Gaza #Vietnam #ProtesteStudentesche

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Global Southurday – La guerra incombe – Ft. Alberto Fazolo

Oggi il nostro Gabriele intervista Alberto Fazolo per il consueto appuntamento del sabato. Si parlerà di proteste nelle università USA, forniture di armi all’Ucraina, guerra economica (sanzioni e nazionalizzazioni), la visita di Xi a Belgrado e trattative per un cessate il fuoco a Gaza. Sullo sfondo il grande cambiamento avvenuto nel mondo negli ultimi venticinque anni; gli USA non sono più lo sceriffo del mondo e devono fare i conti con il suo assetto multipolare e l’ascesa cinese. Buona visione!

#Gaza #proteste #USA #Cina #Ucraina #Biden

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LIVE – Le proteste che terrorizzano il governo Meloni… e non solo

Gabriele Germani si collegherà con gli studenti dell’università La Sapienza di Roma per una rapida panoramica sulle iniziative a sostegno del popolo palestinese.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Fardelli d’Italia (ep. 11) – L’Italia è complice del genocidio? – con @PaeseReale

Oggi, nell’undicesima puntata di Fardelli d’Italia, rubrica settimanale di Paese Reale per Ottolina Tv, parliamo delle proteste degli studenti sulle collaborazioni delle università italiane con gli atenei israeliani e dell’annoso tema giovanile della crescita del consumo delle droghe. Buona visione

L’Occidente in panico per il trionfo di Putin reagisce a suon di fake news e leggende metropolitane

I media occidentali non sembrano avere dubbi: sapete chi è stato il vero vincitore delle elezioni in Russia? Alexander Navalny! Lo sapevo! Hai presente quando ti ritrovi a un megapranzo di famiglia e c’è il parente scemo – e anche un po’ antipatichello – e non si capisce bene per quale motivo sei un po’ in apprensione perché temi si metta in imbarazzo da solo con qualche discorso a cippadicazzo? Ecco, il mio mood per tutto il weekend è stato esattamente quello: speravo che i nostri giornali, per elaborare il lutto del trionfo elettorale di Putin, non si inventassero qualche megastronzata galattica delle loro che ci fa apparire sempre di più lo zimbello dell’universo mondo, ma la speranza è durata pochino. Il primo episodio, che ormai conoscerete già tutti, è quello di questo video; tra i primi a ripostarlo in Italia è l’infallibile Daniele Angrisani, uno dei più brillanti e acuti giornalisti d’inchiesta della penisola, firma di punta della sempre puntualissima e scrupolosissima Fanpage e arcinoto nel microcosmo dei NAFO più intransigenti per il suo incrollabile ottimismo che, in passato, l’ha portato ad affermare che “La Russia ha già perso la guerra”(maggio 2022), che “La Russia può e deve essere sconfitta militarmente” (settembre 2022)

