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Tag: genocidio

Biden sotto assedio per il sostegno al genocidio fa arrestare i rampolli ribelli delle oligarchie

Mentre Israele doveva affrontare l’accusa di genocidio da parte della Corte Internazionale di Giustizia che imponeva lo stop immediato di tutte le violazioni dei diritti umani fondamentali e mentre consolidava il suo status di Stato canaglia contravvenendo alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – approvata da tutti con la sola astensione degli USA – che imponeva l’immediato cessate il fuoco, il mondo libero nella sua quasi totalità (e con un ruolo di primo piano dall’Italia) si macchiava di palese complicità nei confronti dello sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi non solo continuando a fornire assistenza militare, ma partecipando attivamente al piano di sterminio per carestia escogitato dal regime suprematista di Tel Aviv. Dopo il fiume di fake news sulle decapitazioni di bambini e gli stupri di massa di Hamas, diffuse a man bassa dall’ufficio propaganda del regime genocida sionista e immediatamente riportate come verità assolute da tutti i nostri leader politici e dai pennivendoli che combattono le bufale dei complottisti sul web, tutti i governi occidentali (con pochissime eccezioni) e con Giorgia la madrecristiana e il suo entourage di postfascisti in primissima fila, avevano provato a giustificare la strategia della carestia con la madre di tutte le bufale: l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi – l’unica in grado di alleviare, in piccolissima parte, le sofferenze atroci della popolazione della striscia – altro non sarebbe che una specie di sezione sotto copertura di Hamas e del terrorismo fondamentalista islamico in genere; una scelta di una gravità incalcolabile che non solo trasforma in modo pericolosissimo il nostro paese in un complice a tutti gli effetti dello sterminio, esponendoci tutti al rischio di ritorsioni di ogni genere, ma che in un futuro prossimo, nel caso sempre meno improbabile che il diritto internazionale, una volta tanto, si dimostri strumento per ottenere giustizia invece che strumento per imporre i doppi standard dell’imperialismo USA, potrebbe valere al nostro paese una condanna per violazione dei diritti umani e complicità nel genocidio.

L’Italia aveva temporaneamente sospeso l’esborso dei finanziamenti a favore dell’agenzia subito dopo l’operazione diluvio di al aqsa per mandare un segnale forte e chiaro che, in quanto facenti parte a pieno titolo del blocco dei paesi liberi e democratici che sostengono l’occupazione illegale e l’apartheid israeliano, non avremmo tollerato nessuna forma di rivolta degli schiavi; la sospensione temporanea era poi diventata stabile a fine gennaio scorso, quando Israele ha provato a fornire a tutti i sostenitori dello sterminio una pezza d’appoggio per giustificare la loro partecipazione attiva al tentativo di sterminio per carestia: gli è bastato comunicare di avere le prove di un coinvolgimento di dodici membri del personale UNRWA nell’attacco di Hamas del 7 ottobre, non di presentarle, eh? Presentare le prove è un onere che tocca ai poveri, agli schiavi e ai popoli inferiori; a noi, civiltà superiori, basta comunicarlo e la fantastica comunità del giardino ordinato si sintonizza. Mentre è in corso uno sterminio, già porsi il problema dell’esistenza o meno di qualche legame tra una decina di dipendenti dell’UNRWA e Hamas, che è la legittima forza politica al governo della striscia – e quindi l’unica, in questo contesto, che più o meno agisce all’interno di un quadro di legittimità giuridica – dal nostro punto di vista è già di per se complicità esplicita con lo sterminio anche perché, come era emerso chiaramente già dal resoconto dei media che avevano avuto accesso al dossier di 6 pagine presentato dalla propaganda israeliana, il rapporto presentava, appunto, una lunga serie di accuse strappate a suon di tortura ad alcuni prigionieri arrestati durante l’operazione diluvio di al aqsa, ma, come ricorda al Jazeera, “senza” appunto “lo straccio di una prova”.
Ciononostante, nel tentativo disperato di provare a continuare a sottrarre qualche bambino palestinese allo sterminio, ONU e UNRWA hanno fatto un bagno di realpolitik e hanno cercato un compromesso: senza nemmeno il cenno di un’indagine interna, l’UNRWA ha licenziato in blocco i 12 funzionari accusati da colleghi sottoposti a tortura dalle forze illegali di occupazione e l’ONU ha deciso di avviare un’indagine interna; a coordinarla, Catherine Colonna, ex ministro degli esteri francese oltreché ex ambasciatrice francese in Italia. Di sicuro, da brava conservatrice francese cresciuta sulle ginocchia di Chirac prima e di De Villepin poi, non esattamente una paladina delle lotte di liberazione dei popoli arabi e, tutto sommato, manco dell’Islam in generale – a parte, ovviamente, quando può essere strumentalizzato in chiave anticinese: la Colonna, infatti, 2 anni fa polemizzò aspramente con Pechino quando sui media occidentali, come campagna di pressione diplomatica e psicologica nei confronti di una Cina che stavamo tentando di convincere a non offrire sostegno alla Russia di Putin, riapparve magicamente la solita vecchia vaccata del genocidio degli uiguri in Xinjiang.
Ciononostante, l’esito dell’indagine sull’UNRWA è piuttosto chiaro: come riassume al Jazeera, il rapporto “chiarisce che Israele non ha sostenuto le sue affermazioni sul personale dell’UNRWA appartenente né all’ala militare di Hamas né alla Jihad islamica palestinese”; l’UNRWA inoltre, continua il rapporto, ha sempre fornito regolarmente a Israele gli elenchi dei suoi dipendenti da sottoporre a controlli e il governo israeliano non ha informato l’UNRWA di alcuna preoccupazione relativa a qualsiasi membro del personale dell’UNRWA sulla base di questi elenchi del personale dal 2011”. Insieme al report della Colonna, il Nordic Research Group ne ha pubblicato un altro, sempre frutto della stessa indagine, dove sottolinea come “Le autorità israeliane fino ad oggi non hanno fornito alcuna prova a sostegno né hanno risposto alle lettere dell’UNRWA di marzo e di aprile, dove si richiedevano nomi e prove a sostegno delle accuse, che avrebbero consentito all’UNRWA di avviare un’indagine”.
Dopo le accuse totalmente infondate e pretestuose del regime genocida israeliano, 18 paesi avevano sospeso gli aiuti all’UNRWA; nel tempo, però, la stragrande maggioranza, anche grazie alle mobilitazioni popolari, hanno fatto retromarcia e hanno annullato la sospensione, spesso addirittura aumentando il budget. A parte 6 paesi, tutti e 6 colpevoli, in passato, di stermini di massa e pulizie etniche su grande scala, dalla Gran Bretagna agli USA, passando per l’Austria e la Germania, per finire con la nostra amata Italia; insomma: giustamente vogliamo preservare le care vecchie tradizioni. Come ha dichiarato la direttrice comunicazione dell’UNRWA Juliette Touma, “Non vi fate ingannare: la fame viene utilizzata come arma”: secondo la scala dell’Integrated food security phase classification, 210 mila persone nel nord della striscia stanno già vivendo una carestia; la parte sud, invece, è classificata come “emergenza alimentare” che dovrebbe trasformarsi in vera e propria carestia entro l’inizio dell’estate. “Non ho mai visto un’area raggiungere questi livelli così rapidamente” avrebbe dichiarato la Touma ad al Jazeera: “Nello Yemen ci sono voluti anni prima di arrivare a questo livello. A Gaza sono bastati tre mesi. Gaza è sotto assedio”.
Il ricorso allo strumento della carestia come arma di distruzione di massa è anche il risultato dell’assoluta incapacità di perseguire gli obiettivi militari sul terreno; l’ultima indicazione su come allo sterminio indiscriminato di civili inermi non sia corrisposta nessuna vittoria strategica arriva dalle ennesime dimissioni eccellenti: questa volta, a tirare i remi in barca è Aharon Haleva, il capo dell’intelligence militare israeliana. Responsabile in prima persona della macchina per il controllo totale dei dannati di Gaza – che fino al 7 ottobre scorso pensavamo essere impenetrabile, per poi vederla crollare magicamente come un castello di carte – Haleva era rimasto al suo posto per dare il suo contributo personale alla vendetta contro i bambini palestinesi; dopo 6 mesi di fallimenti, finalmente ha deciso di prendere atto della realtà, anche perché ultimamente ha collezionato il fallimento più grande di tutti: come ricorda la testata antimperialista libanese al Akhbar, infatti, “Com’è noto, l’intelligence militare aveva raggiunto una valutazione secondo cui l’Iran era scoraggiato e non avrebbe risposto all’attacco al consolato, e che il massimo che poteva fare era indirizzare i suoi alleati nella regione a rispondere”. Ne è seguito il più grande disastro strategico per Israele dai tempi dello Yom Kippur, con l’Iran che è riuscito a imporre uno spostamento radicale negli equilibri di deterrenza della regione senza precedenti; dopo aver collezionato due disastri epocali come l’operazione diluvio di al aqsa prima e quella true promise poi, le dimissioni – effettivamente – sono proprio il minimo sindacale, ma ovviamente si tratta solo di capri espiatori per consentire di mantenere in carica il capo stragista che, ormai, non ha il sostegno nemmeno dei parenti più stretti.
Come i giornalisti del New York Times, che dopo 7 mesi di sostegno allo sterminio sono costretti ad ammettere che “i tunnel permetteranno ad Hamas di sopravvivere e di ricostituirsi una volta che i combattimenti a Gaza finiranno”, che “Hamas probabilmente rimarrà una forza a Gaza” e che “Hamas e altre organizzazioni armate hanno ancora molte forza sopra e sotto terra”; facendo la tara della guerra linguistica condotta dal Times per coprire le atrocità del genocidio di fronte all’opinione pubblica, queste citazioni potrebbero significare una cosa sola: Israele ha perso la guerra e mo’ so cazzi. Che il Times, oltre a diffondere fake news sugli stupri, manipolasse la sua comunicazione per legittimare lo sterminio era cosa nota già da tempo: The Intercept aveva già sottolineato come “Al 24 novembre, il New York Times avesse descritto le morti israeliane come un massacro in 53 occasioni, mentre quelle palestinesi una sola volta. Il rapporto nell’uso del termine macellazione, invece, era di 22 a 1”. La prova provata che questa sproporzione fosse dovuta a delle direttive impartite dall’alto (e non, semplicemente, alle tendenze suprematiste congenite a quel concentrato di progressismo ZTL che è la redazione del Times), però, mancava; fino alla scorsa settimana, quando sempre The Intercept è entrato in possesso di un promemoria interno distribuito ai giornalisti: nel promemoria, scrive The Intercept, si danno “istruzioni ai giornalisti che si occupano della guerra di Israele nella Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini genocidio e pulizia etnica e di evitare di usare l’espressione territorio occupato nel descrivere la terra palestinese”.
Per quanto faccia ribrezzo, non mi stupisce per niente: in 20 anni di Report ho dovuto fare mille compromessi e, ovviamente, mantenermi sempre all’interno della finestra di Overton del politically correct, ma in un solo caso ho subìto una vera e propria forma di censura e quel caso – guarda un po’ – ha proprio a vedere con il regime sionista: per descrivere l’attività dei miei amici del Comitato israeliano contro la demolizione illegale delle case palestinesi, mi azzardai a definire Gerusalemme Est occupata; non che fosse chissà quale licenza poetica. Era definita così da decenni in decine e decine di risoluzioni delle Nazioni Unite che però, evidentemente, il mio capo non aveva letto attentamente: “E’ più complicato di così” mi venne detto; la parola occupazione doveva sparire. Era divisiva, come il 25 aprile e la liberazione.
La potenza di fuoco della propaganda e della censura sionista è veramente sbalorditiva e si poggia su parecchie gambe: l’incredibile concentrazione di cittadini israeliani ai piani alti dei monopoli finanziari dell’impero, che si traducono in una delle lobby più potenti del pianeta, senza la quale è impossibile ambire al trono del centro imperialistico; il ruolo vitale che Israele, come avamposto nel Medio Oriente, ha giocato fino ad oggi nella strategia imperialista; e l’incredibile potenza del ricorso ai sensi di colpa dell’Occidente collettivo per l’olocausto, che viene facilmente e sapientemente utilizzato per delegittimare l’opposizione al genocidio che stanno compiendo di fronte ai nostri occhi. Come sostiene lo storico statunitense Norman Finkelstein – erede di una famiglia ebraica che ha sperimentato i valori comuni del giardino ordinato prima nel ghetto di Varsavia e poi ad Auschwitz – l’utilizzo strumentale di quella che lui chiama l’industria dell’olocausto per minimizzare (se non, addirittura, giustificare del tutto) il primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità, è forse l’aberrazione più atroce possibile concepibile; ciononostante, calzando a pennello con gli interessi dell’imperialismo, continua ad essere un’arma potentissima che viene brandita senza ritegno.
L’ultimo incredibile esempio arriva dagli USA: La polizia di New York arresta i manifestanti della New York University mentre aumentano le tensioni nei campus statunitensi titolava ieri il Financial Times: “Preoccupazioni anche a Yale, mentre la Columbia passa alle lezioni online in mezzo al furore per le proteste di Gaza”; la polizia, riporta l’articolo, “ha arrestato dozzine di manifestanti filo -palestinesi alla New York University di Manhattan, mentre le autorità intensificavano gli sforzi per reprimere le proteste studentesche”. La retata contro gli studenti della New York University è arrivata poche ore dopo l’annuncio da parte della Columbia University, sempre di New York, che sarebbe passata alle lezioni online “nel tentativo di disinnescare le proteste nel campus del college della Ivy League”, proteste che venerdì scorso avevano portato all’arresto di oltre 100 studenti “nel primo intervento del genere da più di tre decenni”. Lunedì, invece, la polizia aveva arrestato altri studenti nel campus dell’università di Yale e, in entrambi i casi, l’arresto è il male minore: sia la Columbia che Yale hanno annunciato che tutti gli studenti coinvolti verranno sospesi; come sappiamo benissimo noi che siamo cresciuti con filmetti propagandistici come L’attimo fuggente, ovviamente non saranno sospesi tutti: solo quelli che nella Ivy League ci sono entrati per particolari meriti e con le borse di studio. Per i rampolli delle famiglie di oligarchi che ogni anno sommergono questi centri di produzione dell’ideologia imperialista con miliardi e miliardi di donazioni, una soluzione si troverà, ma lo strumento disciplinare è straordinario: i rampolli delle oligarchie impareranno che opporsi a un genocidio non è compatibile con il loro status e quelli intelligenti e cazzuti davvero, che sono lì per merito, impareranno che, sei vuoi perseguire il sogno americano, le priorità strategiche dell’imperialismo vanno rispettate.
Esattamente come i nostri studenti nell’estrema periferia dell’impero, anche nella Ivy League la mobilitazione era volta a chiedere alle università – che gestiscono asset per decine e decine di miliardi e sono veri e propri colossi della finanza globale – di smettere di finanziare direttamente aziende israeliane e anche le collaborazioni accademiche con le università israeliane che, grazie a questi contributi finanziari, sono in grado di fornire all’IDF sempre nuove soluzioni all’avanguardia per proteggere l’apartheid e sterminare i bambini palestinesi con metodi sempre più innovativi e creativi, che poi esportano in tutto il mondo; come l’ormai famosissimo sistema Lavander, il sistema che utilizza l’intelligenza artificiale per individuare tutti i sospetti fiancheggiatori delle milizie armate palestinesi e dà agli operatori 20 secondi per scegliere se colpire il bersaglio – a prescindere che questo comporti o meno l’assassinio di decine di civili, in particolare donne e bambini, nelle immediate vicinanze.

