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I’m just a lonely boy: come il sostegno al genocidio di Gaza sta isolando Biden e gli USA.

A gestire le decine e decine di miliardi di aiuti militari che gli USA hanno inviato all’Ucraina negli ultimi ormai poco meno di due anni, c’è un piccolissimo ufficio con appena una decina di dipendenti che negli ambienti militari statunitensi ormai sono diventati leggendari; dal giorno alla notte hanno gestito, senza battere ciglio, un aumento del carico di lavoro del 15 mila % imparando a “svolgere in poche ore quello che prima richiedeva mesi”, come riportava enfaticamente Defenseone. Tra quei 10 eroi della patria, con ruolo apicale, c’è anche lui: Josh Paul.

“Sono entrato a far parte dell’Ufficio per gli affari politico-militari (PM) più di 11 anni fa” ha scritto Josh “e l’ho trovato immediatamente un lavoro affascinante e coinvolgente, fatto di compiti e obiettivi estremamente impegnativi sia intellettualmente che moralmente. Sono molto orgoglioso” continua Josh “di aver fatto molte volte la differenza, sia visibilmente che dietro le quinte, dalla difesa dei rifugiati afghani, all’aver influenzato le decisioni dell’amministrazione sul trasferimento di armi letali in paesi accusati di mancato rispetto dei diritti umani. Quando sono arrivato in questo ufficio, che è l’ente governativo degli Stati Uniti maggiormente responsabile del trasferimento e della fornitura di armi a partner e alleati, sapevo benissimo che il mio compito era tutt’altro che privo di complessità morale e di compromessi delicati, e mi sono ripromesso che sarei rimasto finché i danni che ero costretto a fare fossero stati controbilanciati da sufficienti contributi positivi. E in questi 11 anni ho fatto più compromessi morali di quanti riesco a ricordare, ma senza mai venir meno a quel patto con me stesso”. Ma dopo 11 anni, conclude Josh, “oggi finalmente sento il dovere di andarmene”. E questa è la sua lettera di dimissioni.
A convincere Josh che ormai quel patto si era rotto, infatti, sarebbe “la fornitura continuata, anzi, ampliata, e accelerata, di armi letali a Israele” che lo ha posto di fronte a una contraddizione insanabile: “non possiamo essere una volta contrari alle occupazioni, e un’altra volta a favore. Non possiamo essere una volta a favore della libertà, e un’altra contro. E non possiamo dirci a favore di un mondo migliore, mentre contribuiamo concretamente a crearne uno peggiore”. Josh condanna senza appello l’azione di Hamas “ma sono profondamente convinto” sottolinea “che la risposta che Israele sta dando, e il sostegno americano a quella risposta, non possa che portare inevitabilmente a sempre maggiore sofferenza sia per il popolo israeliano che per quello palestinese. E alla lunga, danneggiare anche gli interessi del nostro paese”. Secondo Josh, infatti, “la risposta di questa Amministrazione – e anche di gran parte del Congresso – non è altro che una reazione impulsiva basata solo su bias cognitivi, mera convenienza politica, e una tragica bancarotta intellettuale”. Josh si dichiara enormemente deluso, ma non sorpreso: “Il fatto” sottolinea Josh “è che il sostegno cieco a una parte a lungo termine è distruttivo per gli interessi dei cittadini di entrambe”. Il timore di Josh, insomma, è che “si stiano ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni. E io mi rifiuto di farne ancora parte”. Secondo Josh, infatti, in questo genere di conflitti “non dovremmo schierarci con uno dei combattenti, ma con le persone prese in mezzo, e quelle delle generazioni future. La nostra responsabilità” continua “dovrebbe essere aiutare le parti in conflitto a trovare una soluzione, mettendo sempre al centro i diritti umani, invece di cercare di eluderli. E, quando accadono, denunciarne le violazioni, indipendentemente da chi le commette, sia quando sono avversari, il che è facile, ma ancora di più quando sono nostri partner”. Ed è proprio per questi motivi, conclude Josh, “che mi sono dimesso dal governo degli Stati Uniti: perché se posso lavorare, e ho lavorato duramente per migliorare le politiche in materia di sicurezza, non posso lavorare a sostegno di una serie di decisioni politiche che ritengo miopi, distruttive, ingiuste e in palese contraddizione con i valori che sosteniamo pubblicamente e che sostengo con tutto il cuore: un ordine internazionale fondato sulle regole, e che promuova l’uguaglianza e l’equità”.
Abituati a esercitare un’egemonia totale in campo militare grazie all’esercito più grande e dispendioso della storia umana, in campo economico grazie allo strapotere del dollaro, e in campo ideologico grazie alla proprietà di tutti i mezzi di produzione del consenso, gli USA si sono illusi di poter applicare spudoratamente doppi standard a tutto quello che li riguarda senza mai dover pagare pegno, ma da Josh Paul ai vecchi alleati in Medio Oriente che a Biden, ormai, manco gli rispondono più al telefono perché hanno paura di essere linciati dalle loro opinioni pubbliche, il fascino indiscreto e totalizzante dell’impero sembra perdere continuamente smalto. E se a far crollare definitivamente l’impero non fosse qualche nemico esterno, ma semplicemente la sua ormai insostenibile tracotanza?

