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Tag: nucleare

Global Southurday – I fronti sono ormai uniti: la guerra è mondiale – ft. Alberto Fazolo

Torna il consueto appuntamento del sabato con Alberto Fazolo. Oggi con il nostro Gabriele parlano di armi NATO all’Ucraina, dichiarazioni di Putin, fusione dei fronti (dall’Ucraina a Israele, fino allo Yemen e al Sudan), impegno di Macron ad inviare una brigata di 4500 uomini a Kiev, il crescendo di tensioni in Libano e a Gerusalemme e infine l’imminente G7 pugliese e le più anonime elezioni europee degli ultimi decenni. Così, mentre sul mondo incombe lo spettro nucleare e del conflitto generale, i leader dell’Occidente collettivo organizzano una passerella autocelebrativa nell’estivo caldo salentino. Buona visione!

#G7 #Russia #nucleare #Ucraina #Libano #Gerusalemme #Palestina #Israele #guerramondiale

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

L’Occidente attacca la deterrenza nucleare russa: siamo al punto di non ritorno?

Quasi nessuno ha riportato la notizia, ma potrebbe essere un un punto di non ritorno che segna la definitiva entrata in guerra dei paesi NATO nel conflitto e la possibilità più concreta di una guerra nucleare: nei giorni scorsi, diverse fonti russe (confermate anche da analisti occidentali) hanno lanciato l’allarme di almeno due attacchi contro stazioni radar a lungo raggio della famiglia Voronezh, stazioni che fanno parte del sistema di preallarme russo anche per attacchi missilistici nucleari; si tratta di sistemi di early warning in grado di rilevare missili nucleari balistici in arrivo e rappresentano una delle componenti fondamentali del Sistema di sicurezza e deterrenza nucleare della Federazione Russa. Insomma: sembra volontà di escalation che oltrepassa una linea rossa che mai era stata oltrepassata nella storia, nemmeno nei momenti più drammatici e conflittuali della guerra fredda. Gli attacchi sono avvenuti mentre la Russia testava, assieme alla Bielorussia, la prontezza delle sue armi nucleari non strategiche; pertanto, come suggerisce anche Clara Statello in un articolo per L’Antidiplomatico – unico articolo che ha fatto una seria analisi su questi fatti – c’è da pensare che chi ha condotto o commissionato questi attacchi stia dicendo a Mosca di essere pronta ad una guerra atomica. Secondo la sua dottrina di deterrenza nucleare, la federazione sarebbe ora legittimata ad utilizzare bombe nucleari strategiche contro gli autori dell’attacco. Già. E chi sono gli autori dell’attacco?

Dmitry Rogozin

Andiamo con ordine: il 25 maggio, l’ex capo di Roscosmos ed ex ministro della Difesa Dmitry Rogozin ha accusato l’Ucraina di voler scatenare la terza guerra mondiale con l’attacco a due torri del sistema radar Voronez DM ad Armavir, nel territorio di Krasnodar, suggerendo il coinvolgimento degli Stati Uniti. Secondo fonti russe, riprese dal portale The War Zone, l’attacco sarebbe avvenuto il 23 maggio ed è confermato dalle immagini satellitari, perfettamente in linea con quelle da terra diffuse sui social e dalle agenzie locali: “Ci sono anche prove evidenti di colpi multipli sugli edifici radar. Vale la pena notare che i sistemi radar sono generalmente sistemi molto sensibili e fragili, e anche un danno relativamente limitato può provocare una mission kill, rendendoli inutilizzabili per un lungo periodo di tempo” si legge su The War Zone – e anche da un funzionario americano che si è detto preoccupato per le possibili conseguenze di questi attacchi. Il danneggiamento della stazione di Armavir acceca la capacità di Mosca di individuare le minacce ostili e viene così a mancare la sorveglianza strategica su un ventaglio di territorio a Sud-Ovest che include la Crimea e il Mar Nero; come quasi tutti gli analisti militari hanno segnalato, lo scenario più spaventoso è che un attacco di questo genere preannunci la prima fase di un attacco nucleare. L’attacco a Orenburg non è l’unica possibilità, naturalmente, ma quella dell’incidente o dell’errore di lancio è invece fuori discussione. Qualche giorno dopo infatti, il 26 maggio, a Orenburg un altro anello del sistema di preallarme rapido è stato attaccato da dei droni, la stazione radar Voronezh-M di Orsk, costruita nel 2017 nella regione di Orenburg, ad almeno 1.500 km dal confine con l’Ucraina: per colpirla, i droni avrebbero sorvolato o violato lo spazio aereo di parte del Kazakistan settentrionale. E, infine, il canale Telegram Military Informant ha pubblicato le immagini di un drone britannico-portoghese Tekever AR3 abbattuto vicino Armavir: anche questo suggerirebbe un nuovo attacco per disattivare il Voronezh-DM sferrato con mezzi di Paesi NATO.
Ma che cosa dice la dottrina di deterrenza russa in casi come questi? La dottrina contempla la possibilità di utilizzo di armi atomiche come risposta ad un attacco contro una componente di deterrenza strategica: una volta accecato il sistema radar in un’area, questa diviene vulnerabile ad attacchi nucleari incapacitanti, cioè attacchi che paralizzano la capacità di risposta nucleare del paese colpito. Anche nel documento emanato nel giugno del 2020 la Russia definisce in modo molto chiaro le condizioni sotto cui una risposta nucleare strategica può essere possibile; all’articolo 19 troviamo scritto: “Le condizioni che specificano la possibilità dell’uso di armi nucleari da parte della Federazione Russa sono le seguenti: a) arrivo di dati attendibili sul lancio di missili balistici contro il territorio della Federazione Russa e/o dei suoi alleati; b) utilizzo di armi nucleari o altri tipi di armi di distruzione di massa da parte di un avversario contro la Federazione Russa e/o i suoi alleati; c) attacco da parte dell’avversario contro siti governativi o militari critici della federazione russa, la cui interruzione comprometterebbe le azioni di risposta delle forze nucleari; d) aggressione contro la Federazione Russa con l’uso di armi convenzionali quando è in pericolo l’esistenza stessa dello Stato.” Il comma c) corrisponde precisamente a quanto appena avvenuto, cioè all’attacco al radar di Armavir: non sappiamo quali sarà la reazione decisa da Putin né, tantomeno, sappiamo – e forse sapremo mai – chi e precisamente con quali mezzi ha sferrato l’attacco. Le opzioni più probabili sono ovviamente queste 3: 1- è stato l’esercito ucraino senza che la NATO abbia collaborato e/o ne fosse a conoscenza; 2 – è stata un’operazione congiunta tra Ucraina e uno o più paesi NATO; 3 – è stata un’operazione fatta da uno o più paesi NATO senza collaborazione Ucraina. Di fronte a questi 3 scenari è prima di tutto importante sottolineare che l’unico impatto che il danneggiamento di quei radar potrebbe avere per la linea del fronte in Ucraina è nel caso di un attacco alla Crimea con missili a lunga gittata di paesi NATO, in quanto il danneggiamento dei radar limiterebbe la capacità di rilevamento del sistema difensivo russo nell’area meridionale della federazione. Gli analisti di The War Zone sono però scettici di fronte a questa possibilità: “Il Voronezh DM” si legge nell’articolo “appartiene ad una famiglia di radar ad altissima frequenza (UHF) over-the-horizon (OTH), che quindi potrebbe non vedere bene così obliquamente se gli obiettivi si trovano al di sotto dell’orizzonte”; si tratta, insomma, di radar progettati principalmente per rilevare il lancio di missili balistici da molto più lontano. Ciò suggerisce il coinvolgimento di attori terzi che potrebbero attaccare al di fuori dell’Ucraina e, potenzialmente, anche con l’atomica. Ieri un funzionario statunitense, in condizioni di anonimato, ha rilasciato dichiarazioni per escludere un coinvolgimento USA: “Gli Stati Uniti” ha detto “sono preoccupati per i recenti attacchi dell’Ucraina contro i siti russi di allarme precoce dei missili balistici”.
Gli Stati Uniti, insomma, incolpano gli ucraini e se ne tirano fuori; su quanto queste dichiarazioni siano credibili vi lasciamo fare le vostre considerazioni. Il nostro Francesco dall’Aglio ha impostato così la questione : “Dobbiamo chiederci: a chi interessa davvero accecare le capacità di early warning russo sul Mar Nero, all’Ucraina o alla NATO? A chi interessa davvero privare la Russia delle sua capacità antiaeree nella regione, all’Ucraina o alla NATO? Chi è che voleva infliggere una sconfitta strategica alla Russia e chi ha detto più volte, e molto esplicitamente, che mandare armi è un buon investimento perché riduce le capacità militari della Russia, l’Ucraina o la NATO? La risposta a questa domanda avrà conseguenze di una certa importanza per ciò che ci aspetta”. I sospetti possono, insomma, ricadere sia solo sul governo di Kiev o su qualche suo capo militare intenzionato a trascinare la NATO in guerra, oppure su uno o più membri NATO con la volontà di assecondare la logica dell’escalation, l’unica che potrebbe evitare l’altrimenti inevitabile sconfitta occidentale nel conflitto; quest’ultima sembra l’opzione più probabile. L’ex capo dell’Agenzia spaziale russa Roscosmos ha dichiarato che un attacco del genere può essere stato effettuato soltanto con i più avanzati sistemi di puntamento e missilistici della NATO; la vera domanda ora è: dalla prospettiva dei paesi NATO qual è il significato e il risultato concreto di un simile attacco?
La risposta potrebbe essere preoccupante: la dirigenza NATO sa, ovviamente, di aver superato una linea rossa esplicitamente definita come potenziale causa di una risposta nucleare; sa anche che, nonostante la pubblicistica sulla pazzia di Putin, il presidente russo è estremamente equilibrato e razionale e che non vuole affatto avviare un conflitto nucleare da cui tutti – Russia inclusa – uscirebbero gravemente danneggiati, se non estinti. Il calcolo NATO, come fa Andrea Zhok in un suo post recente, è perciò probabilmente esprimibile nei seguenti termini: “Noi superiamo una linea rossa e mostriamo di sapere che l’avversario non risponderà in forma nucleare; così facendo dimostriamo l’illusorietà delle sue minacce di deterrenza nucleare e ne miniamo la credibilità. Inoltre lo spingiamo a qualche fallo di reazione sull’Ucraina, che può screditarlo ulteriormente.” “Questo calcolo potrebbe essere corretto” scrive il professore di filosofia; “Tuttavia qui siamo di fronte ad un gioco sottile e pericolosissimo di aspettative reciproche.” L’altra ipotesi è quella che la NATO, ormai disperata, cerca di provocare un attacco nucleare – anche con bombe tattiche – da parte di Putin, per essere legittimata anche agli occhi dell’opinione pubblica ad entrare ufficialmente in guerra. Insomma: l’opzione del conflitto diretto tra paesi NATO e Russia appare sempre più vicina. La Francia ha detto in questi giorni che invierà i suoi addestratori in Ucraina e Stoltenberg, Macron – e ora anche Scholz – hanno dato il via libera in queste ore all’utilizzo delle armi occidentali contro il territorio russo; pure Biden, nei prossimi giorni, darà con ogni probabilità il via libera. La situazione è dunque seria, perché i paesi occidentali sembrano davvero disposti a tutto pur di non riconoscere la sconfitta; il premier ungherese Orban ha così commentato: “L’Europa è così coinvolta nella guerra che non ha nemmeno una stima dell’entità dei costi e dei mezzi necessari per raggiungere l’obiettivo militare che si è prefissata. Non ho mai visto niente di più irresponsabile in vita mia”.
Avanziamo su un piano inclinato che si fa sempre più ripido anche perché, contemporaneamente, anche con la Cina gli Stati Uniti sono determinati a fare di tutto fuorché a vedere messa in discussione la propria egemonia pacificamente. La notizia è di questi giorni ed è stata riportata da diversi giornali; gli Stati Uniti si trovano di fronte a una decisione cruciale, ossia decidere se schierare nel Pacifico missili da crociera con armamento nucleare sui sottomarini, una mossa che potrebbe ridisegnare la loro strategia di deterrenza in mezzo alle crescenti tensioni con Cina e Russia. Come riporta Asia Times “Gli Stati Uniti stanno prendendo in considerazione l’impiego di missili da crociera con armamento nucleare (SLCM-N) lanciatati da sottomarini nucleari modificati della classe Virginia (SSN).” Il problema, dalla prospettiva americana, è che Cina e Russia si sono concentrate sullo sviluppo di armi nucleari tattiche a bassa potenza, considerate al di sotto del livello delle armi nucleari strategiche e destinate a sostenere operazioni militari convenzionali “E quindi l’enfasi esclusiva americana sulla deterrenza a livello strategico potrebbe aver creato una disparità di deterrenza tra gli Stati Uniti e i suoi stretti rivali, poiché l’SLCM-N offre una capacità di attacco nucleare tattico per controbilanciare le armi nucleari tattiche di Cina e Russia.” Anche nel Pacifico, quindi, l’unica strategia scelta da Washington è quella dell’escalation e tutto questo, infine, ci costringe a fare una riflessione seria e poco rassicurante sugli sviluppi della che la terza guerra mondiale a pezzi avrà nei prossimi anni e il ruolo che le armi atomiche potrebbero avere in questo conflitto: fino ad ora, infatti, si è sempre detto e pensato che l’utilizzo del nucleare da parte di un esercito implicherebbe automaticamente una sorta di insensato suicidio con annessa estinzione della specie, ed era sicuramente un fatto positivo che, a livello culturale (e forse anche ai piani dirigenziali), l’atomica avesse intorno a sé questa aurea di tabù e di apocalisse e che, dopo la seconda guerra mondiale, solo la guerra con mezzi convenzionali fosse stata fino a questo momento contemplata. Le cose stanno rapidamente cambiando: le grandi potenze, infatti, hanno ormai variato il proprio arsenale atomico tra strategiche e tattiche con decine di varianti diverse ed usi diversi ed anche burocratizzato la possibilità dei loro usi spesso con definizioni e criteri ampiamente interpretabili; pur di non perdere la propria egemonia mondiale, USA e Gran Bretagna potrebbero ormai tranquillamente ricorrere a questi ordigni e soprattutto – forse ancora più probabile – provocare Cina e Russia affinché lo facciano per primi. Una guerra convenzionale è infatti molto più costosa e vorrebbe dire chiedere alle proprie popolazioni di andare in guerra per cause verso cui non non sono più giustamente disposti a sacrificarsi. Sta anche a noi fare la nostra parte perché tutto questo non accada.
E se anche tu vuoi dare il tuo contributo affinché questa lucida follia si fermi al più presto e affinché il mondo anglosassone accetti pacificamente e senza pazzie la nascita di un nuovo ordine multipolare in cui tutti i popoli e culture della terra abbiano pari rispetto e dignità, aiutaci a costruire un media libero e indipendente che dia voce a tutti coloro che possono contribuire a questo scopo. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Emanuel Macron