Mathilde Panot

Nel frattempo, in Francia, un’altra persona veniva convocata nell’ambito di una delle tante inchieste, aperte un po’ random dalla magistratura dal 7 ottobre in poi, per apologia del terrorismo, un termine tecnico che include qualsiasi forma di solidarietà nei confronti della resistenza palestinese; il problema è che, a questo giro, hanno mirato un po’ altino: ad essere convocata, infatti, è stata Mathilde Panot, la presidente del gruppo parlamentare della France Insoumise di Melenchon. Ed ecco così che il declino dell’imperialismo, che nello stallo strategico in cui s’è infilato il regime genocida di Tel Aviv ha uno degli esempi più eclatanti e devastanti, si porta finalmente via un altro dei principi fondamentali delle democrazie liberali: la libertà dei rappresentanti del popolo di esprimere un giudizio politico, quale che sia, tutelato con ogni mezzo necessario da ogni costituzione democratica; ma come l’imperialismo più diventa feroce e spregiudicato, più accelera il suo declino e rafforza i suoi avversari (sia in termini economici che in termini geopolitici e militari), così, anche dal punto di vista ideologico, più alza l’asticella della sua repressione, più alimenta il fuoco della ribellione. Dopo le retate nelle università USA, sempre più studenti hanno deciso di accamparsi con le tende davanti agli ingressi principali non solo di Yale e della Columbia, ma anche di Berkley, dell’Università del Michigan e altro ancora.
Il genocidio di Gaza è uno dei colpi di coda dell’imperialismo sull’orlo del collasso e l’idea che possa rimanere confinato in quell’angolino di Medio Oriente dimenticato da Dio è una pia illusione di queste élite putrescenti. Porteremo lo spirito dell’eroica resistenza palestinese in ogni angolo del pianeta; per farlo, però, abbiamo prima di tutto bisogno di combattere il lavaggio del cervello della propaganda e di un media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Mieli

Russia e Iran asfaltano il mito dell’invincibilità dell’impero e impongono l’ordine multipolare

Carissimi ottoliner, anche oggi – prima di passare alle cose serie – un po’ di Cabarellum e vaudeville vario dal mondo incantato delle bimbe di Bandera: ieri, infatti, vi avevamo mostrato uno screenshot che dimostra come Parabellum stia rassicurando la sua fanbase sulla sua ferma intenzione di respingere al mittente le accuse di Ottolina Tv andandolo a dire all’avvocato, dopo averlo già detto alla mamma Youtube. In 25 anni di Report, è l’atteggiamento standard che ho sempre riscontrato in chi era stato colto in castagna: invece che rispondere nel merito, annunciare una querela; ovviamente sanno benissimo che la querela non va da nessuna parte, ma per chi in cuor suo, comunque, li ha già assolti a prescindere, rappresenta una rassicurazione sempre molto efficace e se lo fanno multinazionali multimiliardarie dalle quali dipende una fetta importante della nostra vita, perché mai non dovrebbe farlo anche Parabellum che, come sottolinea lui, è addirittura CEO di un think tank? Amministratore delegato: una carica prestigiosa, mica cazzi; peccato si riferisca a un’azienda che, secondo le visure camerali, non vanta poi tantissimi dipendenti. Anzi, ne vanta 0. E’ un po’ come se quello che ti fa il cappuccino la mattina, invece che come barista, si presentasse come CEO del Bar da Luigi e Ivana, o come quando qualcuno mi definisce il direttore di Ottolina Tv, a me, che non sono in grado nemmeno di dirigere quelle due carognette dei mi’ figlioli.
Il fatto ingiurioso che avrebbe spinto un paladino del mondo libero come Parabellum a pensare di rivolgersi a un avvocato, è questa copertina – oppure questo meme (non ho capito bene, sinceramente): Parabellum sostiene, infatti, che anche quando ha avuto da ridire, ad esempio, con Lilin, non ha fatto nessun meme perché – sottolinea – “Si attacca la tesi, non il relatore”; evidentemente, come per la definizione di chi è l’aggressore e chi l’aggredito nella guerra per procura in Ucraina, crescendo (e fatturando) ha cambiato idea. Questa, infatti, è la copertina di un suo vecchio video e questo, in basso a sinistra, è Alessandro Orsini con la faccia sovrapposta a quella di Efiliate, il mostro di 300 che tradisce Sparta per passare col nemico; e questa, invece, è un’altra copertina di una live del suo sponsor principale, il raffinatissimo intellettuale e grandissimo giornalista d’inchiesta Ivan Grieco, che s’è fatto tutta una live con questa parrucca perculando sempre Orsini. Ho come il sospetto che qui c’è chi rischia di avere la bocca e le dita più veloci dei neuroni; e con questo concludiamo l’appuntamento quotidiano con l’incredibile mondo delle bimbe di Bandera e torniamo a occuparci di cose un pochino più serie.

Stephen Bryen

Secondo l’ex vice sottosegretario alla difesa USA Stephen Bryen, ormai in Ucraina “la Russia domina lo spazio aereo” e le difese aeree ucraine sono letteralmente scomparse e, secondo Bloomberg, questo ormai alimenta “la paura che l’esercito ucraino sia vicino al punto di rottura”; al che uno dice eh vabbeh, grazialcazzo, le forze armate russe mica sono un avversario qualsiasi. Prima di essere folgorato sulla via di Damasco che porta dritto all’interno dei salotti buoni della propaganda analfoliberale, pure Parabellum lo diceva che “mettercisi contro dal punto di vista militare è stupido”; il problema, però, è che l’insormontabile scoglio russo è solo la punta dell’iceberg: da ormai 4 mesi gli USA si sono ritrovati impantanati in un conflitto nel Mar Rosso che, inizialmente, la propaganda aveva provato a spacciare come una sorta di passeggiata di piacere. Contro quegli scappati di casa di Ansar Allah, il problema sembrava sostanzialmente quello di mantenere un po’ il contegno e non infierire in modo troppo violento contro un nemico così platealmente inferiore; dopo 4 mesi di bombardamenti illegali e un imponente impegno di forze e di risorse che, probabilmente, gli USA avrebbero preferito concentrare sul Pacifico – dove si continuano a scaldare i motori per il vero grande conflitto sistemico che l’impero dovrà affrontare per tentare di rinviare il suo inesorabile declino – gli USA hanno dovuto fare anche qui un discreto bagno di realtà, fino ad arrivare a dichiarare, per bocca dell’inviato speciale per lo Yemen Tim Lenderking, che “siamo consapevoli che non c’è una soluzione militare, e siamo a favore di una soluzione diplomatica”. “Gli Stati Uniti” scrive il giornalista libanese Kalil Nasrallah su The Cradle “hanno segretamente offerto una straordinaria serie di concessioni ad Ansar Allah per fermare le sue operazioni navali a sostegno di Gaza”, ma, purtroppo, “senza alcun risultato”.
Nel frattempo, gli USA subivano un attacco nella loro principale base al confine tra Siria e Giordania, che rappresentava un’altra pietra miliare nella strada che porta al declino: per la prima volta diventava chiaro che la loro contraerea non era più in grado di garantire la sicurezza delle installazioni militari dell’impero nel Medio Oriente, uno snodo storico: nel caso di un’evoluzione del genocidio in corso verso una guerra regionale, gli Stati Uniti, infatti, si troverebbero nell’impossibilità di dispiegare in sicurezza le loro forze di terra nell’area.
E, infine, ecco che arriva la spettacolare operazione militare iraniana di sabato scorso. Per capirne l’impatto reale basta vedere il panico che ha sollevato in tutte le redazioni impegnate nel sostegno allo sterminio dei bambini palestinesi che, come sempre di fronte a una realtà che non rientra nell’idea della insindacabile superiorità dell’uomo bianco rispetto al resto della popolazione mondiale, fanno presto: ribaltano la realtà e chi s’è visto s’è visto. Israele e Occidente respingono l’Iran titolava ieri Il Giornanale: “L’abbattimento del 99 per cento degli ordigni” esulta Gian Micalessinofobia “è anche la più significativa vittoria conseguita dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in sei mesi di guerra”; beh, immaginiamoci le altre, allora… Come scriveva giovedì scorso Chaim Levinson su Haaretz, “Dobbiamo cominciare a dire chiaramente quello che non potrebbe essere detto: Israele è stato sconfitto. Una sconfitta totale”: “Gli obiettivi della guerra non verranno raggiunti” sottolinea Levinson, “gli ostaggi non verranno restituiti, la sicurezza non verrà ripristinata e l’ostracismo internazionale di Israele non finirà”.
Ora, ovviamente, fare un bilancio di un conflitto è sempre piuttosto complicato e il tutto è sempre fortemente influenzato dai vari bias cognitivi e dal wishful thinking di ognuno; la buona notizia, però, è che per il livello che interessa a noi qui, adesso, questa sostanziale impossibilità di determinare – oltre ogni ragionevole dubbio – chi vince e chi perde, non conta: il punto, infatti, è che all’impero non basta non perdere il singolo conflitto – e nemmeno vincerlo. Per stare in piedi, l’impero ha bisogno che i suoi vassalli siano convinti del fatto che, alla fine, molto banalmente non può perdere: l’idea dell’invincibilità dell’impero è il più importante e irrinunciabile dei suoi asset, a maggior ragione quando è in declino; l’impero in ascesa, o nell’era del suo massimo splendore, sui suoi vassalli è in grado di esercitare la sua egemonia, che significa che, in cambio della rinuncia alla tua sovranità, puoi comunque partecipare alla redistribuzione di una parte dei dividendi di questo ordine. Insomma: non conti una sega, non puoi decidere, ma comunque, alla fine – almeno da alcuni punti di vista – ci guadagni. L’ordine fondato sull’impero in declino, invece, tutti questi dividendi da distribuire ai vassalli per tenerli buoni e convincerli che quell’ordine è nel loro stesso interesse, non li genera più: l’impero in declino, i suoi vassalli li deruba senza dare niente in cambio e l’unica cosa che impedisce ai vassalli di ribellarsi è proprio il monopolio della forza bruta e l’idea dell’invincibilità dell’impero. Non a caso gli USA, su questo, hanno voluto eliminare ogni dubbio: le 1000 basi sparse per il pianeta e una spesa militare che, da sola, eguaglia sostanzialmente la spesa militare del resto del mondo messo assieme, servono proprio a questo, un segno chiaro e inequivocabile della propria supremazia, ma i segni, ormai, potrebbero non essere più sufficienti. Tutti gli esempi che abbiamo elencato rapidamente sopra rappresentano una mazzata gigantesca al mito dell’invincibilità e, a ben vedere, non potrebbe essere altrimenti: la gigantesca macchina bellica statunitense che è di gran lunga, ancora oggi, la più imponente dell’intera storia dell’umanità, sconta infatti due criticità strutturali che cominciano ad avere un peso insostenibile.
La prima è che buona parte di quello sterminato budget serve molto più a ingrassare le casse delle oligarchie del comparto militare industriale (e le tasche di quella che il nostro amico David Colantoni definisce la classe militare) che non a potenziare davvero la macchina bellica USA: l’esempio eclatante sono la quantità smisurata di quattrini che vanno sempre in nuovi armamenti che promettono magie e, alla fine, sul campo si rivelano più o meno avere la stessa funzionalità dei vecchi – ma con costi di ordini di grandezza superiori – che, spesso, sottraggono risorse a cose che non fanno tanta notizia, ma che sono davvero indispensabili, come le munizioni. La seconda è quello che definiamo il vantaggio asimmetrico della resistenza antimperialista che è, ad esempio, quello che ha portato gli USA a subire una disastrosa sconfitta in Vietnam e che, comunque, anche nelle guerre successive gli ha impedito di ottenere vittorie stabili e durature anche dopo aver temporaneamente annientato un nemico infinitamente più debole. Ma prima di proseguire in questo viaggio dentro la fine del mito dell’invincibilità dell’impero, ricordatevi di mettere mi piace a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra asimmetrica contro la dittatura degli algoritmi e, già che ci siete, anche quella di logoramento contro la propaganda suprematista iscrivendovi a tutti i nostri canali e attivando le notifiche; perché se l’impero, nonostante tutto, ancora oggi continua a infinocchiare qualcuno con il mito dell’invincibilità è solo a causa della gigantesca macchina propagandistica che affianca quella militare, ma che, come quella militare, dovrà fare i conti sempre di più con il vantaggio asimmetrico dell’antimperialismo e, cioè, voi, la gente comune e onesta che s’è rotta i coglioni di sorbirsi le loro cazzate.
Tra i tanti meriti dell’operazione militare effettuata dall’Iran sabato scorso, sicuramente una menzione speciale va a come abbia, per l’ennesima volta, esposto chiaramente a tutti la ferocia di cui è capace il suprematismo colonialista dell’uomo bianco quando qualcuno si azzarda davvero a metterlo in discussione armi alla mano: i giornali di ieri erano un tripudio di sostegno incondizionato allo sterminio dei sottouomini, con una proliferazione degli ormai onnipresenti SS, i sostenitori di stronzate, da fare impallidire i regimi più sanguinari della storia umana. Secondo Il Foglio “Si è svelato il vero Iran”: “Israele” scrivono gli amici del genocidio grazie ai soldi delle tue tasse “fa la stabilità del Medio Oriente contro l’Iran, mina vagante”, con a fianco una imperdibile chicca delle sempre imbarazzante Cecilia Sala che sostiene, addirittura, che “Allo stadio e in fabbrica gli iraniani dicono: non siamo chi ci governa” e chiedono info per prendere la tessera di Italia Viva; d’altronde, rilancia Micalessinofobia su Il Giornanale, “Per Netanyahu” si è trattato di “una vittoria totale”. “Forza Israele” rilancia ancora Il Foglio: “La nuova guerra per la libertà che combatte Israele riguarda tutti noi”.
Ma il vero colpo di classe è che, contemporaneamente, la stessa identica propaganda suprematista fa un salto mortale e prova a coprire anche l’interpretazione diametralmente opposta e, così, basta scorrere una pagina e, da un terribile attacco alla stabilità della regione (che ai bambini sterminati da Israele tanto stabile forse non appare), l’operazione iraniana ecco che, per magia, diventa una cos’e niente architettata da degli scappati di casa che non riuscirebbero a fare paura manco a una scolaresca. Il trait d’union tra queste due versioni apparentemente inconciliabili è uno solo: l’impero è invincibile e, come la metti la metti, non c’è resistenza che possa ottenere risultati significativi; tocca solo capire se ignorarla perché, alla fine, è innocua o raderla al suolo perché si è azzardata ad alzare la testa. Decidere razionalmente di compiere un’azione, portarla a termine e raccoglierne i risultati è una prerogativa della superiore civiltà dell’uomo bianco; gli altri sono attori irrazionali che a volte scalciano, a volte sconigliano, ma che mai e poi mai possono avere e perseguire un’agenda politica autonoma e razionale: ma siamo proprio sicuri sia davvero andata così?