e che ci sono ben “Otto motivi per cui l’Ucraina può vincere la guerra nel 2023 (dicembre 2022). Il video condiviso da Angrisani riprenderebbe un militare russo che entra in fretta e furia in un seggio e poi si affaccia in due cabine elettorali “chiedendo cortesemente”, sottolinea Angrisani, “di vedere il voto”, ma così a occhio non sembra esattamente convincentissimo, diciamo: solo per rimanere alle cose più eclatanti, infatti, si nota immediatamente che dentro le cabine manca un piano dove appoggiarsi per scrivere sulla scheda e, all’arrivo del militare, le persone che stanno votando non hanno nessunissima reazione; manco si girano. Nonostante il controllo poliziesco, chi sta riprendendo inquadra la scena in maniera perfetta, senza muoversi di un millimetro e quindi, si presume, è perfettamente visibile dal militare che, però, non ha niente da ridire e che entra in scena esattamente al momento giusto dal lato giusto; manca solo una vocina che dica ciak, si gira: potevano fare di meglio, diciamo, ma tanto – avranno pensato – con tutti st’invasati che girano su Twitter un Angrisani che se la beve, in Occidente, lo troviamo di sicuro lo stesso.
Il problema è che, oltre a un Angrisani qualsiasi, a crederci – o a sperare che ci creda chi li segue – sono anche parecchi altri e il video, così, viene trasmesso da tutti i principali tg nazionali, da La7 a RAI 1, e quando è montata l’indignazione ecco che, immancabile, è arrivato anche il MacGiver del debunking, David 7cervelli Puente che, irreprensibile come sempre, ha denunciato come “La propaganda russa si sta impegnando per far passare il video come falso e fabbricato da parte degli ucraini, ma le prove fornite risultano deboli”. Quelle a sostegno dell’autenticità, invece, sono inossidabili: “Diversamente da altri casi verificati” ammette lo stesso Puente “il video non risulta geograficamente individuabile” e “non si conosce” né “l’esatta ubicazione del seggio”, né “in quale giorno sia accaduto il presunto episodio”; inoltre, riporta sempre Puente, l’account che ha caricato il video per primo sul social VK non è più presente, ma sono tutti dettagli che per alzare un polverone a caso sullo svolgimento del voto russo, evidentemente, possono essere trascurati e, purtroppo, questa trashata era destinata a non essere altro che un piccolo antipastino del delirio che sarebbe seguito.
Carissimi Ottoliner, ben ritrovati: oggi vi allieteremo con un altro entusiasmante racconto della cripta della post verità; prima di andare oltre, però, ricordatevi di mettere un like per aiutarci nella nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e anche di iscrivervi e di attivare le notifiche su tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese – e così vediamo se insieme riusciamo a rompere l’oscurità della propaganda che ci circonda.
Durante tutto il weekend, mano a mano che cominciavano ad arrivare i primi dati che facevano odorare un’affluenza record alle urne in tutta la Russia, passo dopo passo la propaganda suprematista metteva le basi per la sua sceneggiata da oscar ricalcando la tecnica propagandistica sviluppata in mesi e mesi di sconfitte eclatanti sul fronte ucraino e che affonda le sue radici nella teoria della macchina del fango dell’FBI di Hoover: di fronte a un evento dall’esito scontato e di un’entità che rende impossibile ignorarlo tout court, si tenta di creare una narrazione ad hoc che miri perlomeno a ridurre la portata e l’impatto dell’evento stesso; una realtà parallela costruita ad hoc dove una cacatina ininfluente, sufficientemente gonfiata, distoglie l’attenzione dall’evento che si vuole dissimulare e permette di creare una cortina fumogena all’interno della quale è possibile continuare a sostenere una narrazione palesemente irrealistica, almeno di fronte al pubblico più distratto o ideologicamente più favorevolmente orientato. E’ esattamente quello che si è cercato di ottenere con le varie operazioni mediatiche sul fronte ucraino – dallo sbarco di qualche disperato a bordo di qualche barchino sulla riva orientale dello Dnepr spacciata per potenziale testa di ponte, agli attacchi suicidi dei lettori di Kant in quel di Belgorod. A questo giro, a mettere le basi della brillante strategia che avrebbe permesso alla gigantesca macchina propagandistica dell’Occidente collettivo di negare il trionfo di Putin qualsiasi fosse stato il risultato, c’aveva pensato lo stesso Navalny nella sua ultimissima apparizione: si chiamava Mezzogiorno contro Putin e consisteva, molto banalmente, nel recarsi alle urne alle 12 di domenica. A fare cosa? Assolutamente niente. E come si sarebbero riconosciuti? Ma in nessunissimo modo, ovviamente: un po’ come se io ora organizzassi un boicottaggio contro Carrefour, accusata di commerciare prodotti che arrivano direttamente dai territori occupati illegalmente da Israele, e dessi appuntamento ai protestatari in qualche catena concorrente nell’ora di punta di un giorno che precede una festività importante senza indicare, appunto, nessuna azione da fare e nessun segno distintivo; poi, all’ora X, faccio un po’ di foto alle code che si formano inevitabilmente a quell’ora (protesta o non protesta) e con la connivenza dei media le spaccio per la prova del grande successo della mia protesta. Gli italiani boicottano Carrefour. Alla vigilia di Natale migliaia di persona in fila alla Conad e alla Coop in sostegno alla campagna lanciata da Ottolina Tv: come presa per il culo sembra un po’ troppo spregiudicata; eppure è esattamente quello che è successo con queste elezioni.
A dare il la, già domenica, c’aveva pensato l’Economist: La farsa della rielezione di Vladimir Putin – titolavaè degna di nota solo per le proteste; in serata, Reuters riportava le parole di Leonid Volkov, l’”aiutante di Navalny in esilio che è stato attaccato con un martello la scorsa settimana a Vilnius” e che, sottolinea Reuters, “stima che centinaia di migliaia di persone si siano recate ai seggi elettorali a Mosca, San Pietroburgo, Ekaterinburg e in altre città”. “Reuters” però, purtroppo – sottolinea l’articolo con una forma davvero apprezzabile di autoironia british involontaria – “non ha potuto verificare in modo indipendente tale stima”, però, aggiunge, “giornalisti Reuters hanno notato code di diverse centinaia di persone, in alcuni luoghi anche migliaia”; peccato si fossero dimenticati il telefonino a casa e, alla fine, la foto più esplicativa che sono riusciti a recuperare è questa. Ciononostante, ieri mattina sui giornali italiani la grande mobilitazione delle bimbe di Navalny dominava la scena in modo totalmente bipartisan: Migliaia di persone si sono radunate davanti ai seggi per il mezzogiorno contro Putin titolava Il Domani; Code per Navalny – rilanciava Libero – “I sostenitori dell’attivista in massa ai seggi alla stessa ora”. “Le immagini che Vladimir Putin e i suoi sodali non avrebbero mai voluto vedere” riporta concitato Roberto Fabbri sul Giornanale “hanno fatto il giro del mondo”: “Code di centinaia di metri” insiste, “nonostante rischino perfino anni di carcere”; ma che dico anni, millenni! E che dico centinaia di metri di coda: decine di migliaia di chilometri, che dimostrano chiaramente “il coraggio di chi resiste nel regime che uccide l’opposizione”. “Un sassolino nella macchina da guerra del trionfo annunciato di Vladimir Putin” rilancia sempre sul Giornanale Andrea Cuomo che, di solito, quando parla di sassolino si riferisce al liquore (visto che si occupa di enogastronomia), ma – d’altronde – per fare un po’ di propaganda spiccia con vaccate del genere non è che serva un master in relazioni internazionali, diciamo; basta un po’ di estro creativo che a Cuomo, onestamente, non manca: questo, continua infatti ispiratissimo, “è un sassolino che fa rumore”, un rumore che “per lo Zar che, salute permettendo, resterà al Cremlino fino al 2030 è fastidioso”, ma che “per i russi e per buona parte del mondo” è “una sottile melodia di libertà”.
