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Veto USA sull’adesione della Palestina all’ONU: una “logica da gangster”, dice l’ambasciatore cinese

Una notizia della settimana scorsa che è passata piuttosto inosservata è il veto degli Stati Uniti ad una risoluzione del consiglio di sicurezza che raccomandava all’assemblea di riconoscere la Palestina come stato membro delle Nazioni Unite. In teoria il riconoscimento della Palestina come Stato sarebbe a fondamento della soluzione dei due Stati, quella soluzione che, a livello internazionale, tutti dicono di sostenere e tutti dicono che è a fondamento del processo di pace in Medio Oriente. E a dirlo sono pure gli Stati Uniti, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la catastrofe umanitaria di Gaza… Ne parliamo in questo video!

Iran attacca Israele: che si dice in Cina?

Oltre 200 missili e droni sono stati lanciati dall’Iran a Israele, e la stragrande maggioranza è stata intercettata, ma un numero imprecisato di missili è caduto in territorio israeliano. La missione dell’Iran presso l’ONU ha affermato che, in seguito al lancio dei droni verso Israele, Teheran ritiene ormai terminata la sua ritorsione auto-difensiva per l’attacco al suo complesso diplomatico a Damasco. Ma che si dice in Cina?

L’ordine multipolare ha già vinto – ft. Alberto Fazolo

Oggi i nostri Clara Statello e Gabriele Germani intervistano Alberto Fazolo per il consueto appuntamento del sabato geopolitico di OttolinaTv. Si parte da Gaza e dalla risoluzione ONU, per arrivare all’ingresso delle navi russe nel Mar Rosso, all’avventurismo europeo e al redivivo ISIS. Una puntata stimolante che ci aiuta a capire con nuovi occhiali gli equilibri globali. Buona visione!

Gli USA convincono Giappone e Filippine a immolarsi per la sua Grande Guerra contro la Cina

“Stati Uniti e Giappone pianificano il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni”; manco il tempo di fare un minibrindisino per la risoluzione che Cina e Russia, finalmente, sono riusciti a imporre agli amici del genocidio della Casa Bianca al Consiglio di sicurezza dell’ONU che ecco un altro fronte che si avvia inesorabilmente verso l’escalation, il fronte per eccellenza: “Biden e Kishida” annuncia il Financial Times “annunceranno una mossa per contrastare la Cina alla riunione della Casa Bianca del mese prossimo”. Quello che è in ballo è, appunto, il più importante aggiornamento del patto di sicurezza tra i padroni di Washington e il loro principale vassallo del Pacifico da quando, nel 1960, USA e Giappone firmarono il trattato di mutua difesa: un trattato edulcorato, almeno rispetto alle ambizioni dell’allora premier Nobusuke Kishi, il sanguinario amministratore della colonia della Manciuria ai tempi dell’impero, che venne salvato dagli USA in cambio della garanzia di trasformare il Giappone in un protettorato a stelle e strisce. La mobilitazione popolare lo costrinse alle dimissioni e il trattato venne rivisto al ribasso; e, così, il Giappone si rassegnò ad avere forze armate dedicate esclusivamente alla difesa e gli USA rinunciarono all’idea di avere il pieno controllo della catena di comando dell’alleato del Pacifico. Dopo 60 anni abbondanti di lavoro certosino, nel dicembre del 2022, intanto, è saltato in buona parte il primo tabù e il Giappone ha approvato una riforma radicale delle sue forze armate in chiave offensiva, che le dota – finalmente – di armi di attacco all’altezza della sfida cinese e che prevede di portare la spesa militare dall’1 al 2% di PIL.

Shinzo Abe

E’ l’eredita lasciata – prima di venire barbaramente assassinato – dalla buonanima di Shinzo Abe, nipote del gerarca Nobusuke Kishi e leader del Nippon Kaigi, la potente organizzazione clericofascista fondata dal nonno e che da decenni influenza profondamente la politica giapponese. Nonostante il riarmo, però – come sottolineava a suo tempo l’ex direttore per l’Asia orientale nel Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden su Foreign Affair – il problema della catena di comando rimaneva: “Il Giappone” sottolineava, “per massimizzare l’efficacia di questa sua nuova postura, deve rafforzare la sua alleanza con gli USA”; ci è voluto un anno, ma ora, finalmente, ci siamo arrivati. E non è tutto, perché il Giappone sarà, a breve, più potente e aggressivo che mai e totalmente sotto controllo USA, ma è lontano.
Ed ecco allora la soluzione: facciamoci prestare le Filippine; dopo la parentesi multipolare e sovranista dell’amministrazione Duterte, con la presidenza Marcos le Filippine sono tornate alla loro vecchia condizione di portaerei dell’imperialismo USA nel cuore del Pacifico e hanno rimesso in moto l’EDCA, l’Enhanced Defense Cooperation Agreement – l’accordo di cooperazione rafforzata in materia di difesa che, sostanzialmente, permette alla marina militare a stelle e strisce di fare un po’ cosa cazzo gli pare. Siglato nel 2014 durante la presidenza filocolonialista di Aquino, prevedeva inizialmente 5 location dove far scorrazzare armi, navi e uomini USA a volontà e nessuna nella parte settentrionale dell’arcipelago, quella più utile per un’eventuale guerra con epicentro Taiwan; ora, fatto fuori Duterte, il piano torna in grande stile con 4 nuove location, tutte a un tiro di schioppo da Taipei e con anche un extra bonus: un nuovo porto nelle minuscole isole Batanes, a meno di 200 chilometri dalle coste di Taiwan. E visto che la flotta giapponese sarà, a breve, sostanzialmente eterodiretta da Washington, ecco che la relazione si allarga e diventa una bella threesome: a partire da novembre, infatti, Filippine e Giappone hanno avviato i negoziati per un accordo di accesso reciproco per le rispettive truppe: l’11 aprile prossimo i rispettivi leader sono entrambi attesi alla Casa Bianca per il primo trilaterale USA – Giappone – Filippine.
Nel frattempo, le provocazioni USA su Taiwan – con la vendita del sistema di telecomunicazioni militari Link 16 e la fuga di notizie sugli addestratori americani nell’isola di Kinmen, a 10 chilometri dalla repubblica popolare di Cina – continuano ad aumentare; ora rimane solo da convincere definitivamente i vassalli europei ad accollarsi la guerra di logoramento contro la Russia in Ucraina e dintorni e assicurarsi che il massacro dei bambini a Gaza non si trasformi in una dispendiosa guerra regionale, obiettivo talmente importante da obbligare gli USA, per la prima volta, addirittura a non mettere il veto in Consiglio di sicurezza, dopodiché, finalmente, gli USA si potranno concentrare a tempo pieno nella vera partita del secolo: la grande guerra del Pacifico contro il primo paese che ha osato superare la potenza economica del padrone del mondo. Prima di procedere con i dettagli di questo racconto inquietante, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola, ma vitale, battaglia contro gli algoritmi e anche di aiutarci a crescere iscrivendovi a tutti i nostri canali, compreso quello Youtube in inglese, e attivare le notifiche: non riusciremo a bloccare l’armageddon, ma almeno proveremo a dare un contributo affinché, mentre ci preparano la tomba, non ci prendano anche impunemente per il culo.
“La Cina ha continuato e intensificato i suoi tentativi di modificare unilateralmente lo status quo con la Forza” e nel contesto “più grave e complesso” scaturito da questa aggressività “dobbiamo rafforzare la collaborazione con le nazioni che la pensano allo stesso modo”: la bozza del Diplomatic Bluebook 2024, il documento che descrive le linee guida della politica internazionale del Giappone per l’anno venturo e che è stata anticipata alla stampa nei giorni scorsi, è una vera e propria bomba incendiaria, soprattutto perché anticipa lo spirito col quale il premier Kishida ha deciso di affrontare lo storico trilaterale dell’11 aprile organizzato da Rimbambiden e che, oltre a USA e Giappone, vedrà la presenza delle Filippine. Ma perché un’alleanza solida tra Filippine e Giappone è così fondamentale per la strategia USA? Ma come perché! Sembrano nate l’una per l’altra!
Per affrontare la Grande Guerra del Pacifico contro il Nemico Esistenziale del loro modello imperiale unipolare, gli USA – infatti – prima di tutto devono risolvere un problemino piuttosto impattante: in una lunga guerra convenzionale contro una potenza industriale delle dimensioni della Cina, alla lunga – dopo 40 anni di finanziarizzazione e di deindustrializzazione, infatti – sono inevitabilmente destinati a soccombere; gli USA, infatti, hanno smesso di produrre tante cose, ma – in particolare – hanno smesso di produrre navi. Cioè, continuano – ovviamente – a produrre navi da guerra, ma a un ritmo e a costi che vanno bene solo per tempi di pace; in caso di guerra, per affrontare le quantità richieste c’è solo un modo: convertire la produzione civile a militare. Cioè, non è che ti puoi inventare i porti, le banchine, la manovalanza, le linee produttive e tutta la filiera da zero; ci devi avere la produzione civile già sviluppata e convertirla alla produzione militare e, molto banalmente, quella produzione gli USA non ce l’hanno – non nel senso che non ne hanno abbastanza: proprio che non ce l’hanno del tutto. In tutto, in un anno, producono imbarcazioni per 73 mila tonnellate; la Cina per 26 milioni e, come abbiamo ricordato diverse volte, alla fine quello è l’unico parametro che conta davvero. Hai voglia te di convincerti delle vaccate dei suprematisti sui primati tecnologici e segate varie: una grande guerra del mare la vince chi produce più navi. Punto. Il resto e fuffa. E la Cina, da sola, produce metà delle navi prodotte nel mondo.
Fortunatamente per gli USA, però, l’altra metà è concentrata in due paesi amici: Giappone e Corea del sud, insieme, coprono sostanzialmente l’altra metà della produzione mondiale; al resto rimangono gli spiccioli. Quindi, il primo scoglio da superare è fare in modo che Corea del sud e Giappone siano senza se e senza ma nella partita. Facile, direte. Fino a un certo punto, perché una cosa è essere amici e volesse bene, un’altra è essere così amici che – non dico per vincere, ma anche solo per poterci sperare – dipendo interamente da te: siccome in ballo non c’è la coppa del dopolavoro ferroviario per un torneo di calcetto babbi contro figli, se io dipendo da te per vincere devo essere sicuro al 100% che fai tutto quello che dico io quando lo dico io e, tradotto in termini militari, significa che la catena di comando, alla fine, fa riferimento a me e soltanto a me – che, per la Corea del sud, in buona misura è già così.
Per il Giappone, paradossalmente, un po’ meno: nonostante il trattato tra i due paesi preveda il mutuo soccorso, le forze armate giapponesi, tutto sommato, sono sempre rimaste nella loro bolla, con una catena di comando a se; il primo punto, quindi, è superare questo ostacolo e rivedere il patto in modo che le forze armate giapponesi diventino, a tutti gli effetti, un braccio interamente gestito dalla testa a stelle e strisce e questo è quello che, appunto, si vuole ottenere con il più grande aggiornamento del patto di sicurezza da oltre 60 anni a cui accennavamo all’inizio. Per il Giappone si tratta di una scelta epocale, che lo destina a un futuro e di incertezze; e il bello è che a prendere questa scelta sarà un primo ministro che ha una percentuale di consensi di poco superiore al 20% (le grandi magie del mondo libero e democratico…). Comunque, dal momento che l’altro 80% non s’è saputo organizzare adeguatamente, per quanto schifato anche dai parenti, Kishida sembra poter portare a casa questo risultato senza troppi problemi.