droni sulla Spianata delle moschee

Prima questione: l’operazione militare è stata una minaccia inquietante contro il resto del mondo o una pagliacciata? Ovviamente, piuttosto chiaramente, nessuna delle due; che non si sia trattato di una semplice pagliacciata lo dimostra un dato su tutti: l’Iran, in tutto, avrebbe speso alcune decine di milioni, Israele – e i vari amici sostenitori dello sterminio dei bambini palestinesi – oltre 1 miliardo. Se è stata una pagliacciata, per il mondo libero di sterminare non è stata a buon mercato. L’Iran avrebbe speso così poco per un motivo molto semplice: il meglio del suo arsenale non l’ha tirato in ballo. Il motivo è piuttosto semplice: la risposta iraniana all’attacco criminale di Israele contro il suo consolato a Damasco voleva essere misurata e proporzionale. L’obiettivo mi pare chiaro: si voleva evitare di offrire a Israele una scusa valida per replicare, a sua volta, con un’altra ritorsione sproporzionata che avvicinerebbe una regionalizzazione del conflitto che non vuole nessuno (a parte, appunto, i suprematisti sionisti in preda al peggiore dei deliri ideologici autodistruttivi). Per calibrare l’attacco, l’Iran – addirittura – avrebbe trattato direttamente con gli USA per capire qual era il limite possibile per infliggere a Israele un duro colpo strategico, ma permettere, comunque, agli USA e agli altri amici del genocidio di mantenere una certa distanza da Israele e non supportare acriticamente ogni tipo di reazione, fatto per cui alcuni analisti un po’ confusi hanno parlato, appunto, di una messa in scena teatrale che non fa altro che rafforzare l’occupazione sionista; una lettura molto superficiale che denota una scarsa capacità di lettura di cosa sia e come funzioni l’imperialismo.
Per quanto gli USA vogliano, in tutti i modi, evitare un’escalation regionale, la loro copertura di Israele in quanto avamposto dell’imperialismo USA nella regione non potrà mai venire meno, dal momento che una sconfitta di Israele significherebbe una vittoria del mondo multipolare e postcoloniale; quindi, anche nel caso Israele decidesse di trasformare il genocidio in una guerra regionale, per quanto contrario l’imperialismo USA non potrebbe che correre in loro soccorso facendo, così, naufragare definitivamente la strategia USA che comporta un disimpegno dal Medio Oriente per potersi concentrare sul Pacifico. In sostanza, le priorità USA hanno un ordine gerarchico preciso: primo, impedire agli attori del nuovo ordine multipolare di avanzare fino a trasformare alcune aree del pianeta in aree sotto la loro influenza e totalmente indipendenti dal progetto imperiale USA e, solo dopo, riuscire a mantenere questo equilibrio grazie ai propri proxy per potersi permettere di concentrarsi principalmente nel principale dei fronti della guerra contro il declino imperiale che è, ovviamente, il Pacifico. La strada che si trova, quindi, a percorrere l’Iran è oggettivamente stretta e va percorsa con cautela; chi, invece, ci vede un’autostrada da percorrere con l’acceleratore a paletta rischia di essere o un incompetente o un avventuriero, ma sulla pelle altrui: all’interno di questa strada strettissima, allora, il punto è stabilire se l’Iran abbia ottenuto qualcosa di veramente significativo oppure, come sostengono i detrattori, abbia semplicemente fatto una messa in scena per accontentare la sete di vendetta del suo popolo che, in quanto non occidentale, è ovviamente feroce e anche parecchio limitato.
Il primo obiettivo, ovviamente, è quello della deterrenza e come sottolinea giustamente su X la nostra amica Rania Khalek di BreakThrough News “Se Israele fosse stato colto di sorpresa e non avesse avuto a disposizione diversi giorni per mitigare l’impatto dell’attacco iraniano, il danno sarebbe stato enorme. Una vera guerra al contrario non verrebbe annunciata in anticipo in modo che Israele possa preparare una sorta di sinfonia delle difese aree dei suoi alleati. Biden” deduce Rania “comprende questo rischio, ed è il motivo per cui ha affermato che non sosterrà un eventuale contrattacco israeliano” soprattutto perché, appunto, ammesso e non concesso che gli arsenali svuotati dei sostenitori dello sterminio dei bambini palestinesi e la loro base industriale sia, alla prova dei fatti, in grado di sostenere questo livello di fuoco, a non poterlo sostenere – probabilmente – sarebbero ancora prima i portafogli. “L’equazione nella regione” conclude Rania “è cambiata, e l’Iran lo ha fatto magistralmente e responsabilmente senza innescare la grande guerra”.
Nello specifico dell’operazione militare iraniana, un altro aspetto molto interessante è quello sottolineato dal sempre ottimo Fadi Quran di Avaaz, sempre su X: ricordando una vecchia lezione a cui ha assistito alla Stanford University, Fadi sottolinea come “La portata dell’attacco iraniano, la diversità dei luoghi presi di mira e le armi utilizzate, hanno costretto Israele a scoprire la maggior parte delle tecnologie antimissilistiche di cui dispongono gli Stati Uniti e i suoi alleati nella regione. Gli iraniani” continua “non hanno usato armi che Israele non sapeva avessero, ma ne ha semplicemente usate molte. Gli iraniani invece ora probabilmente hanno una mappa quasi completa di come appare il sistema di difesa missilistico israeliano, così come di dove in Giordania e nel Golfo gli Stati Uniti hanno installazioni”; “questo” sottolinea ancora Quran, per Israele rappresenta “un costo strategico enorme: l’Iran adesso può decodificare tutte queste informazioni e ha gli strumenti per un futuro attacco enormemente più mortale”. “Chiunque sta sottolineando che si è trattato soltanto di un’operazione scenografica, non tiene in dovuta considerazione il fatto che raccogliere informazione sulle posizioni del nemico è estremamente prezioso, soprattutto se siamo di fronte a una lunga guerra di logoramento”; “Netanyahu e il governo israeliano” conclude “preferiscono una guerra rapida, calda e urgente in cui possano attirare l’America. Gli iraniani invece preferiscono una guerra di logoramento più lunga che privi Israele delle sue capacità di deterrenza e lo renda per gli arabi e gli Stati Uniti un alleato troppo costoso da sostenere”, soprattutto dal momento che questo continua ad essere solo uno dei tanti fronti e altrove non è che le cose vadano esattamente molto meglio.
Le difese aeree sono scomparse, titola Asia Times; la Russia domina lo spazio aereo dell’Ucraina: nell’articolo, il vice sottosegretario alla difesa USA Stephen Bryen ricorda come “La maggior parte dei sistemi di fascia alta precedentemente forniti dagli Stati Uniti e dall’Europa sono stati distrutti o hanno esaurito i missili intercettori”; “Ora” continua Bryen “gli Stati Uniti hanno annunciato che forniranno 138 milioni di dollari per mantenere e riparare i sistemi di difesa aerea HAWK precedentemente consegnati all’Ucraina”. Un sistema che, però, ormai non riscuote più molto successo: Taiwan ha recentemente deciso di liberarsene, sostituendoli con un sistema autoctono denominato Tien Kung e Israele ha dichiarato che quelli che gli rimangono sono ormai in pessime condizioni e non sono operativi, e che li sta sostituendo con i suoi Fionda di David. D’altronde l’HAWK è un sistema di difesa antiaerea semimobile che, nella sua versione originale, risale ormai agli anni ‘50; nel tempo sono stati implementate diverse migliorie, ma il grosso delle componenti sono “circuiti integrati di media scala che sono per lo più fuori produzione”: “è piuttosto improbabile” sottolinea Bryen “che una qualsiasi fonderia sia disposta a intervenire sulle sue linee per produrre una manciata di queste componenti, e quindi i computer, i componenti di guida, il sistema di controllo del fuoco, i radar e l’elettronica di bordo potrebbero avere i giorni contati”. E anche se riuscissero a risolvere questo collo di bottiglia, la reale efficacia, comunque, rimarrebbe opinabile: “Quanto sia efficace HAWK contro le minacce moderne” sottolinea infatti Bryen, “non è chiaro”; “Generalmente si ritiene che la capacità di uccisione di HAWK contro gli aerei sia superiore all’85% se lanciato in tandem (e, cioè, due missili per bersaglio)”, se il bersaglio è sufficientemente vicino, però. La gittata dei missili HAWK, infatti, non supera le 30 miglia; le bombe plananti – che vengono usate sempre di più dall’aviazione russa – partono da ben più lontano, ma ancora più dubbi ci sono sulla capacità del sistema HAWK di neutralizzare sciami di droni e missili balistici – per non parlare degli ipersonici. Insomma, “La conclusione” scrive Bryen, è che nonostante tutti i soldi e i quattrini di USA e alleati “ l’Ucraina non dispone più di difese aeree efficaci in grado di proteggere le infrastrutture critiche o fermare gli aerei russi sul campo di battaglia o nelle sue vicinanze, e senza difese aeree efficaci, la Russia domina lo spazio aereo dell’Ucraina”. E proprio grazie, in buona parte, al dominio dello spazio aereo, ribadisce Bloomberg, “Gli attacchi russi all’Ucraina alimentano la paura che l’esercito sia vicino al punto di rottura”: “Gli attacchi missilistici della Russia al sistema energetico ucraino, il bombardamento della sua seconda città più grande e l’avanzata sul fronte alimentano le preoccupazioni che lo sforzo militare di Kiev sia vicino al punto di rottura”, ricorda Bloomberg; “Una grave carenza di munizioni e manodopera lungo il fronte di 1.200 chilometri e le lacune nella difesa aerea mostrano che l’Ucraina è nel suo momento più fragile in oltre due anni di guerra” e “il rischio è un crollo delle difese ucraine, un evento che darebbe al Cremlino la possibilità di fare un grande passo avanti per la prima volta dalle fasi iniziali del conflitto”.
Nel condurre la sua guerra contro il resto del mondo per perpetuare un sistema globale fondato sul primato di una piccola tribù sul resto della popolazione mondiale, l’impero, quindi, si trova a combattere contemporaneamente da un lato con grandi potenze militari contro le quali sconta un importante deficit in termini di base industriale e, dall’altro, con attori in grado di sfruttare in vario modo i vantaggi asimmetrici (che così, a occhio, come minimo, è più che sufficiente per far venire qualche dubbio sul supposto strapotere dell’impero) e quando un servo comincia ad annusare che lo strapotere del suo padrone potrebbe non essere più così solido, inevitabilmente comincia a guardarsi intorno per capire se ci sono alcune alternative, soprattutto se è consapevole che, in un eventuale successo della rivolta degli schiavi, insieme al padrone ad essere decapitato sarebbe pure lui. Da questo punto di vista, la caduta dell’impero potrebbe anche essere accelerata dal collo di bottiglia in cui si è infilato a causa del suo continuo ricorso a dei proxy per portare avanti i suoi obiettivi strategici, come d’altronde è già successo in passato con l’islam radicale; idem ora col sionismo radicale, in particolare degli alleati più esplicitamente clericofascisti del governo Netanyahu: l’agenda politica dei Ben Gvir e degli Smotrich, infatti – come, d’altronde, quella dei banderisti più oltranzisti in Ucraina – sembra guidata, in buona parte, non solo da opportunismo e utilitarismo (che, con tutti i loro difetti, per lo meno sono atteggiamenti che spingono a confrontarsi sempre con la realtà materiale e i reali rapporti di forza esistenti), ma proprio da un fervore ideologico degno della peggiore feccia nazifascista alla quale, spesso, si ispirano esplicitamente.
Al contrario delle oligarchie USA che, per quanto deprecabili, hanno dimostrato di saper fare piuttosto bene il loro interesse e, quindi, di avere un’idea piuttosto precisa della realtà (altrimenti l’impero più vasto e potente della storia umana, di sicuro, non lo costruisci) questa feccia iperideologizzata vive in una realtà parallela e rischia di portare le oligarchie stesse a sbattere contro il muro – che sarebbe anche un ruolo oggettivamente positivo se non fosse che, nel farlo, hanno questo vizietto di sterminare una quantità spropositata di esseri umani e di portare l’intera umanità a un passo dall’autodistruzione definitiva anche senza nessuna utilità evidente; il problema, però, è che le oligarchie, per quanto possano anche realizzare lucidamente che i neonazisti di Azov – come i coloni millenaristi – facciano più danni della grandine, non possono sottrarsi dal sostenerli perché, comunque, la priorità strategica è impedire ai loro nemici (e, cioè, a qualsiasi paese che punti a indebolire l’unipolarismo USA per rafforzare la sua sovranità, accelerando la transizione verso un nuovo ordine multipolare) di ottenere qualche successo significativo. Ed ecco, così, come un genocidio e una pulizia etnica, anche se controproducenti per gli obiettivi strategici USA, alla fine si trasformano nella meno peggio delle opzioni.
In questo scenario inquietante la speranza, appunto, è che laddove vi siano dei margini di manovra, gli stati vassalli ne approfittino per prendere le distanze; purtroppo, però, al momento questa speranza appare spesso decisamente vana: nel caso di Israele, ad esempio, le forze europee effettivamente hanno fatto meno ostruzionismo degli USA per trovare una soluzione nell’ambito dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; ciononostante, però, per implementare le decisioni della Corte internazionale di giustizia, prima, e del consiglio di sicurezza, poi, non hanno mosso mezzo dito, mentre quando si è trattato di difendere lo stato genocida di Israele dalla legittima reazione iraniana – tutto sommato contenuta e fin troppo proporzionata – hanno ritrovato tutto lo smalto che sembravano aver perso e hanno messo in campo tutta la loro forza militare deterrente.
Da questo punto di vista, vorrei spezzare una lancia a favore del governo italiano, in particolare Antonio Tajani: tra i leader europei, infatti, così a occhio, è stato quello che ha espresso probabilmente la posizione più avanzata. Prima di tutto ha sottolineato il nesso diretto con l’attentato criminale all’ambasciata iraniana di Damasco, lasciando campo libero all’interpretazione di Teheran, prima, e di Mosca poi, che l’operazione militare iraniana sia stata del tutto legittima dal punto di vista del diritto internazionale. Ma poi è stato anche uno dei primissimi a esprimere pubblicamente e con parole chiare l’auspicio che Israele non risponda a questo attacco; probabilmente hanno pesato le forti relazioni commerciali che il nostro paese ha sempre intrattenuto con Teheran, dove eravamo in prima linea anche per le infrastrutture ferroviarie, un megabusiness al quale abbiamo rinunciato in ossequio alle politiche imperiali USA – un altro esempio eclatante delle ferite che gli sgarbi dell’arroganza imperiale hanno seminato a destra e manca e che, in una fase di declino, potrebbero riemergere in superficie con più forza e più rapidità di quanto sia oggi prevedibile.
Il dominio imperiale USA è il principale nemico dell’umanità; la storia, inevitabilmente, troverà il modo di presentare il conto. Scopo dell’informazione mainstream oggi è coprire, con ogni mezzo necessario, la realtà di questo processo storico devastante ed è per questo che abbiamo sempre più urgentemente bisogno di un vero e proprio media che, invece che fare da megafono alle follie della propaganda suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

