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Tag: ideologia

Sinistra ZTL: anatomia di un tradimento

Sinistra ZTL non è un’offesa, ma una vera e propria categoria sociologica che indica una mutazione storica fondamentale nella politica della sinistra occidentale; tutte le rilevazioni post elettorali sia in Italia che in Europa ci indicano infatti che, nella stragrande maggioranza dei casi, i partiti di sinistra e centrosinistra sono votati da elettori con alti redditi. Una situazione di completo ribaltamento rispetto a quanto era accaduto nel ‘900, rispetto a quando i partiti e gli intellettuali socialisti si erano posti il compito di rappresentare gli interessi degli ultimi e portarli al governo e, per questo, avevano radicato il proprio consenso tra le classi popolari. Ma che cosa è accaduto dopo? E quale è, invece, il compito politico e la visione del mondo della nuova sinistra 2.0 completamente inglobata nelle logiche oligarchiche e antisociali del capitalismo neoliberista? Lo vedremo tra poco. Quello che è sicuro è che non possiamo più certo accontentarci di come i rappresentanti della sinistra ZTL raccontano e giustificano a se stessi questo abbandono di consensi nel proprio ex elettorato e, cioè, delle solite argomentazioni per le quali al popolino delle periferie, essendo ignorante e un po’ rozzo, gli sfuggirebbe la complessità del mondo contemporaneo ed essendo questa gente un po’ come infanti – e, quindi, gente incapace di capire il proprio vero interesse – si lascerebbe prendere in giro da quegli egoisti e beceri populisti che parlano alla loro pancia e non alla loro testa; ecco: da queste argomentazioni snob e classiste in stile salotti vittoriani di fine ‘800 è bene stare alla larga.