Fumio Kishida

Facciamo quindi conto che il problema della produzione delle navi e della catena di comando sia risolto; rimane, però, il problema della geografia perché con gli arcipelaghi meridionali – fino ad arrivare a Taiwan inclusa – un pezzo di accerchiamento alla Cina è fatto, ma rimane tutta la parte più a sud: ed ecco qua che entrano in ballo le Filippine. Che le Filippine rappresentino una pedina fondamentale per il dominio del Pacifico occidentale, gli USA lo sanno da sempre e, infatti, da sempre hanno fatto in modo di tenerle sotto controllo e nel 2014, durante la presidenza Aquino, l’avevano scritto nero su bianco: in 5 località sparse per le Filippine gli USA possono manovrare di tutto e di più, a loro piacimento. Poi però, appunto, era arrivato Duterte, che questa storia di essere una colonia USA non è che l’apprezzasse tanto, ma quell’epoca sembra tristemente tramontata; il nuovo presidente, all’inizio, aveva promesso di continuare sulla linea di avvicinamento a Cina, Russia e Sud Globale del predecessore – anche perché, altrimenti, non avrebbe mai vinto – ma dal giorno dopo il suo insediamento ha cambiato linea. Le malelingue dicono sia ricattabile: durante il regime del padre, infatti, si mormora che la sua famiglia abbia imboscato, col sostegno USA, in vari paradisi fiscali sparsi per il mondo una decina di miliardi; “Alcuni osservatori” riporta Asia Times “sospettano che Washington possa aver allentato il controllo sull’enorme ricchezza illecita dei Marcos, in cambio di un maggiore accesso alle basi militari e una più profonda cooperazione in materia di sicurezza”. Ed ecco così che, come per magia, dalle promesse elettorali si passa alla consegna chiavi in mano del paese agli americani per trasformarlo nella testa di ponte per la grande guerra contro la Cina, cosa che sembra Duterte non abbia gradito particolarmente: “Abbiamo un presidente tossicodipendente e figlio di puttana” avrebbe dichiarato col suo solito rispetto del politically correct al limite della pedanteria.
In sostanza, le Filippine con Marcos hanno concesso agli USA 4 nuove basi; siccome la costituzione, sostengono molti, in realtà lo vieterebbe, hanno trovato questo escamotage: uomini e attrezzature non potranno essere stabili, ma dovranno ruotare (come se, di solito, non ruotassero e come se ci fosse qualcuno a controllare): una controllatina l’hanno data gli analisti dell’ATMI, l’Asia Maritime Transparency Initiative, e hanno trovato un sacco di sorpresine. Tutte le basi presenterebbero un’attività frenetica per lo sviluppo delle infrastrutture: “A quanto pare” scrive Asia Times “le Filippine stanno rafforzando in modo proattivo la loro deterrenza contro l’espansione della Cina nel Mar Cinese Meridionale a ovest, mentre si preparano anche a potenziali imprevisti nella vicina Taiwan a nord” e dall’11 aprile, appunto, tutto questo potrebbe diventare pienamente accessibile anche agli amici giapponesi; “La cooperazione trilaterale” scrive diplomaticamente il Global Times “potrebbe diventare una routine fissa e normalizzata in futuro, prevedendo esercitazioni militari, esercitazioni di sbarco sulle isole, pattugliamenti marittimi congiunti con altri paesi, e sfruttando la posizione delle Filippine nell’ASEAN per cercare di influenzare gli altri paesi dell’organizzazione multilaterale regionale”.
Al grande appuntamento per la threesome dell’anno, comunque, le Filippine hanno tutta la volontà di presentarsi il più agghindate possibile: “Oltre a fare affidamento sugli aiuti militari statunitensi” ricorda infatti Asia Times “le Filippine mirano a procurarsi moderni aerei da combattimento, sottomarini e sistemi missilistici strategici nell’ambito di un programma di modernizzazione militare da” – udite udite – “36 miliardi di dollari”; 36 miliardi di dollari per un paese che ha un PIL che non arriva a 450. Per capire l’entità: negli ultimi 2 anni abbiamo spalancato gli occhi di fronte al programma tedesco di riarmo da 100 miliardi di euro; ecco, in proporzione, le Filippine è come se ne avessero annunciato uno da poco meno di 400 miliardi. Oltre ai caccia F16 dagli USA e Saab Gripen dalla Svezia, Manila sta trattando per comprarsi pure i sottomarini; e non uno, ma tre, perché “Tre” hanno affermato pubblicamente “è un numero magico: uno in funzione, uno in addestramento e uno in riparazione/manutenzione” e, il tutto, rivolto minacciosamente contro la Cina. Le Filippine, infatti, hanno da pochissimo approvato una nuova strategia di difesa nazionale denominata CADCComprehensive Archipelagic Defense Concept – che sta per concetto globale di difesa arcipelagica e che, in soldoni appunto, vuol dire concentrare il grosso delle risorse verso la Cina e verso Taiwan; pronti per raggiungere le isole più settentrionali ci dovrebbero essere anche i nuovi missili da crociera supersonici BrahMos acquistati dall’India e che hanno una gittata di circa 900 chilometri e, sempre a partire dalle isole settentrionali, il prossimo mese USA e Filippine dovrebbero dare il via a un’esercitazione denominata Balikatan che dovrebbe coinvolgere circa 12 mila soldati americani e vedere in veste di osservatori la presenza, appunto, del Giappone e anche dell’Australia.
Insomma: si stanno scaldando i motori in attesa di essere un po’ meno affaccendati in altre faccende; intendiamoci, non che manchino gli ostacoli: prima che l’Europa – ammesso e non concesso riesca mai a farcela – possa, in qualche modo, essere autosufficiente nell’assistere l’Ucraina oggi e, magari, gli altri paesi dell’est europeo domani nella lunga guerra di logoramento della Russia, ancora ce ne manca e svincolarsi, per gli USA – se mai sarà possibile – sicuramente non sarà immediato. Basti considerare che mentre si cercavano di risolvere tutti i colli di bottiglia del Pacifico, a un certo punto gli USA si son accorti di essere messi così male da chiedere nuove armi per rimpinzare gli arsenali allo stesso Giappone, in particolare le batterie di Patriot; il Giappone ha obbedito immediatamente e siccome, in realtà, non poteva inviare i suoi missili Patriot negli USA, ha addirittura cambiato la legge in fretta e furia per far contento il padrone di Washington – che quindi, da un lato, significa che sulla fedeltà ci possono essere pochi dubbi, dall’altro però, appunto, significa che fino a che a provvedere ad armare l’Ucraina non ci penserà qualcun altro, anche col supporto di Tokyo la grande alleanza del mondo libero di tenere testa, sul piano industriale, al colosso produttivo cinese nel Pacifico potrebbe non essere in grado.
Qualche altro problemino potrebbe arrivare dai fronti interni in Giappone e anche in Corea del sud, due paesi che, ovviamente, hanno nella Cina – di gran lunga – il primo partner commerciale (la Corea del sud addirittura, caso più unico che raro, vantando addirittura un piccolo surplus commerciale): un giro di affari enorme messo fortemente a rischio dalla guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca e sul quale la Cina tenta di fare leva. A partire già dal lontano 1999, i 3 paesi tengono regolarmente degli incontri trilaterali – o meglio, tenevano: nel 2019, infatti, questa abitudine è stata interrotta; ma il bello è che è stata interrotta non a causa della Cina, ma per tensioni tra Giappone e Corea del sud. Inutile, comunque, farsi troppe illusioni: i rapporti tra i due paesi sono spesso tesi e i due popoli non è che si stiano proprio simpaticissimi, diciamo; ciononostante, gli USA hanno ancora una leva sufficiente a superare le divisioni e quando, nell’agosto scorso, li ha richiamati entrambi all’ordine con un incontro trilaterale sempre alla Casa Bianca, con la coda tra le gambe i due hanno fatto buon viso a cattivo gioco e hanno obbedito senza troppi distinguo. Più che ai mal di pancia di paesi che, comunque, si riconoscono pienamente nel capitalismo globalizzato e finanziarizzato garantito da Washington, conviene allora forse guardare altrove per trovare le vere debolezze di questo piano USA, a partire da Ansar Allah, che continua a tenere alta la preoccupazione per un’estensione del conflitto in Medio Oriente che rovinerebbe alla base tutti i piani di Washington – che è uno dei motivi che, appunto, lunedì ha portato gli USA a compiere probabilmente la più grande rottura nei confronti del fedele alleato sionista di sempre: per la prima volta dall’inizio della fase terminale del piano di pulizia etnica di Israele nei confronti dei gazawi, gli USA non hanno posto il veto al Consiglio di sicurezza a una risoluzione presentata dall’Algeria e sostenuta da tutti gli altri 13 membri (Regno Unito incluso) che impone un cessate il fuoco immediato e che gli USA si sono limitati a non votare astenendosi; ne è seguito il più importante scontro tra leadership USA e israeliana di cui ho memoria, con Israele che ha cancellato la visita programmata a Washington e Kirby che si è dichiarato molto deluso.
Gli USA, da dettare la linea senza troppi intoppi all’intera comunità internazionale, sono ormai sempre di più costretti a scegliere quale guerra ritengono essenziale per i loro interessi; e non è detto che gli basti: è il vero, grande, epocale segnale non solo che il Mondo Nuovo avanza, ma che, al netto di tutto, è già avanzato e che non saranno i vecchi media a darci gli strumenti per capirci qualcosa e attrezzarci per prendere le contromisure. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media tutto nuovo e che sia indipendente, ma di parte: quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Veto cinese all’ONU: la Cina passa dalla parte di Israele?