Occupiamo e boicottiamo contro il genocidio: come studenti e docenti si stanno mobilitando contro gli accordi Italia – Israele.

Da mesi studenti e docenti si stanno mobilitando per protestare contro il massacro dei civili palestinesi e contro la cooperazione tra il nostro governo e quello israeliano. A febbraio Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) ha rinnovato un accordo per la collaborazione tra le istituzioni di ricerca italiane e israeliane che ha sollevato una ferma protesta dando vita a occupazioni e a una lettera aperta firmata da più di 2000 docenti.

Happycrazia: come la scienza della felicità ci fa assistere a un genocidio con ottimismo

Il genocidio in corso a Gaza per gli USA rappresenta un grattacapo di dimensioni cosmiche: da un lato il sostegno ad Israele, avamposto dell’imperialismo USA in Medio Oriente, è fuori discussione, come è fuori discussione la dipendenza di chiunque ambisca alla Casa Bianca dal sostegno della gigantesca e onnipresente lobby sionista statunitense; dall’altro, però, la guerra regionale che il genocidio rischia di far deflagrare è un lusso che gli USA, alla disperata ricerca di un modo per contenere manu militari l’inarrestabile ascesa cinese nel Pacifico, molto semplicemente non si possono permettere. Ma c’è anche dell’altro: da quando Israele ha definitivamente gettato la maschera sulla feroce natura suprematista e genocidiaria del suo regime coloniale, negli USA – e, in particolare, tra le giovani generazioni – si è fatta strada una vera e propria rivoluzione culturale di portata epica; per la prima volta nella storia del paese, la maggioranza della popolazione si è dichiarata favorevole alle istanze del popolo palestinese oppresso invece che a quelle del regime oppressore.

Rania Khalek

Un cambio di paradigma estremamente pericoloso per la tenuta stessa dell’egemonia dell’imperialismo USA, soprattutto dal momento che, all’opinione, è seguita anche la mobilitazione di dimensioni che non si vedevano dai tempi del Vietnam e un pezzo fondamentale di questa mobilitazione, è stata lei: si chiama Rania Khalek ed è uno dei volti di una delle più interessanti esperienze di controinformazione del web globale; si chiama BreakThrough News ed è la punta di diamante del variegato mondo dell’informazione antimperialista militante e, in particolare per noi di Ottolina Tv, una continua e inesauribile fonte di ispirazione anche perché, proprio come prevede il progetto di Ottolina, è molto di più di un canale Youtube. E’ il braccio mediatico di un movimento popolare che, giorno dopo giorno, sta guadagnando spazio nel cuore dell’impero: si chiama People’s forum e, come recita il loro sito, è “Un incubatore di movimento per la classe operaia e le comunità emarginate per costruire l’unità oltre le linee storiche di divisione in patria e all’estero”; con Rania abbiamo affrontato la tragedia del massacro in corso a Gaza e come, da quel massacro e dall’eroica resistenza del popolo palestinese non solo possiamo, ma dobbiamo trarre le energie necessarie per ricostruire un vero movimento antimperialista nell’Occidente collettivo che, al fianco dei popoli del Sud globale, metta fine a 5 secoli di feroce dominio della piccola tribù degli uomini bianchi sul resto del pianeta. Ma prima della voce di Rania, una piccola divagazione che, in realtà, ha molto a che vedere anche con la sua intervista perché mercoledì scorso le Nazioni Unite hanno pubblicato l’aggiornamento annuale dell’indice sulla felicità globale e Israele svetterebbe in quinta posizione su 143 paesi. Sterminare un intero popolo, a quanto pare, è fonte di felicità; com’è possibile?
Siete depressi per la crisi economica, i vari stermini di massa che ci circondano e per il pianeta che procede dritto verso l’autodistruzione? Beh, rimandate tutto a domani perché oggi si festeggia! Come tutti gli anni a partire dal 2012, infatti, oggi 20 marzo si festeggia nientepopodimeno che la giornata internazionale della Felicità che non è più un’ambizione e tantomeno un diritto, ma un vero e proprio dovere; benvenuti nell’era dell’HappyCrazia dove, se sei triste, sotto sotto – necessariamente – sei anche un po’ stronzo e, alla fine del giro, te la sei cercata: è questa, in estrema sintesi, la tesi di fondo della cosiddetta scienza della felicità e, cioè, la scienza che dovrebbe consentire a ogni individuo “di individuare e rafforzare i tratti positivi che già possiede in termini di serenità, ottimismo e progettualità, al fine di vivere sempre ai massimi livelli del proprio potenziale di benessere”; sono le parole usate direttamente da Martin Seligman, autore di testi dai titoli accattivanti come Imparare l’ottimismo, Come crescere un bambino ottimista, La costruzione della felicità. La cosa grave, però, è che non ci troviamo semplicemente di fronte a uno degli innumerevoli imbonitori da strapazzo che si fanno d’oro grazie al fiorente e delirante mercato delle vaccate motivazionali; Seligman, infatti, è stato a lungo nientepopodimeno che il presidente dell’American Psychological Association che, con la bellezza di 117500 membri, è l’associazione di psicologi più importante dell’intero Occidente collettivo e che detta la linea a tutti gli altri, una la linea che dal suo famoso discorso del 1998 è piuttosto chiara: gli sforzi degli psicologi non si devono più indirizzare alla cura della patologie mentali, ma a rendere la vita di tutti più appagante e, soprattutto, più produttiva – e non c’è al mondo persona più produttiva di una persona felice. Da lì in poi, per le masse teleguidate è stata tutta un’escalation di rinforzi positivi: “Se vuoi puoi”, “Se puoi sognarlo, puoi farlo” e via cianciando; la felicità, insomma, è qualcosa che è sempre a portata di mano e se non sei in grado di comprenderla e di afferrarla, nella migliore delle ipotesi è perché sei un po’ choosy e non ti impegni abbastanza; nella peggiore, appunto, sei proprio stronzo, una retorica che fa il paio con la fama che, negli ultimi anni, si è guadagnato il concetto di resilienza.

Il trait d’union è piuttosto evidente: ti girano i coglioni perché fai un lavoro di merda e le relazioni sociali – in un mondo distopico fondato sull’iperindividualismo e la mercificazione di qualsiasi ambito vitale – ti mandano in paranoia? Ma fottitene! Coltiva il tuo orticello e pensa al successo e alla salute; un’ideologia che – scrivono Edgar Cabanas e Eva Ilouz nel loro Happycracy, come la scienza della felicità controlla le nostre vite – permette “di scaricare sulle spalle dei dipendenti i problemi legati all’instabilità del mercato, alla scarsità delle prospettive d’impiego, all’inefficacia strutturale del sistema e alla concorrenza”. Ma la scienza della felicità non si limita a tentare di convincerci che il mondo è bello com’è e che se, non ci piace, è solo perché siamo degli inguaribili frignoni; va ben oltre: “Le ricerche sulle banche dati” dei paladini del giustificazionismo delle ingiustizie e delle diseguaglianze, sottolineano infatti Cabanas e Ilouz, arriverebbero a dimostrare addirittura che “la disparità economica e la concentrazione del capitale hanno un rapporto positivo con la felicità” e che “più le diseguaglianze sono marcate e più gli individui sono contenti perché vedono maggiori opportunità per se stessi”. Insomma: un potentissimo apparato ideologico teso a fornire alle più feroci politiche neoliberiste nientepopodimeno che un fondamento scientifico basato sulle caratteristiche intrinseche dell’essere umano stesso; “Sotto la veste del positivismo” sottolineano, infatti, i due autori “lo studio scientifico della felicità umana ha trasformato questa nozione in un potente strumento ideologico, che sottolinea la responsabilità individuale per il proprio destino e veicola valori fortemente individualisti, camuffandoli da teorie psicologiche ed economiche”. Grazie a questa fuffa scientista, così, l’equa redistribuzione dei redditi, una sanità efficiente e alla portata di tutti e, in generale, i pilastri dello stato sociale diventano magicamente contrari agli interessi stessi di chi si vorrebbe difendere, un approccio profondamente reazionario che ormai permea completamente la psicologia collettiva e che si traduce in un concetto molto semplice e molto comodo per le élite al potere: a cambiare devono essere le persone, non la società.
Contrariamente al senso comune di noi residuati bellici del ‘900, la felicità non è più un obiettivo da perseguire una volta che sono state soddisfatte le condizioni basilari di serenità e sicurezza economica, ma, al contrario, diventa un prerequisito per il raggiungimento delle stesse; a incarnare al meglio i valori fondanti di questa ideologia distopica, ovviamente, non possono che essere gli imprenditori: “Resiliente, strategico, autonomo, temerario e motivato” sottolineano Cabanas e Ilouz, “l’imprenditore viene visto come il motore del cambiamento sociale e del progresso economico: il cittadino neoliberista per eccellenza”. In questa ottica, il perseguimento della felicità diventa l’unico imperativo morale possibile immaginabile: essere felice è un dovere e qualsiasi azione compiuta per raggiungere la felicità è non solo giustificata, ma dovuta; “Seligman” ricordano i nostri due autori “afferma che qualsiasi azione derivata dall’espressione delle proprie qualità individuali è per forza felice, e poco importa se si sta parlando di un sadomasochista che che gode ad ammazzare le persone […], o di un killer che trae enorme gratificazione nel pedinare e poi trucidare le sue vittime […]”. Ed ecco, così, come si spiega il quinto posto nella classifica mondiale della felicità per un paese che sta commettendo il più grande massacro del XXI secolo e anche perché, alla fine, questo dato sconvolgente non ha fatto notizia: se gli piace, chi siamo noi per dirgli di darsi una regolata?

Dimitri d’Andrea

Se volete approfondire il tema, l’appuntamento è per stasera mercoledì 20 marzo alle 21 con la nuova puntata di Ottosofia: a guidarci nei meandri della scienza della felicità ci penserà Dimitri d’Andrea, docente di filosofia politica all’Università di Firenze; nel frattempo, ecco in esclusiva per il pubblico di Ottolina Tv Rania Khalek, la regina dell’informazione antimperialista globale. Disgustati e sconvolti dal comportamento di Israele a Gaza e dal fatto che il proprio paese stia attivamente supportando e contribuendo al primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità, molti cittadini statunitensi – in particolare i più giovani e gli appartenenti alle minoranze, sostiene Rania Khaelk – stanno cominciando ad aprire gli occhi: mai si erano visti nella storia USA così tanti giovani partecipare a organizzazioni e manifestazioni pro Palestina e mai il partito democratico era stato così tanto in imbarazzo con il proprio elettorato per questioni di politica estera. E non solo: questi movimenti dal basso stanno diffondendo, forse per la prima volta dalla guerra nel Vietnam, anche idee e correnti di pensiero smaccatamente anti – imperialiste e anti – suprematiste, quando addirittura non dichiaratamente socialiste, che cominciano a esercitare un’influenza sempre crescente sulle nuove generazioni e aprono finalmente uno spazio concreto per una svolta storica nella sinistra americana che, fino ad oggi, non si era mai riuscita ad emancipare dall’eccezionalismo suprematista americano. L’esempio di Rania e di BreakThrough ci insegna che per dare basi solide a questo cambio di paradigma, prima di tutto serve lavorare giorno e notte alla costruzione di un vero e proprio media che dia voce al 99% – negli USA come in Italia – e per farlo, proprio come BreakThrough negli USA, abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.