“L’America è la causa principale dell’ultima guerra tra Israele e Palestina”; nell’ultimo lungo articolo per Foreign Policy, il buon vecchio Stephen Walt, come gli capita spesso, ha deciso di toccarla pianissimo. Blasonato professorone di politica internazionale all’Università di Harvard, 15 anni fa divenne il bersaglio preferito della potente lobby israeliana dopo averne descritto, senza tanti fronzoli, la gigantesca influenza in un celebre libro scritto a 4 mani insieme al leggendario John Mearsheimer e pubblicato in Italia con il titolo “La Israel lobby e la politica estera americana”. Walt non può fare a meno di notare come “mentre israeliani e palestinesi piangono ognuno i loro morti, sembra impossibile riuscire a resistere alla tentazione di cercare qualcuno in particolare da incolpare. Gli israeliani e i loro sostenitori” continua Walt “vogliono attribuire tutta la colpa ad Hamas. Mentre coloro che sono solidali con la causa palestinese, vedono la tragedia come il risultato inevitabile di decenni di occupazione”. Walt, invece, propone un filone un po’ diverso e si propone di ricostruire a grandi linee “come 30 anni di politica estera americana si sono conclusi con un disastro”. La ricostruzione di Walt, infatti, parte dal 1991, l’anno della prima guerra del Golfo: “una straordinaria dimostrazione della potenza militare e dell’abilità diplomatica degli USA” sottolinea Walt “che sono stati in grado di eliminare la minaccia posta da Saddam Hussein agli equilibri regionali”. Walt ricorda come, all’epoca, l’Unione Sovietica fosse ormai sull’orlo del collasso, come gli USA utilizzarono questa schiacciante vittoria per consolidare la loro posizione di unica potenza globale “saldamente al posto di guida”, e anche come decisero di sfruttare questa posizione di dominio incontrastato per imporre,nell’ottobre del 1991, una conferenza di pace in grado di mettere attorno a un tavolo Israele, Siria, Libano, Egitto, Comunità Economica Europea, Unione Sovietica e una delegazione giordano-palestinese: è la famosa Conferenza di pace di Madrid che, secondo Walt, “sebbene non abbia prodotto risultati tangibili, aveva gettato le basi per un serio sforzo per costruire un ordine regionale pacifico”. Eppure, riconosce Walt, “Madrid conteneva anche un fatidico difetto, che avrebbe generato innumerevoli problemi nei decenni successivi”: a Madrid, infatti, mancava l’Iran. Non la presero proprio benissimo, diciamo; come osservava Trita Parsi nel suo Treacherous Alliance, infatti, “l’Iran vedeva in Madrid non solo una conferenza sul conflitto israelo-palestinese, ma come il momento decisivo nella formazione del nuovo ordine in Medio Oriente” e ovviamente, da grande potenza regionale quale indubbiamente era e continua ad essere, “si aspettava un posto a tavola”. E visto che quel posto a tavola non c’era, decise di prenotare un tavolo tutto suo in un ristorante diverso. Ospiti d’onore: Hamas e la Jihad islamica, due gruppi della resistenza palestinese in odor di fondamentalismo,che fino ad allora non s’era cacata di pezza. “Una risposta principalmente strategica, piuttosto che ideologica”, sottolinea Walt, per “dimostrare agli Stati Uniti e agli altri che se i suoi interessi non fossero stati presi in considerazione, era in grado di far fallire i loro piani”. Che, fa notare Walt, è esattamente quello che è successo poco dopo, “quando gli attentati suicidi e altri atti di violenza estremista hanno interrotto il processo di negoziazione degli accordi di Oslo e minato il sostegno israeliano a una soluzione negoziata”.
Per arrivare al secondo capitolo della ricostruzione di Walt, invece, bisognerà aspettare un’altra decina di anni; il riferimento, ovviamente, è all’11 settembre prima e all’invasione dell’Iraq del 2003 poi, che oltre ad essere stata una carneficina di dimensioni inaudite, in grado di trasformare in sanguinarie terroriste anche le suore Orsoline, alla fine è stata pure un altro regalo all’Iran. Come ricordava ieri il Financial Times, infatti, con quella specie di piccolo genocidio democratico “Washington non aveva fatto altro che rimuovere la minaccia più imminente ed esistenziale per la teocrazia, per poi lasciarle in eredità uno stato iracheno de debole infestato di quinte colonne iraniane”; un’evoluzione, sottolinea Walt, che “ha allarmato l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo”. Da lì in poi, prosegue Walt, “la percezione di una minaccia condivisa da parte dell’Iran ha cominciato a rimodellare le relazioni regionali in modo significativo, alterando anche le relazioni di alcuni stati arabi con Israele”.
Il terzo atto di questa lenta e inesorabile tragedia, poi, arriverà nel 2015, quando l’amministrazione Trump deciderà di abbandonare unilateralmente il patto per il nucleare iraniano. Una decisione scellerata che ha indotto l’Iran a “riavviare il suo programma nucleare e avvicinarsi molto a possedere finalmente la bomba” e, di conseguenza, ha indotto anche l’Arabia a ritenere indispensabile lo sviluppo di un nucleare suo, magari con l’aiutino di Tel Aviv.
Il quarto atto, infine, sarebbero gli Accordi di Abramo che, secondo Walt, sono un’estensione logica del ritiro unilaterale dal patto sul nucleare: “Nati da un’idea dello stratega dilettante, nonché genero di Trump, Jared Kishner” sottolinea Walt “hanno fatto relativamente poco per promuovere la causa della pace perché nessuno dei governi arabi partecipanti era attivamente ostile a Israele o capace di danneggiarlo”.