Venerdì scorso Cina e Russia hanno posto il veto ad una risoluzione statunitense, una risoluzione che, secondo alcuni media italiani, chiedeva il cessate il fuoco a Gaza, ma che, come si legge su media internazionali, il veto è stato posto perché la risoluzione non chiedeva il cessate il fuoco a Gaza… Ma la risoluzione lo chiedeva o no il cessate il fuoco? E se lo chiedeva, perché alla risoluzione americana si è opposta anche l’Algeria, che un mese fa è stata promotrice di un’altra risoluzione che chiedeva il cessate il fuoco e che era stata bloccata dagli Stati Uniti? Ne parliamo in questo video!

Ecco perché la decisione dell’ICJ per Israele è una batosta epocale – ft prof. Triestino Mariniello

“Quello che sta succedendo all’Aja ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. Ne parliamo con Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool.

Genocidio di Gaza e Diluvio di Al-Aqsa: il punto di vista di Hamas che tutti dovrebbero conoscere

La nostra narrativa – e cioè il nostro punto di vista: così si intitola il piccolo dossier sull’operazione diluvio di al-aqsa pubblicato sabato scorso dalla divisione media ufficiale di Hamas; lo abbiamo letto per voi perché, ovviamente, siamo perfettamente consapevoli che si tratta di pura propaganda. Funziona sempre così, inevitabilmente: a ogni guerra fatta con le armi corrisponde sempre anche una guerra tra due propagande. Il punto però, esattamente come in Ucraina, è che i detentori dei mezzi di produzione del consenso del cosiddetto mondo libero fanno finta di non saperlo e assumono come verità insindacabile la propaganda di uno, e come menzogna da oscurare con ogni mezzo possibile quella dell’altro; potrebbe non essere esattamente una strategia illuminata, diciamo, e non solo perché è ovviamente una palese violazione del diritto a un’informazione un minimo equilibrata su cui si dovrebbe fondare quell’idea di democrazia in nome della quale i nostri governi si sentono autorizzati ad andare in giro per il mondo a bombardare chiunque si azzardi a dissentire, ma anche perché impedisce – anche tra le élite – quel minimo di dialettica fondata sui fatti reali che è indispensabile per non prendere cazzi per mazzi. Ed ecco così che, a botte di propaganda unilaterale, ci siamo autoconvinti che la Russia era sull’orlo del baratro e che grazie alla gloriosa resistenza e alla superiorità tecnologica dell’uomo bianco avrebbe trovato in Ucraina il suo Vietnam, o che Ansar Allah non era che un gruppetto di ribelli sprovveduti e scalmanati e che sarebbe bastato mandargli due razzetti a caso per farli sconigliare e riportare l’ordine: ecco perché, qualsiasi sia l’opinione che avete su Hamas, è comunque fondamentale conoscere e riflettere sul loro punto di vista. Buona visione.

Baruch Goldstein

“Fin dalla sua fondazione nel 1987” scrive l’ufficio media di Hamas nel suo rapporto sui fatti del 7 ottobre “Hamas si è impegnato a evitare conseguenze sui civili di entrambi gli schieramenti”; il rapporto sottolinea come – in seguito al terribile massacro della moschea di Al-Ibrahimi di Hebron avvenuto nel 1994 per mano del terrorista israelo – statunitense Baruch Goldstein e che causò la morte di 29 civili inermi riuniti in preghiera e il ferimento di altri 125 – “Hamas aveva annunciato un’iniziativa per evitare che i civili di tutte le parti rimanessero vittime dei combattimenti”, ma il governo Israeliano non si degnò neanche di rispondere. In quell’occasione, il governo israeliano guidato da Yitzhak Rabin condannò l’attentato e disarmò i militanti più in vista del movimento Kach, il gruppo dell’estrema destra sionista di Goldstein; non impedì però che a Goldstein – che venne definito dal rabbino dell’insediamento illegale di Kiryat Arba nei pressi di Hebron più santo di tutti i martiri dell’olocausto – venisse dedicato un santuario che, come un’Acca Larentia qualsiasi, divenne subito un importante luogo di pellegrinaggio per i fasciosionisti. Un milione di arabi non vale un’unghia ebrea, dichiarò il rabbino Yaacov Perrin durante il funerale: dalle ceneri del movimento Kach nascerà poi il partito Otzma Yehudit, e cioè il partito di Itamar Ben-Gvir, il famigerato ministro per la Sicurezza Nazionale del governo Netanyahu che viene citato direttamente anche nel dossier come “il ministro fascista israeliano che ha imposto l’inasprimento delle condizioni delle migliaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane dove subiscono ogni forma di abuso dei diritti umani più fondamentali”. Ciononostante, ribadisce il rapporto, negli anni successivi “Hamas ha rinnovato questa offerta numerose volte, ma i vari governi israeliani che si sono succeduti hanno sempre fatto orecchie da mercante, mentre continuavano a prendere di mira e uccidere deliberatamente civili palestinesi”; ancora oggi, insiste il rapporto, “Evitare danni ai civili, in particolare bambini, donne e anziani, è un impegno religioso e morale rispettato da tutti i combattenti delle brigate Al-Qassam”, e durante l’operazione diluvio di al-aqsa “ribadiamo che la resistenza palestinese è stata pienamente disciplinata e ha operato nel rispetto dei valori islamici” e “I combattenti palestinesi che hanno preso di mira solo il soldati dell’occupazione”.
Ma come si spiegano, allora, tutte le vittime civili del 7 ottobre scorso? Molte delle accuse, sostiene il rapporto, sono “menzogne palesi fabbricate ad arte” come la storia dei 40 bambini decapitati, o le accuse di stupri di massa; inoltre, continua, “è un dato di fatto che molti dei coloni coinvolti nell’operazione erano armati e hanno avuto scontri a fuoco con i combattenti palestinesi. Questi coloni sono registrati come civili, ma la realtà è che erano uomini armati che stavano combattendo al fianco dell’esercito israeliano” e, infine, “molti di questi civili israeliani sono stati uccisi dalle forze armate israeliane stesse”. Il riferimento, ovviamente, è in primo luogo ai civili uccisi da un elicottero israeliano nell’area del Festival Musicale di Nova, ma non solo: “Altre testimonianze israeliane” continua infatti il dossier, confermano che “l’esercito di occupazione israeliano avrebbe bombardato diverse abitazioni negli insediamenti israeliani dove si trovavano combattenti palestinesi e israeliani, in una chiara applicazione della famigerata Direttiva Annibale dell’esercito israeliano che sostiene sia meglio un ostaggio civile o un soldato morto che preso vivo, per evitare di impegnarsi in scambi di prigionieri con la resistenza palestinese”.
Fatta la tara delle fake news e della propaganda suprematista, rimane ovviamente il fatto che di civili coinvolti ce ne sono stati decisamente fin troppi: secondo Hamas però, questi episodi sarebbero semplicemente una conseguenza del “rapido collasso del sistema militare e di sicurezza israeliano e il caos che ne è conseguito in tutta la zona di confine con Gaza”; insomma, sarebbero vittime collaterali, e probabilmente – come Occidente collettivo – non siamo esattamente i più titolati per scandalizzarci. “Coloro che difendono l’aggressione israeliana” sottolinea il dossier “sostengono che le vittime civili a Gaza sarebbero danni collaterali di attacchi rivolti ai militanti di Hamas. Tuttavia questa categoria pare non possa essere utilizzata quando si parla delle vittime civili dell’operazione diluvio di al-aqsa”; eppure, insistono “Come riconosciuto da molti, Hamas si è comportato in modo positivo e gentile con tutti i civili che sono stati trattenuti a Gaza e ha cercato sin dai primi giorni dell’aggressione un modo per arrivare al loro rilascio, che è esattamente quello che è successo durante la tregua umanitaria durata una settimana durante la quale quei civili sono stati rilasciati in cambio del rilascio di donne e bambini palestinesi detenuti ingiustamente nelle carceri israeliane”.
Come abbiamo premesso, ovviamente, si tratta di pura propaganda pure questa, e però un modo per vederci più chiaro tra una propaganda e l’altra, volendo, ci sarebbe: una bella inchiesta indipendente internazionale che, a differenza di Israele, è esattamente quello che chiede Hamas. “Siamo fiduciosi” scrivono “che qualsiasi indagine equa e indipendente dimostrerebbe la fondatezza dei nostri argomenti come anche la portata delle bugie e delle informazioni fuorvianti da parte israeliana. A partire dalle accuse israeliane riguardanti gli ospedali palestinesi di Gaza che la resistenza avrebbe usato come centri di comando; un’accusa che non è stata provata e anzi è stata smentita dai resoconti di molte agenzie di stampa occidentali”; “Gli eventi del 7 ottobre” sottolineano “devono essere inseriti in un contesto più ampio, che accomuna tutti i casi di lotta contro il colonialismo e l’occupazione dei nostri tempi. Le varie esperienze dimostrano come più è alto il livello di oppressione imposto dagli occupanti, più sarà violenta la reazione dei popoli che quella occupazione la subiscono”. E qui il livello, sostengono, sembrerebbe essere stato piuttosto altino – diciamo – e fanno un sintetico recap partendo da lontano: ancora nel 1918, ricordano, “il popolo palestinese possedeva il 98,5% della terra palestinese e rappresentava il 92% dell’intera popolazione”; da lì in poi, una campagna di migrazione di massa coordinata tra autorità coloniali britanniche e movimento sionista portò, in meno di 30 anni, a moltiplicare per 4 la popolazione non palestinese prima di dare il via, nel 1948, a una vera e propria pulizia etnica che portò i sionisti a impossessarsi del 77% delle terre dopo aver espulso il 57% della popolazione palestinese, a partire dagli oltre 500 villaggi rasi al suolo. Una seconda fase si ebbe poi nel 1967, quando le forze di occupazione occuparono il resto della Palestina compresa la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, Gerusalemme e altri territori arabi confinanti con la Palestina; soltanto negli ultimi 20 anni le forze di occupazione avrebbero causato la morte di 11.300 palestinesi e il ferimento di altri oltre 150 mila, in larghissima parte civili: “Sfortunatamente però” scrivono “l’amministrazione USA e i suoi alleati non hanno prestato molta attenzione alle sofferenze del popolo palestinese, ma piuttosto hanno fornito copertura all’aggressione israeliana, e hanno cominciato a lamentarsi solo quando il 7 ottobre a cadere sono stati i soldati israeliani”. D’altronde, continuano, “l’amministrazione americana e i suoi alleati occidentali hanno sempre trattato Israele come uno Stato al di sopra della legge; gli forniscono la copertura necessaria per continuare a prolungare l’occupazione e reprimere il popolo palestinese, permettendogli nel frattempo anche di sfruttare la situazione per espropriare ulteriori terre palestinesi e violare impunemente i nostri luoghi sacri”. Il dossier ricorda inoltre come, negli ultimi 75, anni “l’ONU abbia emesso più di 900 risoluzioni a favore del popolo palestinese” con Israele che ha sempre “rifiutato di attenersi a ognuna di esse”, platealmente: “Il 29 ottobre 2021” ricorda ad esempio il dossier “l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan ha insultato il sistema delle Nazioni Unite stracciando un rapporto del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite durante un discorso all’assemblea generale, per poi gettarlo teatralmente nel cestino della spazzatura prima di lasciare il podio. Eppure” ricordano con una nota di ironia “l’anno successivo è stato nominato alla carica di vicepresidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite” e le rare volte che queste questioni hanno raggiunto il tavolo del Consiglio di sicurezza “a impedire qualsiasi condanna nei confronti di Israele è sempre intervenuto il veto degli USA”.