E chi non aderisce è Giuliano Ferrara

P.S.: L’intervista a Rania che avete visto è un estratto dell’intervista che trovate in forma integrale sul nostro canale Youtube in lingua inglese.

DENTRO L’INFERNO DI RAFAH: racconto di un viaggio nel cuore del genocidio – ft. Triestino Mariniello

Niente sembra riuscire a far desistere il genocida in capo Benjamin Netanyahu dall’Idea di radere al suolo definitivamente Rafah senza nemmeno offrire alla popolazione una via di fuga realistica. Triestino Mariniello, professore di legge alla John Moores University di Liverpool e vecchia conoscenza di Ottolina, si è recato al valico di Rafah con una delegazione di politici, giornalisti e operatori umanitari italiani. E quello a cui è stato costretto ad assistere va al di là della nostra capacità di comprendere.

[OTTOSOFIA] CONTRO MANGANELLI E GENOCIDIO – ospiti rappresentanti degli studenti | LIVE 6 marzo 2024 ore 21

Stasera puntata supermegaspeciale per Ottosofia: in studio con noi, i ragazzi presi a randellate una decina di giorni fa a Pisa perché colpevoli di non essere particolarmente felici di assistere al proprio paese che collabora allegramente con il più grande massacro di civili del XXI secolo; gli stessi che, ancora pieni di lividi, hanno trasformato nell’arco di poche ore un’azione repressiva vergognosa in un’opportunità per rilanciare la stessa identica protesta, ma moltiplicata per 20. Nella piazza che la mattina era stata proibita a suon di mazzate a 200 ragazzi, dopo poche ore ce n’erano 5000 e così, in una botta sola, hanno umiliato l’apparato repressivo del governo dei fascioliberisti e anche la sinistra delle ZTL che stava cercando di strumentalizzare il tutto per lanciare un appello inquietante: – manganelli + genocidio.
Da allora, la mobilitazione non s’è più fermata: sabato scorso, per l’ennesima volta, Pisa è stata attraversata da una manifestazione oceanica che all’unisono intonava From the river to the sea, Palestine will be free e a guidare il corteo c’erano loro, centinaia e centinaia di supergiovani da tutta la provincia che con la ferocia coloniale di destra e sinistra non vogliono più avere niente a che fare, e che sono in grado di imporre la loro agenda. Stasera vediamo se ci insegnano come si fa anche a noi matusa.

Droni Houthi sulle navi italiane: per sostenere il MASSACRO INFINITO la Meloni rischia l’ESCALATION

Così ho colpito il drone titolava a tutta pagina lunedì scorso Il Corriere della serva: “Il drone a 4 miglia, dovevo decidere. Poi ho pensato ai miei.” L’entusiasmo patriottico col quale i media italiani hanno accolto il battesimo di fuoco della nostra marina militare nello stretto di Bab el-Mandeb ha sinceramente qualcosa di profondamente commovente: “Eravamo in pattugliamento vicino alle coste yemenite” ha raccontato il capitano di vascello Andrea Quondamatteo “quando a un tratto è arrivato un eco radar sconosciuto. Un profilo in movimento, a bassa quota e in rapido avvicinamento minaccioso: un missile? Un aereo?”; ma no Andre’, è Supergiovane con la sua vespa schioppettante. Ed ecco così che – prima di rimanere abbrustolito dalle fiamme della petomarmitta – il nostro Quondamatteo si vede passare davanti agli occhi in un attimo tutta la sua vita: “Ho pensato a mio papà e a mia mamma Fiorella che non c’è più. Lei per anni ha fatto da madre e da padre a me e mio fratello, perché a casa i comandanti non ci sono quasi mai” e “così ho preso la decisione. Dovevo difendere la mia nave e il mio equipaggio e ho dato il comando all’operatore del radar di tiro: il cannone di prora dritta ha sparato 6 colpi, e dopo pochi secondi l’apprezzamento ottico ci ha confermato l’abbattimento”. Il giornalista allora rilancia: “Anche i social ieri sono impazziti, e c’è chi ha paragonato la Duilio addirittura a Mosè, capace di aprire le acque del mar Rosso”, ma il nostro eroico capitano rimane umile: “Esagerati” ammonisce. Insomma, abbastanza: a leggere i giornali sembra quasi che abbiamo abbattuto uno Zircon o qualche altro arnese ipersonico; abbiamo abbattuto un drone da qualche migliaia di euro. Figuratevi quanto ci maciulleranno le gonadi se mai dovessimo affrontare qualche pericolo concreto: ci farebbero rimpiangere tempo zero la melassa delle interviste alle finaliste di miss Italia; è un motivo sufficiente per diventare pacifisti solo quello. Un incubo!

Supergiovane

D’altronde, per come stiamo messi – visti i precedenti – un po’ di enfasi tutto sommato è anche giustificata; pochi giorni prima, il 27 febbraio, il battesimo di fuoco infatti era toccato a un’altra imbarcazione coinvolta nell’operazione Aspides: è la fregata tedesca Hessen che, di droni, ne ha abbattuti due ad appena 20 minuti l’uno dall’altro. Era la prima volta in quell’area per una nave tedesca – la prima giusta, diciamo; la sera prima, infatti, la Hessen s’era un po’ confusa e aveva aperto il fuoco contro un altro drone, ma non era andata benissimo: erano stati lanciati due missili Standard SM-2 che, però, “non hanno funzionato”, come ha ammesso lo stesso portavoce del ministero della difesa tedesco Michael Stempfle. Paradossalmente, è andata di lusso così; il drone in questione, infatti, questa volta non era dei terroristi che si oppongono al genocidio, ma degli alleati democratici che lo sostengono: un Reaper MQ-9 americano che aveva il trasponder per l’identificazione spento perché impegnato in un’operazione antiterrorismo, lo stesso MQ-9 che “quei dementi degli Houthi” – come li ha definiti Guido Olimpo, grande firma del giornalismo italiano (che l’ultima volta che n’ha azzeccata una c’era ancora non dico la lira, ma i sesterzi) – invece hanno tirato giù con una certa disinvoltura e non una, ma ben due volte. “Entrambi i missili Standard SM-2” riporta Analisi Difesa, avrebbero “rivelato difetti tecnici durante l’impiego, elemento” sottolinea il direttore Gianandrea Gaiani “che apre inquietanti interrogativi circa l’efficienza dei sistemi di difesa navale tedeschi contro le minacce aeree”, e fino ad ora era andata di lusso perché, anche se difettosi, almeno i missili c’erano: “Abbiamo scoperto solo ora che una parte delle munizioni della fregata Hessen non può più essere acquistata perché non c’è più la capacità industriale corrispondente” ha affermato Florian Hahn, portavoce per la politica di difesa del gruppo parlamentare CDU/CSU all’opposizione; “Quindi, quando le scorte saranno esaurite, la Marina non potrà più rifornirle e dovrà ritirare la fregata. Il Parlamento ha approvato la missione nel mar Rosso senza sapere che c’era ovviamente un problema di munizioni″.
L’asse della resistenza non poteva chiedere di meglio: con decine e decine di attacchi con droni da poche migliaia di euro, la strategia di Ansar Allah è infatti sempre stata, molto semplicemente, quella di imporre al sostegno al genocidio dell’Occidente collettivo il più alto costo possibile; “Da ottobre” ricorda sempre Gaiani “la sola US Navy ha lanciato circa 100 missili terra – aria Standard SM-3 contro missili e droni Houthi”. Se a questi ci aggiungi anche i missili lanciati a cazzo contro bersagli amici in incognita, prima di Pasqua capace si fa festa; d’altronde, gli errori tedeschi erano abbastanza prevedibili e non solo per il materiale scadente: a corto di uomini, i marinai tedeschi vengono mandati sempre più spesso in missione e “oltre 230 giorni in mare in un anno” ha denunciato l’ammiraglio Axel Schulz “non sono rari”. A complicare il quadro, appunto, c’è la sovrapposizione delle missioni anglo – americane ed europea: “Come già accaduto in Afghanistan” sottolinea ancora Gaiani “gli Stati Uniti operano unilateralmente in un’area operativa in cui agiscono anche forze alleate complicando così il coordinamento e lo scambio di informazioni”; tutte queste criticità messe insieme, continua Gaiani, “rischiano di mettere in forse la sostenibilità nel tempo della missione nel mar Rosso” soprattutto dal momento che, nonostante – come annunciato con enfasi dal vice segretario aggiunto alla Difesa americano per gli affari in Medio Oriente Daniel Shapiro – le forze statunitensi ad oggi avrebbero colpito la bellezza di 230 obiettivi in Yemen, le potenzialità offensive di Ansar Allah “non sembrano essere state scalfite in modo significativo”. “Il bellicismo ostentato nelle dichiarazioni dei leader europei” conclude Gaiani “cozza con la cruda realtà delle risibili capacità belliche, e impone di chiedersi perché un’Europa disarmata punti su soluzioni muscolari alle crisi in atto invece di mettere in campo robuste iniziative diplomatiche”, sopratutto alla luce del fatto che i droni yemeniti ce li siamo proprio andati a cercare: le nostre fregate, infatti, sono in zona da tempo, ma in anni e anni di pattugliamento non erano mai state prese di mira e i guai sono iniziati tutti con l’annuncio della missione Aspides e del suo rapporto abbastanza ambiguo con quella dichiaratamente offensiva degli angloamericani; l’unica speranza sarebbe riuscire a garantire, in modo credibile, che si tratti davvero di missioni rigorosamente esclusivamente difensive, che niente hanno a che spartire con l’atto di forza della Prosperity Guardian. Ma non solo: bisognerebbe anche garantire che in nessun modo la missione servirà a sostenere il genocidio in corso e che si occuperà esclusivamente di proteggere imbarcazioni commerciali da e per i porti dell’Unione Europea. Insomma: esattamente il contrario di quello che ostentano quegli scappati di casa che ci ritroviamo al governo e la propaganda cialtrona che li sostiene.