Che il piano di Trump per il Medio Oriente fosse totalmente fallimentare l’aveva capito addirittura un pezzo di classe dirigente USA e così tra le promesse elettorali di Biden, ecco che fa capolino l’intenzione di tornare a sottoscrivere il patto sul nucleare che però, appunto, rimane solo un’intenzione, e forse manco quella. In compenso Biden si è astenuto scientificamente dal provare a ostacolare in qualche modo la deriva ultra-reazionaria del governo israeliano, ormai esplicitamente clerico-fascista e impegnato a sostenere la ferocia estremista di coloni criminali che hanno spinto a un ulteriore radicalizzazione la maggioranza della popolazione palestinese. Intanto l’amministrazione Biden, nonostante la riapertura dei rapporti diplomatici tra sauditi e iraniani raggiunta grazie alla mediazione cinese, puntava tutto sul geniale Patto di Abramo del geniale Jared Kushner ma questa opzione, sottolinea Walt, “aveva poco a che fare con la pace tra israeliani e palestinesi, ed era piuttosto finalizzata esclusivamente a impedire un ulteriore avvicinamento dei sauditi alla Cina”. Insomma, la questione palestinese è completamente uscita dai radar: “Come il primo ministro Netanyau e il suo gabinetto” sottolinea Walt “i massimi funzionari statunitensi sembrano aver dato per scontato che non ci fosse nulla che un gruppo palestinese potesse fare per far deragliare o rallentare questo processo o attirare nuovamente l’attenzione sulla loro difficile situazione. Sfortunatamente” continua Walt “questo presunto accordo, invece, ha rappresentato per Hamas un potente incentivo a dimostrare quanto fosse sbagliata questa ipotesi”. Secondo Walt, quindi, il tipo di azione e la sua tempistica non sono stati altro che una risposta di Hamas – da questo punto di vista perfettamente razionale – “a sviluppi regionali che sono stati guidati in misura considerevole da preoccupazioni di tutt’altro genere”. Insomma, sottolinea Walt, “dagli accordi di Oslo Washington ha monopolizzato la gestione del processo di pace, ma i suoi sforzi alla fine non hanno portato assolutamente a nulla, e nel corso degli anni la soluzione dei due stati non ha fatto che allontanarsi sempre di più fino a diventare oggi probabilmente impossibile”. Un fallimento totale che offre un assist preziosissimo alle potenze che più coerentemente si battono per l’emergere di un nuovo ordine multipolare che, da questo punto di vista, risulterebbe semplicemente necessario, di fronte all’unipolarismo USA che, molto banalmente, non riesce a garantire la sicurezza per nessuno: “Gli Stati Uniti gestiscono da soli la regione da più di 3 decenni, e con quali risultati?” si chiede Walt: “assistiamo a guerre devastanti in Iraq, Siria, Sudan e Yemen” elenca Walt. “Il Libano è in fin di vita, in Libia c’è l’anarchia, l’Egitto sta barcollando verso il collasso. I gruppi terroristici si sono trasformati, e continuano a seminare terrore in tutti gli angoli del pianeta, mentre l’Iran si avvicina sempre di più alla bomba. Non c’è né sicurezza per Israele, né giustizia per la Palestina. Ecco cosa ottieni quando lasci che a gestire tutto sia Washington. A prescindere dall’idea che ognuno di noi ha su quali siano le reali intenzioni di Washington, il dato è che i leader USA ci hanno ripetutamente dimostrato che non hanno la saggezza e l’obiettività necessarie per ottenere risultati positivi. Nemmeno per se stessi”.

in foto: Joe Biden

Dall’altra parte c’è la Cina che può vantare il fatto di aver costruito relazioni costruttive con tutti gli attori regionali senza eccezione, al punto da riuscire a far tornare a dialogare anche due acerrimi nemici storici come Arabia Saudita e Iran: “non è ovvio che il mondo trarrebbe beneficio se il ruolo degli Stati Uniti diminuisse e quello dei cinesi aumentasse?”. Ovviamente quella di Walt, che come Mearsheimer è un conservatore e non ha nessuna simpatia per l’ascesa cinese e del sud globale in generale, è una provocazione e un campanello d’allarme: “se anche tu pensi che affrontare la sfida di una Cina in ascesa sia una priorità assoluta” scrive infatti “potresti voler riflettere su come le azioni passate degli USA hanno contribuito alla crisi attuale”. Walt infine, al contrario di quanto sosteniamo noi da giorni, riconosce all’amministrazione Biden lo sforzo in queste ore di provare a contenere l’escalation del conflitto, “ma” sottolinea “il team di politica estera dell’amministrazione assomiglia più a una squadra di meccanici che non di architetti” e potrebbe non essere minimamente attrezzato ad affrontare un’epoca in cui “l’architettura istituzionale della politica mondiale è sempre più un problema e sono necessari nuovi progetti. E’ ovvio” insiste Walt “che hanno interpretato male la direzione in cui era diretto il Medio Oriente, e l’applicazione dei cerotti oggi – anche se viene fatta con energia e abilità – lascerà comunque le ferite sottostanti non curate. Se il risultato finale delle attuali amministrazioni di Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken fosse semplicemente un ritorno allo status quo pre 7 ottobre” conclude Walt “temo che il resto del mondo starà a guardare, scuoterà la testa con sgomento e disapprovazione, e concluderà che è arrivato il tempo per un approccio diverso”.
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Il peggior amico: come l’Italia ha tradito i palestinesi e ha imparato ad amare i carnefici

In piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.

“Considero legittima la lotta armata dei palestinesi”. Era il 6 giugno, 1985, e con queste parole Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio, affrontava davanti alla Camera dei Deputati la questione palestinese. Oggi, le stesse parole pronunciate da un’alta carica dello stato verrebbero immediatamente etichettate come il delirio di un fanatico filo-hamas e determinerebbero la fine della sua carriera politica. Questo, nonostante a riconoscere la legittimità di un popolo alla lotta armata in caso di occupazione straniera sia la stessa Onu e sia sempre la stessa Onu a chiedere a Israele di fermare la sua invasione e riconoscere il diritto dei palestinesi ad un loro Stato nazionale con la stessa dignità di tutti gli altri. Nulla da fare, in Italia in questi giorni anche solo definire territori occupati territori effettivamente, da ogni punto di vista, occupati, o addirittura pretendere che la comunità internazionale faccia pressione su Israele affinchè si ritiri nei propri confini, comporta automaticamente l’accusa di connivenza con il terrorismo e se non con l’anti-semitismo.

Non è sempre stato così.

Durante la guerra fredda, quando l’Italia conservava ancora un pò di dignità nazionale e mostrava un minimo di indipendenza rispetto agli interessi geopolitici americani, la questione palestinese non era affrontata nei termini ideologici e farneticanti con cui viene affrontata oggi.
In questa nuova puntata di pill8lina ripercorriamo la storia dei rapporti diplomatici tra il popolo italiano e quello palestinese, e di come il nostro Paese, da essere lo Stato occidentale più vicino e solidale alla lotta di indipendenza palestinese, si sia trasformato negli ultimi trent’anni in un acritico sostenitore del fanatismo e dell’imperialismo.

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, l’Italia dedicò grande attenzione al mondo arabo. Negli anni 50’, anche se la politica estera italiana aveva un margine di manovra limitato nel contesto della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il governo cercò di avere un ruolo attivo nel mediterraneo approfittando della propria posizione favorevole di “ponte” tra l’Europa e il vicino oriente. Da un lato, la Democrazia Cristiana, primo partito italiano, voleva dare priorità alle politiche di integrazione europea e basata sugli interessi atlantici. Dall’altro, diversi attori politici e industriali stavano creando relazioni forti e durature nell’area del Mediterraneo. In particolare le forze socialiste, i partiti laici e anche la corrente di sinistra interna alla DC, erano convinti che una forte presenza dell’Italia nel mondo arabo potesse contribuire alla nascita di una “terza via” rispetto alla dicotomia della Guerra Fredda. Il tentativo di perseguire una politica di equidistanza tra il neonato stato di Israele e la causa palestinese ha caratterizzato gli anni ’50 e ’60 con risultati controversi:

durante la crisi di Suez del 1956, ad esempio, l’Italia ebbe un ruolo fondamentale nella risoluzione del conflitto: non solo condannò l‘invasione da parte di Israele, Francia e Gran Bretagna, ma si impegnò diplomaticamente per mettere fine alle tensioni. Undici anni dopo, durante la guerra del ‘67, nonostante la dialettica interna alla maggioranza di governo, l’Italia si rifiutò di condannare l’Egitto e lega araba, ma poi decise di convergere verso il piano di “pace” americano, con ripercussioni negative sui nostri rapporti economici con gli Stati Arabi. Ma fu negli anni ’70 che l’Italia virò più decisamente verso una posizione pro-palestinese. Sotto la guida dell’allora Primo Ministro Aldo Moro, e nonostante le critiche degli Stati Uniti, l’Italia promosse diverse iniziative a favore della Palestina.

Insieme alla Francia, sostenne la partecipazione di Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974, e poi lo accolse pure in visita ufficiale in Italia.

Il sostegno aumentò ulteriormente nel decennio successivo.

Nel 1985, l’Italia rifiutò di concedere l’estradizione ai dirottatori palestinesi dell’Achille Lauro. È l’anno del discorso di Craxi citato all’inizio e ispirato niente popodimeno che alla figura di Giuseppe Mazzini: “Quando Giuseppe Mazzini nella sua solitudine, nel suo esilio, si macerava nell’ideale dell’unità ed era nella disperazione per come affrontare il potere”, dichiarava enfaticamente Craxi, “lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva e disegnava e progettava gli assassinii politici. Questa è la verità della storia”, continuava Craxi, “e contestare a un movimento che voglia liberare il proprio Paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi significa andare contro le leggi della storia”.