Vincenzo Costa

Molto più utile, invece, è leggersi l’ultimo libro Vincenzo Costa, Categorie della politica, dove il professore di filosofia teoretica all’Università San Raffaele svolge un’interessante analisi storica e culturale della politica contemporanea e in cui dimostra come, oggi, le categorie di destra e sinistra non rispecchino più interessi sociali contrapposti, ma sia diventata una distinzione tutta interna alla classe dominante; insomma: una distinzione concettuale e politica che invece di esprimere i reali conflitti sociali in atto e aiutarci a comprendere le principali sfide politiche per la nostra comunità, al contrario occulta e manipola la realtà proponendo una finta alternanza, svuotando così di significato la democrazia rappresentativa e portando, tra le altre cose, agli spaventosi dati attuali dell’astensionismo. Costa propone di lasciarsi alle spalle questa rappresentazione binaria e propone un modello politico diverso (di cui ci occuperemo sicuramente in un prossimo video); in questo, invece, cercheremo di capire insieme a lui la storia e le caratteristiche della variante snob e moralisteggiante dell’ideologia della classe dominante – la cosiddetta, appunto, sinistra ZTL – facendo così luce su uno dei più meschini voltafaccia politici della modernità.
È negli anni ‘80 che si comincia a parlare di superare, una volta per tutte, la diade destra/sinistra, anche se con un intento completamente opposto a quello di Costa: l’idea era di voler abbandonare le visioni politiche alternative a quella capitalista e liberale dominante per costruire un sistema politico sostanzialmente omogeneo e indifferenziato che avrebbe trasformato la politica da pratica trasformatrice della realtà a mera gestione amministrativa dell’esistente; erano, infatti, gli anni della cosiddetta fine della storia e, cioè, di quell’atmosfera culturale che si era diffusa in tutto l’Occidente per la quale le società occidentali erano arrivate alla fine del loro percorso politico. Secondo questa visione un po’ fanciullesca, alle democrazie liberali, protette dall’ombrello dell’esercito americano, non restava che conservare quanto più gelosamente possibile il proprio assetto politico ed economico, un assetto che si era dimostrato di gran lunga il migliore della storia e a cui tutti i popoli del mondo non potevano che guardare con invidia e ammirazione; insomma: “Viviamo nel migliore dei mondi possibili” si pensava convinti. “Ogni altro progetto politico non può che trasformarsi in gulag e persecuzioni di ogni tipo e solo qualche adolescente un po’ ribelle o frustrato vetero-comunista di mezz’età può davvero mettere in dubbio la sostanziale bontà e giustizia dell’attuale regime.”
Sfortunatamente, prima con la crisi e poi con il crollo definitivo dell’Unione Sovietica e con l’imporsi definitivo dell’egemonia americana in Europa che ne è conseguito, questo unico campo politico capitalista e liberista (diviso da qualche sfumatura folkloristica su questioni secondarie) ipotizzato negli anni ‘80 è, infine, diventato realtà; una situazione distopica di cui solamente adesso tante persone cominciano a rendersi conto. Venendo infatti meno l’alternativa tra visioni del mondo e modelli politici alternativi, i partiti politici si riposizionarono come semplici varianti dell’unica visione del mondo rimasta – quella neoliberista -, ossia quella visione del mondo fondata sull’ideologia del primato del capitale sulla politica, sull’idea del governo dei cosiddetti competenti (intesi come coloro che sanno come soddisfare il mitologico mercato adeguando lo Stato e la democrazia alle sue esigenze) e sul primato morale e militare di Washington nel pianeta. “A partire dagli anni ottanta” scrive Costa “si passò da partiti politici che rappresentavano un’alternanza al modo di produzione capitalistico a partiti che della sua stabilizzazione e modernizzazione fanno la base del loro progetto politico”; quest’unica visione del mondo e della politica, di matrice anglosassone, scalzò nel nostro paese tanto la tradizione socialista quanto quella del popolarismo cattolico, le tradizioni che, più di ogni altra, avevano condizionato la nostra vita politica e ispirato la nostra Costituzione, tradizioni politiche e culturali che ancora condividevano una visione della politica fondata sull’idea dell’emancipazione materiale e morale della maggioranza delle persone, della lotta ai privilegi e della pace internazionale attraverso la cooperazione e la diplomazia. Va da sé che, scomparendo tutto questo dall’orizzonte culturale e politico, destra e sinistra hanno pian piano assunto significati completamente diversi, se non opposti, rispetto a quelli novecenteschi.
Il risultato più eclatante di questa trasformazione del campo politico fu la scomparsa del tema della redistribuzione della ricchezza e dell’emancipazione delle classi popolari dai progetti politici dei partiti: “Nel corso di queste trasformazioni” scrive Costa “le classi subalterne cessarono di essere un soggetto storico. Un soggetto ancora posto al centro sia dalla tradizione socialista che da quella del popolarismo cattolico. La loro emancipazione non fu più parte del progetto politico.”; e se quindi, nel corso della Prima Repubblica, i partiti di massa si erano posti come obiettivo l’inclusione delle masse popolari nella vita politica nazionale, con gli anni ‘80 iniziò un processo opposto, ossia di graduale esclusione delle masse popolari dalla vita politica. Secondo questo cambio di paradigma, le classi popolari non dovevano più esser le protagoniste e il fine della vita politica, ma coloro che – dato il loro stato di minorità – si dovevano limitare a scegliere dei candidati esprimendo delle preferenze: c’è, insomma, un’élite illuminata che decide la rosa di coloro che possono essere eletti e che possono governare; compito degli elettori è quello di scegliere entro quella rosa prestabilita.
Forse ancora più decisiva e strutturale però, è stata la trasformazione del ruolo e della funzione della politica nazionale nel suo complesso perché, come conseguenza dell’ideologia neoliberista, il sistema politico ha perso progressivamente la propria autonomia ed è diventato semplicemente un sottosistema di quello economico e finanziario: la funzione della politica neoliberista di destra, centro e sinistra, scrive Costa “venne a consistere nell’adattare le istituzioni e l’impianto legislativo alle esigenze del mercato, rendendo possibile il libero dispiegamento delle sue dinamiche naturali”; in tutto questo – perché forse è bene sempre ricordarlo – l’amministrazione dell’esistente intesa come mera esecuzione delle scelte politiche prese dai mercati (e quindi, oggi, dalle oligarchie finanziare che il mercato lo muovono e dalla superpotenza militare a cui fanno riferimento) ha significato per l’Italia un disastroso declino economico, la distruzione dello stato sociale, la diminuzione di salari e pensioni e l’aumento della povertà e della disoccupazione: questo è il risultato tangibile di 30 anni di neoliberismo e, nonostante sia da anni sotto gli occhi di tutti, sovranismo, qualunquismo e populismo sono state le accuse pronte ad essere indirizzate da partiti e intellettuali di regime contro chi osava mostrare perplessità sul migliore dei mondi possibili.
Per chi, infatti, è il migliore dei mondi possibili? dovremmo chiederci: per l’Italia e per le classi lavoratrici occidentali? Per la partecipazione del popolo al potere? A quanto pare no.
Ma l’offensiva delle oligarchie e della superpotenza contro le classi popolari italiane non si è fermata qui, perché furono anche i loro valori e le loro forme di legame a finire sotto attacco: “Il loro attaccamento alle tradizioni, le loro forme di legame solidaristico, il loro rifiuto di uno stile di vita competitivo e comparativo, così come i loro modi di sentire la vita, furono declassati a mero residuo del passato” scrive Costa, una roba antimoderna da buttare sostanzialmente nel cesso della storia per abbracciare, senza sé e senza ma, le forme culturali chic ipercapitaliste che ci venivano proposte dal centro dell’impero; specialmente, come vedremo tra poco, per la cosiddetta sinstra ZTL, in questo straordinario stravolgimento della realtà le classi popolari non solo cessarono di essere le classi da emancipare, ma le loro forme culturali il modello da cui emanciparsi per diventare finalmente liberi e moderni.
Solo adesso, quindi, possiamo capire l’emergere di TonyBlair in Inghilterra, di Schroeder in Germania e del PD in Italia, ossia della classe dirigente che traghettò le culture del socialismo e del popolarismo cristiano verso il partito unico neoliberale. E così, riflette Costa, per far felici i nuovi padroni del mondo “la vecchia novecentesca contrapposizione tra capitale e lavoro doveva cedere il passo a una sinistra pragmatica, concreta, gestionale, e le stesse differenze tra destra e sinistra dovevano essere considerate in una prospettiva di un’alternanza ma senza reale alternativa”; “La nuova destra teorizzata da Alessandro Campi e la nuova sinistra auspicata da molti intellettuali progressisti convergevano su ciò: l’orizzonte politico entro cui siamo entrati prevede avvicendamento di governi, senza che ciò metta in discussione il sistema delle compatibilità previste dall’ordine del mercato.” Ma, conclude Costa, “Se la politica non è il luogo della trasformazione storica che incide su privilegi e disuguaglianze, allora destra/sinistra è, logicamente, una distinzione tutta interna alle classi dominanti.” Ancora nel 2013, su Repubblica, Massimo Cacciari, uno degli intellettuali più organici a questo cambiamento della sinistra e, quindi, tra i più invitati dai salotti televisivi, scriveva: “I valori in politica sono i buoni progetti. Che la politica possa rendere giusto il mondo lo raccontano nei comizi”.