Gilad Erdan

Certo, di fronte a queste ingiustizie ci sono anche modi più pacifici e meno violenti di portare avanti la propria causa. Certo, come no! “Dopo 5 guerre di aggressione unilaterale da parte di Israele e 17 anni di assedio totale che ha trasformato Gaza nella più grande prigione a cielo aperto del paese” ricorda il dossier, nel 2018 “il popolo di Gaza ha dato vita a una serie di grandi e pacifiche proteste denominate la Grande Marcia del ritorno. Purtroppo” ricordano “le forze di occupazione israeliane hanno risposto a queste proteste causando tra i manifestanti 360 vittime e 19 mila feriti, compresi 5 mila bambini”. “Dopo tutto questo” si chiede alla fine il dossier “cosa ci si aspettava dal popolo palestinese? Che continuasse ad aspettare inerme riponendo la sua fiducia sull’impotenza dell’ONU?”; in realtà – concludono – “sulla base di quanto detto fino ad ora, l’operazione diluvio di al-aqsa è stata una risposta necessaria e un atto difensivo nei confronti dell’occupazione israeliana, nel quadro della lotta di liberazione e di indipendenza del popolo palestinese, esattamente come tutti i popoli del mondo hanno sempre fatto”. “Il popolo palestinese” concludono “si è sempre opposto all’oppressione, alle ingiustizie e ai massacri contro i civili, indipendentemente da chi li commette. E in base alla nostra religione e valori morali, abbiamo dichiarato chiaramente il nostro rifiuto a cosa gli ebrei furono esposti dalla Germania nazista. Dobbiamo però ricordare che il problema ebraico era essenzialmente un problema europeo, mentre il mondo arabo e islamico era un rifugio sicuro per il popolo ebraico come, d’altronde, anche per altri popoli di altre credenze ed etnie. Il mondo arabo è stato un esempio di convivenza, interazione culturale e libertà religiose. Il conflitto è causato dal comportamento aggressivo sionista e la sua alleanza con le potenze coloniali occidentali; e quindi rifiutiamo categoricamente la strumentalizzazione della sofferenza che è stata inflitta al popolo ebraico in Europa al fine di giustificare l’oppressione contro il nostro popolo in Palestina”.
Bon. Questo è quanto. Questa è la posizione di Hamas; non ci abbiamo aggiunto mezzo giudizio: a questo giro, l’onere di farvi una vostra idea lo lasciamo tutto a voi. E’ quello che dovrebbero fare i giornali mainstream che si riempono la bocca di fuffa liberaloide e poi fanno solo becera propaganda come in un regime teocratico qualsiasi; in questi tempi infami, a noi vecchie zecche rosse tocca pure fare il loro mestiere. Aiutaci a farlo sempre meglio, per sempre più persone: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Mieli

I’m just a lonely boy: come il sostegno al genocidio di Gaza sta isolando Biden e gli USA.

A gestire le decine e decine di miliardi di aiuti militari che gli USA hanno inviato all’Ucraina negli ultimi ormai poco meno di due anni, c’è un piccolissimo ufficio con appena una decina di dipendenti che negli ambienti militari statunitensi ormai sono diventati leggendari; dal giorno alla notte hanno gestito, senza battere ciglio, un aumento del carico di lavoro del 15 mila % imparando a “svolgere in poche ore quello che prima richiedeva mesi”, come riportava enfaticamente Defenseone. Tra quei 10 eroi della patria, con ruolo apicale, c’è anche lui: Josh Paul.