Tre anni prima, l’opinione pubblica italiana aveva reagito con sdegno unanime al massacro di Sabra e Shatila e L’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva energicamente condannato il massacro durante il Messaggio di Fine Anno agli Italiani del 1983. “Una volta”, dichiarò Pertini, “furono gli ebrei a conoscere la “diaspora”. Vennero cacciati dal Medio oriente e dispersi nel mondo; adesso lo sono invece i palestinesi”, che “hanno diritto sacrosanto ad una patria ed a una terra come l’hanno avuta gli israeliti”

“Se vi sono nazioni in cui i diritti civili ed umani sono annullati”, continuava Pertini condannando Israele , “non vi è che un provvedimento da prendere contro queste nazioni: l’espulsione dall’Onu. Non valgono le proteste, se le porta via il vento. Non valgono le polemiche. Siano espulse dalla Organizzazione delle Nazioni Unite. Sia dato loro il bando, siano indicate all’umanità come colpevoli”.
Ma verso la fine degli anni ‘80, qualcosa è cominciato a cambiare. I motivi, li spiega magistralmente la ricercatrice dell’università di Oxfors Mjriam Abu Samra. Il primo è la totale integrazione dell’Italia, dopo la guerra fredda, all’interno della sfera politica e culturale americana. Un’appiattimento, che ha cambiato anche la narrazione dei media, che negli anni hanno tentato in tutti i modi di sradicare ogni forma di simpatia nei confronti della causa Palestinese dall’opinione pubblica italiana. Il secondo, riassume sempre Abu Samra “è costituito dai lenti ma inesorabili cambiamenti delle pratiche organizzative palestinesi e della loro visione politica, cristallizzata dagli Accordi di Oslo”. Secondo Abu Samra infatti, “Non solo l‘OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) si è trasformata da movimento rivoluzionario in apparato quasi statale che privilegia la diplomazia rispetto all’attivismo popolare, ma la frammentazione politica dell’organizzazione ha avuto anche un impatto negativo sull’attivismo popolare, causando una paralisi senza precedenti delle attività sociali, culturali e politiche dei palestinesi in Italia”.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: in Italia ormai sostenere qualcosa di diverso dalla linea ufficiale decretata da Washington e Tel Aviv è tabù, il tutto nel nome dell’affinità culturale con quella che con sprezzo per il pericolo e sezna senso del ridicolo continuiamo a definire “l’unica democrazia del medio oriente”. Nei media e nelle dichiarazioni dei politici, lotta per la liberazione e l’indipendenza di un popolo è stato derubricato da un lato dai finto progressisti a semplice problema umanitario, e dall’altro, dalla destra reazionaria, addirittura a tassello della narrazione razzista e suprematista dello “scontro di civiltà”. Supportata da questa propaganda, la politica Italiana ha di fatto sostenuto le politiche imperialiste israeliane anche quando venivano ufficialmente condannate dall’Onu e da tutte le più importanti organizzazioni internazionali, fino ad arrivare ad una prima impensabile identificazione tra un immaginario “noi” di cui Israele farebbe parte, contrapposto a un “loro” che include i palestinesi. In questo quadro, la vittoria democratica di Hamas alle elezioni dell‘Autorità Nazionale del 2006 è stata sfruttata per rietichettare la lotta di liberazione palestinese come uno dei tanti fronti aperti dal “terrorismo islamico”. Ed ecco così che dalla solidarietà e la capacità di svolgere un ruolo di mediazione, indispensabile anche per difendere i nostri interessi nazionali, siamo passati alle bandiere israeliane proiettate e sventolate in questi giorni sui nostri edifici istituzionali. Le bandiere di uno Stato, ribadiamo, condannato ripetutamente dall’Onu per invasione, annessione, e violazione dei diritti umani. Una svolta oltretutto, che testimonia in modo plateale anche un vero e proprio cambio di paradigma culturale: negli anni dopo l’occupazione nazi-fascista e memori della resistenza infatti, era diffusa in Italia l’idea che le tecniche di guerriglia adottate da un popolo occupato fossero politicamente giustificate, e che la responsabilità morale dei massacri e delle stragi commesse da entrambe le parti dovesse ricadere sempre su gli invasori e non sugli invasi .

Oggi invece, in piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.
Contro il coro unanime della propaganda, per ricominciare a vedere il mondo dal punto di vista di chi è oppresso, e non di chi opprime, abbiamo bisogno di un vero e proprio media libero e indipendente

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E chi non aderisce è David Parenzo.

L’intelligenza artificiale è un’arma di distruzione di massa: e gli USA si rifiutano di regolarla

Ma quante storie con questa intelligenza artificiale, è solo una tecnologia.

Giusto, è solo una tecnologia: come la bomba atomica, il sarin, o anche l’ingegneria genetica, o l’energia prodotta da fonti fossili.

Sono solo tecnologie, che sarà mai…

Lo sviluppo industriale e scientifico degli ultimi due secoli ha comportato benefici straordinari, ma non sono gratis. Grazie proprio a questo incredibile sviluppo oggi infatti l’essere umano e le forme specifiche di organizzazione politica, sociale ed economica di cui si è dotato, ha il potere di distruggere definitivamente, se non proprio l’intero pianeta che ci ospita, di sicuro una fetta consistente della vita che lo anima, a partire in particolare dalla nostra stessa specie. Come dice l’uomo ragno, “da un grande potere, derivano grandi responsabilità”.