Il neolibersimo, insomma, ha trasformato la politica in mera amministrazione di condominio, che si chiami Italia oppure Unione europea: una mera gestione tecnica di questioni che nulla hanno a che fare con la lotta alla disuguaglianza o i rapporti di forza e i sistemi di potere storicamente determinati con i relativi privilegi. Di qui, una serie anche di slittamenti di significato dei termini politici novecenteschi che Costa fa bene a ricordare: il primo riguarda il termine riformista che, nella storia del movimento operaio e socialista, alludeva a una via, a una società più libera e giusta fatta di passaggi graduali resi possibili dal sistema parlamentare; riforme significava, insomma, riforme strutturali che permettessero gradualmente una maggiore partecipazione del popolo alla politica, quindi una maggiore distribuzione della ricchezza, quindi una maggiore libertà per tutti gli individui. “Nella riformulazione che conduce ai nostri giorni invece” scrive Costa “la nozione di riformismo venne a indicare una politica che tende a mantenere l’efficienza del sistema attraverso lo smantellamento dei diritti sociali: riforme venne a significare introduzione di elementi di liberalismo, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro. Riformismo non si coniuga più con trasformazione sociale, ma con efficienza sistemica.” In questo slittamento semantico, anche il termine giustizia ha cambiato di significato per diventare non il risultato della lotta dal basso contro i privilegi, ma, al contrario, una sorta di dono che viene concesso dall’élite dall’alto della loro superiorità morale: per le élite della sinistra ZTL, scrive il professore di filosofia “La giustizia diviene un dono concesso dall’alto, non una conquista dal basso. La sinistra filantropica è ai buoni sentimenti che fa appello, non all’analisi delle contraddizioni oggettive di un regime politico-economico storicamente determinato.”
Ovviamente, per conservare l’esistente e difendere il regime che, ricordiamocelo sempre, è da sempre l’unico vero scopo e funzione della sinistra ZTL, ogni conflitto di classe deve essere non solo sopito, ma addirittura negato: “Ma quale conflitto di classe?” ci racconta la sinistra ZTL; “Non esistono le classi sociali! È un concetto superato, novecentesco. Esistono i buoni da una parte, ossia noi, poi quelli arretrati che ancora credono alla nazione e ai valori tradizionali e, infine, gli estremisti senza scampo, che sono rimasti al ‘900 e ancora non hanno capito che il capitalismo e l’America avranno anche forse dei difetti, ma sono assolutamente necessari” pensa la sinistra ZTL. La logica conseguenza di questa ideologia di regime, scrive Costa, è che “Non occorre redistribuire il profitto, ma favorire i processi di accumulazione del capitale. Non si tratta più, pertanto, di criticare o di contestare il capitalismo o l’ordine di mercato per la sua irrazionalità strutturale come aveva fatto il marxismo, né di contestarlo in quanto sistema che, generando differenze di ricchezza, genera anche differenze di potere e strutture di subordinazione. Si tratta solo di farlo funzionare, di favorire il processo di accumulazione del capitale e la sua circolazione. Il concetto di emancipazione viene sostituito dal concetto di crescita.”
Se ci pensiamo bene infatti, ogni provvedimento legislativo è stato infatti valutato, negli ultimi decenni, sempre e solo a partire dalla domanda Come reagiranno i mercati? È solo il mercato infatti, e cioè le oligarchie economiche e l’impero che lo governano, ad essere diventato l’unico giudice politico; è solo il mercato a dire se un governo è un buon governo, “per cui” continua Costa “da un lato il sistema politico diviene dipendente dal sistema economico-finanziario, perché è questo a dettare le condizioni di verità del suo operato, dall’altro le classi popolari devono accettare il verdetto di questo Dio che, a rigore, si presenta adesso come un Dio immortale, origine di ogni senso e di ogni verità, che elargisce premi a quei governi e quelle comunità che osservano le sue leggi ferree e punizioni a quelle che le violano.” Forse adesso, dopo tutti i ragionamenti, si capiscono anche meglio le ragioni dell’amore spasmodico della sinistra ZTL e del sistema nel suo complesso per i governi tecnici. Ce lo ricordiamo tutti: prima Monti, ma poi soprattutto Draghi; canti, ovazioni, redazione di Repubblica. Finalmente erano arrivati gli uomini della provvidenza. Effettivamente, essendo il mitologico mercato l’unico sovrano della politica, l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è di un esecutore efficiente delle sue volontà, uno che finalmente si lasci alle spalle la politica vecchio stampo – fatta ancora di parlamenti, partiti ed elettori – e proceda con saggezza alla modernizzazione del paese. Lasciatelo lavorare urlavano frementi i giornalisti della sinistra ZTL impauriti dall’idea che rappresentanti del popolo potessero essere d’intralcio all’uomo di Goldman Sachs. Escluso che la politica debba fare altro che assecondare gli interessi dei mercati, ci conferma Costa “L’esito fu la propensione per governi tecnici che nessuno ha eletto, dettati da stati di eccezione continui. I governi non devono infatti esprimere l’opinione pubblica, non devono rappresentare il popolo e l’articolarsi del mondo della vita: devono dargli forma.”: e chi meglio di un tecnico illuminato che ha lavorato a stretto contatto con la finanza ed è un fedele servitore dell’impero è in grado di farlo? Come ebbe a dire Mario Monti in un’intervista a Time, l’obiettivo del suo governo era cambiare “la cultura e un certo modo di vivere e di lavorare degli italiani”. Sono, insomma, queste le ragioni profonde dell’amore dei cosiddetti antifascisti di Repubblica e del Corriere per tecnici autocrati privi di mandato popolare a cui vorrebbero sostanzialmente dare pieno potere.
Ma come hanno fatto i partiti della sinistra ZTL a salvarsi la faccia di fronte ad un’opinione pubblica che, fino a qualche tempo fa, ancora aveva nel suo immaginario le parole d’ordine del socialismo e del popolarismo cattolico? La risposta, argomenta Costa, è che cessando di combattere le discriminazioni e le diseguaglianze economiche, si sono cominciati a spacciare come i paladini dei cosiddetti diversi: non più, quindi, lotta politica per l’emancipazione delle classi popolari, ma lotta per la tutela delle minoranze etniche, religiose e sessuali la cui inclusione nel migliore dei mondi possibili (se sei ricco o puoi emigrare) non deve certo essere impedita a nessuno dagli egoisti e beceri fascisti e sovranisti; “L’inclusione stessa dei diversi – a cui la sinistra progressista si richiama come alla sua caratteristica di fondo – diventa il modo in cui ci si autorizza a tacere dell’esclusione di chi subisce il mercato” scrive Costa. “L’inclusione progressista è un’inclusione che esclude. Viene inclusa ogni differenza che non turba l’ordine di mercato, ed esclusa (al punto che non ha né voce né rappresentazione nella sfera pubblica) ogni differenza che sarebbe contestazione del mercato e dei rapporti di dominio da esso generati.” E, così, i temi della giustizia e dell’uguaglianza vengono incredibilmente sganciati da quelli della ricchezza e del potere e si occulta in tutti i modi il fatto, evidente a tutti, che chi ha denaro ha potere sugli altri e che i veri discriminati sono sempre i poveri, indipendentemente dall’essere donne, musulmani o di colore; e si tenta di far credere che a dover essere emancipate sono le cosiddette minoranze, indipendentemente dal loro reddito. Ancora nel ‘900, quando non si era completamente obnubilati dalla propaganda neoliberista, lo si sapeva tutti: è la differenza di ricchezza il vero grande pericolo per la libertà di tutti, ma perdendosi nel proprio mondo autoreferenziale (spacciato persino per realismo e pragmatismo) la sinistra ZTL ha invece completamente rimosso il reale anche se forse, scrive Costa, “dovremmo parlare di negazione del reale, di una sorta di difesa primitiva attorno a cui è strutturata la cultura progressista.”
Arrivati a questo punto, in questa radiografia ideologica e politica della sinistra ZTL, mancherebbe solo un ultimo penosissimo passaggio: la politica estera; e si potrebbero passare ore a parlare dell’armamentario ideologico del partito unico neoliberista quando si tratta di giustificare l’occupazione americana del nostro Paese o del suo imperialismo nel mondo. La sinistra ZTL anche in questo ha reciso ogni legame con il socialismo e tradito ogni tipo di riferimento alla pace e alla cooperazione tra stati sovrani, ma – in fondo – è pur sempre domenica e Ottolina Tv sono mesi che ha sviscerato l’argomento in lungo e in largo; per concludere, invece, possiamo dire che la sinistra ZTL e la destra ZTL (a cui dedicheremo uno dei prossimi video) sono un’espressione culturale vincente dell’imperialismo e dell’eterna lotta di classe dall’alto verso il basso, lotta che adesso anche il 99 per cento deve riprendere a combattere. La buona notizia è che adesso anche tu puoi decidere se continuare a ripetere a pappagallo la propaganda e continuare difendere con le unghie il regime oppure, magari, saltare dal nostro lato della barricata e cominciare tutti insieme una nuova storia. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mario Draghi