“Sono entrato a far parte dell’Ufficio per gli affari politico-militari (PM) più di 11 anni fa” ha scritto Josh “e l’ho trovato immediatamente un lavoro affascinante e coinvolgente, fatto di compiti e obiettivi estremamente impegnativi sia intellettualmente che moralmente. Sono molto orgoglioso” continua Josh “di aver fatto molte volte la differenza, sia visibilmente che dietro le quinte, dalla difesa dei rifugiati afghani, all’aver influenzato le decisioni dell’amministrazione sul trasferimento di armi letali in paesi accusati di mancato rispetto dei diritti umani. Quando sono arrivato in questo ufficio, che è l’ente governativo degli Stati Uniti maggiormente responsabile del trasferimento e della fornitura di armi a partner e alleati, sapevo benissimo che il mio compito era tutt’altro che privo di complessità morale e di compromessi delicati, e mi sono ripromesso che sarei rimasto finché i danni che ero costretto a fare fossero stati controbilanciati da sufficienti contributi positivi. E in questi 11 anni ho fatto più compromessi morali di quanti riesco a ricordare, ma senza mai venir meno a quel patto con me stesso”. Ma dopo 11 anni, conclude Josh, “oggi finalmente sento il dovere di andarmene”. E questa è la sua lettera di dimissioni.
A convincere Josh che ormai quel patto si era rotto, infatti, sarebbe “la fornitura continuata, anzi, ampliata, e accelerata, di armi letali a Israele” che lo ha posto di fronte a una contraddizione insanabile: “non possiamo essere una volta contrari alle occupazioni, e un’altra volta a favore. Non possiamo essere una volta a favore della libertà, e un’altra contro. E non possiamo dirci a favore di un mondo migliore, mentre contribuiamo concretamente a crearne uno peggiore”. Josh condanna senza appello l’azione di Hamas “ma sono profondamente convinto” sottolinea “che la risposta che Israele sta dando, e il sostegno americano a quella risposta, non possa che portare inevitabilmente a sempre maggiore sofferenza sia per il popolo israeliano che per quello palestinese. E alla lunga, danneggiare anche gli interessi del nostro paese”. Secondo Josh, infatti, “la risposta di questa Amministrazione – e anche di gran parte del Congresso – non è altro che una reazione impulsiva basata solo su bias cognitivi, mera convenienza politica, e una tragica bancarotta intellettuale”. Josh si dichiara enormemente deluso, ma non sorpreso: “Il fatto” sottolinea Josh “è che il sostegno cieco a una parte a lungo termine è distruttivo per gli interessi dei cittadini di entrambe”. Il timore di Josh, insomma, è che “si stiano ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni. E io mi rifiuto di farne ancora parte”. Secondo Josh, infatti, in questo genere di conflitti “non dovremmo schierarci con uno dei combattenti, ma con le persone prese in mezzo, e quelle delle generazioni future. La nostra responsabilità” continua “dovrebbe essere aiutare le parti in conflitto a trovare una soluzione, mettendo sempre al centro i diritti umani, invece di cercare di eluderli. E, quando accadono, denunciarne le violazioni, indipendentemente da chi le commette, sia quando sono avversari, il che è facile, ma ancora di più quando sono nostri partner”. Ed è proprio per questi motivi, conclude Josh, “che mi sono dimesso dal governo degli Stati Uniti: perché se posso lavorare, e ho lavorato duramente per migliorare le politiche in materia di sicurezza, non posso lavorare a sostegno di una serie di decisioni politiche che ritengo miopi, distruttive, ingiuste e in palese contraddizione con i valori che sosteniamo pubblicamente e che sostengo con tutto il cuore: un ordine internazionale fondato sulle regole, e che promuova l’uguaglianza e l’equità”.
Abituati a esercitare un’egemonia totale in campo militare grazie all’esercito più grande e dispendioso della storia umana, in campo economico grazie allo strapotere del dollaro, e in campo ideologico grazie alla proprietà di tutti i mezzi di produzione del consenso, gli USA si sono illusi di poter applicare spudoratamente doppi standard a tutto quello che li riguarda senza mai dover pagare pegno, ma da Josh Paul ai vecchi alleati in Medio Oriente che a Biden, ormai, manco gli rispondono più al telefono perché hanno paura di essere linciati dalle loro opinioni pubbliche, il fascino indiscreto e totalizzante dell’impero sembra perdere continuamente smalto. E se a far crollare definitivamente l’impero non fosse qualche nemico esterno, ma semplicemente la sua ormai insostenibile tracotanza?

“L’America è la causa principale dell’ultima guerra tra Israele e Palestina”; nell’ultimo lungo articolo per Foreign Policy, il buon vecchio Stephen Walt, come gli capita spesso, ha deciso di toccarla pianissimo. Blasonato professorone di politica internazionale all’Università di Harvard, 15 anni fa divenne il bersaglio preferito della potente lobby israeliana dopo averne descritto, senza tanti fronzoli, la gigantesca influenza in un celebre libro scritto a 4 mani insieme al leggendario John Mearsheimer e pubblicato in Italia con il titolo “La Israel lobby e la politica estera americana”. Walt non può fare a meno di notare come “mentre israeliani e palestinesi piangono ognuno i loro morti, sembra impossibile riuscire a resistere alla tentazione di cercare qualcuno in particolare da incolpare. Gli israeliani e i loro sostenitori” continua Walt “vogliono attribuire tutta la colpa ad Hamas. Mentre coloro che sono solidali con la causa palestinese, vedono la tragedia come il risultato inevitabile di decenni di occupazione”. Walt, invece, propone un filone un po’ diverso e si propone di ricostruire a grandi linee “come 30 anni di politica estera americana si sono conclusi con un disastro”. La ricostruzione di Walt, infatti, parte dal 1991, l’anno della prima guerra del Golfo: “una straordinaria dimostrazione della potenza militare e dell’abilità diplomatica degli USA” sottolinea Walt “che sono stati in grado di eliminare la minaccia posta da Saddam Hussein agli equilibri regionali”. Walt ricorda come, all’epoca, l’Unione Sovietica fosse ormai sull’orlo del collasso, come gli USA utilizzarono questa schiacciante vittoria per consolidare la loro posizione di unica potenza globale “saldamente al posto di guida”, e anche come decisero di sfruttare questa posizione di dominio incontrastato per imporre,nell’ottobre del 1991, una conferenza di pace in grado di mettere attorno a un tavolo Israele, Siria, Libano, Egitto, Comunità Economica Europea, Unione Sovietica e una delegazione giordano-palestinese: è la famosa Conferenza di pace di Madrid che, secondo Walt, “sebbene non abbia prodotto risultati tangibili, aveva gettato le basi per un serio sforzo per costruire un ordine regionale pacifico”. Eppure, riconosce Walt, “Madrid conteneva anche un fatidico difetto, che avrebbe generato innumerevoli problemi nei decenni successivi”: a Madrid, infatti, mancava l’Iran. Non la presero proprio benissimo, diciamo; come osservava Trita Parsi nel suo Treacherous Alliance, infatti, “l’Iran vedeva in Madrid non solo una conferenza sul conflitto israelo-palestinese, ma come il momento decisivo nella formazione del nuovo ordine in Medio Oriente” e ovviamente, da grande potenza regionale quale indubbiamente era e continua ad essere, “si aspettava un posto a tavola”. E visto che quel posto a tavola non c’era, decise di prenotare un tavolo tutto suo in un ristorante diverso. Ospiti d’onore: Hamas e la Jihad islamica, due gruppi della resistenza palestinese in odor di fondamentalismo,che fino ad allora non s’era cacata di pezza. “Una risposta principalmente strategica, piuttosto che ideologica”, sottolinea Walt, per “dimostrare agli Stati Uniti e agli altri che se i suoi interessi non fossero stati presi in considerazione, era in grado di far fallire i loro piani”. Che, fa notare Walt, è esattamente quello che è successo poco dopo, “quando gli attentati suicidi e altri atti di violenza estremista hanno interrotto il processo di negoziazione degli accordi di Oslo e minato il sostegno israeliano a una soluzione negoziata”.
Per arrivare al secondo capitolo della ricostruzione di Walt, invece, bisognerà aspettare un’altra decina di anni; il riferimento, ovviamente, è all’11 settembre prima e all’invasione dell’Iraq del 2003 poi, che oltre ad essere stata una carneficina di dimensioni inaudite, in grado di trasformare in sanguinarie terroriste anche le suore Orsoline, alla fine è stata pure un altro regalo all’Iran. Come ricordava ieri il Financial Times, infatti, con quella specie di piccolo genocidio democratico “Washington non aveva fatto altro che rimuovere la minaccia più imminente ed esistenziale per la teocrazia, per poi lasciarle in eredità uno stato iracheno de debole infestato di quinte colonne iraniane”; un’evoluzione, sottolinea Walt, che “ha allarmato l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo”. Da lì in poi, prosegue Walt, “la percezione di una minaccia condivisa da parte dell’Iran ha cominciato a rimodellare le relazioni regionali in modo significativo, alterando anche le relazioni di alcuni stati arabi con Israele”.
Il terzo atto di questa lenta e inesorabile tragedia, poi, arriverà nel 2015, quando l’amministrazione Trump deciderà di abbandonare unilateralmente il patto per il nucleare iraniano. Una decisione scellerata che ha indotto l’Iran a “riavviare il suo programma nucleare e avvicinarsi molto a possedere finalmente la bomba” e, di conseguenza, ha indotto anche l’Arabia a ritenere indispensabile lo sviluppo di un nucleare suo, magari con l’aiutino di Tel Aviv.
Il quarto atto, infine, sarebbero gli Accordi di Abramo che, secondo Walt, sono un’estensione logica del ritiro unilaterale dal patto sul nucleare: “Nati da un’idea dello stratega dilettante, nonché genero di Trump, Jared Kishner” sottolinea Walt “hanno fatto relativamente poco per promuovere la causa della pace perché nessuno dei governi arabi partecipanti era attivamente ostile a Israele o capace di danneggiarlo”.