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Mentre l’escalation nucleare procede indisturbata, le oligarchie si innamorano di Donald Trump

Un nuovo appuntamento di inizio settimana con l’immancabile Matteo Lupetti.

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LA BOLLA – La guerra nucleare è già iniziata? ft. Stefano Orsi e Francesco dall’Aglio

Rieccoci con l’immancabile appuntamento della domenica sera dedicata alle ultime notizie dai fronti caldi del mondo. Clara Statello e il Marru ospitano i nostri due amatissimi Francesco dall’Aglio e Stefano Orsi.

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La guerra nucleare tattica distruggerà l’Europa – ft. Gen. Fabio Mini

La deterrenza nucleare è caduta, mentre la Francia e altri paesi europei continuano ad alzare la tensione con la minaccia di inviare truppe in Ucraina. I nostri Clara e Gabriele intervistano il generale Fabio Mini sulla possibile escalation nucleare in Europa e sul futuro della NATO. Buona visione!

#Ucraina #Guerra #Nucleare

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NATO a un bivio: perdere la guerra con la Russia o trasformare l’Europa in un cimitero nucleare?

Colonna portante di Ottolina Tv e canonica compagnia mattutina della rassegna stramba del giovedì, a leggere fatti e misfatti del mainstream, c’è Clara Statello.

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Putin prepara l’opzione nucleare

Rassegna stramba del martedì: il meglio del peggio delle notizie nazionali ed internazionali a cura di Giuliano Marrucci e Matteo Bernabè. Vi aspettiamo, come sempre, alle 08.30 sui canali social di Ottolina Tv.

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I deliri della propaganda filo-ucraina: se finiti missili e munizioni si moltiplicano le fake news

“Carissimi OttoliNERD” – ci scrive un nostro appassionato follower – “non raccontiamoci balle: onestamente, non puoi metterti contro la Russia dal punto di vista militare. E’ stupido. La Russia è un paese estremamente orgoglioso, un paese che non si fa schiacciare; non lo puoi trattare come un paese di secondo grado, come stanno tentando di fare gli americani da vent’anni, tradendo ogni accordo. Negli anni 90, ad esempio, la riunificazione della Germania era stata fatta con l’assenso della Russia in cambio della promessa da parte della NATO di non avere nessuna intenzione di espandere verso est i suoi confini: è la NATO che sta giocando da aggressore, non la Russia, anche per questioni economiche; se la Russia spende tanto in armamenti è perché è quasi costretta. Io non sono un russofilo, ma è paradossale spingere Estonia, Lettonia, Lituania, Ucraina e Polonia contro la Russia; è tutto un gioco politico americano per dividere la Russia dall’Europa, perché se la Russia si unisce all’Europa l’egemonia americana sul continente europeo finisce e noi, come europei, non dovremmo avere nessun interesse a porci come antagonisti con la Russia. La finta rivoluzione ucraina è nata semplicemente perché gli americani tentavano di bloccare il passaggio del gasdotto. Punto. Questo ormai è comprovato. Quando si sparò sulla folla, quelli che sparavano sulla folla erano dei mercenari e lo fecero per esacerbare la rivoluzione in modo che sembrasse che lo Stato sparasse sui cittadini e quindi, ovviamente, cascava giù il mondo. Non raccontiamoci balle”. A dire il vero, questa lettera è un po’ vecchiotta: risale ormai al gennaio 2022, prima dell’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. L’autore? Forse lo conoscete.

L’avete riconosciuto? Esatto, è proprio lui: Parabellum, al secolo Mirko Campochiari, il pibe de oro degli analisti filoucraini che, evidentemente, più studia e più si confonde le idee: lo fa, soprattutto quando frequenti cattive compagnie. Fino a questa live, infatti, Parabellum, da bravo nerd, si faceva sostanzialmente i cazzi suoi e, se frequentava qualcuno, erano grossomodo nerd come lui, secchioni un po’ fuori dal mondo il cui unico scopo è saperne una più di te e avere ragione, proprio come piacciono a noi. Dopodiché è stato tutto un profluvio di Stirpe, Parsi e Boldrin e, soprattutto, di tanta tanta miniera con quel raffinato intellettuale di Ivan Grieco, le truppe d’assalto della propaganda imperialista e suprematista al gran completo che, passo dopo passo, lo hanno aiutato a costruire una narrazione sempre più radicalmente distaccata dalla realtà il cui unico fine è convincere l’opinione pubblica che più armi mandiamo in Ucraina e meglio è per la pace, la democrazia, ma – soprattutto – per la carriera che, per Mirko, ha subìto una svolta incoraggiante. A quarant’anni suonati, dopo 10 anni dal conseguimento della laurea in storia, Campochiari, nel giro di pochi mesi, passa magicamente dall’anonimato più totale ad essere accolto nelle famiglie della rivista Dominio prima e, addirittura, Limes poi; e, dopo un altro annetto, è pronto per il grande salto: a novembre 2023 fonda la Parabellum & Partners, un “think tank di analisi geopolitica, strategica e consulenza per aziende”, come si legge dal suo profilo Linkedin. Cosa vuol dire posizionarsi nel modo giusto al momento giusto… Peccato, però, che quella che per Campochiari è stata una straordinaria occasione di carriera che ha saputo cogliere con grande lucidità e pragmatismo, per altri sia diventata un’altra delle tante religioni laiche che la propaganda riesce ad affermare e che obnubilano le capacità cognitive più basilari, come il vincolo esterno o l’austerity, come per questo jesse pinkman su X, che sotto allo spezzone di video – pubblicato sul suo profilo da Andrea Lombardi – ha uno sprazzo di genio e commenta: “Ma chi sei, Andrea Lucidi? Io non amo Parabellum ma quelle cose non le ha mai dette… è diffamazione…” .
Di fronte alla disfatta Ucraina, la guerra di propaganda rimane l’unica guerra che vede l’Occidente collettivo e le sue oligarchie nettamente in vantaggio; tutti i gruppi di interesse del mondo, ovviamente, investono in propaganda, ma per ogni euro che tutto il Sud globale messo assieme investe per manipolare l’opinione pubblica – tra testate giornalistiche, think tank e intrattenimento – l’Occidente collettivo e, in particolare, gli USA ne investono migliaia. Il problema, però, è che il compito della propaganda occidentale al servizio delle oligarchie è molto più complicato perché qui non si tratta semplicemente di dare alla realtà una lettura più o meno favorevole, ma proprio di stravolgerla tout court e di inventarsene una parallela. Il buon Billmon su Moon of Alabama ieri mi ha sbloccato un ricordo: ve lo ricordate “il fantasma di Kiev”? Eravamo proprio nelle primissime ore dello scoppio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina quando i media, improvvisamente, si riempirono di notizie di un leggendario pilota che, a bordo del suo mig-29, tirava giù gli aerei militari russi che si avvicinavano a Kiev come mosche: “Lottando contro ogni previsione con armi antiquate” ricordava Forbes “abbatté 40 aerei da guerra russi prima di soccombere finalmente al fuoco nemico tre settimane dopo l’inizio della guerra”; il ministro della difesa ucraino affermò che si trattava di uno delle dozzine di piloti esperti della riserva militare che erano tornati nelle forze armate dopo l’invasione russa e Poroshenko, l’oligarca ex presidente insediatosi dopo il golpe eterodiretto dagli USA dell’Euromaidan, nonché regista dei feroci crimini di guerra commessi contro le minoranze russofone del Donbass da lì in poi, pubblicò addirittura su Twitter quella che definiva una sua foto. Strano, perché due mesi dopo fu lo stesso comando dell’Air Force ucraina a dover ammettere che si trattava, ovviamente, di una leggenda inventata di sana pianta: la foto pubblicata da Poroshenko era una foto a caso presa dall’archivio del ministero della difesa.
“Due anni dopo” scrive Billmon “riecco la solita vecchia storia”; il riferimento è all’attacco dei droni ucraini in territorio russo la notte tra il 4 e il 5 aprile scorsi: Aerei russi distrutti in un grande attacco all’aeroporto di Morozovsk titolava il Telegraph. L’Ucraina lancia un massiccio attacco di droni distruggendo sei aerei e uccidendo 20 soldati russi replicava il Sun; L’Ucraina ha colpito aeroporti in Russia, distruggendo o danneggiando 19 aerei da guerra rilanciava col botto il sempre attendibilissimo Kyev Indipendent, ma forse si sono fatti prendere un po’ troppo dall’entusiasmo: “Non abbiamo ancora trovato alcuna prova visiva che le forze ucraine abbiano danneggiato o distrutto aerei o infrastrutture in una delle quattro basi aeree russe prese di mira dai droni nella notte tra il 4 e il 5 aprile”, dichiarava una fonte: contropropaganda ruZZa al soldo del Cremlino? Non esattamente: la citazione, infatti, è dell’Institute for the study of War, uno dei più prestigiosi think tank guerrafondai neocon americani, sempre in prima linea nel richiedere l’intervento a mano armata degli USA per qualsiasi cosa accada in ogni angolo del pianeta; d’altronde, appunto, terrorismo e guerra psicologica sono, sostanzialmente, le uniche armi rimaste a disposizione degli ucraini che se – dopo aver dilapidato tutto il dilapidabile in due anni abbondanti di guerra per procura – non possono più fare affidamento su copiose forniture di difese antiaeree e munizioni da parte dei pucciosissimi amici occidentali, possono comunque continuare a fare affidamento sui loro media e sulle decine di migliaia di persone che in Occidente, comprensibilmente, ritengono che scrivere vaccate e raccattare figure di merda seriali sia comunque meglio che lavorare.