Giuseppe de Vergottini

“Colpire basi a terra? La legge non lo esclude”: l’organo ufficiale dei fascioliberisti decerebrati italiani che è Libero, anche a ‘sto giro fa di tutto per andare contro agli interessi nazionali. Questa volta a fare per accelerare il declino della bagnarola italiana ci si mette il sempre pessimo Giuseppe De Vergottini, il giudice costituzionale che odia la Costituzione: erede di una famiglia istriana nobile, prima, e orgogliosamente fascista poi (compreso uno zio podestà), Giuseppe – oggi presidente di FederEsuli – da sempre si batte contro l’assunzione di responsabilità del nostro paese per i crimini contro l’umanità commessi nella ex Jugoslavia e all’idea di una nuova avventura bellica, nonostante ormai sulla soglia dei 90 anni, gli si continuano a illuminare gli occhi. “Le navi italiane potranno intercettare i missili e i droni degli Houti, ma non colpire le basi di terra da cui partono. Non è un limite che può rivelarsi pericoloso?” lo imbocca il giornalista: “La missione è qualificata come difensiva” risponde De Vergottini, e “quindi reazione ad attacchi. Ma” sottolinea “esiste una legittima possibilità di reazione anticipata nell’immediatezza di attacchi da parte dei gruppi terroristici” dove, da tradizione, per gruppi terroristici si intende ovviamente chiunque si azzardi ad opporsi a un genocidio; “Spetterà a chi ha la responsabilità di comando decidere se colpire la base di partenza dell’attacco” conclude De Vergottini “in modo da evitare di diventare sicuro bersaglio degli attaccanti”. D’altronde, ora che abbiamo dimostrato che possiamo tirare giù addirittura un drone da qualche migliaia di euro, e chi ci ferma più?
Di fronte al massacro degli affamati di giovedì scorso a Gaza, Davide Frattini sul Corriere della serva di venerdì ci invitava a non correre troppo a ricostruzioni avventate: d’altronde, ricordava, “I portavoce dell’esercito dicono che le truppe hanno sparato solo colpi d’avvertimento, per disperdere la folla”; se poi questi subumani morti di fame sono così coglioni che si mettono a correre e si calpestano, noi che ci possiamo fare? Siamo superiori, è vero, ma per i miracoli non siamo ancora attrezzati. La patetica linea difensiva del regime genocida di Israele è diventata immediatamente e automaticamente la linea ufficiale di tutti i principali media italiani: il Corriere della serva i morti li cancella tout court e parla di “una folla di palestinesi” che, come succede sempre quando hai a che fare con dei subumani privi di ogni forma di civiltà, “assalta i camion degli aiuti umanitari”. Libero, ovviamente, non può non rilanciare: Israele: – titola – stavano sparando ai nostri soldati. La Stampa: Folla fuori controllo, costretti a sparare. La maggior parte delle vittime calpestate; come abbiamo scritto in un post venerdì mattina, nel prossimo episodio… Auschwitz: la folla si accalcava per fare la doccia. Costretti ad aprire il gas“. Secondo La Repubblica, invece, sono stati “solo colpi di avvertimento, è stato un incidente”.
Ovviamente di accidentale, nella strage, c’è decisamente poco; in primo luogo, di default, per le responsabilità oggettive: la prima è che se vi siete finora scandalizzati per i 30 mila civili massacrati dalle bombe, aspettate di vedere le conseguenze della fame imposta a tutto il resto della popolazione. Come ricordava ieri Richard Brennan, direttore regionale dell’OMS, su Il Manifesto, infatti, “prima del conflitto entravano 500 camion di aiuti al giorno. Ora, un centinaio” dai quali gli israeliani, scientificamente, sottraggono il più e il meglio: la CNN, ad esempio, ha revisionato i documenti degli operatori umanitari che elencano i beni più frequentemente bloccati dagli israeliani e “questi includono anestetici e macchine per anestesia, bombole di ossigeno, ventilatori, sistemi di filtraggio dell’acqua, medicinali per curare il cancro e pastiglie per purificare l’acqua”. Risultato – sottolinea Brennan -: “Tra traumi non curati, malattie e trattamenti per condizioni croniche non ricevuti, proiezioni della Johns Hopkins University e della London School of Hygiene and Tropical Medicine parlano di 85mila morti possibili nei prossimi sei mesi”. Particolarmente critica la situazione proprio a nord, il teatro della strage: come sottolineava, sempre su Il Manifesto, Andrea de Domenico del coordinamento umanitario dell’ONU, infatti, “Dal 18 febbraio le Nazioni Unite non sono più riuscite a effettuare alcuna operazione di assistenza al nord di Gaza. La gente ha cominciato a mangiare cibo che normalmente viene dato agli animali. Un sacco di farina che prima della guerra costava circa 10 euro ora al nord ne costa circa 500”; in questa situazione, per gli aiuti umanitari esistono appena “un paio di strade dove far arrivare i convogli. La gente perciò” continua de Domenico “sa benissimo da dove giungono i camion e le persone, disperate, senza più nulla, li vedono arrivare, corrono verso di loro per prendere ciò che possono, correndo rischi incredibili”. A questo giro in particolare, ricostruisce una testimonianza raccolta da Michele Giorgio sempre su Il Manifesto, contro i suggerimenti degli operatori umanitari che chiedevano arrivi più scaglionati, gli israeliani “hanno fatto arrivare un convoglio molto lungo, di circa 30 camion. La coda del convoglio così si è ritrovata a poca distanza dal blocco militare, e quando la folla s’è avvicinata agli ultimi autocarri per prendere gli aiuti, i soldati hanno fatto fuoco” e non certo per aria o, almeno, non solo: come racconta il dottor Jadallah al Shafi che, da poco, è riuscito a rimettere in funzione tre sale operatorie nell’ospedale di Shifa (chiuso a novembre perché assalito dall’IDF) “Abbiamo ricevuto persone che erano state colpite da proiettili, talvolta in più parti del corpo, alla testa, al torace e alle gambe”.
Di fronte a questo massacro, l’Occidente collettivo ha giocato un pochino allo sbirro buono perché, per esercitare il tuo diritto alla difesa, puoi sterminare tutti i bambini che vuoi, ma almeno un piccolo sforzo per distribuirli e camuffarli un po’ lo devi fare, che sennò ci fai sfigurare; massacrare la gente affamata in fila per un pugno di farina, infatti, da un paio di settimane in realtà è diventato uno sport nazionale: come scrive il mitico blog Moon of Alabama “In passato avevo scritto che le forze di occupazione sioniste inviano cibo nel nord della Striscia di Gaza per poi uccidere i palestinesi affamati che cercano di raccoglierlo. Alcuni lettori mi hanno detto che si trattava di un’affermazione un po’ troppo forte. Non lo era. E’ esattamente quello che sta succedendo giorno dopo giorno”. Qualche esempio? “18 febbraio: Un abitante di Gaza affamato colpito alla testa dall’IDF in via Rasheed mentre veniva in cerca di cibo”; “22 febbraio: L’ospedale Al-Shifa accoglie diversi abitanti di Gaza feriti o uccisi dall’IDF in via Rasheed mentre cercavano disperatamente del cibo”; “23 febbraio: Un cittadino di Gaza affamato va con il fratello minore in cerca di cibo in Rasheed Street e ritorna con suo fratello in una borsa sulla schiena, colpito dall’IDF”; “24 febbraio: la Mezzaluna Rossa recupera i corpi di due abitanti di Gaza uccisi dai soldati dell’IDF in via Rasheed mentre cercavano disperatamente cibo”e così via. “Questo” conclude Moon of Alabama “è quello che accade praticamente ogni giorno da settimane nel nord di Gaza”; ecco, così si che va bene: un giorno uno, il giorno dopo altri due, poi magari – quando è festa – una decina, ma 120 in una botta sola è troppo. Si vedono anche dal satellite. Gli sbirri buoni, allora, provano a riconquistare un po’ di credibilità; addirittura Frattini s’è un po’ indignato e ha accusato gli alleati più fanatici del governo dell’unica democrazia del Medio Oriente di progettare “di ricostruire gli insediamenti ebraici nella striscia”: addirittura, sottolinea, “Hanno già disegnato la mappa: il villaggio Vita Coraggiosa sorge davanti al mare e sul manifesto è un punto verde, mentre Sha’arei è blu e sta dalle parti di Khan Younis, dove l’esercito combatte le battaglie più intense degli ultimi mesi, e da dove gli abitanti sono stati sfollati ancora una volta, pigiati verso il Mediterraneo, pigiati verso la mancanza di fuga e di speranza”. Pure poeta. Ora, questa carta – sottolinea Frattini – “potrebbe essere ri – arrotolata come il vaneggiare di esaltazioni messianiche. Se non fosse” però, conclude, “che ieri quell’ebbrezza è diventata disordine reale, con almeno cinquecento coloni a premere sul posto di blocco piazzato dall’esercito fino a sfondarlo e a entrare nella Striscia”. Capito? Mentre l’IDF sparava sulla folla affamata, 500 simpatici coloni sfondavano i posti di blocco delle forze dell’ordine ed entravano a Gaza per rivendicarne la proprietà, ma a loro non sparava nessuno. Manco una manganellatina: quelle, nelle vere democrazie, si conservano per i ragazzini di 16 anni che il genocidio, invece di invocarlo, lo denunciano.
Nel giardino ordinato, infatti, si sta verificando questo fenomeno strano: i giovanissimi, nonostante siano stati addestrati all’insegna del rincoglionimento scientifico di massa, non si capisce per quale strana ragione sembra non apprezzino particolarmente l’idea di vedere massacrati i loro simili manco fossero dei topi di laboratorio; secondo un sondaggio di Gallup pubblicato lunedì scorso, infatti, negli USA tra la popolazione di età compresa tra i 18 e i 34 anni ha un’opinione favorevole su Israele il 38% della popolazione. L’anno scorso era il 64: tutti voti ai quali Biden non può rinunciare, ed ecco – allora – che si comincia a smuovere qualcosina: ieri Benny Gantz si è recato a Washington e, a quanto pare, senza l’autorizzazione di Netanyahu, che si sarebbe leggermente indispettito. Per le cancellerie suprematiste dell’Occidente collettivo, è il volto presentabile del genocidio; Benny Gantz, infatti, è stato a lungo l’anti Netanyahu, ma dopo aver guidato l’opposizione, quando – dopo l’operazione diluvio di Al Aqsa – in Israele, per favorire la soluzione finale, si è optato per un governo di unità nazionale, ha aderito senza tentennamenti: come annunciava entusiasticamente Il Foglio, “Aveva l’obiettivo di rovesciare il premier, ma si è reso contro che Israele ha bisogno della sua competenza”. D’altronde, per portare avanti il più grande massacro di civili del XXI secolo di competenza ce ne vuole parecchia.

Benny Gantz

Nel frattempo, però, è arrivata anche la crisi degli ostaggi e anche una catastrofica crisi economica: per l’ultimo quadrimestre del 2023, gli analisti consultati da Bloomberg avevano previsto un calo del PIL annualizzato di circa il 10%; è stato del doppio, 19,4. I consumi privati sono crollati del 27%, gli investimenti, addirittura, del 70 e non è che si veda chiaramente una via d’uscita: come riporta il Wall Street Journal “All’interno delle forze armate, dai comandanti ai soldati semplici, sono sempre di più quelli che temono che le vittorie tattiche ottenute sul campo di battaglia non porteranno a una vittoria strategica duratura. Dopo quasi 5 mesi di combattimenti intensi” continua l’articolo “Israele è ancora ben lontano dall’obiettivo dichiarato dell’eliminazione di Hamas come entità politica e militare di un qualche rilievo”; “Combattere il nemico è come giocare ad acchiappa la talpa”, avrebbe affermato un riservista israeliano della 98esima divisione di stanza a Khan Younis al WSJ. “Molti soldati lamentano l’assenza di un vero piano e si domandano a cosa servano i loro sacrifici. Distruggere Hamas sarà incredibilmente complicato”. Il Journal sottolinea inoltre come, molto probabilmente, i militanti di Hamas caduti durante il conflitto sono molti meno di quelli dichiarati da Israele e che, nel frattempo, altrettanto probabilmente Hamas ha reclutato nuovi combattenti, col rischio che il bilancio sia addirittura in positivo; vista la malaparata, come riporta il canale ebraico Channel 14, “Un gran numero di ufficiali hanno recentemente annunciato il loro ritiro dall’unità responsabile del sistema informativo militare”. La situazione sarebbe così critica da spingere il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant a chiedere la fine del regime di esenzione dalla leva militare per le comunità ultra ortodosse: “L’esercito ha bisogno di manodopera adesso” ha affermato domenica scorsa; “Non è una questione di politica, è una questione di matematica”, e anche questa non è esattamente una posizione che rafforza il consenso verso il governo. Netanyahu, allora, ogni giorno di più vede la sua sopravvivenza politica legata alla continuazione della guerra, anche a costo di allargarla.
A partire dal Libano: citando alcuni funzionari USA, la CNN avrebbe rivelato come l’amministrazione Biden, ormai, ritenga “probabile che Israele lanci un’operazione di terra nel sud del Libano questa primavera”; La guerra tra Israele ed Hezbollah sta diventando inevitabile titolava la settimana scorsa Foreign Policy. Intanto, per non farsi mancare niente, lunedì l’esercito è entrato nel campo Al-Amari di Ramallah, in quella che fonti citate da Reuters hanno definito la “più grande incursione nella città degli ultimi anni” e il leader di Hamas in Libano, Osama Hamdan, ha invitato i palestinesi a “trasformare in uno scontro ogni momento” del mese di Ramadan che inizia domenica prossima. Per scongiurare un’ulteriore escalation, al Cairo gli USA mettono sul tavolo delle trattative un cessate il fuoco di 6 settimane che copra tutto il mese del Ramadan e ponga magari le basi per la fine di questa fase del conflitto, ma Israele manco si presenta ed è difficile pensare che Benny Gantz possa rappresentare una vera alternativa a queste posizioni: come ricorda Sputnik, infatti, è stato proprio Benny Gantz lo scorso fine settimana, alla conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane, a ribadire che “Il mondo deve sapere, e i leader di Hamas devono sapere, che se entro il Ramadan gli ostaggi non saranno a casa, allora i combattimenti continueranno, anche a Rafah” e ciononostante, come sottolinea il giornale antimperialista libanese Al Akhbar, “Le munizioni, i mezzi di combattimento e il supporto militare USA rimangono illimitati. E l’America vuole quello che vuole Netanyahu, anche se vorrebbe ottenerlo con modalità leggermente diverse. Ma non vuole, e non è nel suo interesse, esercitare nessuna pressione reale che limiti la capacità di Israele di condurre il suo massacro”. Come suggerivamo in un video di qualche mese fa, c’è poco da girarci attorno: nell’era del declino inesorabile dell’egemonia dell’impero, il genocidio è il new normal e la consapevolezza, ormai, è piuttosto diffusa: anche questo weekend, oltre 100 piazze sparse su tutto il pianeta hanno risposto in massa all’appello “Giù le mani da Rafah”, una mobilitazione globale continua che non si vedeva da decenni; peccato che sui principali media del mondo democratico non se ne sia vista traccia.
In mezzo alle sofferenze più atroci, dai giovani dell’Occidente collettivo alle piazze del Sud globale, il mondo nuovo avanza, ma non saranno i vecchi media a raccontarvelo: ce ne serve uno tutto nuovo che, invece che del gossip del teatrino della politica, si occupi del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

Come la propaganda sta cercando di uccidere Aaron Bushnell per la seconda volta

Sarà che mi sto facendo un po’ anzianotto, ma questa volta mi gira il cazzo sul serio e, secondo me, ti dovrebbe girare anche a te – e anche parecchio; ieri, infatti, i nostri giornali hanno letteralmente ammazzato Aaron Bushnell una seconda volta: Aaron Bushnell è l’aviatore statunitense che martedì è morto dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington mentre gridava a squarciagola free Palestine. Prima del gesto drammatico aveva pubblicato un breve messaggio sulla sua pagina Facebook, che non usava praticamente mai: “Molti di noi amano chiedersi Cosa farei se fossi vissuto durante la schiavitù? O quando sono state introdotte le leggi Jim Crow negli Stati del Sud (e cioè le leggi che ufficializzavano la segregazione razziale)? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio? La risposta è proprio quello che stai facendo. Proprio adesso.” E questo è l’inizio del video straziante che riprende l’episodio, pubblicato in diretta da Aaron stesso: ” non sarò più complice di questo genocidio. Sono un membro delle forze aeree statunitensi in servizio attivo e sto mettendo in scena un atto di protesta estremo, ma che rispetto a cosa stanno subendo in Palestina per mano dei colonizzatori, non dovrebbe essere visto per niente come estremo. E’ solo quello che le nostre classi dirigenti hanno deciso dovesse diventare la normalità”.
Ovviamente il gesto eclatante di Aaron è diventato immediatamente virale: dopo poche ore, negli Stati Uniti, ad esempio, su X era di gran lunga in testa ai trending topics con la bellezza di 814 mila post; in un mondo normale, la mattina dopo avrebbe riempito le prime pagine di tutti i giornali – e quando dico un mondo normale non intendo il mio mondo ideale, ma proprio quello che ci spacciano per il mondo reale dove, a guidare tutto, sarebbe questa fantomatica mano invisibile del mercato e l’informazione sarebbe una merce come le altre (che poi, intendiamoci, quando in ballo ci sono i Ferragnez o la Champions league, è davvero così). Ma – si vede – non vale sempre: quando ieri mattina, infatti, mi sono messo a spulciare i giornali, c’era qualcosa che non mi tornava. Come sempre sono partito dai giornali filogovernativi, che sono il vero mainstream italiano di oggi; prima Il Giornale, ma niente: in tutto il pdf il nome di Aaron Bushnell non viene citato manco una volta. Libero idem. Vabbe’, almeno su La Verità qualcosa ci sarà scritto: non è il giornale contro i poteri forti? Macché: anche qui nada. Stai a vedere che ha ragione la sinistra ZTL quando dice che questi sono pericolosi e che bisogna affidarsi a Carletto libro cuore Calenda e al PD per arrestare l’ondata nera; i giornali dell’opposizione, allora, approfitteranno della ghiotta occasione! Macché: Corriere niente, Stampa idem, Repubblica uguale e pure Il Domani; credo sia la prima volta nella storia del giornalismo ai tempi dei social media che la notizia di gran lunga più virale della giornata, il giorno dopo non è nemmeno citata in nessuno dei principali giornali italiani.
D’altronde, per tentare di far dimenticare il sostegno incondizionato dell’Occidente collettivo al primo genocidio trasmesso in diretta streaming, il livello di censura e disinformazione unitaria del partito unico della guerra e degli affari deve necessariamente toccare vette inesplorate e, così facendo, i nostri media hanno ammazzato Aaron Bushnell per la seconda volta: non solo di fronte alla cappa della propaganda ti senti così disperato da ricorrere al più drammatico dei gesti possibili immaginabili, ma – anche in quel caso – la cappa è talmente fitta e impenetrabile che faremo di tutto perché il gesto sia completamente vano. Sarebbe il caso di provare a impedirglielo e, magari, fare in modo che gli si ritorca pure contro: facciamo in modo che questa immagine diventi il peggiore dei loro incubi; postiamola, ripostiamola, condividiamola, mandiamola ovunque ora dopo ora, giorno dopo giorno, fino a che non rompiamo questa cappa per non permettere che il suo sacrificio estremo sia vano. Con questo video, come Ottolina Tv cerchiamo di dare i nostri cinquanta centesimi.