Che il piano di Trump per il Medio Oriente fosse totalmente fallimentare l’aveva capito addirittura un pezzo di classe dirigente USA e così tra le promesse elettorali di Biden, ecco che fa capolino l’intenzione di tornare a sottoscrivere il patto sul nucleare che però, appunto, rimane solo un’intenzione, e forse manco quella. In compenso Biden si è astenuto scientificamente dal provare a ostacolare in qualche modo la deriva ultra-reazionaria del governo israeliano, ormai esplicitamente clerico-fascista e impegnato a sostenere la ferocia estremista di coloni criminali che hanno spinto a un ulteriore radicalizzazione la maggioranza della popolazione palestinese. Intanto l’amministrazione Biden, nonostante la riapertura dei rapporti diplomatici tra sauditi e iraniani raggiunta grazie alla mediazione cinese, puntava tutto sul geniale Patto di Abramo del geniale Jared Kushner ma questa opzione, sottolinea Walt, “aveva poco a che fare con la pace tra israeliani e palestinesi, ed era piuttosto finalizzata esclusivamente a impedire un ulteriore avvicinamento dei sauditi alla Cina”. Insomma, la questione palestinese è completamente uscita dai radar: “Come il primo ministro Netanyau e il suo gabinetto” sottolinea Walt “i massimi funzionari statunitensi sembrano aver dato per scontato che non ci fosse nulla che un gruppo palestinese potesse fare per far deragliare o rallentare questo processo o attirare nuovamente l’attenzione sulla loro difficile situazione. Sfortunatamente” continua Walt “questo presunto accordo, invece, ha rappresentato per Hamas un potente incentivo a dimostrare quanto fosse sbagliata questa ipotesi”. Secondo Walt, quindi, il tipo di azione e la sua tempistica non sono stati altro che una risposta di Hamas – da questo punto di vista perfettamente razionale – “a sviluppi regionali che sono stati guidati in misura considerevole da preoccupazioni di tutt’altro genere”. Insomma, sottolinea Walt, “dagli accordi di Oslo Washington ha monopolizzato la gestione del processo di pace, ma i suoi sforzi alla fine non hanno portato assolutamente a nulla, e nel corso degli anni la soluzione dei due stati non ha fatto che allontanarsi sempre di più fino a diventare oggi probabilmente impossibile”. Un fallimento totale che offre un assist preziosissimo alle potenze che più coerentemente si battono per l’emergere di un nuovo ordine multipolare che, da questo punto di vista, risulterebbe semplicemente necessario, di fronte all’unipolarismo USA che, molto banalmente, non riesce a garantire la sicurezza per nessuno: “Gli Stati Uniti gestiscono da soli la regione da più di 3 decenni, e con quali risultati?” si chiede Walt: “assistiamo a guerre devastanti in Iraq, Siria, Sudan e Yemen” elenca Walt. “Il Libano è in fin di vita, in Libia c’è l’anarchia, l’Egitto sta barcollando verso il collasso. I gruppi terroristici si sono trasformati, e continuano a seminare terrore in tutti gli angoli del pianeta, mentre l’Iran si avvicina sempre di più alla bomba. Non c’è né sicurezza per Israele, né giustizia per la Palestina. Ecco cosa ottieni quando lasci che a gestire tutto sia Washington. A prescindere dall’idea che ognuno di noi ha su quali siano le reali intenzioni di Washington, il dato è che i leader USA ci hanno ripetutamente dimostrato che non hanno la saggezza e l’obiettività necessarie per ottenere risultati positivi. Nemmeno per se stessi”.

in foto: Joe Biden

Dall’altra parte c’è la Cina che può vantare il fatto di aver costruito relazioni costruttive con tutti gli attori regionali senza eccezione, al punto da riuscire a far tornare a dialogare anche due acerrimi nemici storici come Arabia Saudita e Iran: “non è ovvio che il mondo trarrebbe beneficio se il ruolo degli Stati Uniti diminuisse e quello dei cinesi aumentasse?”. Ovviamente quella di Walt, che come Mearsheimer è un conservatore e non ha nessuna simpatia per l’ascesa cinese e del sud globale in generale, è una provocazione e un campanello d’allarme: “se anche tu pensi che affrontare la sfida di una Cina in ascesa sia una priorità assoluta” scrive infatti “potresti voler riflettere su come le azioni passate degli USA hanno contribuito alla crisi attuale”. Walt infine, al contrario di quanto sosteniamo noi da giorni, riconosce all’amministrazione Biden lo sforzo in queste ore di provare a contenere l’escalation del conflitto, “ma” sottolinea “il team di politica estera dell’amministrazione assomiglia più a una squadra di meccanici che non di architetti” e potrebbe non essere minimamente attrezzato ad affrontare un’epoca in cui “l’architettura istituzionale della politica mondiale è sempre più un problema e sono necessari nuovi progetti. E’ ovvio” insiste Walt “che hanno interpretato male la direzione in cui era diretto il Medio Oriente, e l’applicazione dei cerotti oggi – anche se viene fatta con energia e abilità – lascerà comunque le ferite sottostanti non curate. Se il risultato finale delle attuali amministrazioni di Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken fosse semplicemente un ritorno allo status quo pre 7 ottobre” conclude Walt “temo che il resto del mondo starà a guardare, scuoterà la testa con sgomento e disapprovazione, e concluderà che è arrivato il tempo per un approccio diverso”.
Se anche tu, quando vedi rimbambiden e i suoi vassalli in giro per il mondo, scuoti la testa e pensi che sarebbe arrivato il momento per un approccio leggermente diverso, aiutaci a costruire il primo media che guarda al mondo nuovo che avanza senza le lenti annebbiate dei vecchi babbioni suprematisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Chicco Mentana

Il peggior amico: come l’Italia ha tradito i palestinesi e ha imparato ad amare i carnefici

In piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.

“Considero legittima la lotta armata dei palestinesi”. Era il 6 giugno, 1985, e con queste parole Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio, affrontava davanti alla Camera dei Deputati la questione palestinese. Oggi, le stesse parole pronunciate da un’alta carica dello stato verrebbero immediatamente etichettate come il delirio di un fanatico filo-hamas e determinerebbero la fine della sua carriera politica. Questo, nonostante a riconoscere la legittimità di un popolo alla lotta armata in caso di occupazione straniera sia la stessa Onu e sia sempre la stessa Onu a chiedere a Israele di fermare la sua invasione e riconoscere il diritto dei palestinesi ad un loro Stato nazionale con la stessa dignità di tutti gli altri. Nulla da fare, in Italia in questi giorni anche solo definire territori occupati territori effettivamente, da ogni punto di vista, occupati, o addirittura pretendere che la comunità internazionale faccia pressione su Israele affinchè si ritiri nei propri confini, comporta automaticamente l’accusa di connivenza con il terrorismo e se non con l’anti-semitismo.

Non è sempre stato così.

Durante la guerra fredda, quando l’Italia conservava ancora un pò di dignità nazionale e mostrava un minimo di indipendenza rispetto agli interessi geopolitici americani, la questione palestinese non era affrontata nei termini ideologici e farneticanti con cui viene affrontata oggi.
In questa nuova puntata di pill8lina ripercorriamo la storia dei rapporti diplomatici tra il popolo italiano e quello palestinese, e di come il nostro Paese, da essere lo Stato occidentale più vicino e solidale alla lotta di indipendenza palestinese, si sia trasformato negli ultimi trent’anni in un acritico sostenitore del fanatismo e dell’imperialismo.

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, l’Italia dedicò grande attenzione al mondo arabo. Negli anni 50’, anche se la politica estera italiana aveva un margine di manovra limitato nel contesto della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il governo cercò di avere un ruolo attivo nel mediterraneo approfittando della propria posizione favorevole di “ponte” tra l’Europa e il vicino oriente. Da un lato, la Democrazia Cristiana, primo partito italiano, voleva dare priorità alle politiche di integrazione europea e basata sugli interessi atlantici. Dall’altro, diversi attori politici e industriali stavano creando relazioni forti e durature nell’area del Mediterraneo. In particolare le forze socialiste, i partiti laici e anche la corrente di sinistra interna alla DC, erano convinti che una forte presenza dell’Italia nel mondo arabo potesse contribuire alla nascita di una “terza via” rispetto alla dicotomia della Guerra Fredda. Il tentativo di perseguire una politica di equidistanza tra il neonato stato di Israele e la causa palestinese ha caratterizzato gli anni ’50 e ’60 con risultati controversi:

durante la crisi di Suez del 1956, ad esempio, l’Italia ebbe un ruolo fondamentale nella risoluzione del conflitto: non solo condannò l‘invasione da parte di Israele, Francia e Gran Bretagna, ma si impegnò diplomaticamente per mettere fine alle tensioni. Undici anni dopo, durante la guerra del ‘67, nonostante la dialettica interna alla maggioranza di governo, l’Italia si rifiutò di condannare l’Egitto e lega araba, ma poi decise di convergere verso il piano di “pace” americano, con ripercussioni negative sui nostri rapporti economici con gli Stati Arabi. Ma fu negli anni ’70 che l’Italia virò più decisamente verso una posizione pro-palestinese. Sotto la guida dell’allora Primo Ministro Aldo Moro, e nonostante le critiche degli Stati Uniti, l’Italia promosse diverse iniziative a favore della Palestina.

Insieme alla Francia, sostenne la partecipazione di Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974, e poi lo accolse pure in visita ufficiale in Italia.

Il sostegno aumentò ulteriormente nel decennio successivo.

Nel 1985, l’Italia rifiutò di concedere l’estradizione ai dirottatori palestinesi dell’Achille Lauro. È l’anno del discorso di Craxi citato all’inizio e ispirato niente popodimeno che alla figura di Giuseppe Mazzini: “Quando Giuseppe Mazzini nella sua solitudine, nel suo esilio, si macerava nell’ideale dell’unità ed era nella disperazione per come affrontare il potere”, dichiarava enfaticamente Craxi, “lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva e disegnava e progettava gli assassinii politici. Questa è la verità della storia”, continuava Craxi, “e contestare a un movimento che voglia liberare il proprio Paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi significa andare contro le leggi della storia”.