Fino al degenero: nella giornata di lunedì, infatti, ad essere presa di mira è tornata la gigantesca centrale nucleare di Zaporizhzhia (foto), la più importante centrale nucleare non solo dell’Ucraina, ma dell’intera Europa; la centrale è entrata in pieno possesso delle forze armate russe già a partire dal marzo del 2022 ed era già stata oggetto di svariati attacchi, in particolare durante l’estate e l’inizio autunno dello stesso anno. La mattina del 7 aprile è stata nuovamente presa di mira: un primo drone, riporta sul suo canale Telegram il sempre impeccabile Andrea Lucidi, aveva colpito “un camion a cui si stava scaricando del cibo vicino alla mensa della centrale”; “Il secondo drone” continua Lucidi, risulta aver colpito “nell’area del porto di carico” mentre il terzo avrebbe colpito “la cupola dell’unità 6 della centrale”. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, per voce del suo direttore generale Raphael Grossi, ha fatto sapere che, ovviamente, non ci sono minacce per la sicurezza, rivelando che “il fondo di radiazioni” non è cambiato, e graziarcazzo, direi: se per bucare una centrale nucleare bastasse un drone sarebbe piuttosto grave; è giusto per fare un po’ di caciara. E chi mai potrebbe avere l’interesse ad attaccare una postazione russa per sollevare un po’ di caciara? Sentiamo un po’. Provate a darvi una risposta.
Eehhhh… la fate facile voi propagandisti putiniani, e invece no: è tutto estremamente complicato e, come dice David settecervelli Puente, rischiate di fare affermazioni fuorvianti con contesto mancante, come per il Nord stream. I giornalisti seri, invece, vedono la complessità in tutte le sue sfaccettature: Accuse nucleari titola a 6 colonne La Stampa; “Dinamica incerta. Kiev: vogliono incolparci”. A esporre la tesi, una fonte indipendente affidabilissima: Andriy Yusov, il portavoce dell’intelligence militare ucraina che, in un’intervista all’Ukrainska Pravda, accusa la Russia di aver organizzato un attacco false flag “per minare il sostegno internazionale all’Ucraina invasa”; a differenza dell’utilizzo delle pale come armi da parte dei russi, dei denti d’oro strappati ai prigionieri come bottino di guerra, del fantasma di Kiev e delle decapitazioni di bambini di Hamas – sottolinea La Stampa – in questo specifico caso purtroppo “Né la versione russa né quella ucraina sono verificabili in modo indipendente” anche se, come sottolinea il comunicato dell’AIEA stesso, “Mentre si trovavano sul tetto del reattore – unità 6, le truppe russe hanno ingaggiato quello che sembrava essere un drone in avvicinamento”. Cioè, non solo si bombardano la centrale da soli, ma si bombardano anche i droni che usano per bombardare la centrale e poi, magari, si bombardano pure le truppe che hanno bombardato il drone che hanno usato per bombardare la centrale e, alla fine, si scopre che Zelensky – in realtà – è Prigozhin; d’altronde, li avete mai visti insieme?
Questo tipo di propaganda becera, comunque, in Occidente comincia a fare sempre meno effetto: come diceva Abramo Lincoln “Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre” e, allora, quei pochi meglio selezionarli bene. E’ quello che sembra stiano cercando di fare gli Ucraini: lo avrebbe rivelato al britannico Times Andrei Kovalenko, capo del Centro per la lotta alla disinformazione presso il Consiglio di sicurezza ucraino; secondo Kovalenko, per l’Ucraina provocare tensioni tra gruppi etnici all’interno della Russia sarebbe “terreno fertile”. “Dopo l’attacco terroristico al Crocus di Mosca” sottolinea John Helmer “gli agenti ucraini sono diventati più attivi sui canali Telegram e cercano di incitare alla guerra etnica sfruttando l’origine etnica dei terroristi”; “Naturalmente” ha affermato Kovalenko “è molto utile per noi sostenere eventuali divisioni nazionali in Russia e fomentarle con l’aiuto dell’informazione… Stiamo usando tutto ciò che possiamo perché sappiamo che alimentando le tensioni etniche, stiamo indebolendo la Russia ”. Il Times rileva che il CPD dell’Ucraina sta cercando, attraverso i canali tagiki di Telegram, di suscitare simpatia per i terroristi che sono stati malmenati quando sono stati arrestati dalle forze di sicurezza russe: gli agenti ucraini provocano, così, i cittadini tagiki contro le forze dell’ordine russe; contemporaneamente, prosegue Kovalenko, “Kiev ha alimentato diverse voci per mettere l’uno contro l’altro russi e ceceni”. Sfortunatamente, è una tattica che non sta funzionando proprio benissimo, diciamo: secondo un recente sondaggio del centro Levada, infatti, in realtà “L’intensità complessiva degli atteggiamenti negativi nei confronti delle minoranze etniche della federazione, negli ultimi anni, è sensibilmente diminuita” e, in particolare, proprio nei confronti dei ceceni.
Insomma: anche le montagne di quattrini spesi per le migliaia di psyops portate avanti dall’Occidente collettivo nella sua guerra ibrida contro il resto del mondo rischiano, alla lunga, di rivelarsi uno spreco. Se, mano a mano che ve ne accorgete, vorrete cambiare strategia, ricordatevi degli amici che vi hanno dato buoni consiglio. Nel frattempo, se sei stanco di questa gigantesca mole di puttanate e di ciarlatani e vuoi aiutarci a tirare su il primo vero e proprio media che non ha come unico obiettivo quello di compiacere le oligarchie coloniali per arrivare a fine mese, come fare già lo sai: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Michele Boldrin

ELENA BASILE – I benpensanti occidentali vogliono la GUERRA NUCLEARE

L’ambasciatrice Elena Basile asfalta la propaganda occidentale su Ucraina, Palestina, e Brics. Contro i nostri interessi nazionali, le classi dirigenti occidentali ci stanno gettando in una guerra contro Cina e Russia per il dominio americano sul mondo. Nonostante la realtà non faccia che sbugiardarli, i giornalisti italiani si comportano come i cani da guardia del potere, e organizzano spedizioni punitive mediatiche contro chiunque osi ribellarsi.

Lo scandalo Putin: se ne sbatte delle minacce europee e parla di asili, ospedali e salario minimo

Politico: “Putin minaccia la NATO con un attacco nucleare”; Bloomberg: “Putin avverte la NATO sui rischi di una guerra nucleare”; New York Times: “Putin afferma che l’Occidente rischia un conflitto nucleare”. Come sempre in questo periodo, ieri Putin ha ripetuto il rituale del suo lungo discorso annuale di fronte all’assemblea federale e, come ogni anno, la propaganda del partito unico della guerra e degli affari dell’Occidente collettivo fa di tutto affinché non ci si capisca una seganiente: ne avevamo già parlato a lungo l’anno scorso in questo video; anche quest’anno il copione è abbastanza simile. La propaganda occidentale, ormai assuefatta alle sparate a caso del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron e alla ricerca disperata del titolone, scatena panico e si dimentica di dire che, anche a questo giro, la stragrande maggioranza del tempo Putin lo ha dedicato a parlare di welfare state e di sviluppo economico; d’altronde, farebbe strano: come lo giustifichi il fatto che tutto il mondo occidentale come un sol uomo è concentrato a fare la guerra per procura a un singolo Stato che continuano a spacciare come sull’orlo della bancarotta, e quello dedica più tempo agli asili, agli ospedali, al salario minimo, ai data center e al sostegno alle piccole medie aziende che non al rischio della scesa in campo direttamente di uomini della NATO?