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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Che cosa è l’ideologia Woke?

In questi mesi sentiamo sempre più spesso parlare di ideologia o cultura Woke. C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione, e c’è chi invece la considera una forma di progresso morale e spirituale dell’umanità. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della sinistra occidentale?In questo video ripercorreremo le sue origini, vedremo i suoi indirizzi politici di fondo e cercheremo di capire se oltre alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice ve ne sono anche altre, più sensate, che ne mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con il potere neoliberale.
Woke, e cioè – letteralmente – “sveglio”, almeno abbastanza per individuare e denunciare le ingiustizie sociali, a partire da quelle razziali: il termine Woke, infatti, entra ufficialmente nei dizionari dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento Black Lives Matter. Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme – spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che, secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche politiche della sinistra occidentale. L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura del linguaggio ritenuto scorretto: meriterebbero un video ciascuno, e ci ripromettiamo di farlo; qua invece ci limiteremo a provare a capire se sia rintracciabile un indirizzo di fondo comune e, soprattutto, le ragioni dell’uso in parte strumentale che di questa ideologia viene fatto oggi.
Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota come postmodernismo emersa negli anni ’70 nelle università francesi e poi diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana; un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste. Ed è infatti soprattutto a partire dagli anni ‘80, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento; dall’altro lato della barricata, ad avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata, si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta.