Tre anni prima, l’opinione pubblica italiana aveva reagito con sdegno unanime al massacro di Sabra e Shatila e L’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva energicamente condannato il massacro durante il Messaggio di Fine Anno agli Italiani del 1983. “Una volta”, dichiarò Pertini, “furono gli ebrei a conoscere la “diaspora”. Vennero cacciati dal Medio oriente e dispersi nel mondo; adesso lo sono invece i palestinesi”, che “hanno diritto sacrosanto ad una patria ed a una terra come l’hanno avuta gli israeliti”

“Se vi sono nazioni in cui i diritti civili ed umani sono annullati”, continuava Pertini condannando Israele , “non vi è che un provvedimento da prendere contro queste nazioni: l’espulsione dall’Onu. Non valgono le proteste, se le porta via il vento. Non valgono le polemiche. Siano espulse dalla Organizzazione delle Nazioni Unite. Sia dato loro il bando, siano indicate all’umanità come colpevoli”.
Ma verso la fine degli anni ‘80, qualcosa è cominciato a cambiare. I motivi, li spiega magistralmente la ricercatrice dell’università di Oxfors Mjriam Abu Samra. Il primo è la totale integrazione dell’Italia, dopo la guerra fredda, all’interno della sfera politica e culturale americana. Un’appiattimento, che ha cambiato anche la narrazione dei media, che negli anni hanno tentato in tutti i modi di sradicare ogni forma di simpatia nei confronti della causa Palestinese dall’opinione pubblica italiana. Il secondo, riassume sempre Abu Samra “è costituito dai lenti ma inesorabili cambiamenti delle pratiche organizzative palestinesi e della loro visione politica, cristallizzata dagli Accordi di Oslo”. Secondo Abu Samra infatti, “Non solo l‘OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) si è trasformata da movimento rivoluzionario in apparato quasi statale che privilegia la diplomazia rispetto all’attivismo popolare, ma la frammentazione politica dell’organizzazione ha avuto anche un impatto negativo sull’attivismo popolare, causando una paralisi senza precedenti delle attività sociali, culturali e politiche dei palestinesi in Italia”.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: in Italia ormai sostenere qualcosa di diverso dalla linea ufficiale decretata da Washington e Tel Aviv è tabù, il tutto nel nome dell’affinità culturale con quella che con sprezzo per il pericolo e sezna senso del ridicolo continuiamo a definire “l’unica democrazia del medio oriente”. Nei media e nelle dichiarazioni dei politici, lotta per la liberazione e l’indipendenza di un popolo è stato derubricato da un lato dai finto progressisti a semplice problema umanitario, e dall’altro, dalla destra reazionaria, addirittura a tassello della narrazione razzista e suprematista dello “scontro di civiltà”. Supportata da questa propaganda, la politica Italiana ha di fatto sostenuto le politiche imperialiste israeliane anche quando venivano ufficialmente condannate dall’Onu e da tutte le più importanti organizzazioni internazionali, fino ad arrivare ad una prima impensabile identificazione tra un immaginario “noi” di cui Israele farebbe parte, contrapposto a un “loro” che include i palestinesi. In questo quadro, la vittoria democratica di Hamas alle elezioni dell‘Autorità Nazionale del 2006 è stata sfruttata per rietichettare la lotta di liberazione palestinese come uno dei tanti fronti aperti dal “terrorismo islamico”. Ed ecco così che dalla solidarietà e la capacità di svolgere un ruolo di mediazione, indispensabile anche per difendere i nostri interessi nazionali, siamo passati alle bandiere israeliane proiettate e sventolate in questi giorni sui nostri edifici istituzionali. Le bandiere di uno Stato, ribadiamo, condannato ripetutamente dall’Onu per invasione, annessione, e violazione dei diritti umani. Una svolta oltretutto, che testimonia in modo plateale anche un vero e proprio cambio di paradigma culturale: negli anni dopo l’occupazione nazi-fascista e memori della resistenza infatti, era diffusa in Italia l’idea che le tecniche di guerriglia adottate da un popolo occupato fossero politicamente giustificate, e che la responsabilità morale dei massacri e delle stragi commesse da entrambe le parti dovesse ricadere sempre su gli invasori e non sugli invasi .

Oggi invece, in piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.
Contro il coro unanime della propaganda, per ricominciare a vedere il mondo dal punto di vista di chi è oppresso, e non di chi opprime, abbiamo bisogno di un vero e proprio media libero e indipendente

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E chi non aderisce è David Parenzo.

L’intelligenza artificiale è un’arma di distruzione di massa: e gli USA si rifiutano di regolarla

Ma quante storie con questa intelligenza artificiale, è solo una tecnologia.

Giusto, è solo una tecnologia: come la bomba atomica, il sarin, o anche l’ingegneria genetica, o l’energia prodotta da fonti fossili.

Sono solo tecnologie, che sarà mai…

Lo sviluppo industriale e scientifico degli ultimi due secoli ha comportato benefici straordinari, ma non sono gratis. Grazie proprio a questo incredibile sviluppo oggi infatti l’essere umano e le forme specifiche di organizzazione politica, sociale ed economica di cui si è dotato, ha il potere di distruggere definitivamente, se non proprio l’intero pianeta che ci ospita, di sicuro una fetta consistente della vita che lo anima, a partire in particolare dalla nostra stessa specie. Come dice l’uomo ragno, “da un grande potere, derivano grandi responsabilità”.

Saremo abbastanza adulti e consapevoli da potercele accollare?

A giudicare dal fanatismo ideologico nel quale ci hanno catapultato cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista, sembrerebbe proprio di no. Ai piani bassi, la profonda trasformazione antropologica imposta dalla controrivoluzione ha fatto si che la nostra capacità di lettura dei fenomeni e dei processi che condizionano la nostra vita venisse sistematicamente compromessa dal pervadere di una inscalfibile superstizione di massa: le cose si aggiusteranno da sole, grazie alla mano invisibile del mercato.

O comunque, anche se non si aggiusteranno, ha ragione TINA, la nostra amica immaginaria collettiva, che ci insegna che There Is No Alternative. Tocca farsi il segno del dollaro, al posto di quello della croce e avere fede nell’intervento salvifico di un entità immaginaria. Ai piani alti invece, dove in realtà che un’alternativa c’è sempre: lo sanno benissimo e invece che sulla leggenda della mano invisibile,preferiscono concentrarsi sulla realtà concretissima di chi detiene il potere e per farci cosa, semplicemente del destino dell’umanità e della vita tutta, non hanno tempo di occuparsene. Sono troppo presi ad accumulare quanta più ricchezza e quanto più potere nel minor tempo possibile e le conseguenze, per quanto devastanti, vengono catalogate semplicemente sotto la voce “effetti collaterali”.

L’intelligenza artificiale non fa eccezione.

Senza entrare nei dettagli di un dibattito tecnico che di scientifico mi sembra abbia pochino, da qualunque punto di vista la si guardi, sul tema esistono sostanzialmente due opzioni:

1 – L’intelligenza artificiale è un bel giochino, va bene, ma è solo una tecnologia tra le tante, con un impatto limitato. Quindi anche i rischi che comporta sono limitati. e quindi anche basta con tutto questo hype ingiustificato.

2 – L’intelligenza artificiale comporta una vera e propria rivoluzione tecnologica, in grado di modificare in profondità sostanzialmente tutto quello che facciamo e come lo facciamo. In tal caso, come la giri la giri, comporta anche rischi enormi. sostanzialmente, incalcolabili.

Noi, molto onestamente, non siamo minimamente in grado di dirvi quale delle due opzioni sia quella giusta. Possiamo però fare una semplicissima deduzione logica: se quella giusta è l’opzione numero 2, siamo letteralmente nella merda.

Voi, in tutta sincerità, ve la sentite di accollarvi il rischio?

18 luglio 2023, New York, sede delle Nazioni Unite.

Dopo lunghe ed estenuanti trattative, per la prima volta in assoluto il Consiglio di Sicurezza si riunisce per affrontare un tema avvertito da più parti come sempre più urgente: i rischi legati all’intelligenza artificiale applicata ai sistemi d’arma. A promuovere l’incontro, la Cina: da 18 mesi. La prima volta che i funzionari cinesi avevano provato a portare il tema alle nazioni unite infatti era il dicembre 2021. Il Ministero degli Esteri aveva da poco pubblicato un documento ufficiale per la “regolazione della applicazioni militari dell’intelligenza artificiale”: dal momento che la pace e lo sviluppo nel mondo si trovano ad affrontare sfide dalle molteplici sfaccettature”, si legge nel documento, “i diversi paesi dovrebbero elaborare una visione sulla sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile, e cercare il consenso sulla regolamentazione delle applicazioni militari dell’IA attraverso il dialogo e la cooperazione e stabilire un regime di governance efficace, al fine di prevenire danni gravi o addirittura disastri causati dalle applicazioni militari dell’Iintelligenza artificiale”. Soltanto una governance comune globale e cooperativa, sostengono i cinesi, può aiutarci a “prevenire e gestire i potenziali rischi, promuovere la fiducia reciproca tra i paesi e prevenire così una nuova pericolosissima corsa agli armamenti”. Il rischio, in particolare, riguarda eventuali sistemi di risposta automatica.

Non è un problema del tutto inedito

Sistemi di allarme preventivo automatizzati infatti sono sempre esistiti. Come il celebre Oko, il sofisticato sistema di allerta precoce sviluppato a partire dai primi anni ‘70 e che ha rischiato di catapultarci in un conflitto nucleare, per sbaglio. Era il settembre del 1983: l’Oko segnala il lancio di una batteria di ben cinque missili intercontinentali. Il protocollo prevedeva di riportare l’allerta immediatamente ai piani alti della catena di comando, ma secondo la dottrina della “distruzione reciproca assicurata”, la risposta sarebbe dovuta essere un contrattacco nucleare immediato obbligatorio contro gli USA. Fortunatamente però quel giorno il compito di trasmettere le allerte del sistema era toccato al colonnello Stanislav Petrov. Sin da subito, Petrov pensò a un errore: era convinto che in caso di primo attacco nucleare gli USA avrebbero lanciato contemporaneamente centinaia di missili nel tentativo di annientare la capacità controffensiva sovietica, quindi decise di non riportare l’allarme ai superiori, ed ebbe ragione.

Nessun missile intercontinentale toccò mai il suolo sovietico. Petrov aveva evitato la guerra nucleare. Ma nessuno gli disse grazie, anzi…

Premiarlo, infatti, avrebbe comportato riconoscere ufficialmente le carenze del sistema. Poco dopo, fu costretto a ritirarsi in pensione prima del tempo per un esaurimento nervoso. Il timore espresso dai cinesi, appunto, è che si vada verso una situazione dove non ci sarà più un Petrov a salvarci dall’estinzione, e che quindi è urgente mettere dei paletti condivisi.