Vladimir Putin

Un anno fa, Putin si prendeva gioco della propaganda senza capo né coda dei media e delle istituzioni occidentali ricordando come “inizialmente alcuni analisti avevano previsto un crollo del PIL russo superiore al 20%. Poi si sono corretti: saremmo dovuti crollare almeno del 10. Secondo gli ultimi dati, il nostro PIL si è contratto appena del 2,1%” e a partire dal terzo trimestre del 2022, continuava Putin, è tornato a crescere; un anno dopo, il bilancio è migliore delle più rosee aspettative: “Nel 2023” afferma Putin davanti all’Assemblea Federale “l’economia russa è cresciuta più della media mondiale”. Gli ingredienti di quella crescita li aveva anticipati, appunto, un anno fa e ora si cominciano a raccogliere i frutti; Putin, a questo giro, ricorda infatti come sono state avviate 1 milione di nuove attività imprenditoriali e commerciali di ogni genere: un record assoluto. Un bel traino è stato l’edilizia, come un daddy Conte qualsiasi: 110 milioni di metri quadrati di superficie residenziale solo l’anno scorso, “il 50% in più rispetto al livello più alto dell’era sovietica, raggiunto nel 1987” e che si vanno ad aggiungere agli oltre 4 milioni di metri quadri di superficie in più destinata alla produzione; “I nostri imprenditori” ha affermato Putin “credono in loro stessi, nelle loro capacità, e nel loro paese”.
E questo nonostante le sanzioni; anzi, in parte proprio grazie a loro: come ricorda Putin, infatti, nel 2023 “centinaia di nuovi marchi russi hanno fatto il loro esordio sul mercato”. “Nel 1999” sottolinea ancora “la quota delle importazioni nel nostro Paese ha raggiunto il 26% del PIL. L’anno scorso è stata pari al 19% del PIL e il nostro obiettivo è, prima del 2030, raggiungere un livello di importazioni non superiore al 17% del PIL”. Sempre nonostante le sanzioni, sottolinea ancora Putin, nel 2023 i porti russi hanno movimento oltre 5 volte la quantità di merce movimentata nell’anno del massimo splendore dell’ex Unione Sovietica: tutto questo, sottolinea Putin, è stato possibile grazie al fatto che il mondo finalmente sta attraversando cambiamenti di un’entità mai vista sino ad oggi. “Ad esempio” sottolinea Putin “nel 2028, i paesi BRICS, tenendo conto dei nuovi membri, creeranno circa il 37% del PIL globale, mentre i numeri del G7 scenderanno al di sotto del 28%”; nel 1992 i paesi del G7 pesavano per il 45,7 e i paesi BRICS per appena il 16,5: “Queste sono le tendenze globali” ha sottolineato Putin “e non è possibile allontanarsi da questa realtà oggettiva, che rimarrà tale qualunque cosa accada, anche in Ucraina”. Putin sottolinea poi come il segreto dei BRICS sta nel “rispetto per gli interessi reciproci che ci guida nell’interazione con i nostri partner, e questo è il motivo per cui sempre più paesi sono interessati a far parte di organizzazioni multilaterali come l’Unione Economica Eurasiatica o la Shanghai Cooperation Organization”: tutti vedono grandi opportunità,in particolare “nel progetto di costruzione di un Grande Partenariato Eurasiatico” e nell’adesione “all’iniziativa cinese della Nuova via della seta”. La Russia, continua Putin, ha approfondito il suo rapporto con l’ASEAN, con gli stati arabi e con l’America Latina e, ancora di più, con l’Africa, a partire dal vertice Russia – Africa che “ha rappresentato una vera svolta, con il continente africano che è diventato sempre più assertivo nel perseguire i propri interessi e nell’esercitare un’autentica sovranità. Aspirazioni che noi continueremo a sostenere sinceramente”: quindi il Mondo Nuovo che avanza, e la ferma volontà da parte della Russia di coglierne tutte le opportunità; altro che dittatore isolato e paranoico! Qui quelli isolati e paranoici siamo noi.
Ma la cosa forse più interessante del lungo discorso di Putin, in realtà, è ancora un’altra e l’ha sottolineata lui stesso: “Tutto quello che ho detto fino ad ora è importante, ma quello di cui parlerò ora è la questione più importante di tutte”; saranno i missili? I contingenti che la NATO minaccia di dispiegare direttamente in Ucraina? La Transnistria? Macché: la questione più importante di tutte, secondo Putin, sono “I bassi redditi, in particolare di molte famiglie numerose”; se leggi La Repubblichina ti aspetti Hitler e, invece, ti ritrovi di fronte Fanfani. “Nel 2000” ricorda Putin “42 milioni di russi vivevano al di sotto della soglia di povertà. Da allora la situazione è radicalmente cambiata. Alla fine dello scorso anno” continua con enfasi “il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è sceso a 13,5 milioni”; un dato clamoroso, ma – frena gli entusiasmi Putin – “ancora troppo elevato” e il nostro primo dovere è “concentrarsi costantemente sulla ricerca di una soluzione”. Una prima misura, sottolinea Putin, è stata introdotta il primo gennaio del 2023 e consiste in “un assegno mensile per le famiglie a basso reddito” che l’anno scorso ha riguardato “più di 11 milioni di persone”, ma “la povertà resta un problema acuto” in particolare per le famiglie numerose, che sono povere in circa un caso ogni 3: il nostro obiettivo, scandisce Putin, è che “entro il 2030 questa percentuale non sia superiore al 12%, meno della metà di oggi”, a partire dalle regioni della Russia centrale e nordoccidentale che, a partire dal prossimo anno, riceveranno circa 750 milioni di finanziamenti pubblici per cominciare ad affrontare il problema.
La questione demografica porta via un quarto d’ora buona di discorso, una carrellata di aiuti per incentivare i figli e la famiglia tradizionale che democrazia cristiana scansate, e poi tutto quello che serve affinché questi bambini crescano in salute e diventino adulti produttivi: 4 miliardi di euro per la manutenzione straordinaria di 18.500 edifici scolastici, a partire dagli asili, ai quali si aggiungono altri 4 miliardi per 40 nuovi campus universitari, 1 miliardo e mezzo per 800 strutture per la specializzazione professionale e non ho capito bene quanto per la nascita di 25 nuove università in tutto il paese; d’altronde, sottolinea Putin, “Nel 2035 avremo 2,4 milioni di cittadini in più con un’età compresa tra i 20 e i 25 anni” ed è su loro che la Russia deve puntare per aumentare in modo considerevole la produttività. E devono fare in fretta perché da qui al 2028, spiega Putin, avranno bisogno di 1 milione di giovani tecnici formati nei settori elettronico, farmaceutico e, soprattutto, in campo medico; ma, soprattutto, perché la Russia vuole raggiungere la sovranità tecnologica in una lunga serie di settori – dalla chimica all’aerospazio passando per l’energia nucleare e la new space economy.
“La percentuale di produzione ad alto contenuto energetico deve aumentare del 50% nei prossimi 6 anni” sottolinea Putin: per farlo, Stato e aziende private devono lavorare fianco a fianco; a questo fine, Putin offre agli imprenditori un patto fiscale. Le aziende russe infatti , come in tutto il resto del mondo, sono ricorse a ogni sorta di stratagemmi per pagare meno tasse possibili; questo ha comportato spesso un ostacolo alla crescita delle aziende stesse che, per evitare di passare da un regime fiscale agevolato a uno più gravoso, sono ricorse spesso a frammentare il loro business incorrendo in una sostanziosa perdita di produttività: “Queste aziende d’ora in avanti dovranno evitare la pratica della divisione artificiale, essenzialmente fraudolenta, delle attività e abbracciare modelli civili e trasparenti”. Per chi si adeguerà a questo new normal “non ci saranno multe, sanzioni, ricalcoli delle imposte per i periodi precedenti”; insomma: un bel condono, rafforzato anche da una bella “moratoria sulle ispezioni” perché “Le aziende che garantiscono la qualità dei loro prodotti e servizi e agiscono in modo responsabile nei confronti dei consumatori possono e devono godere della nostra fiducia”. E non è ancora finita; Putin, infatti, propone di rendere il condono stabile: una volta ogni 5 anni si azzera tutto perché “dobbiamo creare condizioni adeguate affinché le piccole e medie imprese possano crescere in modo dinamico e migliorare la qualità di questa crescita attraverso forme di produzione ad alta tecnologia. E per questo, in generale, il regime fiscale per le piccole e medie imprese manifatturiere dovrebbe essere allentato”.
Insomma: siamo di fronte a un piano complessivo a medio lungo termine per trasformare definitivamente la Russia in un moderno paese capitalista fondato sulla libertà di impresa e sul profitto e così, dopo la leggenda del pazzo dittatore isolato, cade anche quella del regime autocratico tenuto in piedi da una sorta di economia di guerra. Dove sta, allora, la differenza con noi? La parolina magica di Putin si chiama sovranità: in cambio, infatti, “Le imprese russe” continua Putin “devono investire le proprie risorse in Russia e nelle sue regioni, nello sviluppo delle imprese e nella formazione del personale”; in questo modo – è la ratio – l’economia reale crescerà e anche i salari ne beneficeranno, spinti anche dall’aumento del salario minimo. “A partire dal 2020” ricorda infatti Putin “il salario minimo è cresciuto del 50%. Entro il 2030 dovrà raddoppiare”; “Dobbiamo garantire” continua Putin “che il reddito medio dei lavoratori delle PMI superi la crescita del PIL nei prossimi sei anni. E ciò significa che queste imprese devono migliorare la propria efficienza e fare un salto di qualità nelle loro prestazioni”. Per farlo, servono i capitali: una complessiva riforma del mercato dei capitali che “permetta di aumentare gli investimenti nei settori chiavi del 70% entro il 2030” e senza ricorrere ai capitali internazionali; “In linea di principio” punzecchia Putin “le aziende russe dovrebbero operare all’interno della nostra giurisdizione nazionale e astenersi dal trasferire i propri fondi all’estero dove, a quanto pare, si può perdere tutto. Quindi ora, io e i miei colleghi della comunità imprenditoriale dobbiamo tenere sessioni di brainstorming per trovare modi per aiutarli a recuperare i loro soldi. Ma il metodo migliore, appunto, sarebbe semplicemente non trasferire i tuoi soldi lì. In questo modo non dovremo pensare a come recuperarli”. Quindi stop alla fuga dei capitali: lo Stato, tra investimenti in infrastrutture sia materiali che immateriali e un impianto regolatorio a maglie larghe, vi permette di fare tutti i soldi che volete, ma voi dovete rimanere qui a investire e sostenere la crescita economica generale. Insomma: lo dipingono come un feroce dittatore ma, in realtà, sembra uno dei pochi autentici liberali rimasti, una bimba di Adam Smith che, da autentico seguace di Adam Smith, sa che una cosa è il capitalismo industriale e produttivo – con anche tutto lo sfruttamento che comporta, ma nel quale, per fare quattrini, si deve produrre qualcosa – e un’altra cosa è il ritorno al feudalesimo che l’imperialismo occidentale ha in serbo per la Russia sin dai tempi di quell’alcolizzato svendipatria di Eltsin.