Aaron Bushnell

Prima di sparire completamente in tempo record dai radar dei grandi media, la tragica vicenda di Aaron Bushnell una breve apparizione nei titoli delle principali testate globali era riuscita a strapparla, in un modo che grida vendetta: Uomo muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana di Washington, secondo la polizia titolava il New York Times; idem con patate il Washington Post: Aviatore muore dopo essersi dato fuoco fuori dall’ambasciata israeliana a Washington. La BBC invece: Aviatore USA muore dopo essersi dato fuoco di fronte all’ambasciata di Israele, cioè identico: avete notato niente? Esatto: nessun riferimento alle cause, manco per sbaglio; in nessun titolo, nemmeno per caso, viene mai citata Gaza, o la Palestina, o il massacro in corso. Black out totale. Evidentemente aveva freddo e la situazione gli è sfuggita di mano e poi, sicuramente, si sarà trattato di uno svitato: quando uno è guidato da qualcosa che non rientra nella linea editoriale del New York Times e del Washington Post è sempre uno svitato, quasi per definizione; eppure auto – immolarsi non è sempre stato considerato un gesto da svitati.
Facciamo un passo indietro. 2 ottobre 2020: la giornalista russa Irina Slavina, attivista sociale e politica e direttrice del giornale online Koza Press muore dopo essersi auto – immolata di fronte alla direzione principale del ministero degli affari interni russo di Novgorod, e questo è il titolo del New York Times: Giornalista russa si dà fuoco e muore, INCOLPANDO IL GOVERNO. Questo, quello della BBC: La protesta finale della giornalista russa che si è data fuoco; in questo caso non era un gesto folle e non c’era manco bisogno di riscaldarsi: era una protesta politica drammatica carica di dignità e di pathos. D’altronde, non vorrai mica mettere l’urgenza di opporsi al regime di Putin rispetto all’urgenza di opporsi al più grande massacro di civili del XXI secolo e, quindi, qui la motivazione nei titoli non poteva mancare. D’altronde, come ricorda Ben Norton, tempo fa uno studio dell’American Press Institute aveva sottolineato come solo 4 lettori su dieci, oltre al titolo, leggono pure almeno una parte dell’articolo; due anni dopo, ricorda sempre Norton, due ricercatori della Columbia University avevano dimostrato che nel 59% dei casi, quando qualcuno condivide un link su qualche social, non ha nemmeno aperto l’articolo e si è fermato al titolo: la stragrande maggioranza di chi va oltre il titolo si ferma, comunque, ai primi paragrafi. Ed ecco allora il capolavoro: nell’articolo del Washington Post, ad esempio, nei primi 4 paragrafi si continua a non fare nessunissimo accenno alle cause che hanno portato Aaron Bushnell a compiere il suo gesto disperato e quando finalmente, al quinto paragrafo (dopo un bel banner pubblicitario gigantesco) si riportano le motivazioni, si fa esclusivamente citando le parole di Bushnell, della serie pensate a ‘sto povero matto: s’è inventato un genocidio e poi, per protestare contro un genocidio immaginario, s’è dato pure fuoco.
La carta dell’infermità mentale ovviamente, in questi casi, è sempre la preferita: assistere allo sterminio di 15 mila bambini parlando del diritto alla difesa di Israele è da sani di mente; sacrificarsi per impedirlo è da psicopatici. Non fa una piega. Non faccio fatica a credere che ogni giornalista a libro paga del mainstream lo creda davvero: antropologicamente, sono esattamente questa roba qui, c’è poco da girarci attorno. Qui, per supportare la carta dell’infermità mentale, si è fatto riferimento al rapporto della polizia redatto all’arrivo di Aaron in ospedale; a lanciare il carico c’ha pensato Newsweek: “Un rapporto della polizia” scrivono “afferma che Aaron Bushnell stava mostrando segni di disagio mentale”. Mado’ che infami, proprio. Il rapporto infatti è questo: i segni di disagio mentale mostrati da Aaron, molto semplicemente, consisterebbero nel fatto che, prima di darsi fuoco, ha urlato free Palestine. Come testimonia il video che ha registrato, infatti, prima di quel momento Aaron è incredibilmente tranquillo e parla in modo molto composto nella camera mentre cammina; poi si ferma davanti all’ambasciata, si rovescia il liquido infiammabile addosso e urla a squarciagola free Palestine un paio di volte prima di darsi fuoco: il disagio mentale è questo e nei media è diventato l’indizio della sua follia. La stronzata, però, era talmente grossa che almeno i media principali l’hanno lasciata da parte, e siccome non si poteva più dire che era uno squilibrato, semplicemente se lo sono scordati. Il punto infatti è che, per quello che sappiamo ad oggi, Aaron non era squilibrato manco per niente; anzi, nelle ore successive – soprattutto grazie al lavoro di una giornalista indipendente di quelle cocciute come un mulo, Talia Jane, forte solo del suo piccolo account Twitter – sono cominciate ad emergere un po’ di cose interessanti: la prima è che da quando Aaron si era trasferito a San Antonio per proseguire la sua carriera militare, aveva subito cominciato a fare volontariato in un’associazione che dà sostegno ai senzatetto e che chi c’ha lavorato accanto nell’associazione ne parla come di “uno dei compagni con più principi che abbia mai conosciuto“; uno che “cerca sempre di pensare a come possiamo effettivamente raggiungere la liberazione per tutti, con un sorriso sempre sul volto” ribadisce un altro amico. E pare proprio che ‘sta cosa qua di aiutare gli ultimissimi ce l’avesse proprio di vizio: poco dopo, infatti, a esprimere cordoglio ci si mette questa strana associazione che si chiama Serve the People, servire il popolo. Più matti di così… Sono di Akron, la cittadina dell’Ohio dove Aaron si era trasferito da poco, e ricordano come non appena era arrivato in una città che “era ancora nuova per lui”, si era “subito attivato per aiutare i senza alloggio e in qualsiasi altro progetto dell’associazione”: “Gli saremo per sempre grati per lo sforzo che ha fatto per rendere Akron un posto migliore”. E ti credo che i pennivendoli in carriera del Post e del Time lo prendono per matto: cosa ci può mai avere nella testa uno che, quando arriva in una città, invece di impegnarsi per capire a chi può fare le scarpe per qualche scatto di carriera, si mette ad aiutare i più sfigati? Ma la prova provata che siamo di fronte a un autentico squilibrato la tira fuori, ancora una volta, Newsweek; spulciando il suo profilo Facebook – che conta, in tutto, 5 post e 100 amici – Newsweek, infatti, ha trovato la pistola fumante. Tra le pagine a cui Aaron ha messo mi piace ci sono, infatti, addirittura due pagine legate a dei gruppi anarchici: il Burning River Anarchist Collective che, addirittura, pubblica e distribuisce libri sull’anarchia e l’anticapitalismo, e la Mutual Aid Street Solidarity che addirittura, pensate un po’, si occupa di riduzione del danno nei quartieri più malfamati fornendo siringhe pulite e altra assistenza per evitare la morte certa ai tossici. Ma la cosa più inquietante è che mentre Aaron coltivava questi interessi veramente inconfessabili, riusciva pure a costruirsi una carriera di un qualche successo: da 3 anni infatti, come riporta il suo profilo Linkedin, lavorava per l’aeronautica militare come ingegnere nel settore cosiddetto DevOpsm, cioè in quel settore che tiene insieme sviluppatori di software e tecnici delle telecomunicazioni; un impiego che, riporta iNews, gli avrebbe garantito un salario superiore ai 100 mila dollari l’anno. Ed era solo l’inizio: Aaron, infatti, aveva intenzione di abbandonare l’aeronautica, ma prima di farlo si stava prendendo una nuova laurea triennale in ingegneria software presso la Western Governor University; la sua malattia, insomma, era riuscire a fare quello che un giornalista medio del Times non è in grado di fare nemmeno se rinasce, ma senza per questo essere diventato un’insopportabile faccia di merda. Ovvove! Visto che Aaron lo squilibrato sembrava gestirsela piuttosto benino, allora ecco che sono andati a cercare il trauma infantile che covava sotto l’apparente tranquillità; a trovarlo è stato il Post, che come idea di equilibrio e sanità mentale ha come riferimento il suo editore Jeff Bezos e che ha scovato dei particolari inquietanti nell’infanzia di Aaron. Aaron, infatti, proveniva da un piccolo paesino del Massachussets e la sua famiglia era addirittura religiosa, di una specie di setta sostiene il Post: si chiama La Comunità di Gesù, talmente setta che un ex membro avrebbe confessato al Post che “molti di quelli tra noi che sono usciti, sono molto interessati alla giustizia sociale” e infatti, riporta scandalizzato il Post, alcuni amici di Aaron avrebbero ammesso che stava cercando di trovare un nuovo lavoro non troppo impegnativo che gli avrebbe permesso di guadagnare il minimo indispensabile per sopravvivere, lasciandogli – addirittura! – il tempo di dedicarsi all’attivismo e alla politica che, per i sociopatici in carriera, è sostanzialmente la definizione stessa di squilibrio mentale, diciamo. Questo passato bacchettone in questa setta segreta, sostanzialmente, avrebbe covato sotto le ceneri fino ad esplodere in questo gesto eclatante privo di senso. O forse no; prima di procedere verso il sacrificio finale, infatti, Aaron non sembra aver agito con chissà quale impulsività: “Ha fatto tutti i passi necessari per assicurarsi che tutto ciò che aveva venisse curato adeguatamente” ha affermato un’amica a iNews, “come il suo gatto, che ha lasciato a un vicino. Quindi sì, è stato razionale e sapeva esattamente cosa stava facendo”. Ma com’è possibile che uno razionalmente si immoli per una causa quando noi, per due lire, siamo disposti a scrivere ogni sorta di vaccata sbattendocene completamente il cazzo delle conseguenze? Non c’è verso: Aaron Bushnell per la merda suprematista rimarrà per sempre un mistero.
Eppure Bushnell non è il primo che ricorre all’auto – immolazione: il precedente più celebre sono i famosi monaci buddhisti durante la carneficina in Vietnam che, tra l’altro, anche allora vennero emulati da alcuni cittadini americani; in particolare, un paio di ferventi quaccheri che in quel caso, però, nessuno accusò di essere degli psicopatici. Altri tempi. A cercare di spiegare l’etica che sta dietro un gesto del genere a quegli individualisti incorreggibili degli occidentali allora ci pensò Thich Nhat Hanh, il celebre monaco che Martin Luther King voleva candidare al premio Nobel per la pace: “La stampa” scriveva Thich Nhat Hanh “parla di suicidio. Ma non lo è. Non è nemmeno propriamente una protesta. Quello che i monaci affermano nelle lettere che lasciano prima di auto – immolarsi è che il gesto mira a creare un allarme, a muovere i cuori degli oppressori e a richiamare l’attenzione del mondo sulle sofferenze patite dai vietnamiti. Bruciarsi vivo serve a dimostrare che quello che una persona sta dicendo è della massima importanza. Non c’è niente di più doloroso che bruciarsi vivo. Affermare qualcosa mentre stai provando una tale sofferenza prova che la stai dicendo con il massimo del coraggio, della franchezza, della determinazione e della sincerità”. “Il monaco che si auto – immola” continua Thich Nhat Hanh “non ha perso né il coraggio né la speranza; e non ha nessun desiderio di non esistenza. Al contrario, è molto coraggioso e speranzoso e aspira a qualcosa di positivo per il futuro. Non ambisce ad autodistruggersi, ma semplicemente crede che i suoi simili potranno beneficiare del suo sacrificio”.

Pat Ryder

Insomma: un modello un po’ diverso da quello dei pennivendoli spregiudicati che, se devono pensare a un modello di equilibrio, piuttosto pensano a Pat Ryder, il portavoce del Pentagono; durante la conferenza stampa rilasciata in seguito all’episodio, gli è stato chiesto se non è preoccupato che un gesto come questo sveli un disagio più profondo nelle forze armate per come stiamo garantendo il nostro sostegno alle azioni di Israele. “Dal punto di vista del dipartimento della difesa” ha risposto impassibile Ryder “dall’attacco brutale di Hamas del 7 ottobre ci siamo concentrati in particolare su 4 questioni chiave: proteggere le forze armate e i cittadini USA nella regione, supportare il diritto di Israele alla difesa, lavorare fianco a fianco con Israele per il rilascio degli ostaggi e assicurarsi che la situazione non degeneri in un conflitto regionale allargato. Questi sono gli obiettivi che continueranno a indirizzare la nostra azione in Medio Oriente, e il nostro supporto a Israele continua ad essere corazzato”.
30 mila civili uccisi, 15 mila bambini, la più grande crisi umanitaria di sempre manco je so venuti in mente: ecco, lui è quello normale; davvero abbiamo intenzione di stare a guardare mentre passa l’idea che la normalità è sostenere attivamente un genocidio? Noi non ci stiamo e non permetteremo che il sacrificio di Aaron sia vano: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si batta quotidianamente contro il capovolgimento della realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

Uno spettro s’aggira per SANREMO: il dialetto

La settimana passata si è tenuta la 74esima edizione del Festival della musica italiana, come al solito il concorso è stato occasione di riflessione socio-politica oltre che artistica. I cantanti hanno espresso solidarietà alla città di Gaza e alla sua popolazione vittima di genocidio, la RAI si è dissociata, gli attori statunitensi si sono recati nella città ligure come santi medievali simboleggiando il ruolo marginale dell’Italia nel sistema – mondo; infine: i giovani trapper, la polemica classista sul reddito di cittadinanza e il televoto, con tanto di razzismo verso i campani. Forse in futuro non ricorderemo questa edizione per le canzoni o il ballo del qua qua, ma per il prepotente protagonismo dei giovani contro i dinosauri della RAI.