Anche Marco Imarisio sul Corriere della serva era partito col caricatore della retorica bello pieno; strada facendo, però, gli deve essere montato qualche dubbio e dalle centinaia di migliaia di persone citate da Reuters, passa a un più modesto e realistico “Piccolo incremento di presenze ai seggi attorno alle 12” per poi ammettere che le immagini divulgate dall’opposizione “mostrano assembramenti di dimensione contenuta che solo con un notevole sforzo di fantasia possono essere definiti una moltitudine”. Fantasia che, evidentemente, al nostro esperto di enogastronomia del Giornanale non manca: “Una forma di obiezione non illegale, ma comunque clamorosa” – sottolinea – e per la quale, continua con la solita enfasi poetica, “ci voleva coraggio, ma questo al fiero popolo russo non manca di certo”.
Ora, non so se si possa parlare di coraggio, ma che siano fieri mi pare indubbio: come spesso capita ai popoli che si sentono accerchiati, i russi, invece che arretrare, sembrano piuttosto aver voluto rilanciare con decisione e, per farlo, hanno dato un mandato pieno al loro presidente che più pieno non si può perché, ovviamente, sull’esito del voto dubbi non ce ne erano; ma sminuire il fatto che si sia recato alle urne il maggior numero di elettori in assoluto dalla fine dell’Unione Sovietica, ho come l’impressione che potrebbe impedire, ancora una volta, di farci un’idea minimamente sensata di cosa stia accadendo in Russia. Con l’88% del 78% degli aventi diritto che si è recato alle urne, Putin conferma di essere uno dei leader contemporanei con in assoluto il maggior sostegno popolare al mondo, soprattutto se confrontato con la stragrande maggioranza dei leader occidentali, dove non solo quel livello di consenso non viene nemmeno sfiorato da nessun leader, ma nemmeno dalla somma dei consensi di tutte le varie fazioni del partito unico della guerra e degli affari. I consensi per i leader al governo nei vari paesi occidentali, infatti, sono ormai praticamente sistematicamente al di sotto della maggioranza (e, spesso, manco di poco): secondo i dati di Morning Consult, a parte Berset in Svizzera e Tusk in Polonia (che gode ancora dei fasti delle ormai sempre più brevi lune di miele tra elettorato e leader neoeletti), quella messa meno peggio sarebbe proprio la nostra Giorgia Meloni con il 44% di approvazioni; Biden sarebbe al 37, Sunak al 27, Macron al 24 e Scholz addirittura sotto al 20 che, a ben vedere, è una situazione meno paradossale di quanto possa apparire; come sottolinea sempre il nostro guru Michael Hudson, infatti, da quando è finita la democrazia moderna e siamo entrati nell’era della distopia neoliberista, abbiamo imparato a definire autocratici tutti i regimi che hanno ancora abbastanza potere da tenere a bada gli appetiti delle oligarchie, mentre definiamo democrazie tutti quei regimi dove le oligarchie dettano legge incontrastate e i rappresentanti politici sono relegati al ruolo di utili idioti che si prendono gli insulti dalla gente per aver messo la faccia nelle varie azioni di rapina condotte in nome dei loro datori di lavoro. Da questo punto di vista, quindi, i leader occidentali sono i rappresentanti dell’1% contro il 99 e, quindi, che riescano comunque ad avere tassi di approvazione a doppia cifra è già un mezzo miracolo, in buona parte dovuto al ruolo che continuano a svolgere la propaganda e i mezzi di disinformazione di massa.
Discorso diametralmente opposto, invece, per i leader dei paesi che definiamo autocratici, che non derivano il loro potere dalle oligarchie, ma – in qualche misura – si potrebbe dire, appunto, dal popolo contro le oligarchie; e quindi, da questo punto di vista, che i leader che noi definiamo autocratici – da Putin a Xi Jinping, da Maduro a Raisi – registrino un sostegno, appunto, non solo maggiore rispetto a qualche singolo leader occidentale, ma – più in generale – alla somma di tutti i leader occidentali, sembra essere un dato piuttosto normale e strutturale.
Ma se ancora servisse un’altra prova provata della strutturale debolezza delle opposizioni filo occidentali (e quindi, volenti o nolenti, filo oligarchiche) all’interno delle autocrazie, in generale – e di quella russa, in particolare – basta vedere il risultato dell’unica new entry della politica russa, il giovane Vladislav Davankov, candidato presidenziale del piccolo partito liberale Nuova Gente, un liberale con caratteristiche russe che non si presta, in realtà, a rappresentare davvero il voto dei dissidenti, ma che, ciononostante – proprio in quanto quarto parzialmente incomodo – era stato indicato proprio dai dissidenti come la meno peggio delle alternative; che su di lui siano confluiti i voti dei giovani liberali cosmopoliti lo dimostra il fatto che nelle grandi metropoli europee, sia Mosca che San Pietroburgo, ha ottenuto i risultati di gran lunga migliori con, rispettivamente, il 6,6 e il 7%. A livello nazionale, però, si è fermato al 3,9, appena una manciata di voti in più rispetto a quelli ottenuti dal suo partito alle elezioni parlamentari del 2021. Insomma: il peso della dissidenza filo occidentale antiputin si pesa, ad essere generosi, in qualche centinaio di migliaia di voti quasi tutti concentrati nelle grandi metropoli europee, ma ciononostante, insiste Vittorio Da Rold sul Domani, “Il segnale per il Cremlino è forte e chiaro: c’è un forte malcontento verso Vladimir Putin che cerca solo un catalizzatore politico interno o una crisi esterna per esplodere”; non a caso Da Rold, come sottolinea orgoglioso in ogni sua biografia che si trova online, è Media Leader del World Economic Forum, che vuol dire essersi dimostrato sufficientemente allineato con gli interessi delle oligarchie da godere della loro fiducia per moderare gli eventi più importanti del loro salotto buono.
“La folla, e quindi le immagini feticcio dall’effetto balsamico per le illusioni occidentali” conclude amaramente Imarisio sul Corriere della Serva “c’è stata, ma altrove, lontano dalla Russia”: quando davvero ci sbarazzeremo definitivamente della nostra supponenza coloniale e impareremo a conoscere e a rispettare gli altri popoli per quello che sono realmente – e non per quello che dovrebbero essere per permettere alle nostre oligarchie e ai loro leccapiedi di continuare a vivere al di sopra delle loro possibilità – una bella fetta della grande rivoluzione verso un nuovo ordine multipolare sarà già fatta; per arrivarci, prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media nuovo di zecca che, invece che all’arroganza del miliardo d’oro, dia voce agli interessi concreti del 99% del pianeta. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