Saremo abbastanza adulti e consapevoli da potercele accollare?

A giudicare dal fanatismo ideologico nel quale ci hanno catapultato cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista, sembrerebbe proprio di no. Ai piani bassi, la profonda trasformazione antropologica imposta dalla controrivoluzione ha fatto si che la nostra capacità di lettura dei fenomeni e dei processi che condizionano la nostra vita venisse sistematicamente compromessa dal pervadere di una inscalfibile superstizione di massa: le cose si aggiusteranno da sole, grazie alla mano invisibile del mercato.

O comunque, anche se non si aggiusteranno, ha ragione TINA, la nostra amica immaginaria collettiva, che ci insegna che There Is No Alternative. Tocca farsi il segno del dollaro, al posto di quello della croce e avere fede nell’intervento salvifico di un entità immaginaria. Ai piani alti invece, dove in realtà che un’alternativa c’è sempre: lo sanno benissimo e invece che sulla leggenda della mano invisibile,preferiscono concentrarsi sulla realtà concretissima di chi detiene il potere e per farci cosa, semplicemente del destino dell’umanità e della vita tutta, non hanno tempo di occuparsene. Sono troppo presi ad accumulare quanta più ricchezza e quanto più potere nel minor tempo possibile e le conseguenze, per quanto devastanti, vengono catalogate semplicemente sotto la voce “effetti collaterali”.

L’intelligenza artificiale non fa eccezione.

Senza entrare nei dettagli di un dibattito tecnico che di scientifico mi sembra abbia pochino, da qualunque punto di vista la si guardi, sul tema esistono sostanzialmente due opzioni:

1 – L’intelligenza artificiale è un bel giochino, va bene, ma è solo una tecnologia tra le tante, con un impatto limitato. Quindi anche i rischi che comporta sono limitati. e quindi anche basta con tutto questo hype ingiustificato.

2 – L’intelligenza artificiale comporta una vera e propria rivoluzione tecnologica, in grado di modificare in profondità sostanzialmente tutto quello che facciamo e come lo facciamo. In tal caso, come la giri la giri, comporta anche rischi enormi. sostanzialmente, incalcolabili.

Noi, molto onestamente, non siamo minimamente in grado di dirvi quale delle due opzioni sia quella giusta. Possiamo però fare una semplicissima deduzione logica: se quella giusta è l’opzione numero 2, siamo letteralmente nella merda.

Voi, in tutta sincerità, ve la sentite di accollarvi il rischio?

18 luglio 2023, New York, sede delle Nazioni Unite.

Dopo lunghe ed estenuanti trattative, per la prima volta in assoluto il Consiglio di Sicurezza si riunisce per affrontare un tema avvertito da più parti come sempre più urgente: i rischi legati all’intelligenza artificiale applicata ai sistemi d’arma. A promuovere l’incontro, la Cina: da 18 mesi. La prima volta che i funzionari cinesi avevano provato a portare il tema alle nazioni unite infatti era il dicembre 2021. Il Ministero degli Esteri aveva da poco pubblicato un documento ufficiale per la “regolazione della applicazioni militari dell’intelligenza artificiale”: dal momento che la pace e lo sviluppo nel mondo si trovano ad affrontare sfide dalle molteplici sfaccettature”, si legge nel documento, “i diversi paesi dovrebbero elaborare una visione sulla sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile, e cercare il consenso sulla regolamentazione delle applicazioni militari dell’IA attraverso il dialogo e la cooperazione e stabilire un regime di governance efficace, al fine di prevenire danni gravi o addirittura disastri causati dalle applicazioni militari dell’Iintelligenza artificiale”. Soltanto una governance comune globale e cooperativa, sostengono i cinesi, può aiutarci a “prevenire e gestire i potenziali rischi, promuovere la fiducia reciproca tra i paesi e prevenire così una nuova pericolosissima corsa agli armamenti”. Il rischio, in particolare, riguarda eventuali sistemi di risposta automatica.

Non è un problema del tutto inedito

Sistemi di allarme preventivo automatizzati infatti sono sempre esistiti. Come il celebre Oko, il sofisticato sistema di allerta precoce sviluppato a partire dai primi anni ‘70 e che ha rischiato di catapultarci in un conflitto nucleare, per sbaglio. Era il settembre del 1983: l’Oko segnala il lancio di una batteria di ben cinque missili intercontinentali. Il protocollo prevedeva di riportare l’allerta immediatamente ai piani alti della catena di comando, ma secondo la dottrina della “distruzione reciproca assicurata”, la risposta sarebbe dovuta essere un contrattacco nucleare immediato obbligatorio contro gli USA. Fortunatamente però quel giorno il compito di trasmettere le allerte del sistema era toccato al colonnello Stanislav Petrov. Sin da subito, Petrov pensò a un errore: era convinto che in caso di primo attacco nucleare gli USA avrebbero lanciato contemporaneamente centinaia di missili nel tentativo di annientare la capacità controffensiva sovietica, quindi decise di non riportare l’allarme ai superiori, ed ebbe ragione.