Il sempre più pimpante Manuelino Macaron

Ed ecco, allora, che si arriva al tema della guerra: “Il cosiddetto Occidente, con le sue pratiche coloniali e la propensione a incitare conflitti etnici in tutto il mondo” sottolinea infatti Putin “non solo cerca di impedire il nostro progresso, ma immagina anche una Russia che sia uno spazio dipendente, in declino e morente dove possono fare ciò che vogliono”; niente di nuovo sotto il sole, continua: “Vorrebbero solo replicare in Russia ciò che hanno fatto in numerosi altri paesi, tra cui l’Ucraina: seminare discordia in casa nostra e indebolirci dall’interno. Ma si sbagliavano, e ciò è diventato evidente ora che si sono scontrati con la ferma determinazione e determinazione del nostro popolo multietnico” – e contro la forza del possente apparato militare russo. Putin ricorda come, nel conflitto in Ucraina, la Russia abbia potuto dimostrare la potenza e l’efficacia dei suoi missili ipersonici Kinzhal e Zircon, e la lista della spesa continua ancora a lungo: dagli “ICBM ipersonici Avangard” ai “complessi laser Peresvet”, dal “missile da crociera a portata illimitata Burevestnik” al “veicolo sottomarino senza pilota Poseidon”, per finire con “i primi missili balistici pesanti Sarmat prodotti in serie”; “Sistemi”, sottolinea Putin, che “hanno dimostrato di soddisfare gli standard più elevati e non sarebbe esagerato affermare che offrono funzionalità uniche”.
Dopo aver fatto un po’ lo sborone, Putin allora fa il diplomatico: “La Russia” afferma “è pronta al dialogo con gli Stati Uniti su questioni di stabilità strategica. Tuttavia” sottolinea “è importante chiarire che in questo caso abbiamo a che fare con uno Stato i cui ambienti dominanti stanno adottando azioni apertamente ostili nei nostri confronti”; insomma, “intendono discutere con noi questioni di sicurezza strategica, ma allo stesso tempo cercano attivamente di infliggere una sconfitta strategica alla Russia sul campo di battaglia”. Un caso eclatante di questa ipocrisia, sostiene Putin, sono state le “accuse infondate” mosse recentemente alla Russia “riguardo ai piani di dispiegamento di armi nucleari nello spazio”, una storiella che Putin non solo definisce “inequivocabilmente falsa”, ma che fa palesemente a cazzotti col fatto che “Nel 2008 abbiamo redatto una proposta di accordo sulla prevenzione dello spiegamento di armi nello spazio”, ma in oltre 15 anni “Non vi è stata alcuna reazione”. Il tentativo, suggerisce Putin, è quello di “trascinarci di nuovo in una corsa agli armamenti”, esattamente come fatto “con successo con l’Unione Sovietica negli anni ’80”, ma a ‘sto giro non ci fregate: “Il nostro attuale imperativo infatti” è che si rafforza l’industria della difesa, ma in modo che influisca direttamente in modo positivo sulle “capacità scientifiche, tecnologiche e industriali del nostro Paese”; insomma, mentre miglioriamo “la qualità delle attrezzature per l’esercito e la marina russa”, “Per noi rimane fondamentale accelerare la risoluzione dei problemi sociali, demografici e infrastrutturali che abbiamo di fronte”. “L’Occidente”, continua Putin, “ha provocato conflitti in Ucraina, Medio Oriente e in altre regioni del mondo, diffondendo costantemente falsità. Ora hanno l’audacia di dire che la Russia nutre l’intenzione di attaccare l’Europa” ma, ovviamente, “Sappiamo tutti che le loro affermazioni sono del tutto infondate”, eppure le usano come scusa per cominciare a “ parlare della possibilità di schierare contingenti militari della NATO in Ucraina”. Ora, ricordate “cosa è successo a coloro che già una volta hanno inviato i loro contingenti nel territorio del nostro Paese ?” Ecco: “Oggi, qualsiasi potenziale aggressore dovrebbe affrontare conseguenze molto più gravi” perché “disponiamo anche di armi capaci di colpire obiettivi sul loro territorio”; ora stanno “spaventando il mondo con la minaccia di un conflitto che coinvolga armi nucleari”, ma si rendono conto che “potenzialmente significa la fine della civiltà”? Il problema, continua Putin è che “proprio come qualsiasi altra ideologia che promuove il razzismo, la superiorità nazionale o l’eccezionalismo, la russofobia è in grado di acciecare”. “Il problema”, conclude, “è che si tratta di persone che non hanno mai affrontato avversità profonde, e non hanno idea degli orrori della guerra”. Insomma: in soldoni, il Putin che s’è presentato di fronte all’assemblea federale è un De Mita che ce l’ha fatta; conservatore e liberale, ha capito che nel mondo dell’unipolarismo USA, anche solo per portare avanti un’agenda moderata e interclassista – ma non platealmente al soldo delle peggiori oligarchie transnazionali – ti devi armare fino ai denti.
La palla ora, in buona parte, sta a noi: fino a che punto i fanatici al soldo dell’impero neofeudale di Washington che governano i nostri paesi saranno intenzionati a mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa dei loro popoli per compiacere le oligarchie di turno? Putin, dal tono del suo lungo discorso, sembra essere ottimista: nessuno è così stupido da andare verso l’autodistruzione certa per fare gli interessi del suo padrone. Noi rimaniamo moderatamente agnostici: non sarebbe la prima volta che ripone una fiducia ingiustificata sulla peggiore classe dirigente della storia dell’Occidente. Di sicuro, quello che ci dovremmo impegnare a fare noi qui e ora, senza aspettare di vedere come va a finire questa partita, sarebbe mandarli tutti a casina, anche perché questa è una di quelle partite che non è detto che gli spettatori riescano a vedere fino al fischio finale; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media un po’ strambo che, ad esempio, quando parla per due ore il presidente della più grande potenza nucleare del pianeta, invece che ascoltarlo per i primi 30 secondi perché poi c’ha judo e inventarsi i virgolettati, cerca un po’ di capire cos’ha detto sul serio – anche se non vive nel giardino ordinato. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è (di nuovo) il pimpante Manuelino Macaron

RAND CORPORATION: ecco perché un eventuale conflitto a Taiwan sarà per forza nucleare

Le teorie della vittoria delle forze armate USA per una guerra con la Repubblica Popolare Cinese
Archiviata definitivamente l’utopia concreta delle democrazie moderne che, come recita la nostra Costituzione, ripudiavano la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il problema non è più se fare la guerra o meno, ma molto più banalmente che tipo di guerra fare per ottenere quali obiettivi: da questo punto di vista, il dettagliato rapporto di oltre 40 pagine recentemente pubblicato dalla solita Rand Corporation, più che per ciò che svela su quale potrebbe essere l’approccio USA alla questione taiwanese, è illuminante per quello che svela con candore sulla psicologia dei pericolosi sociopatici che, di mestiere, consigliano alle massime sfere delle forze armate e delle amministrazioni di ogni colore il da farsi; “Gli autori di questo paper” si legge subito nell’abstract “illustrano come gli Stati Uniti possono prevalere in una guerra limitata con la Repubblica Popolare di Cina, evitando catastrofiche escalation”. Insomma: combattere e vincere sì, ma con moderazione; dov’è che l’ho già sentita? Ma state tranquilli: ormai i tempi sono cambiati e, ormai, parlare di guerra nucleare non è più tabù; moriremo, certo, ma un po’ più consapevoli. Il rapporto, infatti, non lascia molti margini alla fantasia: nel caso gli USA rilancino il cambio radicale di politica nei confronti di Taiwan adottato durante l’amministrazione Biden e culminato, nell’agosto del 2022, con la missione criminale di Nancy Pelosi sull’isola, evitare il conflitto sarà sempre più impossibile; il conflitto tra grandi potenze non potrà che essere prolungato e sempre più cruento, e che un conflitto prolungato e cruento tra grandi potenze non sfoci nel ricorso al nucleare è puro wishful thinking privo di fondamento. Cosa mai potrebbe andare storto?

“Le guerre sono molto più semplici da iniziare che da finire” sottolinea il rapporto della Rand Corporation, anche perché definire esattamente cosa significa vincere una guerra è più complicato di quanto non sembri; un problema che da 30 anni a questa parte gli USA – sostiene il rapporto – non si sono dovuti porre: qualsiasi fosse l’esito sul campo, infatti, dalla Serbia all’Iraq il rischio di ripercussioni in casa era sostanzialmente pari a zero, ma con “una guerra contro una grande potenza dotata di armi nucleari” la storia cambia completamente e quindi, nel caso di un conflitto con la Repubblica di Cina, “gli USA hanno bisogno di avere una visione chiara fin dall’inizio di come pensano di poter porre termine a un conflitto ottenendo vantaggi politici mentre evitano una potenziale escalation catastrofica”. Insomma: gli USA hanno bisogno di quella che, in termini scientifici, viene definita una teoria della vittoria e che, in soldoni, consiste nell’“identificare le condizioni alle quali il nemico accetterà la sconfitta, e quindi pianificare come modellare il conflitto in modo da creare quelle condizioni”; una buona teoria della vittoria, sottolinea il rapporto, deve avere “obiettivi politici chiari, deve essere concisa, prendere in considerazione le reazioni del nemico, sia militari, che politiche, e anche come reagiranno gli altri paesi coinvolti”. Elaborare una buona teoria della vittoria, continua il rapporto, è fondamentale perché “Le scelte che gli Stati Uniti fanno oggi influenzeranno quali teorie della vittoria saranno praticabili tra un decennio”; “Le modifiche delle capacità militari” sottolinea infatti Rand “richiedono tempi lunghi, e gli Stati Uniti si ritrovano ad affrontare limiti delle risorse disponibili che rendono impossibile investire equamente in tutte le opzioni possibili senza determinare una mancanza delle risorse disponibili per la scelta strategica più adeguata”. Ma non solo: elaborare una buona teoria della vittoria in tempo di pace è fondamentale per preparare le alte cariche delle forze armate e dell’amministrazione a essere in grado di fornire alla future presidenze consigli tempestivi adeguati qualora la deterrenza fallisse e scoppiasse improvvisamente il conflitto; “Viste le conseguenze del possibile ricorso all’arsenale nucleare o anche solo di attacchi convenzionali diffusi contro la Patria, alti ufficiali e funzionari devono essere consapevoli dei diversi rischi che le diverse teorie della vittoria comportano, per fornire i consigli migliori possibile al presidente. Non riuscire a centrare un equilibrio efficace tra il desiderio di ottenere un successo operativo e l’imperativo di gestire l’escalation con armi nucleari da parte dell’avversario rappresenta una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti”.
Si tratta, quindi, di capire come condurre una guerra in grado di raggiungere determinati obiettivi politici evitando il ricorso alla possibilità della mutua distruzione reciproca: per farlo “è essenziale stabilire obiettivi politici limitati”; l’era delle vittorie totali, se mai è esistita, sembrerebbe tramontata per sempre. Nel caso specifico di Taiwan, ad esempio – specifica il rapporto – “gli Stati Uniti potrebbero definire in modo restrittivo il proprio obiettivo politico nei termini di prevenire la possibilità che la Repubblica Popolare di Cina riesca ad imporre un controllo fisico totale di Taiwan, senza che la Repubblica Popolare sia comunque costretta a riconoscere l’indipendenza dell’Isola”. Per meglio schematizzare queste diverse gradazioni possibili di vittoria, il rapporto ricorre a una scala che va dalla distruzione alla vittoria totale: con vittoria totale si intende la vittoria che “consente al vincitore di dettare i termini della pace unilateralmente, anche se tali termini violano gli interessi vitali della parte sconfitta”, come ad esempio è avvenuto nei confronti di Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale. Questo tipo di vittoria però, sottolinea il rapporto, “contro una grande potenza nucleare, semplicemente non è plausibile, perché caratteristica distintiva dell’era nucleare è proprio che anche la parte perdente, anche se le forze convenzionali sono state totalmente annientate, è ancora in grado di annientare il vincitore”. Una vittoria limitata, invece, implica il raggiungimento di obiettivi politici limitati, inferiori rispetto a quelli ai quali il vincitore ambirebbe se avesse il controllo completo sui termini della pace; questo, ad esempio – specifica il rapporto – è quello che ha ottenuto la Gran Bretagna nella guerra delle Falkland contro l’Argentina, alla fine della quale “la Gran Bretagna ha riguadagnato il controllo delle isole, ma il regime argentino è sopravvissuto al conflitto e non ha rinunciato alle sue rivendicazioni politiche sulle isole”. Una sconfitta limitata, invece, è l’esatto inverso di una vittoria limitata, come un’ampia sconfitta è l’inverso delle vittoria totale. Rand aggiunge poi un’ulteriore gradazione, e cioè la distruzione, che “va oltre la sconfitta più ampia e comprende la completa distruzione dei fondamentali di una società”, come successe a Cartagine durante la terza guerra punica. Ora, ribadisce Rand, proprio a causa della sproporzione dei contendenti nelle guerre combattute negli ultimi 30 anni, “I leader statunitensi si sono abituati a perseguire obiettivi massimi e combattere in modi che sarebbero estremamente pericolosi in un conflitto tra grandi potenze”, “ma se pensiamo a un conflitto tra USA e Cina nel 2030, il quadro appare completamente diverso”.
Riassumendo una mole imponente di letteratura scientifica sulla strategia militare, Rand ha elencato 5 teorie della vittoria che hanno attraversato il dibattito dei decision makers lungo tutta la storia: la prima viene definita dominanza e consiste nell’”uso della forza bruta per annichilire fisicamente il nemico, incapace di continuare a resistere”; “Questa teoria” sottolinea Rand “ha il fascino della semplicità, ma richiede – appunto – significative asimmetrie di potere, che non sono pensabili nel conflitto tra USA e Cina, e in generale quando ad essere coinvolte sono comunque due potenze nucleari”. La seconda viene definita negazione e consiste nel “convincere il nemico che è improbabile che riesca a raggiungere i suoi obiettivi, e che ulteriori combattimenti non potranno modificare sostanzialmente la situazione”: nel caso del conflitto tra USA e Cina su Taiwan, questo sostanzialmente significherebbe impedire la conquista militare dell’isola da parte della Cina “ad esempio mediante l’interdizione della possibilità del ricorso alle forze aeree e marittime”. La terza viene definita svalutazione e consiste nel “convincere il nemico che anche se riuscisse a raggiungere i propri obiettivi, i benefici sarebbero molto inferiori di quanto inizialmente stimato”; per capire di cosa stiamo parlando, Rand ricorre a un esempio che arriva dal mondo dell’economia, e cioè quando le “aziende si auto – sabotano, ad esempio indebitandosi ulteriormente o svendendo alcuni asset di valore per diventare meno appetibili per un eventuale acquisizione ostile”: nel caso di Taiwan, ad esempio, alcuni analisti hanno suggerito che questo obiettivo potesse essere raggiunto minacciando l’eventuale distruzione totale delle fabbriche del leader mondiale dei microchip TSMC, ma Rand mette in guardia da questo tipo di considerazioni e sottolinea come “non abbiamo individuato misure militari che potrebbero ridurre significativamente l’attaccamento politico della Repubblica Popolare di Cina alla questione taiwanese”, senza considerare il fatto che – in questo caso – anche “Taiwan stessa, probabilmente, si opporrebbe fortemente a tali azioni” e che “distruggere gli interessi vitali dello Stato in difesa del quale ti sei mobilitato” rappresenterebbe, nella migliore delle ipotesi, “una vittoria di Pirro”. La quarta teoria della vittoria viene denominata del rischio calcolato e consiste nel “convincere il nemico a smettere di combattere minacciando una qualche forma di escalation”; in particolare ovviamente, si tratta della minaccia nucleare: “La sfida principale in questo caso” sottolinea però Rand, è “che quando siamo di fronte a un avversario che può ricorrere alla stessa arma, il rischio di escalation aumenta deliberatamente”. La teoria del rischio calcolato, in soldoni, è “una competizione a chi si assume più rischi e persegue la sua strategia con più risolutezza” e, in questo caso, la Cina per Taiwan potrebbe essere decisamente più tollerante ai rischi di quanto non lo siano gli USA stessi. La quinta e ultima teoria della vittoria, invece, viene definita dei costi militari e consiste nel convincere l’avversario che “i costi della continuazione della guerra superano i benefici”; una ipotesi che rientra in questo ambito ed è particolarmente popolare tra gli analisti e gli strateghi a stelle e strisce è quella che prevede “il blocco a distanza del commercio marittimo della Cina in punti di strozzatura come lo stretto di Malacca”. Rand, però, sottolinea come la teoria dei costi militari, per essere realmente efficace, deve soddisfare 3 requisiti fondamentali e, soprattutto, “in primo luogo, gli Stati Uniti devono trovare un punto debole sufficientemente prezioso da influenzare il processo decisionale dell’avversario, ma non così prezioso da risultare inaccettabile e quindi condurre a un’escalation”. Dopo questa lunga disamina introduttiva, il verdetto di Rand è che l’unica opzione realistica è la teoria della negazione, ma è tutt’altro che una passeggiata: “Una valutazione completa della fattibilità concreta della negazione va oltre gli scopi di questo paper” sottolinea RAND, ma quello che è certo è che “Tendenze sfavorevoli nell’equilibrio militare a tre tra la Repubblica Popolare, Taiwan e gli Stati Uniti nel tempo hanno reso più difficile garantire il successo di una strategia di negazione”; “La Modernizzazione e l’espansione militare della RPC hanno creato crescenti preoccupazioni nei confronti della capacità delle forze armate statunitensi di scongiurare un’invasione di Taiwan”. Rand ricorda come, ancora nei primi anni 2000, Taiwan sarebbe probabilmente stata in grado di difendersi da un’invasione della Repubblica Popolare anche con un sostegno limitato da parte degli Stati Uniti: all’inizio degli anni ‘10, i rapporti di forza erano già radicalmente modificati e “un assalto anfibio in larga scala non era più inimmaginabile”, ma ciononostante, rimaneva comunque “una scommessa audace e forse folle da parte di Pechino”, ma verso la metà degli anni ‘10 “le valutazioni iniziarono a rilevare carenze crescenti nella capacità delle forze armate statunitensi di contrapporsi a un’invasione”, fino a quando – nelle simulazioni effettuate a partire dal 2018 – “le forze aeree statunitensi hanno cominciato a fallire disastrosamente”. Ciononostante, Rand invita a non perdere la speranza; gli attacchi anfibi infatti, sottolinea, sono estremamente complessi: “La Storia” infatti, sottolinea il rapporto, “suggerisce che, affinché l’invasione abbia successo, l’attaccante ha bisogno del controllo aereo e marittimo locale totale, mentre a chi difende basta negare all’avversario quel controllo, il che è molto più semplice da conseguire”. Inoltre, continua il rapporto, “gli USA hanno un vantaggio significativo nella guerra sottomarina grazie a investimenti decennali”; “Una nostra ricerca”, sottolineano, “ha dimostrato che i sottomarini d’attacco statunitensi sarebbero particolarmente ben posizionati per affondare un gran numero dei trasporti anfibi dell’esercito di liberazione” e su questo non mi esprimo, che non ho elementi. I passaggi dopo, però, mi puzzano di whisfhul thinking da un chilometro di distanza: Rand, infatti, sottolinea come gli USA abbiano anche una grande esperienza con attacchi di precisione da lunga distanza in grado, di nuovo, di colpire i mezzi anfibi, e come inoltre siano in netto vantaggio per quanto riguarda i jet di quarta e, sopratutto, di quinta generazione. C’è un però: sia gli eventuali missili, sia i jet, dovrebbero partire da portaerei o altre imbarcazioni di grandi dimensioni che, per quanto avevo capito io, non sarebbero proprio obiettivi difficilissimi per i cinesi. E, in effetti, lo ricorda anche Rand: “La capacità della Republica Popolare di attaccare le basi aeree statunitensi” ricorda infatti lo stesso rapporto “è molto cresciuta, il che minaccia di compensare i vantaggi degli Stati Uniti riducendo il numero di sortite possibili”; Rand, d’altronde, ricorda come “Gli USA da questo punto di vista stanno implementando diversi programmi di modernizzazione che cominceranno a dare i loro frutti tra la fine di questo decennio e l’inizio del prossimo”. Dubito però che nel frattempo, invece, l’esercito popolare di liberazione stia a guardare, e dubitano anche quelli di Rand che sottolineano come – se la Repubblica Popolare continuasse ad avere una crescita economia robusta e una certa stabilità interna – le risorse dell’esercito popolare di liberazione aumenterebbero e “la Repubblica Popolare continuerebbe a guadagnare terreno nella competizione militare”; e – a parte quello che scrivono Il Foglio e Rampini – difficile credere che la Cina non continuerà a crescere e la leadership di Xi Jinping ad avere tutto il consenso popolare che le serve.
Di fronte a tutto questo, gli USA potrebbero semplicemente accettare il fatto che “C’è un rischio sempre più grande di fallimento”, ma “Alla fine potrebbe essere nell’interesse degli Stati Uniti accettare un rischio maggiore di una sconfitta limitata su Taiwan piuttosto che coltivare un rischio molto maggiore di escalation nucleare”: si ha come l’impressione che Rand cerchi, in qualche modo, addirittura di fare da pompiere, come se si rivolgesse a funzionari che, presi dall’entusiasmo, non vedono l’ora di menare le mani e, però, non hanno valutato bene il cespuglio di schiaffi che li attende. E la sensazione aumenta andando avanti col rapporto: Rand, infatti, sottolinea come, di fronte a tutte queste difficoltà che la strategia della negazione dovrebbe affrontare, in molti sostengono vada un po’ rafforzata con elementi mutuati dalla strategia sui costi militari. Il rapporto, però, sottolinea come deviare alcune risorse per perseguire la teoria della vittoria dei costi militari aumenterebbe ulteriormente il rischio di fallimento della strategia della negazione: “Usare bombardieri pesanti per imporre costi militari, ad esempio, potrebbe deviare queste risorse già scarse dalla campagna di negazione”. Un modo realistico per integrare le due strategie piuttosto, sostiene Rand, potrebbe consistere nell’utilizzare navi di superficie, che sono troppo vulnerabili per dare un contributo concreto alle operazioni di negazione vicino a Taiwan per imporre una qualche forma di blocco navale più a largo: per imporre alla Cina di desistere, forse è un po’ pochino e il brodo s’allungherebbe come in Ucraina, e anche a questo giro “Il vantaggio demografico cinese, più la sua ampia base industriale, più la maggior posta in gioco nel conflitto, conferiscono alla Repubblica Popolare capacità e motivazioni più forti di quelle degli Stati Uniti”; d’altro lato, il protrarsi del conflitto “non necessariamente risolverebbe i problemi operativi centrali che deve affrontare l’esercito di liberazione popolare, che essenzialmente consiste nella necessità di trasportare e poi sostenere un ampio numero di forze verso Taiwan”. Secondo Rand, infatti, l’esercito di liberazione popolare ha una capacità di trasporto marittimo relativamente modesta; sicuramente la Cina avrebbe sufficiente capacità di costruzione navale per rifornire con continuità la sua flotta anfibia ma, a conflitto in corso, questi siti produttivi sulla costa sarebbero esposti agli attacchi del nemico.
Insomma, ariecco il caro vecchio pantano e il solito vecchio quesito esistenziale: “Possono, realisticamente, grandi potenze dotate di armi nucleari combattere una guerra lunga, dura e dolorosa senza degenerare verso l’uso del nucleare?” Rand, per prima, nutre qualche perplessità: “C’è una tensione tra, da una parte, il fatto che le guerre tra grandi potenze storicamente tendono a protrarsi nel tempo e, dall’altra, i limiti imposti dall’avvento dell’era nucleare su quanto cruento un conflitto può diventare prima che sfoci inevitabilmente in un’escalation catastrofica”; “La minaccia della mutua distruzione potrebbe scoraggiare l’escalation nucleare, anche se i due schieramenti sono impegnati nelle classiche operazioni di provocazione convenzionale che caratterizzano sempre guerre prolungate, come ad esempio attaccare direttamente la base industriale del nemico e i centri abitati. Teoricamente è possibile che questo timore possa prevenire un’escalation nucleare anche in presenza di attacchi convenzionali su grande scala. Ma, nella pratica, sembra improbabile”. Sembrerebbe perlomeno azzardato, ad esempio, pensare che “la RPC sia abbastanza propensa al rischio da iniziare una guerra con gli Stati Uniti, e allo stesso tempo così avversi al rischio da escludere a priori il ricorso al nucleare anche nel caso venissero minacciati i suoi interessi vitali”; allo stesso modo, se la Repubblica Popolare decidesse di reagire attaccando la base industriale USA con attacchi convenzionali di ampia portata, è “perlomeno plausibile che gli USA considererebbero come minimo l’ipotesi di minacciare una risposta nucleare contro Pechino per fermare gli attacchi”. E visto che il prolungarsi di un conflitto inevitabilmente, a un certo punto, pone una minaccia esistenziale alla parte più in difficoltà, chi sta perdendo ha un incentivo razionale ad azzardarsi a ricorrere a un uso limitato del nucleare, nonostante la possibilità di sfuggire presto di mano: “Con il procedere della guerra, entrambi i lati diventerebbero sempre più pronti ad accettare i rischi mentre cercano un modo per portare un conflitto sempre più costoso verso la fine”.

Il dottor Stranamore

Insomma: quale sia l’esito inevitabile del cambiamento della politica USA nei confronti di Taiwan per ostacolare l’ascesa cinese, gli statunitensi lo sanno benissimo e non si sforzano manco tanto per nasconderlo, a partire dai più guerrafondai tra i think tank; se la palla fosse in mano alle persone comuni la questione non si porrebbe nemmeno. Rimane da capire quanto le oligarchie siano disposte a catapultarci nell’armageddon pur di non vedere per la prima volta il loro conto in banca diminuire un pochino invece che continuare a crescere – come ha fatto invariabilmente negli ultimi 30 anni sulle spalle di tutti noi. Contro la normalizzazione del ricorso all’arma fine del mondo che la propaganda ci sta piano piano tentando di suggerire, sarebbe il caso di risvegliare non dico tanto un qualche senso di giustizia – che magari siamo fuori tempo massimo – ma, almeno, di sopravvivenza sì: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di raccontare senza peli sulla lingua alla gente comune di che morte hanno deciso che sono destinati a morire se non interveniamo prima di subito. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il dottor Stranamore

L’Europa si sta preparando alla GUERRA TOTALE contro la Russia?

“Allarme a Washington”; “Una nuova arma russa minaccia gli Stati Uniti”: dopo la provocazione di Trump sul via libera alla Russia ad attaccare liberamente qualunque paese europeo si ostini a non raggiungere la quota del 2% del PIL di spesa militare e con lo stallo che va avanti, ormai, da oltre due mesi sull’approvazione del pacchetto di aiuti USA per l’Ucraina, alla vigilia del Summit di Monaco – noto anche come la Davos della Difesa – la propaganda del partito unico degli affari e della guerra, per cercare di scatenare un po’ di panico, le ha provate letteralmente tutte. La storia della novella alabarda spaziale termonucleare con la quale il dittatore pazzo ci sta minacciando tutti quanti di estinzione è una delle tante ed è piuttosto indicativa; il caso scoppia mercoledì scorso, quando il presidente della Commissione Intelligence della Camera, il repubblicano Mike Turner, volto pacioccoso del bellicismo neocon old school e grande supporter della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, in attesa del via libera per le bombe vere ne lancia una virtuale sul suo account X: “Oggi” scrive “il comitato permanente del Congresso per l’Intelligence ha informato i membri del congresso relativamente a una grave minaccia alla sicurezza nazionale” così, di botto, senza senso. Esattamente quello che la propaganda guerrafondaia stava aspettando per scatenare il finimondo: “Mosca supera un’altra linea rossa e punta a militarizzare lo spazio” rilancia gasatissima La Stampa; le prove sono schiaccianti e le elenca il nostro generale Tricarico, informatissimo. “Non è inverosimile” afferma “che la Russia possa attrezzarsi e sviluppare un’arma nucleare da lanciare nello spazio e farla esplodere con la potenza di megatoni”; non è inverosimile: quando si dice una pistola fumante. Il livello di fuffa ha raggiunto livelli tali che anche lo stesso Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, avrebbe dichiarato di essere “rimasto basito”, mentre un altro rappresentante della Commissione Intelligence prendeva anche per il culo e invitava alla calma -quando si dice lanciare il sasso e nascondere la mano. A 5 giorni di distanza, tutto quello che sappiamo è che, appunto, ci sarebbe una non meglio precisata minaccia russa che riguarda lo spazio e ha qualcosa a che fare con l’energia nucleare e con la disattivazione dei satelliti e che comunque, in nessun modo – parole della stessa Casa Bianca – rappresenta un pericolo immediato, ma qualcosa che “nel medio lungo termine” “può” condizionare la difesa degli States.

Aleksej Naval’nyj

A parte ai pennivendoli della propaganda guerrafondaia, è apparso evidente subito a tutti si trattasse di un’enorme vaccata buttata nella mischia a caso per creare un po’ di panico ad hoc, e i trumpiani hanno avuto gioco facile a perculare il tutto; i commenti al tweet di Turner sono emblematici: “Ci è appena stato detto” scrive il blogger cospirazionista Jeff Carlson “che la Russia… [riempi lo spazio vuoto]. E’ una minaccia molto reale di cui non possiamo dirti nulla. È molto seria. Dico sul serio. Quindi devi finanziare l’Ucraina per i prossimi dieci anni” – firmato Mike Turner. Manco più a montare le psyop sono buoni; fortunatamente per loro, poche ore dopo è arrivata la tragica notizia della morte in carcere di Navalny e la campagna russofoba per la corsa al riarmo si è potuta fondare su qualcosa di un attimino più solido: Torniamo a bomba, come ha titolato emblematicamente Il Manifesto, con tanto di foto di gruppo da Monaco. “Il mondo si riarma a passi forzati: Stoltenberg preme sull’acceleratore, l’Europa è in piena corsa in difesa dell’Ucraina, e la Germania si avvia verso l’economia di guerra e riapre il dibattito sull’atomica”. Il giorno dopo, Sirsky annunciava il ritiro definitivo delle truppe ucraine da Adveevka; cosa mai potrebbe andare storto?
“Dirò a Putin di attaccare i paesi europei che non spendono per la loro difesa”: con un colpo di scena degno del Berlusconi dei migliori tempi, dal palco di un’anonima cittadina della Carolina del Sud The Donald torna a imporre l’agenda del dibattito elettorale e a offrire un assist perfetto alle cancellerie più guerrafondaie del vecchio continente e alle industrie di armi, che si sfregano le mani all’idea di altri anni di succulenti extraprofitti; la necessità di armare fino ai denti tutto il continente in vista di una possibile ritirata USA dall’Europa nel caso, sempre più probabile, di una vittoria di Trump, è stato il tema per eccellenza del Summit di Monaco dove, riporta il New York Times, aleggiava un umore piuttosto asprino “in netto contrasto con quello di appena un anno fa, quando molti dei partecipanti pensavano che la Russia potesse essere sull’orlo della sconfitta”. Allora, ricorda sempre il Times, “si parlava di quanti mesi sarebbero potuti essere necessari per ricacciare i russi verso i confini che esistevano prima del 24 febbraio 2022. Ora” conclude amaramente l’articolo “quell’ottimismo appare prematuro nella migliore delle ipotesi, leggermente delirante nella peggiore” .
Finita la botta del delirio precedente, eccone uno tutto nuovo per l’occasione: l’assunto di base, a questo giro, è che Putin ora sarebbe in procinto di attaccare direttamente un paese NATO così, a cazzodicane; effettivamente, come per l’Ucraina, potrebbe essere un caso paradigmatico di profezia che si autoavvera. Ovviamente, a Putin di attaccare un paese NATO non gliene può fregare di meno, ma a forza di dirlo – e di comportarsi come se fosse un destino ineluttabile, armandosi fino ai denti e sfidando continuamente le linee rosse di Mosca – la fantasia potrebbe diventare davvero realtà; di sicuro ci stanno provando con ogni mezzo necessario: in Ucraina, ad esempio, mentre sul fronte terrestre la debacle è ormai totale, tutti gli sforzi della NATO sono concentrati a colpire la flotta russa, che secondo alcune stime, avrebbe registrato perdite vicino addirittura a un terzo del totale “che equivale”, sintetizza Andrew Korybko sul suo blog, “a 25 navi e un sottomarino”. La propaganda russofoba l’ha spacciata come una vittoria degli Ucraini, ma – in realtà – qui l’Ucraina non c’entra sostanzialmente niente: l’Ucraina manco ce l’ha una flotta; fa solo da prestanome. Si tratta, a tutti gli effetti, di una guerra della NATO contro la marina russa nel tentativo, come dice sempre Korybko, “di imporre costi militari asimmetrici alla Russia, andando a colpire obiettivi di alto profilo relativamente facili da colpire” e senza che la Russia possa in qualche modo reagire in modo simmetrico, dal momento – appunto – che l’Ucraina una marina, molto banalmente, non ce l’ha; e il tutto mentre, nel frattempo, nei mari del Nord la NATO sta svolgendo la più grande esercitazione dai tempi della Guerra Fredda: si chiama SteadFast Defender 2024 e coinvolge, in tutto, qualcosa come oltre 50 navi, un’ottantina tra jet, elicotteri e droni, oltre 1000 veicoli da combattimento e la bellezza di oltre 90 mila soldati. E dai mari del Nord si estende a tutto il continente: in coordinamento con SteadFast Defender, infatti, i tedeschi impiegheranno 12 mila uomini della decima divisione Panzer nell’esercitazione denominata Quadriga 2024, dove sperimenteranno la logistica necessaria per raggiungere Svezia, Lituania e Romania nella “prima esercitazione in cui la difesa del fianco orientale della NATO si coniuga con il ruolo della Germania come perno della difesa dell’Europa” (Carsten Breuer, capo delle forze armate tedesche). Nel frattempo, le forze armate polacche testeranno la capacità di movimento di 3.500 veicoli, compresi 100 carri armati statunitensi, nell’operazione denominata Dragon-24; insomma: prove di guerra totale alla Russia. Dopo aver decantato le lodi di questo sforzo ciclopico, per rispondere alla boutade di Trump Stoltenberg ha ricordato che, in realtà, “i paesi NATO non hanno mai speso così tanto”: come ricorda Tommaso di Francesco sul Manifesto, infatti, “In 9 anni, dal 2014, gli Stati europei più il Canada hanno aumentato di ben 600 miliardi i loro bilanci militari”; allora, i paesi NATO che rispettavano l’obiettivo del 2% erano appena 3. Quest’anno saranno 18, con alcune encomiabili eccellenze: i paesi baltici superano il 2,5%, la Grecia il 3, la Polonia addirittura il 4; “un caso istruttivo” come sottolinea l’Economist, perché oltre metà dei soldi polacchi andranno in acquisto di attrezzature – dai carri armati agli elicotteri, dagli obici ai razzi Himars – il tutto, continua l’Economist, “con una pianificazione poco coerente e con totale negligenza su come equipaggiare e sostenere tali attrezzature. I lanciatori Himars” ad esempio “possono sparare fino a 300 km, ma gli strumenti che hanno per l’intelligence non sono in grado di localizzare gli obiettivi a quella distanza e dovranno fare interamente affidamento sugli USA”.

Jens Stoltenberg

Altri paesi europei sono intenzionati a seguire le stesse orme: “Gli europei” ha affermato il ministro della difesa Pistorius a Monaco “devono fare molto di più per la nostra sicurezza”; l’obiettivo del 2% è solo l’inizio, e nel prossimo futuro “potremmo raggiungere il 3, o forse anche il 3,5%”. Più che sulla volontà di aumentare la spesa, quindi, i distinguo all’interno dell’imperialismo guerrafondaio dell’Occidente collettivo potrebbero giocarsi su dove vanno a finire questi quattrini: se la Polonia, infatti, è ben felice di riempire le tasche degli alleati d’oltreoceano, la Germania, infatti, potrebbe puntare piuttosto a sfruttare l’occasione per ridare un po’ di ossigeno al suo manifatturiero, che – nel frattempo – è stato raso al suolo; ed è solo l’antipasto. Come ricorda il Financial Times, infatti, “Le aziende tedesche si riversano negli Stati Uniti con impegni record di investimenti di capitale”; “Gli Stati Uniti” si legge nell’articolo “stanno attirando una quantità record di investimenti di capitale da parte di aziende tedesche attratte dalla loro forte economia e dai lucrosi incentivi fiscali, mentre Berlino è preoccupata per la deindustrializzazione”: in un solo anno, infatti, gli investimenti diretti tedeschi negli USA sono passati da 8,2 miliardi a 15,7 miliardi, distribuiti in 185 progetti, 73 dei quali nel settore manifatturiero – e potrebbe essere solo un primo assaggino. “Secondo un sondaggio condotto su 224 filiali di aziende tedesche negli Stati Uniti, pubblicato l’8 febbraio dalle Camere di commercio tedesco – americane” continua, infatti, l’articolo “il 96% prevede di espandere i propri investimenti entro il 2026”.
Il rilancio dell’industria bellica nostrana potrebbe essere la medicina giusta; le differenze tra Biden e Trump andrebbero forse analizzate anche da questo punto di vista: congelando la guerra per procura in Ucraina, infatti, Trump si troverebbe col fiato sul collo della sua industria bellica a corto di commesse e sarebbe portato a fare pressioni sull’Europa per alzare la spesa sì, ma solo per sostenere l’industria USA. Per tenere il fronte acceso, invece, Biden avrebbe bisogno dello sforzo industriale sia statunitense che europeo; da questo punto di vista, quindi, la scelta starebbe un po’ a noi: vogliamo morire di fame e di miseria o di guerra? E poi dicono che non c’è democrazia… Questo dilemma potrebbe caratterizzare anche l’agenda elettorale della Von Der Leyen, alla disperata ricerca di un secondo mandato alla guida del protettorato europeo: “La proposta di Von der Leyen per il secondo mandato” titola, ad esempio, Politico “più potenza militare e meno discorsi sul clima”; “Il mondo di oggi è completamente diverso rispetto al 2019” ha affermato, “e anche Bruxelles lo è” sottolinea Politico, “o lo sarà presto”. “L’attuale gruppo di deputati del Parlamento europeo” continua Politico “è stato eletto al culmine delle marce giovanili ispirate a Greta Thunberg che hanno catapultato il cambiamento climatico nel mainstream politico” e hanno influenzato la retorica del primo mandato di Ursulona. Nonostante la leggenda metropolitana sulle ecofollie di Bruxelles spacciata dall’alt right, però, al di là della retorica i risultati sono stati pochini e, per la gioia dei negazionisti climatici che hanno scambiato la lobby del fossile per il nuovo fronte di liberazione popolare, ora anche la retorica sembra essere arrivata al capolinea, e così “nella conferenza stampa di lunedì” riporta sempre Politico “il clima è stato appena menzionato e l’accento si è spostato tutto sulla difesa”; ma nella peggiore delle ipotesi, rilancia l’Economist, se davvero “l’America abbandonasse l’Europa” la nuova situazione “richiederebbe di fare molto di più che semplicemente aumentare la spesa”. “Quasi tutti gli eserciti europei” sottolinea l’Economist “fanno fatica per raggiungere i loro obiettivi di reclutamento”: a dicembre, Pistorius ha affermato che, col senno di poi, aver interrotto la leva obbligatoria in Germania nel 2011 è stato un tragico errore, mentre il generale britannico Patrick Sanders, capo dell’esercito britannico, ha usato l’esempio dell’Ucraina per ribadire che “Gli eserciti regolari iniziano le guerre; gli eserciti di cittadini le vincono”. Ma anche nei rari casi in cui gli obiettivi del reclutamento vengono raggiunti, mancano comunque “capacità di comando e controllo, come ufficiali di stato maggiore addestrati a gestire grandi quartier generali”.
L’altro nervo scoperto – fondamentale – è la questione nucleare: “L’America” sottolinea l’Economist “è impegnata a usare le sue armi nucleari per difendere gli alleati europei” e sarebbero quelle armi ad averci fornito una garanzia contro l’invasione russa; ora, però, chi può pensare che “un presidente americano che non è più disposto a rischiare le sue truppe per difendere un alleato europeo, sarebbe invece disposto a mettere a repentaglio le città americane in un conflitto nucleare?”. Francia e Gran Bretagna l’atomica ce l’hanno, ma si parla di 500 testate in totale contro le 5 mila degli USA e le 6 mila russe e, in buona parte, non sappiamo come gestirle: le armi nucleari britanniche, infatti, sono assegnate alla NATO; la Gran Bretagna può decidere di usarle come vuole “ma è totalmente dipendente dagli USA per la progettazione delle testate, per le quali attinge ad un pool comune di missili, conservato in Georgia”. “Se l’America dovesse interrompere ogni cooperazione” sottolinea l’Economist “le forze nucleari britanniche probabilmente avrebbero un’aspettativa di vita misurata in mesi anziché in anni”; e il problema della catena di comando va ben oltre il nucleare: la NATO, infatti, gestisce una complessa rete di quartieri generali – un quartier generale in Belgio, tre comandi in America, Paesi Bassi e Italia, e una serie di comandi più piccoli sotto. “Questi” sottolinea l’Economist “sono i cervelli che gestirebbero qualsiasi guerra con la Russia. E se Trump si ritirasse dalla NATO da un giorno all’altro, gli europei dovrebbero decidere come riempire questo vuoto” e in molti dubitano che gli Stati Membri dell’UE possano mettersi d’accordo nell’individuare l’equivalente di un comandante supremo tra di loro, in grado di sostituire il padrone di Washington.

The Donald

Insomma: l’obiettivo dell’Economist è chiaro: fare un po’ di terrorismo psicologico contro la possibilità di una nuova amministrazione Trump; l’Europa è sotto attacco russo, ovviamente deve spendere un sacco di quattrini per riarmarsi, ma che non gli venga in mente di vedere nelle minacce di Trump un opportunità per ritagliarsi uno spazio di autonomia strategica, perché senza la Pax Americana l’Europa è destinata a soccombere e, magari, anche a tornare a farsi la guerra vera al suo interno. Nel frattempo, in Italia – per tagliare la testa al toro – abbiamo approfittato del clima bellicista per fare un altro bel favore all’industria delle armi: la famosa legge 185 – che, anche se è stata spesso aggirata, permetteva al Parlamento di avere un controllo su dove autorizzavamo ad esportare le nostre armi – è sotto attacco; “L’obiettivo” titola Il Manifesto “è escludere il Parlamento dai controlli”. “Il senso dell’operazione che la maggioranza si appresta a varare” conclude l’articolo “è di ridare al governo il potere di decidere il da farsi in autonomia, togliendo alle Camere ogni potere di discussione”.
Forse di fronte all’offensiva propagandistica delle due correnti del partito unico degli affari e della guerra, il potere di discussione – invece – sarebbe il caso di riprendercelo per sul serio; per farlo, ci serve un vero e proprio media che che non si faccia infinocchiare dalla propaganda bellicista e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

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