Ecco come Le OLIGARCHIE neoliberali SOFFOCANO le PROTESTE in ITALIA ft. Filippo Barbera

Con una retorica finto – buonista e finto – pacifista negli ultimi decenni in Italia la mobilitazione popolare e la partecipazione di massa alla politica è praticamente morta a colpi di neoliberismo e attacchi alle democrazia. Ogni conflittualità dal basso verso l’alto è stata demonizzata e soffocata sul nascere. Filippo Barbera, uno dei più importanti sociologi contemporanei, ci spiega come uscire da questa situazione suicida.

Fardelli d’italia ep. 3 – L’onda alta DI Sanremo travolge il governo? – con PaeseReale 

Sono bastate un paio di parole dette sul palco di Sanremo per far crollare il castello di carte della narrazione atlantista sulla Palestina. Ghali e Dargen i pericolosi “sovversivi”… nel frattempo il governo Meloni risponde nell’unico modo che conosce: il manganello.

PIAZZE PIENE: gli italiani si stanno finalmente rivoltando?

In questi giorni abbiamo tutti davanti agli occhi le immagini degli agricoltori che mettono a ferro e fuoco la piazza del Parlamento Europeo: la ragione è protestare contro le politiche comunitarie che da decenni danneggiano le produzioni agricole nazionali. E non è certo un caso isolato: dalla Francia alla Germania agli Stati Uniti, negli ultimi due anni stanno finalmente tornando le mobilitazioni e le proteste di piazza. È da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, infatti, che la storia sembra essersi rimessa in moto e che anche i popoli occidentali sembrano essersi come risvegliati dallo spaesamento generale e dalla passività generalizzata; anche gli italiani, alla faccia dei disfattismi snob e del pessimismo di maniera, dalle manifestazioni femministe a quelle contro il massacro del popolo palestinese – passando per la rivolta dei trattori di questi giorni – sembrano finalmente essersi rimessi in marcia. Certo, siamo ancora lontani dalle proteste e dalle mobilitazioni sociali a cui eravamo abituati nel Novecento, ma l’impressione è che una fiamma sia finalmente rinata da sotto le ceneri e – la nostra convinzione – è che sia destinata solamente a ingrandirsi.

Filippo Barbera

Non sarà un processo né semplice né scontato: tre decenni abbondanti di cultura neoliberista hanno infatti minato alla radice la portata di quel grande dispositivo democratico che è la mobilitazione popolare di massa; è quello che sostiene anche Filippo Barbera, professore di sociologia all’Università di Torino, nel suo Le piazze vuote, ritrovare gli spazi della politica dove, però, ci vengono indicate anche alcune ricette pratiche per invertire definitivamente questa tendenza. Una riflessione più che mai necessaria proprio in questo periodo, ora che il dominio incontrastato delle oligarchie mostra ogni giorno di più tutte le sue contraddizioni e tutta la sua insostenibilità; senza un ritorno al conflitto sociale non potrà mai esserci nessun autentico risveglio democratico e il futuro, per quanto incerto, rimarrà proprietà dei sempre più pochi che potranno comprarselo.
“Peccare di silenzio, quando bisognerebbe protestare, fa di un uomo un codardo” affermava una volta la poetessa americana Ella Wheeler Wilcox: in questi giorni, decine di migliaia di agricoltori e piccoli imprenditori del settore agricolo si stanno riversando per le strade di tutta Europa per protestare contro le politiche suicide che da decenni, in nome del libero mercato, i governi stanno conducendo contro le produzioni agricole nazionali. In Italia, martedì scorso sono arrivate persone da tutta la Lombardia a Melegnano dando il via a un presidio, durato 5 giorni e 5 notti, per rivendicare una reale tutela dei prodotti nazionali e per opporsi all’aumento del prezzo del gasolio; sia i governi nazionali che l’Unione Europea, spaventati dalla portata di queste proteste, si stanno adoperando in fretta e furia per capire come arginare la rivolta venendo incontro alle loro richieste. Tutto questo ci dovrebbe essere di grande insegnamento, perché se la stessa forza e determinazione degli agricoltori fosse stata dimostrata negli scorsi anni da tutti per protestare contro l’abolizione del reddito di cittadinanza, il taglio delle pensioni e, in generale, contro lo smantellamento dello stato sociale e della nostra sovranità democratica, probabilmente non ci troveremmo nel disastro attuale. Ma come mai questo non è avvenuto?
Come ha scritto più volte anche la filosofa Donatella di Cesare, da anni il pensiero dominante neo -liberale di destra e sinistra cerca di demonizzare le mobilitazioni di piazza facendole apparire intrinsecamente inutili, così da scoraggiare qualsiasi forma di protesta anche contro le riforme più profondamente antidemocratiche e antipopolari; in verità, invece di ascoltare i soliti inni alla resilienza e all’inutilità dell’azione, dovremmo ficcarci in testa che nella storia sono da sempre solo e soltanto le rivolte popolari ad aver creato le occasioni di una vera rigenerazione politica. Rispetto al Novecento, però, oggi ci troviamo di fronte ad alcune difficoltà tutte nuove e difficilmente aggirabili e la prima, fondamentale, è la capacità di individuare con chiarezza chi sia concretamente il nemico sociale e il giusto bersaglio delle nostre potenziali mobilitazioni. Una prima domanda che ci dobbiamo porre è: chi detiene davvero oggi il potere? “Siamo abituati a concepire la rivoluzione in termini molto novecenteschi, in cui si cerca un luogo, un Palazzo d’inverno, dove prendere il potere” scrive, appunto, su Jacobin Italia Donatella di Cesare, “ma oggi” continua “c’è una difficoltà a individuare il potere perché non ha volto e indirizzo. Come va attaccato il potere? Oppure non va attaccato ma destituito? O il punto è tentare di sottrarsi al potere?”