Ad aumentare a dismisura i rischi di incidente, infatti, è l’inizio dell’era dei missili ipersonici, che con la loro velocità fino a dodici volte superiore a quella del suono, accorciano in maniera drastica il tempo utile per consentire un eventuale intervento umano. Una minaccia esistenziale, la cui risoluzione non può più essere rinviata. È essenziale garantire il controllo umano per tutti i sistemi d’arma abilitati all’intelligenza artificiale”, ha affermato di fronte al consiglio di sicurezza l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, sottolineando che “questo controllo deve essere sufficiente, efficace e responsabile”

Ma la partita militare è solo una parte del problema

Se davvero l’intelligenza artificiale è questa rivoluzione epocale di cui tutti parlano, il suo potenziale distruttivo necessariamente va ben oltre il campo di battaglia e il problema di una governance “globale, cooperativa e sostenibile” riguarda necessariamente anche ben altri ambiti. Ed è proprio per rispondere a questa esigenza che nel luglio scorso a Nishan, nella provincia orientale dello Shandong, i cinesi hanno invitato tutti gli stati del pianeta, a prescindere dal loro orientamente politico, a partecipare alla World Internet Conference. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri”, avrebbe dichiarato il vice direttore del dipartimento per il controllo delle armi del Ministero degli Esteri, “hanno pari diritti di partecipare alla governance globale dell’IA”.

Il Nord Globale, però, ha risposto picche. Non si sono manco presentati: erano occupati a organizzare un altro simposio, tutto loro. Si dovrebbe tenere il prossimo novembre nel Regno Unito. Ma i cinesi, come d’altronde una lunga serie di altri Paesi ritenuti dall’Occidente globale dei pariah, non sono stati invitati.

Una follia, che ha spinto addirittura i ricercatori dell’occidentalissimo e liberalissimo Oxford Internet Institute a scrivere una lettera aperta di protesta al Financial Times: perchè escludere la Cina dal summit sull’intelligenza artificiale sarebbe un errore”, si intitola. Ribadisce quello che dovrebbe essere ovvio, ma che in questo clima avvelenato da guerra ibrida globale, evidentemente, non lo è più: primo”, scrivono, “i rischi posti dai sistemi di intelligenza artificiale trascendono i confini nazionali. senza il coinvolgimento della Cina, qualsiasi accordo internazionale teso a contrastarli sarebbe del tutto futile. Prendiamo ad esempio l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per lo sviluppo di armi chimiche. Se un accordo sulle migliori pratiche per prevenire ciò escludesse la Cina, gli altri paesi potrebbero semplicemente utilizzare i sistemi di intelligenza artificiale cinesi per questo tipo di scopi dannosi”. “Secondo”, continuano, “qualsiasi accordo internazionale, se verrà percepito come un vantaggio per la Cina, nopn potrà che essere respinto, in particolare negli Stati Uniti. Fino ad oggi, infatti, gli sforzi esistenti per introdurre una regolamentazione sono stati vanificati dai timori di perdere una “corsa agli armamenti dell’intelligenza artificiale” a favore della Cina. Avere la Cina al tavolo riduce questo rischio, poiché sarà vincolata dallo stesso accordo”. Per finire, “In terzo luogo, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno in gran parte ritardato la regolamentazione dell’intelligenza artificiale, la Cina è stata proattiva. Di fatto è l’unico paese a promulgare regolamenti specificamente mirati all’intelligenza artificiale generativa. Questa esperienza normativa sarebbe preziosa per indirizzare una politica ben progettata al vertice sull’intelligenza artificiale del Regno Unito”.


L’esclusione della Cina non è l’unico aspetto del summit a sdubbiare la comunità accademica. Secondo Wendy Hall dell’Università di Southampton, riporta sempre il Financial Times, il problema principale è costituito dal fatto che “i consigli proverranno principalmente dalle grandi aziende tecnologiche stesse”.

““È giusto”, si chiede la Hall, “che le persone che traggono profitto da questa rivoluzione siano le stesse che progettano la sua regolamentazione?”. Ed ecco così svelata la vera natura del conflitto insanabile tra come intende la governance dell’intelligenza artificiale la Cina, e come la intendono i paesi del Nord Globale. Come ricorda sempre un ricercatore di quella temibile cellula dell’internazionale bolscevica che è l’Oxford Internet Institute, in un articolo pubblicato ieri su Asia Times: “il 15 agosto 2023, in Cina è entrata in vigore una nuova legge per la regolazione dell’intelligenza artificiale generativa. è solo l’ultimo di una lunga serie di sforzi mirati a governare diversi aspetti dell’intelligenza artificiale, ed è la prima legge al mondo specificatamente rivolta all’intelligenza artificiale generativa”. La legge introduce alcune restrizioni importanti per le società che offrono questo genere di servizi, in particolare in relazione alla natura dei dati utilizzati per addestrare gli algoritmi. Sin dalla fine del 2020, la Cina ha intrapreso una lunga battaglia contro il consolidamento di un oligopolio da parte dei grandi gruppi tecnologici, rafforzando l’azione della sua agenzia antitrust, e sopratutto ponendo limiti chiari allo sfruttamento dei dati personali a fini commerciali. Un approccio molto simile a quello adottato dall’Unione Europea a partire dall’introduzione del GDPR. Con la differenza che queste restrizioni all’Europa non sono costate niente, visto che non ha sue proprie aziende competitive nel settore. La Cina invece, nonostante la guerra tecnologica ingaggiata nei suoi confronti dagli USA, ha deciso di porre alcuni paletti precisi allo strapotere delle principali aziende tecnologiche, in nome della tutela dei diritti degli utenti. Come ricorda anche l’Economist: “Un modo in cui le aziende cinesi di intelligenza artificiale potrebbero essere frenate è limitando i dati personali resi disponibili per addestrare i loro modelli di intelligenza artificiale”.

L’economist ricorda come “Il partito gestisce lo stato di sorveglianza di massa più sofisticato del mondo, e fino a poco tempo fa, anche le aziende tecnologiche cinesi erano in grado di sfruttare i dati personali. Ma quest’era sembra ormai essere definitivamente tramontata. Ora le aziende che vogliono utilizzare determinati tipi di dati personali devono ottenere prima il consenso. E L’anno scorso la CAC ha multato Didi Global, una società di ride-sharing, per l’equivalente di 1,2 miliardi di dollari per aver raccolto e gestito illegalmente i dati degli utenti”. Ora, con questa ultima legge sull’intelligenza artificiale, conclude l’economist, “le aziende sarebbero responsabili della tutela delle informazioni personali degli utenti”. Esattamente il contrario, in soldoni, di quanto avvenuto negli USA, dove con la scusa del laissez-faire, semplicemente si è deciso di dare carta bianca ai giganti tecnologici a spese dei diritti degli utenti con la sola finalità di avvantaggiare la concentrazione del potere nelle mani appunto di un oligopolio adeguatamente foraggiato in grado di vincere la competizione contro i gruppi cinesi e anche procedere indisturbato alla colonizzazione digitale del vecchio continente. Ma come sottolinea sempre lo stesso articolo su Asia Times, “Un approccio normativo più rigido, potrebbe rivelarsi economicamente impegnativo nel breve termine, ma sarà essenziale per mitigare i danni agli individui, e anche per mantenere la stabilità sociale”.

Insomma, come abbiamo sottolineato svariate volte già in passato, paradossalmente, l’approccio cinese, teso a governare questo processo con regole trasparenti a tutela di consumatori ed utenti, sembra essere molto più vicino a quello europeo di quanto non lo sia invece il far west immaginario di Washington. Una differenza, quella dell’approccio europeo rispetto a quello a stelle e strisce, sottolineata sempre dall’Oxford Internet Institute in un lungo paper di ormai 2 anni fa, dove si sottolineava che mentre “dal punto di vista della governance dell’intelligenza artificiale, l’approccio europeo è eticamente più corretto”, dal momento che “Mette in primo piano la protezione dei diritti dei cittadini delineando il valore guida di un’intelligenza artificiale affidabile incentrata sull’uomo. Il laissez-faire intrapreso dagli Stati Uniti è eticamente decisamente più discutibile, dal momento che ha affidato gran parte della governance dell’AI nelle mani degli attori privati, lasciando ampio margine alle imprese per mettere i propri interessi davanti a quelli dei cittadini”. “Ciò nonostante”, scrive l’economist, “l’idea che la Cina possa fungere da guida per quanto riguarda l’etica dell’intelligenza artificiale dovrebbe terrorizzare i governi occidentali”.

Capito come ragionano?

La Cina procede cautamente per tutelare i cittadini proprio come vorrebbe fare l’Unione Europea, però il nostro alleato anche in questa partita devono per forza essere gli USA, anche se stanno combinando un disastro, perché alla fine i cinesi rimangono comunque sempre cinesi…

Decidere su aspetti fondamentali per la nostra sicurezza in base al razzismo, insomma: benvenuti nel 2023.

Cosa mai potrebbe andare storto?

L’umanità si trova di fronte a sfide epocali che potrebbero metterne a rischio la stessa sopravvivenza, ma la principale potenza del globo è ostaggio di un manipolo di oligarchi pronti a consegnarci mani e piedi al più distopico dei futuri possibili pur di non cedere nemmeno un pezzettino della spaventosa concentrazione di ricchezza e di potere che hanno accumulato sulla nostra pelle.

Sarebbe arrivata l’ora di mandarli anche un po’ a fare in culo

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e chi non aderisce è Bill Gates