Vincenzo Costa

Ma al di là del generale Vannacci e compagnia bella, in questi anni anche tanti intellettuali di ben altro spessore hanno preso posizione contro alcune delle tesi antropologiche e politiche Woke più superficiali e antiscientifiche e contro l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti: nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio, anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova cultura; maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con ostilità e sospetto: come scrive la giornalista Florinda Ambrogio “La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.”
Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde; nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono “diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da abbattere; dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99 per cento, quindi, con l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni popolari, ritenute – senza appello – verminaio di sessismo, razzismo, omofobia. Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”: diventa quindi chiaro perché, dalla prospettiva degli ultimi, la nuova sinistra alla moda politicamente corretta appaia spesso come una tribù di sedicenti illuminati con il culo parato che, demonizzandone lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie idee e valori di nicchia; ma, come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire. È evidente come nelle rivendicazioni della classe operaia in Inghilterra, ad esempio, le classi popolari non chiedevano di essere rieducate da un’aristocrazia morale e intellettuale perlopiù estranea alle loro condizioni di vita, ma giustizia sociale e diritto alle proprie forme di legame; “Sceneggiatori, registi, attrici e attori” scrive il filosofo sloveno in un articolo chiamato Wokeness is here to stay “cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”. Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, questi nuovi intellettuali di sinistra non sembrano interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di uguaglianza di diritti” continua Costa in Le categorie della politica “rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli ultimi”.
Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il filosofo Andrea Zhok, nel suo libro La profana inquisizione e il regno dell’Anomia, commenta così questo curioso caso di ingegneria linguistica: “Contro ogni evidenza è stata gabellata l’idea che gli usi tradizionalmente al maschile di certe parole creino l’aspettativa che a rivestirle sia un maschio, operando perciò come ostacolo all’emancipazione femminile. L’evidenza linguistica primaria che il significato sia determinato dall’uso è stata rimossa. Si è preferito pensare che i rapporti sociali effettivi (da cui dipendono gli usi linguistici), possano essere mutati riformando le desinenze. […] che nessuno chiamando una “guardia giurata” si aspetti un’apparizione muliebre con rossetto e tacchi a spillo è ritenuto accidentale. Che nessuno si stupisca se la “maschera” a teatro sia un giovanotto nerboruto è ritenuto trascurabile. Che fino all’altro ieri quando si parlava di “valutazione degli studenti” tutti avessero in mente l’insieme del corpo studentesco, a prescindere da questioni di genere, è invece certamente segno della rimozione di un inconscio segno di superiorità maschile”. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di discriminazione ed emancipazione appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia.
Partiamo intanto dal presupposto che è ampiamente dimostrato come, nelle società capitaliste, il principale motore di diseguaglianza e discriminazione sociale sia il “capitale pregresso”, ossia la disponibilità economica familiare e individuale; questa disparità di capitale si ripercuote su tutti i livelli: sulla formazione, sul riconoscimento pubblico, sull’accesso a posizioni di potere politico ecc. ecc. Anche tutte le differenze di genere, etnia, colore, ecc. diventano praticamente impalpabili e irrilevanti per chi possiede significative disponibilità economiche e, più in generale, più in alto si sale nella scala sociale; questo dato conclamato viene però sistematicamente rimosso dal tavolo facendo finta che non esistano variabili economiche e creando una guerra tra poveri su questioni di genere, etnia, orientamento sessuale o altro. Insomma: mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di distribuzione della ricchezza – e già la cosa comincia un po’ a puzzare; per dirla con una battuta “Ci si emancipa con successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Zhok. Si spiega così come sia stato possibile che un movimento culturale minoritario legato alla mancata rivoluzione del ’68 sia potuto diventare una componente egemonica della società contemporanea, e la ragione sta nella sua compatibilità con le funzionalità al regime neoliberale: per prima cosa, la funzionalità dello wokismo sta nel fatto che, nella gerarchia dei temi da trattare, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo strapotere della finanza internazionale, la perdita di sovranità democratica vengono surclassate, nella presentazione e nell’agenda pubblica, dallo scandalo di cronaca su questo o quell’abuso patriarcale e discriminatorio e può pertanto ben funzionare da distrazione di massa; in secondo luogo, l’impianto Woke promuove una politica dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una comunità locale ecc. viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con, ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati più fanatici della nuova sinistra Woke “l’altro è l’inferno.”

Carl Rhodes

Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali? Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes – Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente, le cause LGBT, l’antirazzismo, i diritti delle donne e simili: dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”; l’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e antisociali dei grandi gruppi economici. E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio, le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i primi a praticarla. L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme sistemiche di sfruttamento che portano avanti.
Per concludere vorrei infine citare Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici dell’ideologia Woke ante-litteram; nel 1975, pochi mesi prima di essere ammazzato, avendo capito che sotto la copertura delle giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del consumismo individualistico, così scriveva sul Corriere della Sera: “Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili; borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”.
I diritti civili e la lotta contro ogni forma di discriminazione sono una parte fondamentale del processo di emancipazione dei subalterni: serve come il pane un vero e proprio media che ci aiuti a sottrarle dalle strumentalizzazioni operate dalle oligarchie, per riportarle ad essere strumenti di lotta a favore del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il Generale Vannacci

La trilaterale e la distruzione della democrazia

C’era una volta la democrazia moderna: al netto di tutte le contraddizioni, le promesse mancate e anche le trame segrete, per alcuni decenni a partire dalla seconda guerra mondiale aveva garantito alle masse popolari di essere – come dice Elio – non dico proprio il primo della lista, ma neanche l’ultimo degli stronzi. Vista oggi sembra quasi una leggenda metropolitana, un’utopia irrealizzabile: non moriremo democristiani si diceva un tempo; era la verità, ma nessuno immaginava sarebbe stato perché l’equivalente dei democristiani, un giorno, sarebbero stati considerati estremisti della sinistra radicale extraparlamentare. E non è stata una deriva ineluttabile, ma una scelta consapevole: ma di chi?

Carlo Galli

Perché di fronte alla crisi sempre più evidente del sistema neoliberale continua a prevalere l’idea che, comunque, there is no alternative? E’ questa sostanzialmente la domanda che trasuda dalle pagine dell’ultimo lavoro di Carlo Galli che sin dal titolo si chiede, appunto, se quello che stiamo vivendo non sia l’ultimo atto della democrazia. Per rispondere, Galli – prima di tutto – ci ricorda la distinzione fondamentale tra l’ideologia e la politica: mentre l’ideologia è un sistema interpretativo della realtà che si autoproclama verità e che nasconde la sua natura di punto di vista necessariamente parziale tra mille altri possibili punti di vista dietro l’affermazione di un principio assoluto, la politica – al contrario – è l’insieme dei saperi e delle pratiche che caratterizzano il vivere associato e si delinea quindi come uno spazio plurimo, spurio, con più posizioni e contrapposizioni e che quindi, inevitabilmente, prevede l’esistenza di più alternative e di modalità differenti di pensare e organizzare il presente. Sulla base di questa distinzione Galli si pone l’obiettivo di rileggere la storia della democrazia, e lo sguardo si concentra inevitabilmente sul Novecento e sul passaggio da quella che lui definisce liberaldemocrazia – e che noi abbiamo in passato più volte definito la democrazia moderna – alla democrazia liberista, che noi abbiamo più volte definito – piuttosto – postdemocrazia neoliberista. L’obiettivo è quello di provare a capire come, durante questo passaggio, si sia andata modificando radicalmente l’idea stessa dell’azione in ambito politico.
Galli sottolinea come, prima del secondo conflitto mondiale, nell’ambito delle democrazie liberali la libertà – che è spesso, semplicemente, la libertà di impresa e di sfruttare il lavoro altrui senza troppi vincoli – veniva usata per frenare la sete di democrazia e di uguaglianza che arrivava dalle masse popolari; con il patto costituzionale emerso dopo la seconda guerra mondiale nell’Europa continentale, però, si faceva strada l’idea di provare a sanare questa contraddizione attraverso il principio di inclusione: un’inclusione, in particolare, che passava dall’identificazione del popolo come un insieme plurale di individui anche con interessi e condizioni molto diverse tra loro, ma accomunati da quell’insieme di diritti di base che ne definiva lo status di cittadini. “Nel quadro dello stato costituzionale di diritto” insiste Galli “la liberaldemocrazia della seconda metà del XX secolo” ha promosso la collaborazione tra fasce di popolazione diverse attraverso il riconoscimento sia della libertà individuale che dell’uguaglianza civile, che anche della necessità “dell’intervento economico dello Stato”; una mediazione – sottolinea Galli – resa necessaria anche come atto di contenimento, “di sfida, e di concorrenza verso il comunismo orientale” ma pur sempre con limiti ben precisi, dal momento che – sottolinea Galli – “l’uguaglianza economica radicale non è mai stata all’ordine del giorno”. Per far si che questa complessa mediazione non implodesse, inoltre, era essenziale il ruolo dei partiti intesi come spazi politici “dove il popolo abbia la sensazione non illusoria di esercitare potere sul proprio presente e futuro (…)”.
Insomma: al netto di tutte le millemila contraddizioni – a partire da quelle internazionali – un equilibrio virtuoso che consentiva un aumento reale, tangibile, delle condizioni di benessere individuale e anche la possibilità di avanzare istanze progressiste all’interno dell’articolazione politica. Troppa grazia! Questo equilibrio virtuoso, infatti, continuava inesorabilmente a spostare il baricentro del potere politico a favore dei subalterni, al punto di far temere alle élite economiche capitalistiche di essere sull’orlo di essere scalzate dal gradino più alto della gerarchia sociale: bisognava mettere fine a questo strano esperimento che si chiamava democrazia moderna.

Samuel P. Huntington

La controrivoluzione ha ufficialmente inizio nel 1973, quando viene fondato quello che Galli definisce il cervello analitico del neoliberismo, la famigerata Commissione Trilaterale che, come prima cosa, commissiona un bel rapporto a un gruppo di studiosi capeggiato da uno dei volti più noti della svolta autoritaria dell’Occidente collettivo: il Milton Friedman delle scienze politiche Samuel P. Hungtington, lo stesso che – esattamente 20 anni dopo – con la sua teoria sullo scontro di civiltà gettò le basi teoriche della prima grande guerra USA contro l’ascesa del Sud globale che prese il nome di War on Terror. La tesi del rapporto era molto semplice: il capitalismo è messo a repentaglio da un eccesso di democrazia; è arrivata l’ora di reagire con ogni mezzo necessario. Poche settimane dopo gli USA sostenevano il colpo di Stato di Pinochet in Cile, il cui regime rimane – ancora oggi – una delle incarnazioni più coerenti e lineari del nuovo spirito della democrazia liberista; per realizzare la democrazia liberista, infatti, il primo punto è fare fuori ogni strumento di inclusione delle masse popolari: dai partiti politici, ai sindacati, allo Stato moderno stesso che, però, non deve essere smantellato. Anzi: da un certo punto va addirittura rafforzato perché, per permettere alle oligarchie di predare il predabile, ci vuole un certo impegno; a partire dagli apparati repressivi, in grado di reprimere con la violenza il malcontento che la rapina necessariamente comporta. Nella nuova postdemocrazia neoliberista inoltre, dissolti con più o meno violenza tutti i corpi intermedi, resta solo il singolo individuo non più “soggetto di diritti” – sottolinea Galli -, ma “soggetto di responsabilità”. In questo schema, continua Galli, “la posizione sociale è l’esito di una competizione permanente, e come il successo è dovuto esclusivamente al merito personale (…) così l’insuccesso è dovuto al suo fallimento”. In questa prospettiva l’uguaglianza non solo non è più perseguita come finalità ma ostacolata con forza, dal momento che “gli atomi sociali devono differenziarsi, competere per il successo, e devono ricordarsi che questo non è time for losers”. “Nella liberaldemocrazia” continua Galli “coesistevano normalizzazione e contraddizioni; nella democrazia liberista esistono solo contraddizioni percepite come normalità” e “alle mediazioni partitiche e istituzionali, e a quelle del lavoro, si sostituisce quella dei media, il cui ruolo principale è trasformare le questioni e i processi strutturali in casi umani particolari”. Tutto quello che accade – comprese le ingiustizie più palesi e feroci – diventano così naturali ed inevitabili, e alla politica – come affermava Mario Draghi ancora nel 2013 – può essere sostituito il pilota automatico; “ma l’automatismo” ricorda Galli “è esattamente il contrario della libera azione individuale e collettiva, e cioè il presupposto cardine della democrazia”.
E così la democrazia diventa la formuletta vuota che è utile solo quando serve a bombardare – ovviamente sempre in modo molto umanitario – qualsiasi paese che non si dimostri sufficientemente entusiasta di entrare a far parte della grande famiglia delle post democrazie neoliberiste.
Di tutto questo, e di molto altro, parleremo domani sera mercoledì 20 dicembre a partire dalle 21 insieme a Carlo Galli nell’ultima puntata dell’anno di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica e – nel frattempo – aiutaci a costruire il primo vero e proprio media che a questa leggenda metropolitana del there is no alternative non c’ha mai creduto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Samuel Huntington

Liberarsi dall’ideologia: perché il “senso comune” è un’ideologia e come non diventarne schiavo

Migliaia di manifestanti ebrei e cinquecento arresti, tra cui ben… dieci rabbini.

Questo il bilancio della protesta che il 19 ottobre ha preoccupato non una teocrazia islamista antisemita, ma il Congresso degli Stati Uniti d’America. E se così appare una notizia bizzarra, a metterci il carico da undici è il motivo della mobilitazione: il pieno sostegno al popolo palestinese contro la pulizia etnica imposta dalla potenza israeliana. 

Proprio così: oltre alle centinaia di migliaia di persone che infiammano le capitali europee da oltre un mese, a pigliarsi le manganellate stavolta ci sono anche le comunità ebraiche, confluite in quella che è stata definita “la più grande protesta ebraica in solidarietà col popolo palestinese organizzata negli Stati Uniti”. 

La mobilitazione era promossa dall’associazione Jewish Voice For Peace, che lungi dal farsi intimidire, ha alzato la posta con nuove manifestazioni (una delle ultime ha occupato la New York City Central Station), lanciando un messaggio semplice e interessante: 

“Vogliamo costruire un mondo che promuove la santità della vita – per tutti, allo stesso modo – non un mondo che supporta lo sterminio dei palestinesi. E non ci fermeremo finché non otterremo giustizia, per i Palestinesi come per tutti.”

C’è qualcosa di queste proteste che ci colpisce, lasciandoci smarriti: per cominciare, avvertiamo la stranezza della presa di posizione di ebrei a favore di popolazioni musulmane, quasi come se, in quanto ebrei, dovrebbero collocarsi dall’altra parte, o ben che vada a metà strada, in un’equidistanza pelosa; e poi il loro messaggio, che si giustifica e rafforza intorno a un concetto religioso, e non politico, ovvero la “santità della vita”. 
Il senso di stonatura che proviamo in prima battuta, però, indica che quello di Jewish Voice For Peace è il controesempio più lampante a tutti i discorsi mediatici e politici dominanti, che riesumano la narrazione dello “scontro di civiltà” in salsa mediorientale. Questi discorsi assumono diversi contenuti: possono far leva su caratteri religiosi (collegando Islam e antisemitismo); nazionali (il diritto del popolo israeliano a difendersi); oppure anche etici (la convinzione della superiorità morale di Israele in quanto “democrazia”, o, come piace chiamarla a noi, fondamentalismo democratico); ma hanno tutti un elemento comune: sono strutturati per stimolare una presa di posizione da parte di chi ascolta, in modo tale che tu non sia più un semplice individuo, ma un soggetto reclutato, interpellato per schierarti.
Sono, in una parola, ideologici. Ma cos’è davvero l’ideologia, e qual è la sua reale importanza nel sistema capitalista del nord globale e nelle sue turbolenze?

Alla fine degli anni Sessanta, con il ciclo di seminari Lire le Capital (“Leggere il Capitale”), il filosofo Louis Althusser e i suoi allievi si pongono un obiettivo ambizioso: integrare e affilare gli strumenti di analisi sociale introdotti nei testi marxiani per fornire una vera e propria teoria scientifica interpretativa del sistema capitalista e delle sue crisi. Uno dei risultati più importanti di queste ricerche è proprio il ripensamento dell’ideologia, che secondo Althusser presenta una dinamica e una portata che Marx ed Engels non erano riusciti a cogliere appieno.

Alla ricostruzione di questo percorso di ridefinizione dell’ideologia è dedicato il saggio del 2022 di Stefano Pippa Il soggetto sur-interpellato. Ideologia, conflitto e resistenza in Althusser e Pêcheux

Per Althusser l’Ideologia è un discorso molto particolare, che fornisce al soggetto una categoria tramite cui agire praticamente e pensarsi come soggetto rispetto alle sue condizioni di esistenza determinate. In altre parole: i discorsi ideologici interpellano l’individuo, offrendogli la possibilità di percepirsi Soggetto delle sue azioni. Due sono i punti fermi sul discorso ideologico posti da Althusser nel suo articolo Lo stato e i suoi apparati (1970):

“1. Non vi è pratica che per opera e sotto un’ideologia.”

Cioè, le ideologie non sono solo parole, ma anche e soprattutto pratiche, rituali, atteggiamenti e comportamenti che mettiamo in atto parlando con un superiore, fermandoci di fronte all’alt di un poliziotto, ritrovandoci in piazza insieme a Jewish Voice for Peace, e così via.

“2. Non vi è ideologia che per dei soggetti concreti, e questa destinazione dell’ideologia non è possibile che per opera del soggetto: cioè, per opera della categoria di soggetto e del suo funzionamento.”