Nessun missile intercontinentale toccò mai il suolo sovietico. Petrov aveva evitato la guerra nucleare. Ma nessuno gli disse grazie, anzi…

Premiarlo, infatti, avrebbe comportato riconoscere ufficialmente le carenze del sistema. Poco dopo, fu costretto a ritirarsi in pensione prima del tempo per un esaurimento nervoso. Il timore espresso dai cinesi, appunto, è che si vada verso una situazione dove non ci sarà più un Petrov a salvarci dall’estinzione, e che quindi è urgente mettere dei paletti condivisi.

Ad aumentare a dismisura i rischi di incidente, infatti, è l’inizio dell’era dei missili ipersonici, che con la loro velocità fino a dodici volte superiore a quella del suono, accorciano in maniera drastica il tempo utile per consentire un eventuale intervento umano. Una minaccia esistenziale, la cui risoluzione non può più essere rinviata. È essenziale garantire il controllo umano per tutti i sistemi d’arma abilitati all’intelligenza artificiale”, ha affermato di fronte al consiglio di sicurezza l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, sottolineando che “questo controllo deve essere sufficiente, efficace e responsabile”

Ma la partita militare è solo una parte del problema

Se davvero l’intelligenza artificiale è questa rivoluzione epocale di cui tutti parlano, il suo potenziale distruttivo necessariamente va ben oltre il campo di battaglia e il problema di una governance “globale, cooperativa e sostenibile” riguarda necessariamente anche ben altri ambiti. Ed è proprio per rispondere a questa esigenza che nel luglio scorso a Nishan, nella provincia orientale dello Shandong, i cinesi hanno invitato tutti gli stati del pianeta, a prescindere dal loro orientamente politico, a partecipare alla World Internet Conference. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri”, avrebbe dichiarato il vice direttore del dipartimento per il controllo delle armi del Ministero degli Esteri, “hanno pari diritti di partecipare alla governance globale dell’IA”.

Il Nord Globale, però, ha risposto picche. Non si sono manco presentati: erano occupati a organizzare un altro simposio, tutto loro. Si dovrebbe tenere il prossimo novembre nel Regno Unito. Ma i cinesi, come d’altronde una lunga serie di altri Paesi ritenuti dall’Occidente globale dei pariah, non sono stati invitati.

Una follia, che ha spinto addirittura i ricercatori dell’occidentalissimo e liberalissimo Oxford Internet Institute a scrivere una lettera aperta di protesta al Financial Times: perchè escludere la Cina dal summit sull’intelligenza artificiale sarebbe un errore”, si intitola. Ribadisce quello che dovrebbe essere ovvio, ma che in questo clima avvelenato da guerra ibrida globale, evidentemente, non lo è più: primo”, scrivono, “i rischi posti dai sistemi di intelligenza artificiale trascendono i confini nazionali. senza il coinvolgimento della Cina, qualsiasi accordo internazionale teso a contrastarli sarebbe del tutto futile. Prendiamo ad esempio l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per lo sviluppo di armi chimiche. Se un accordo sulle migliori pratiche per prevenire ciò escludesse la Cina, gli altri paesi potrebbero semplicemente utilizzare i sistemi di intelligenza artificiale cinesi per questo tipo di scopi dannosi”. “Secondo”, continuano, “qualsiasi accordo internazionale, se verrà percepito come un vantaggio per la Cina, nopn potrà che essere respinto, in particolare negli Stati Uniti. Fino ad oggi, infatti, gli sforzi esistenti per introdurre una regolamentazione sono stati vanificati dai timori di perdere una “corsa agli armamenti dell’intelligenza artificiale” a favore della Cina. Avere la Cina al tavolo riduce questo rischio, poiché sarà vincolata dallo stesso accordo”. Per finire, “In terzo luogo, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno in gran parte ritardato la regolamentazione dell’intelligenza artificiale, la Cina è stata proattiva. Di fatto è l’unico paese a promulgare regolamenti specificamente mirati all’intelligenza artificiale generativa. Questa esperienza normativa sarebbe preziosa per indirizzare una politica ben progettata al vertice sull’intelligenza artificiale del Regno Unito”.


L’esclusione della Cina non è l’unico aspetto del summit a sdubbiare la comunità accademica. Secondo Wendy Hall dell’Università di Southampton, riporta sempre il Financial Times, il problema principale è costituito dal fatto che “i consigli proverranno principalmente dalle grandi aziende tecnologiche stesse”.