Donatella di Cesare

Con la crisi della sovranità democratica degli stati nazionali che, nel novecento, hanno rappresentato il teatro per eccellenza dei conflitti sociali, e con l’avvento di un’oligarchia transnazionale abilissima a nascondersi dietro presunti anonimi meccanismi di mercato, negli ultimi anni era diventato sempre più difficile per la gente comune individuare il reale potere da combattere, ma con lo scoppio della guerra in Ucraina e le nuove prospettive multipolari che si stanno affacciando, sta diventando sempre più chiaro ai popoli europei che sono l’imperialismo americano con l’esportazione della sua cultura neoliberista e il potere economico delle sue oligarchie finanziare a dover essere considerate oggi come il nemico principale, così come sempre più chiara si fa la necessità di abbattere o trasformare radicalmente le istituzioni internazionali strumentali a questo dominio. Oltre a queste trasformazioni del potere, il sociologo Filippo Barbera dà un’ulteriore spiegazione dell’impoverimento della partecipazione politica attiva e della mancanza di conflittualità sociale dal basso: nel suo ultimo libro Piazze vuote, Barbera fa infatti un’analisi della contrazione degli spazi pubblici in Italia, sia mentali che – soprattutto – fisici; un tema, quello degli spazi e dei luoghi fisici dove la politica democratica può concretamente svolgersi, costantemente sottovalutato dal dibattito pubblico.
Nell’epoca fordista il capitalismo industriale era incorporato dalla fabbrica e questo spazio, costruito per controllare e sfruttare in maniera scientifica il lavoro umano, ha incubato il movimento operaio e ha portato questo gruppo sociale a sviluppare forme di riconoscimento, solidarietà, e identificazione politica; le trasformazioni tecnologiche e organizzative del capitalismo neoliberista hanno mutato profondamente questo scenario frammentando il processo di produzione e, di fatto, impedendo la creazione di una coscienza collettiva comune nei nuovi dominati. Ma le sofferenze e le rivendicazioni individuali, riflette Barbera, non potranno mai tradursi in un senso politico comune se mancano gli spazi che creano condivisione e legami sociali. Viviamo nell’epoca in cui tutto, anche la politica, sembra oramai poter vivere in dimensioni immateriali e digitali, ma il senso comune che si crea in questi spazi è inevitabilmente creato artificialmente e manipolato da chi media e social media li controlla: “Se manca l’intermediazione politica, la narrazione unificante, gli spazi pubblici e organizzativi – in altre parole se manca la politica -“ afferma Barbera in un’intervista rilasciata alla testata Esquire “il bisogno di futuro rimarrà inevaso o, al meglio, imposto da chi ha verso chi non ha”. E sinceramente, conclude Barbera “ un mondo dove il futuro prende la forma dei desideri solo di Elon Musk… non mi piacerebbe”; intendiamoci – precisa Barbera – oggi non è che non ci si veda più dal vivo, ma tuttavia la nostre interazioni in presenza hanno sempre meno una finalità politica, consistono cioè sempre meno in un rituale dove si esprime un noi collettivo e una volontà condivisa di trasformare la realtà in cui si vive. “Dalla movida al deserto il passo è stato breve” continua Barbera; si è passati cioè in modo quasi automatico “dalla privatizzazione degli spazi in forma di birrette e spritz come argine a una generazione angosciata da prospettive future nerissime, alla teorizzazione dello spazio digitale quale unico vero spazio di partecipazione” e questo processo ha comportato “un’individualizzazione estrema che diviene un abbandono del corpo, del proprio come di quello collettivo.”
Ad andare in crisi, oltre agli spazi pubblici come centri sociali, case del popolo, consigli di fabbrica, etc. etc., sono stati anche partiti, associazioni, gruppi e centri di ricerca, ossia gli spazi organizzativi intermedi in cui si formavano e selezionavano anche le classi dirigenti e questo, oltre che scoraggiare la partecipazione attiva e creare un senso comune completamente artificiale, ha comportato un generale impoverimento e abbassamento della qualità delle classi dirigenti. Il confronto tra il presente e quanto accadeva al tempo della Prima Repubblica è impietoso: allora, scrive Barbera, “il discorso politico era il terminale ultimo di un lungo percorso preparatorio di elaborazione dove politici, intellettuali e pezzi della classe dirigente lavoravano alla messa a punto di temi e argomenti in tempi e spazi dedicati”. Ma cosa resta, quindi, della partecipazione al potere dei cittadini quando la si priva di relazioni, spazi comuni e corpi intermedi? “Rimane solo la possibilità di comprarsela” risponde Barbera: rimane l’idea astratta del cittadino liberale e cosmopolita, dove le appartenenze culturali e il rapporto con la comunità circostante devono essere abbandonati. Dopo questa analisi severa ma senz’altro giusta, Barbera cerca poi di capire le condizioni per rendere possibile una nuova ondata di cittadinanza attiva e per la costruzione di un noi collettivo orientato al conflitto sociale: anzitutto, dunque, serve la fisicità; lo stare fisicamente insieme crea infatti obiettivi e ruoli condivisi tra persone che non si limitano a esercitare il conflitto come pura rivendicazione di diritti individuali – come avviene in gran parte oggi – ma si attivano collettivamente per l’innovazione sociale.

A questa descrizione corrispondono, ad esempio, le esperienze del collettivo di fabbrica GKN che, oltre ad essere diventato un vero e proprio laboratorio sociale, ha anche scritto un piano industriale assieme a un gruppo di accademici solidali e insieme alle comunità nelle aree abbandonate dalle multinazionali energetiche: queste esperienze sono esempi di come una domanda di futuro possa costituirsi al di fuori dei meccanismi politici ed economici neoliberisti. Tuttavia la domanda non basta: le piazze piene sono condizione necessaria ma non sufficiente per il cambiamento e quello che serve, in altre parole, è la politica rappresentativa – partiti, sindacati, ma anche movimenti e strutture che non si limitano all’azione dimostrativa, ma praticano il conflitto in forme costruttive e che siano in grado di costruire concretamente quel contrasto del quale gli ultimi hanno sempre avuto bisogno per trasformare le loro rivendicazioni in una progettualità concreta. E precondizione per tutto questo: un vero e proprio media, indipendente ma di parte, che dia voce concreta alla lotta 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elon Musk

È finita la pacchia: la mobilitazione globale per cacciare i parassiti del neocolonialismo

Questa è Milano, sabato scorso. Solo nel capoluogo lombardo è la quarta manifestazione di solidarietà alla lotta di liberazione del popolo palestinese nell’arco di meno di un mese. Per il terzo weekend di fila, anche questa settimana l’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi ha invaso le piazze di una bella fetta del bel paese.
Questa è Napoli, davanti al consolato USA.

Addirittura a Varese sono scesi in piazza, che non è che ce l’abbiano proprio di abitudine, come d’altronde a Verona, ad Ancona, a Modena, a Mestre, a Trento, a Brescia, a Parma, ad Ancona; addirittura ad Aosta e anche – pensate un po’ – in Molise, sia ad Isernia che a Campobasso. E a Trieste avevamo addirittura un’inviata per Ottolina:

Insomma: non c’è aggregato di più di 20 edifici adibiti ad abitazione civile che non abbia messo insieme un numero sufficiente di persone da occupare qualche strada o qualche piazza e dire chiaramente che a questo giro non ci stiamo, e l’Italia è una goccia nell’oceano; tutto il mondo islamico è in subbuglio da oltre un mese, dal Marocco all’Indonesia. A Londra, sabato scorso, si è tenuta la più grande manifestazione dai tempi della guerra in Iraq nel 2003. Negli USA, sempre nella sola giornata di sabato, si sono tenute centinaia di manifestazioni in tutto il paese, compresa un’irruzione nella sede del New York Times e pure in quella di BlackRock.

Ormai non c’è angolo del pianeta dove non si manifesti quotidianamente contro la politica genocida di Israele e del suo bodyguard globale a stelle e strisce: un movimento globale gigantesco che non si vedeva da oltre 20 anni, durante i quali abbiamo assistito all’escalation di violenza dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo senza battere ciglio diventandone, per quanto involontariamente, complici. Oggi è un po’ come se i martiri di Gaza ci stessero fornendo l’ultima possibilità per prendere le distanze – come società civile – dai colpi di coda dell’impero in declino, disposto a distruggere il pianeta piuttosto di concedere finalmente a vecchie e nuove colonie il ruolo che gli spetta nel pianeta. Riusciremo ad approfittarne?

Le manifestazioni più imponenti, ovviamente, hanno riguardato tutto il mondo islamico a partire proprio dai paesi che più sono stati tentati dalla strategia USA – inaugurata da Trump e perseguita senza distinguo da Biden – di avvicinamento tra forze di occupazione israeliane e gli storici client state di Washington. A partire, ovviamente, dalla Giordania dove, da oltre un mese, è in corso un braccio di ferro all’ultimo sangue tra folle inferocite e forze dell’ordine in preda al panico, che è sfociato nell’arresto di migliaia di manifestanti. Manifestazioni imponenti si sono svolte anche in Marocco e in Bahrein, firmatari del famigerato Accordo di Abramo e avanguardie nella svendita del popolo arabo ai progetti egemonici made in USA. Manifestazioni senza precedenti si sono svolte dal Pakistan alla Malesia, passando per l’Indonesia, e questa invece è l’incredibile scena che si è trovato di fronte chi domenica scorsa Al Cairo pensava di andare allo stadio per godersi una normale partita: un intero stadio che all’unisono gridava “Daremo la nostra vita e la nostra anima per la Palestina”. Ma il mondo islamico non è certo isolato: manifestazioni oceaniche si sono registrate in Brasile, in Sudafrica, in Nigeria, in Thailandia. Tra i pochissimi fuori dall’Occidente collettivo ad essersi azzerbinati totalmente alla politica genocida di Israele c’è l’India di Modi, che sulla repressione violenta di tutto ciò che odora anche solo lontanamente di Islam ha fondato la sua intera carriera politica; potrebbe non essere stata una scelta proprio oculatissima. Questa, ad esempio, è Trivandrum, la capitale del piccolo stato meridionale del Kerala. Hanno addirittura azzardato a imbastire un collegamento virtuale nientepopodimeno che con Khaled Mashel, leader storico di Hamas. Ma se l’indignazione per la carneficina israeliana foraggiata da Washington ha unito ulteriormente il Sud globale, quello che forse conta ancora di più è che sta aprendo una breccia gigantesca anche sull’altro lato della barricata; in Francia, a un certo punto, avevano avuto la brillante idea le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei bambini trucidati a Gaza addirittura di vietarle. Hanno arrestato un sindacalista e una storica attivista franco – palestinese, ma alla fine hanno dovuto fare marcia indietro e questa era Parigi sabato. E questa invece era Berlino, nonostante – al giro prima – le forze dell’ordine avevano fatto sapere di non gradire molto con cariche indiscriminate e centinaia di arresti:

Questa invece era Londra, sempre sabato scorso: 300 mila secondo la polizia, 800 mila secondo gli organizzatori ma poco importa. Il punto è che non si vedeva una roba del genere dal 2003 quando, come oggi, eravamo tutti contenti di dare il nostro contributo allo sterminio indiscriminato di bambini arabi – però in quel caso, nello specifico, iracheni:

A Barcellona i portuali si sono rifiutati di far transitare armi destinate al genocidio come d’altronde anche a Genova, da dove hanno lanciato un appello agli altri colleghi sparpagliati nei porti europei che hanno subito aderito, dalla Grecia alla Turchia, passando per l’Australia:

A Sidney, infatti, si è tenuta una delle dimostrazioni più pittoresche di questi giorni quando, al porto di Botany, si sono radunati centinaia di manifestanti, molti dei quali a cavallo di moto d’acqua: l’obiettivo di tutte queste manifestazioni è ostacolare l’attività del gigante israeliano delle spedizioni internazionali ZIM, accusata di trasportare una fetta delle armi utilizzate per sterminare i bambini arabi della striscia. “Il membro del sindacato Paddy Gibson” riporta l’australiana ABCNews “ha detto che gli organizzatori convocheranno una protesta simile ogni volta che una nave ZIM proverà ad attraccare al porto di Botany”. Sempre secondo ABC News si tratterebbe, in realtà, già della sesta protesta del genere soltanto a Sidney dove, la settimana precedente, gli attivisti avevano già bloccato una colonna di camion con merci destinate a finire nelle imbarcazioni della ZIM. A Oslo, invece – patria dello storico accordo tra Rabin e Arafat sistematicamente violato dalle forze di occupazione -, alcune centinaia di attivisti hanno occupato la stazione centrale e hanno giocato a fare gli abitanti di Gaza per qualche ora, sdraiati, immobili e con un lenzuolo bianco insanguinato indosso.

Va anche detto che ci sono state anche manifestazioni di segno opposto; a Parigi, ad esempio, dove si è svolto questo grosso corteo:

Oddio, grosso fino a un certo punto… Diciamo grosso, se pensiamo qual era la piattaforma contro l’antisemitismo, che è l’etichetta che la propaganda affibbia a chiunque si azzardi ad ipotizzare che anche Israele – nonostante la missione divina di cui è investito – tutto sommato ogni tanto qualche norma del diritto internazionale la potrebbe pure rispettare. Così, se gli capita, eh?
Tra le celebrities presenti anche Marine le Pen, rappresentante di una forza politica che si rifà all’esperienza della Francia collaborazionista che gli ebrei ha contribuito a schedarli, ghettizzarli e poi spedirli nei campi di concentramento per la soluzione finale: più che contro l’antisemitismo, mi sa che quello che l’attrae è proprio la pratica dello sterminio in se, a prescindere da chi tocca. Oggi a te, domani a me. Il top del ribaltamento della realtà, poi, si raggiunge quando i vari eredi di quelli che gli ebrei li volevano sterminare sul serio danno degli antisemiti agli ebrei stessi. Ormai è pane quotidiano perché, in tutto il mondo, una bella fetta della comunità ebraica che ha molto spesso inclinazioni pacifiste – se non addirittura compiutamente antimperialiste – nelle manifestazioni di condanna alle azioni criminali dello stato di Israele è in primissima fila. La manifestazione più eclatante è avvenuta poco dopo l’inizio della carneficina, quando a Washington gli attivisti anti – guerra della Jewish Voice for Peace hanno occupato nientepopodimeno che il Campidoglio stesso: la polizia ne ha arrestati circa 400. Ma gli antisemiti immaginari sono comparsi direttamente anche dentro Israele stessa: prima è stato il turno dei soliti gruppi ortodossi, che ritengono il sionismo blasfemo. Per combattere l’antisemitismo, la polizia israeliana li ha presi beatamente a mazzate. Ma la protesta, poi, si è estesa a fasce di popolazione che ortodosse non sono per niente, molti dei quali contro Netanyahu protestavano ben prima dell’inizio della carneficina ma senza necessariamente avere chissà quali simpatie per la causa palestinese, che era stata beatamente espulsa dalle piazze. La follia omicida di Netanyahu ha fatto superare anche questo tabù e in centinaia si sono raggruppati direttamente subito fuori dalla casa di Bibi al grido “Jail now”… IN GALERA!!!
Sono solo la punta dell’iceberg: secondo un sondaggio del canale televisivo Channel 13, il 76% dei cittadini israeliani pensa che Netanyahu si dovrebbe dimettere; l’asse del male a sostegno del genocidio rappresenta una minoranza esigua della popolazione mondiale. Se fossero democratici anche solo per un decimo di quanto professano, dovrebbero ritirarsi tutti a vita privata e dedicarsi a zappare le proda.
Netanyahu non è stato l’unico a ritrovarsi folle inferocite sotto casa: è successo anche a Biden, nel suo soporifero Delaware, dove migliaia di attivisti hanno manifestato al suono di “President Biden, you can’t hide! We charge you with genocide!” (Presidente Biden, non puoi nasconderti! Ti accusiamo di genocidio!), lo stesso slogan che hanno intonato gli attivisti di New York che hanno fatto 1 + 1 e, alla fine, hanno deciso di irrompere negli uffici di BlackRock. A poche miglia di distanza, intanto, un nutrito gruppo di operatori dei media irrompeva nella hall del New York Times; ci sono rimasti fino a che non hanno finito di leggere l’elenco completo delle vittime rimaste uccise dalle armi americane usate dagli israeliani a Gaza. Sono solo 2 delle oltre 500 proteste di ogni genere che si sono svolte sabato scorso in tutti gli Stati Uniti. La settimana prima, a Washington, si era svolta la più grande manifestazione a sostegno della Palestina della storia degli USA e, dopo quella gigantesca dimostrazione di forza unitaria, la strategia ora è cambiata: non ci deve essere un angolo degli USA dove i cittadini rimbambiti dalla propaganda filo – genocida non si debbano confrontare con l’indignazione dei manifestanti.
“Dimostrazioni si sono svolte in ogni città principale del paese: a Detroit c’è stata una protesta di fronte agi uffici della senatrice Debbie Stabenow, una marcia all’università della Georgia, un picchetto di fronte a Textrone – un’azienda militare di Providence -, una protesta fuori dall’ufficio della parlamentare Deborah Ross a Raleigh, marce a Pittsburgh, Tucson, la chiusura totale degli uffici federali a San Francisco. A Washington i manifestanti hanno circondato il Dipartimento di Stato” (fonte: BT).
Insomma: siamo di fronte alla più grande mobilitazione di massa a livello globale dagli anni della carneficina irachena. Quanto servì allora è difficile da dire con precisione; la mobilitazione sicuramente contribuì alla scelta di alcuni paesi europei, dalla Francia alla Germania che, una volta tanto, si rifiutarono di essere tra i complici. Ma il destino dei bambini e dei civili iracheni era segnato: fu una strage di dimensioni bibliche e, alla fine dei giri, il grosso del pianeta decise di chiudere un occhio e tornare al business as usual. Perché mai, a questo giro, dovrebbe andare diversamente? Semplice: perché, nel frattempo, il mondo è cambiato parecchio. In questi 20 anni il declino relativo dell’impero è proceduto a passo spedito: la Cina è diventata, di gran lunga, la prima potenza produttiva del pianeta e anche il primo partner commerciale della maggioranza dei paesi del mondo e, ispirati dal suo esempio, gli stati sovrani del Sud del mondo stanno rialzando la testa. Gli assi portanti dell’unipolarismo a guida USA – dallo strapotere militare a quello finanziario fondato sul dollaro – stanno collassando alla velocità della luce e alcuni effetti più eclatanti si riscontrano proprio in Medio Oriente che, di quel disegno egemonico, è sempre stato uno dei tasselli fondamentali. Un tassello che, a sua volta, si basava sullo strapotere militare degli USA e dei suoi proxy nell’area e sul divide et impera su base settaria tra mondo sunnita e sciita, un equilibrio precario fondato sul terrore e sulla riduzione in semi – schiavitù della stragrande maggioranza delle masse popolari e che, da un po’ di tempo a questa parte, è entrato definitivamente in crisi.
Non sarà un pranzo di gala; sarà un percorso lungo e faticoso, lastricato di battute d’arresto, passi indietro e fiumi di sangue di vittime innocenti, ma mai come oggi pensare che l’esito sia scontato e che contro l’asse del male del Nord globale la partita sia persa in partenza è oggettivamente una cazzata colossale. Dopo la favoletta per allocchi della fine della storia, che non faceva altro che dissimulare una fase transitoria dove l’unica superpotenza imponeva con la violenza la sua volontà al resto del mondo e lo chiamava ordine, la storia è tornata a farsi sentire più forte che mai e, quando la storia si rimette in moto, ogni azione sposta – in un modo o nell’altro – i rapporti di forza e niente è futile o inutile. Con la sfacciataggine della loro prepotenza sanguinaria i vecchi egemoni in declino c’hanno dato la sveglia: tra mille contraddizioni, il mondo nuovo troverà il modo di farsi strada – con o senza il nostro sostegno. L’unica cosa che Israele e gli USA possono davvero ottenere concretamente è, nel frattempo, sterminare quanti più bambini inermi possibili e più ne sterminano, più il declino si velocizza e più saranno tentati di sterminarne in futuro ottenendo NIENTE, assolutamente ZERO. Questa mobilitazione globale è forse l’ultima opportunità che abbiamo: possiamo decidere di essere complici, seguire ignavi le nostre classi dirigenti criminali nel declino inesorabile, passare alla storia come sudditi inermi e condannarci ad essere la feccia del nuovo ordine che verrà. Oppure possiamo cogliere la palla al balzo, liberarci definitivamente dal’1% di parassiti dell’ordine neocoloniale e ritagliarci nel mondo nuovo il posto che ci spetta, di popolo libero tra popoli liberi. Per la nostra stessa sopravvivenza, è arrivata l’ora di unirsi alla resistenza: per farlo, abbiamo bisogno di un media che ci dia voce. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Marine Le Pen