In altre parole, ogni volta che partecipiamo a un discorso ideologico non scegliamo di farlo come uomini e donne liberi, ma come individui che attraverso quel discorso trovano un senso in ciò che fanno. In questo, siamo interpellati. Diventiamo, in un certo modo, delle reclute di quella ideologia che sostiene un determinato sistema, apparato o società. E questo avviene sempre e ovunque

L’ideologia quindi è dappertutto, perchè è alla base del funzionamento delle diverse strutture sociali in cui viviamo, dalla scuola allo stato vero e proprio. Pur non essendo di fatto un qualcosa di materiale, l’ideologia è fondamentale per l’esistenza di tali strutture. Se infatti nessuno credesse in quell’ideologia, non ci sarebbe nessuno disposto e nemmeno in grado di riprodurla, e quindi di far continuare quel determinato sistema concretamente ad esistere. L’interpellazione del soggetto, ammonisce Althusser, è indispensabile alla sua costruzione e al suo auto-riconoscimento: a prima vista sembra che le ideologie funzionino perché dei soggetti liberi scelgono (più o meno consapevolmente) di dar loro vita e importanza sociale; in realtà, è esattamente l’opposto:

“la categoria di soggetto non è a fondamento di ogni ideologia se non in quanto funzione di ogni ideologia è quella di costruire gli individui concreti quali soggetti. È in questo gioco di doppia costituzione – conclude Althusser – che consiste il funzionamento di ogni ideologia.”

L’ideologia per i rapporti sociali è come l’ossigeno per l’organismo: è ovunque, ed è indispensabile; la possiamo identificare, descrivere, criticare, ma come non possiamo trattenere il fiato troppo a lungo, così ci ritroveremo inevitabilmente, nuovamente interpellati nel discorso ideologico. In questo consiste, in ultima analisi, la funzione ideologica nella riproduzione di tutti i rapporti sociali, inclusi quelli capitalisti: unire dominanti e dominati in un unico sistema di auto-rappresentazione come Soggetti.  

Come nota acutamente Stefano Pippa, l’ideologia per Althusser è del resto fondata sulla “natura dell’animale umano in quanto ‘animale ideologico’”, e cioè, “animale che, poiché parla e pensa (…) ha bisogno di rappresentarsi un punto di garanzia immaginario per avere certezza di sé e del proprio mondo”.

Ma se il dispositivo ideologico è così pervasivo, insuperabile, intrinseco alle pratiche sociali, dovremmo chiederci, come è possibile resistere alla sua presa? Da dove nasce, “la possibilità per il soggetto determinato di non voltarsi, di non rispondere a un’interpellazione” (p. 73) e, in ultimo, di andare contro l’ideologia dominante?

Una via d’uscita dalla “gabbia” ideologica è aperta dallo stesso Althusser, che dopo aver descritto il dispositivo soverchiante dell’ideologia ci spiega che tale dispositivo non è granitico, ma sempre segnato da conflitti e turbolenze.

Prima di tutto, i discorsi ideologici si realizzano concretamente in regioni definite: sono quelle articolazioni sociali che Althusser chiama “Apparati Ideologici di Stato”, tra cui, negli stati capitalisti, rientrano la polizia, la scuola, la giustizia, la chiesa e – potremmo sottolineare oggi – il sistema mediatico. Tutti unificati sotto un discorso-guida: l’ideologia di Stato. In secondo luogo, questi stessi apparati sono sempre e inevitabilmente attraversati da un conflitto latente: quello tra i discorsi ideologici della classe dominante e quelli delle classi subalterne

Il sistema degli “Apparati Ideologici di Stato”, a guardarlo da vicino, è più frammentato di ciò che sembra: se l’ideologia di Stato si costituisce cercando di unire le ideologie dominanti negli apparati, questa unificazione ideologica avviene sempre e comunque “in ordine sparso”. Il livello di conflittualità, proteste, e antagonismi, in alcuni settori dell’apparato produttivo, come quello dei lavoratori portuali, ad esempio, è più alto di quello interno all’apparato scolastico, dove i docenti in molti casi sembrano aver “perso la voglia” di lottare contro le misure ministeriali. Due o più apparati potranno ritrovarsi a confliggere nelle rispettive pratiche (pensiamo ad esempio a chiesa e scuola sul terreno della laicità), mentre all’interno di essi infurierà un conflitto tra prospettive dominanti e subalterne. Nelle parole di Althusser:

“La lotta per la riproduzione dell’ideologia dominante è un combattimento senza fine sempre da riprendere, e sempre sotto la legge della lotta di classe.”

Ma se l’unificazione dei discorsi ideologici all’interno di un unico discorso “di Stato” è in realtà un campo di conflitti su più livelli, allora anche noi, soggetti delle ideologie, siamo costituiti da questo stesso campo conflittuale in perenne sconvolgimento. In definitiva, argomenta Pippa, più che soggetti interpellati, siamo “soggetti sur-interpellati“, cioè contemporaneamente interpellati da discorsi ideologici in tensione tra loro.

Ogni soggetto (voi e me) vive dunque allo stesso tempo sotto più ideologie i cui effetti di assoggettamento si combinano nei suoi atti (…) regolati da rituali. Questa combinazione non va da sé: ne derivano ciò che chiamiamo, nel meraviglioso linguaggio della filosofia ufficiale, i ‘conflitti di doveri’.”

Ecco quindi, cosa permette a un soggetto di non voltarsi, di non rispondere o di resistere a un’interpellazione ideologica determinata. Come avviene per il soggetto interpellato da Jewish Voice For Peace, collocato in una posizione di resistenza e opposizione nel campo ideologico religioso, così:

Il gioco delle ideologie si sovrappone, si incrocia, si contraddice sullo stesso soggetto: lo stesso individuo sempre-già soggetto. Deve sbrigarsela lui.

Ma in che senso possiamo “sbrigarcela noi”, seguendo l’invito di Althusser nella pratica? E come possiamo applicare la lettura conflittuale degli apparati alla realtà odierna alla battaglia ideologica per far emergere dall’apparato la voce del 99%? In ultima istanza, occorre chiederci se e in quali forme possiamo liberarci dall’ideologia, oppure dove trovare quegli elementi ideologici che ci consentano di combatterla, sfruttando le frammentazioni che la attraversano, spezzando i suoi stessi meccanismi di riproduzione.