““È giusto”, si chiede la Hall, “che le persone che traggono profitto da questa rivoluzione siano le stesse che progettano la sua regolamentazione?”. Ed ecco così svelata la vera natura del conflitto insanabile tra come intende la governance dell’intelligenza artificiale la Cina, e come la intendono i paesi del Nord Globale. Come ricorda sempre un ricercatore di quella temibile cellula dell’internazionale bolscevica che è l’Oxford Internet Institute, in un articolo pubblicato ieri su Asia Times: “il 15 agosto 2023, in Cina è entrata in vigore una nuova legge per la regolazione dell’intelligenza artificiale generativa. è solo l’ultimo di una lunga serie di sforzi mirati a governare diversi aspetti dell’intelligenza artificiale, ed è la prima legge al mondo specificatamente rivolta all’intelligenza artificiale generativa”. La legge introduce alcune restrizioni importanti per le società che offrono questo genere di servizi, in particolare in relazione alla natura dei dati utilizzati per addestrare gli algoritmi. Sin dalla fine del 2020, la Cina ha intrapreso una lunga battaglia contro il consolidamento di un oligopolio da parte dei grandi gruppi tecnologici, rafforzando l’azione della sua agenzia antitrust, e sopratutto ponendo limiti chiari allo sfruttamento dei dati personali a fini commerciali. Un approccio molto simile a quello adottato dall’Unione Europea a partire dall’introduzione del GDPR. Con la differenza che queste restrizioni all’Europa non sono costate niente, visto che non ha sue proprie aziende competitive nel settore. La Cina invece, nonostante la guerra tecnologica ingaggiata nei suoi confronti dagli USA, ha deciso di porre alcuni paletti precisi allo strapotere delle principali aziende tecnologiche, in nome della tutela dei diritti degli utenti. Come ricorda anche l’Economist: “Un modo in cui le aziende cinesi di intelligenza artificiale potrebbero essere frenate è limitando i dati personali resi disponibili per addestrare i loro modelli di intelligenza artificiale”.

L’economist ricorda come “Il partito gestisce lo stato di sorveglianza di massa più sofisticato del mondo, e fino a poco tempo fa, anche le aziende tecnologiche cinesi erano in grado di sfruttare i dati personali. Ma quest’era sembra ormai essere definitivamente tramontata. Ora le aziende che vogliono utilizzare determinati tipi di dati personali devono ottenere prima il consenso. E L’anno scorso la CAC ha multato Didi Global, una società di ride-sharing, per l’equivalente di 1,2 miliardi di dollari per aver raccolto e gestito illegalmente i dati degli utenti”. Ora, con questa ultima legge sull’intelligenza artificiale, conclude l’economist, “le aziende sarebbero responsabili della tutela delle informazioni personali degli utenti”. Esattamente il contrario, in soldoni, di quanto avvenuto negli USA, dove con la scusa del laissez-faire, semplicemente si è deciso di dare carta bianca ai giganti tecnologici a spese dei diritti degli utenti con la sola finalità di avvantaggiare la concentrazione del potere nelle mani appunto di un oligopolio adeguatamente foraggiato in grado di vincere la competizione contro i gruppi cinesi e anche procedere indisturbato alla colonizzazione digitale del vecchio continente. Ma come sottolinea sempre lo stesso articolo su Asia Times, “Un approccio normativo più rigido, potrebbe rivelarsi economicamente impegnativo nel breve termine, ma sarà essenziale per mitigare i danni agli individui, e anche per mantenere la stabilità sociale”.

Insomma, come abbiamo sottolineato svariate volte già in passato, paradossalmente, l’approccio cinese, teso a governare questo processo con regole trasparenti a tutela di consumatori ed utenti, sembra essere molto più vicino a quello europeo di quanto non lo sia invece il far west immaginario di Washington. Una differenza, quella dell’approccio europeo rispetto a quello a stelle e strisce, sottolineata sempre dall’Oxford Internet Institute in un lungo paper di ormai 2 anni fa, dove si sottolineava che mentre “dal punto di vista della governance dell’intelligenza artificiale, l’approccio europeo è eticamente più corretto”, dal momento che “Mette in primo piano la protezione dei diritti dei cittadini delineando il valore guida di un’intelligenza artificiale affidabile incentrata sull’uomo. Il laissez-faire intrapreso dagli Stati Uniti è eticamente decisamente più discutibile, dal momento che ha affidato gran parte della governance dell’AI nelle mani degli attori privati, lasciando ampio margine alle imprese per mettere i propri interessi davanti a quelli dei cittadini”. “Ciò nonostante”, scrive l’economist, “l’idea che la Cina possa fungere da guida per quanto riguarda l’etica dell’intelligenza artificiale dovrebbe terrorizzare i governi occidentali”.

Capito come ragionano?

La Cina procede cautamente per tutelare i cittadini proprio come vorrebbe fare l’Unione Europea, però il nostro alleato anche in questa partita devono per forza essere gli USA, anche se stanno combinando un disastro, perché alla fine i cinesi rimangono comunque sempre cinesi…

Decidere su aspetti fondamentali per la nostra sicurezza in base al razzismo, insomma: benvenuti nel 2023.

Cosa mai potrebbe andare storto?

L’umanità si trova di fronte a sfide epocali che potrebbero metterne a rischio la stessa sopravvivenza, ma la principale potenza del globo è ostaggio di un manipolo di oligarchi pronti a consegnarci mani e piedi al più distopico dei futuri possibili pur di non cedere nemmeno un pezzettino della spaventosa concentrazione di ricchezza e di potere che hanno accumulato sulla nostra pelle.

Sarebbe arrivata l’ora di mandarli anche un po’ a fare in culo

Per farlo, abbiamo bisogno di un media che dia voce al 99%: aiutaci a costruirlo

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e chi non aderisce è Bill Gates