Ecco perché la decisione dell’ICJ per Israele è una batosta epocale – ft prof. Triestino Mariniello

“Quello che sta succedendo all’Aja ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. Ne parliamo con Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool.

LA STORICA SENTENZA CONTRO ISRAELE: se il SudAfrica sconfigge per le seconda volta l’Apartheid

Una giornata storica.
Lo scorso venerdì i giudici del tribunale della Corte Internazionale di Giustizia hanno deciso di respingere la richiesta di archiviazione di Israele rispetto all’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica, hanno riconosciuto la plausibilità che alcuni atti commessi da Israele in questi mesi violino la convenzione ONU sul genocidio e hanno ritenuto che vi sia sufficiente urgenza per ordinare misure provvisorie contro Israele. Contrariamente alle richiese del Sudafrica, purtroppo, non si fa riferimento ad un cessate il fuoco a Gaza, ma viene comunque ordinato a Tel Aviv di “prendere tutte le misure per prevenire qualunque atto di genocidio”. Non solo. La presidente della Corte Donoghue ha inoltre fatto richiesta a Tel Aviv di riferire alla Corte entro un mese e ha affermato che dovranno essere adottate misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e l’assistenza umanitaria necessaria ai palestinesi della Striscia.

Triestino Mariniello

È impossibile minimizzare la portata politica di questa presa di posizione, che ridà speranza a milioni di palestinesi di vedere finalmente riconosciute e condannate le atroci violenze che il governo israeliano sta compiendo non solo in questi giorni, ma in tutti questi anni, e che ridà dignità ad una Corte sulla carta imparziale ma che, negli scorsi decenni, era sembrata solo l’ennesimo strumento nelle mani delle mire egemoniche occidentali. “A mia memoria mai uno strumento del diritto internazionale ha avuto tanto sostegno e popolarità” ha dichiarato Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool; “Quello che sta succedendo all’Aja” ha continuato “ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. Ma oltre al profondo significato simbolico e politico, questa decisione storica potrebbe avere anche delle conseguenze immediate sulla vita dei palestinesi, perché se è vero che il processo vero e proprio comincia soltanto adesso e che per il verdetto finale ci vorranno forse anni, il tribunale – intimando al governo israeliano di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire atti genocidiari – esercita una pressione politica tale su Tel Aviv che, probabilmente, lo indurrà a cambiare il suo modo di condurre la guerra. Adesso la palla passerà, con ogni probabilità, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e vedremo se gli Stati Uniti perderanno definitivamente la faccia mettendosi di traverso alle decisioni della Corte. In ogni caso, potremo pensare a venerdì 26 gennaio 2024 come a un giorno di parziale vittoria – forse il primo di tanti – nella storia della resistenza e dell’indipendenza nazionale del popolo palestinese. In questa puntata vedremo le reazioni di Israele a questa decisione della Corte, analizzeremo nel dettaglio l’impianto accusatorio del Sudafrica e quello della difesa israeliana e, infine, parleremo anche di un altro filone processuale che potrebbe aprirsi – questa volta alla Corte di Giustizia Penale Internazionale – alla quale Messico e Cile hanno fatto richiesta di indagare sugli esponenti del governo Israeliano per genocidio e crimini contro l’umanità.
Il termine genocidio è stato coniato dopo la seconda guerra mondiale dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin; la sua campagna per il riconoscimento di questo crimine nel diritto internazionale portò all’adozione della Convenzione ONU sul genocidio nel dicembre del 1948. Lo scorso dicembre il Sudafrica ha accusato il governo di Netanyahu di fronte alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja di aver violato l’articolo 2 di questa convenzione, ossia di avere commesso atti con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale e, cioè, i palestinesi di Gaza: “Come popolo che ha assaggiato i frutti amari dell’espropriazione, della discriminazione, del razzismo e della violenza sponsorizzata dallo Stato, siamo chiari sul fatto che staremo dalla parte giusta della storia”, ha detto il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. Data l’urgenza e la gravità della situazione, il Sudafrica aveva chiesto alla Corte, in attesa del processo, di adottare alcune misure cautelari che, come abbiamo visto, ad esclusione dell’immediato cessate il fuoco sono state in gran parte accolte: le reazioni non si sono fatte attendere: il Sudafrica ha esultato parlando di una riaffermazione dello stato di diritto, e persino l’Unione Europea ha chiesto che le misure vengano rispettate. Netanyahu ha invece definito “oltraggioso” il comportamento della Corte e il suo il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir ha definito, tanto per cambiare, i giudici dell’Aja antisemiti, affermando che le loro decisioni “dimostrano ciò che era noto da tempo: il tribunale non cerca la giustizia ma solo di perseguitare il popolo ebraico”. Non essendoci possibilità di appello, sta allo Stato ebraico decidere se rispettare queste misure; nel caso, però, che non si attenga alla sentenza, spetterà al Consiglio di Sicurezza dell’ONU decidere se intervenire affinché Israele applichi effettivamente la decisione della Corte: a quel punto, data per scontata l’adesione degli altri membri del Consiglio alle decisioni del tribunale, bisognerà vedere cosa decide di fare Washington. Sì: avete capito bene. Non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti si avvalgono del proprio diritto di veto al Consiglio di Sicurezza per proteggere Israele, ma sarebbe comunque la prima volta in assoluto che lo eserciterebbero contro una decisione precedentemente presa dalla Corte Internazionale di Giustizia. Staremo a vedere.
Per quanto riguarda il prosieguo del processo, per l’accusa l’elemento più difficile da provare sarà il cosiddetto intento speciale, e cioè l’effettiva volontà di voler distruggere del tutto o in parte i palestinesi di Gaza in quanto tali, ossia in quanto palestinesi e in quanto abitanti di Gaza: “È l’elemento più difficile da provare, ma credo che il Sudafrica in questo sia riuscito in maniera solida e convincente.” ha dichiarato il giurista internazionale Mariniello in un’intervista rilasciata alla testata Altraeconomia. La prova di questa intenzione sarebbero gli omicidi di massa, le gravi lesioni fisiche e mentali e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere i palestinesi, come l’evacuazione forzata di circa due milioni persone, la distruzione di quasi tutto il sistema sanitario della Striscia e l’assedio totale dall’inizio della guerra con la privazione di beni essenziali per la sopravvivenza come acqua, viveri ed elettricità. Nella memoria di 84 pagine presentata dal Sudafrica vi sono anche le innumerevoli dichiarazioni esplicite dei leader politici e militari israeliani che proverebbero tale intento, come quella di Netanyahu che, all’inizio delle operazioni, ha invocato la citazione biblica di Amalek che, sostanzialmente, significa “Uccidete tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli animali”, o la dichiarazione del ministro della difesa Yoav Gallant che ha dichiarato che a Gaza sono tutti animali umani e che l’esercito israeliano avrebbe agito di conseguenza: “Queste sono classiche dichiarazioni deumanizzanti, e la deumanizzazione è un passaggio caratterizzante tutti i genocidi che abbiamo visto nella storia dell’umanità” afferma Mariniello.

Israel Katz

L’impianto difensivo di Israele si basa, invece, su tre punti fondamentali: il fatto che quello di cui lo si accusa è stato in verità eseguito da Hamas il 7 ottobre; il concetto di autodifesa, cioè che quanto fatto a Gaza è avvenuto in risposta a tale attacco e, infine, che sono state adottate una serie di precauzioni per limitare l’impatto delle ostilità sulla popolazione civile. ”Non vi è alcuna base per le affermazioni del Sudafrica contro Israele. Anzi. Non è stata presentata alcuna prova a riguardo, solo l’evidenza di una guerra difensiva” aveva dichiarato il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz al termine delle arringhe del team di difesa all’Aja, ma questa narrativa – che è anche la narrativa dominante nei media e nei palazzi del potere del nostro paese – secondo la quale Israele si starebbe semplicemente difendendo contro un attacco da parte di un’organizzazione terroristica, oltre che politicamente insensata per chiunque abbia un minimo di buon senso, appare anche giuridicamente molto debole in quanto presuppone di ignorare completamente la storia e il contesto dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi: “Esiste sempre un contesto per il diritto penale internazionale e l’autodifesa, per uno Stato occupante, non può essere invocata” chiarisce Mariniello; Israele, insomma, per appellarsi all’autodifesa dovrebbe completamente cancellare la propria storia di potenza colonizzatrice – più volte denunciata da decine di Stati e organizzazioni internazionali – e il suo status giuridico di potenza occupante. Dovrebbe, insomma, provare che le 500 pagine scritte da Human Rights Watch e Amnesty International che descrivevano dettagliatamente il sistema di apartheid sui palestinesi e pubblicate due anni prima dell’attacco del 7 ottobre, non esistono, e dovrebbe provare anche che non esistono le decine di risoluzioni ONU che ne hanno condannato, in questi anni, il comportamento a Gaza e in Cisgiordania.
Come scrive Francesca Albanese nel suo ultimo libro J’Accuse, anche il processo di deumanizzazione dei palestinesi – supporto retorico e ideologico alla loro eliminazione – non è certo un fatto nuovo, ma va avanti ormai da decenni: “Questa definizione di animali umani” scrive “in realtà, è il prodotto ultimo di un processo di disumanizzazione del quale il popolo palestinese è vittima da tempo. I sostenitori di Israele hanno elaborato narrazioni che ritraggono i palestinesi come una minaccia esistenziale per il popolo ebraico e le rivendicazioni palestinesi per il riconoscimento dei propri diritti individuali e collettivi, sanciti da trattati internazionali universali e da centinaia di specifiche risoluzioni dell’ONU sulla questione israelo – palestinese, come una sfida diretta alla vita stessa di Israele.”; “Come spiegano gli studiosi Neve Gordon e Nicola Perugini” continua Albanese “Israele giustifica l’uso della forza contro i palestinesi, compresi i bambini, presentando l’intero collettivo palestinese come una minaccia intrinsecamente terroristica.” In ogni caso, il Sudafrica ha anche chiarito – se mai ce ne fosse stato bisogno – che anche in caso di autodifesa è comunque legalmente e moralmente vietato commettere un genocidio. Insomma: la reazione generale degli studiosi di diritto è stata critica verso la performance giuridica degli avvocati israeliani: “Il team israeliano ha mostrato debolezza giuridica” ha detto Mariniello; “si è concentrato su narrazioni politiche perché la posizione giuridica è indifendibile. ”Anche l’altro elemento sottolineato dal team israeliano riguardo le misure messe in atto per ridurre l’impatto sui civili, è sembrato più retorico che altro: il numero esorbitante di vittime civili, comprese donne e bambini – più di 25 mila in poco più 110 giorni di guerra – smentisce infatti in modo plateale tali dichiarazioni.
Nel frattempo, altri Stati stanno decidendo di costituirsi a sostegno di una o dell’altra parte: la Germania, ad esempio, che pure dovrebbe essere una dei massimi esperti di genocidio ma che ha, evidentemente, un incredibile fiuto per schierarsi sempre dalla parte sbagliata della storia, ha detto che sosterrà Israele; il Brasile, i paesi della Lega Araba, molti stati sudamericani (ma non solo) si stanno invece schierando con il Sudafrica. L’Italia non appoggerà formalmente Israele; la Francia rimarrà neutrale. Si può dire che i paesi del Global South stanno costringendo quelli del Nord globale a verificare la credibilità del diritto internazionale: vale per tutti o è un diritto à la carte? Ma i guai per Israele non sembrano finire qui: Cile e Messico hanno infatti chiesto alla Corte Penale Internazionale, che si occupa invece delle responsabilità penali individuali, di indagare sui crimini commessi dagli esponenti del governo e dell’esercito israeliano in questi mesi di guerra; in una dichiarazione rilasciata il 18 gennaio, Messico e Cile hanno dichiarato che il loro deferimento alla Corte era “dovuto alla crescente preoccupazione per l’ultima escalation di violenza, in particolare contro obiettivi civili, e la presunta continua commissione di crimini sotto la giurisdizione della Corte”.
Il deferimento presentato da Cile e Messico fa seguito a quello di Bolivia, Sudafrica, Gibuti e Comore che, a novembre, si erano rivolti alla Corte chiedendo al procuratore capo Karim Khan di indagare sulla commissione di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio in Palestina: anche prima degli attacchi in corso su Gaza, iniziati il 7 ottobre, le organizzazioni palestinesi per i diritti umani avevano ripetutamente invitato Khan a rilasciare dichiarazioni preventive “per scoraggiare la commissione di ulteriori crimini” da parte dell’Occupazione; queste richieste, insieme a quelle per accelerare le indagini, sono però state ignorate. Vedremo nelle prossime settimane come evolveranno queste indagini; quello che è sicuro è che dopo 3 decenni di sostegno incondizionato da parte di tutto l’Occidente collettivo e delle istituzioni internazionali all’apartheid israeliano, qualcosa si è irreversibilmente cominciato ad incrinare e che questo è stato reso possibile dalla determinazione di un paese – e una classe dirigente – che la battaglia contro l’apartheid l’ha vissuta direttamente sulla sua pelle vincendola già una volta. Il XXI secolo passerà alla storia come il secolo della Grande Decolonizzazione, quando finalmente le masse sterminate del Sud globale misero definitivamente fine al dominio di una piccola minoranza sul resto del mondo attraverso il ricorso sistematico alla violenza; abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte giusta della storia. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu