Ad appena pochi giorni dal devastante uragano Helene, un altro imponente evento catastrofico naturale s’è abbattuto su quei poveracci degli abitanti della Florida, ai quali ovviamente va tutta la nostra più profonda solidarietà (soprattutto da parte mia che ogni volta che mi vengono due centimetri d’acqua nello scantinato vado letteralmente nel panico): ovviamente, come inevitabile, si è subito scatenata la guerra santa tra negazionisti e riduzionisti climatici da un lato e eco-ansiosi dall’altro, ma a questo giro, in realtà, a mio avviso più di parlare un po’ a caso dell’impatto del cambiamento climatico, c’è un aspetto molto più eclatante da sottolineare e, cioè, la cara, vecchia lotta di classe. Un po’ ovunque, infatti (ma in maniera particolarmente eclatante proprio negli USA), quei bastardi degli uragani, a guardarli da vicino, si rivelano essere l’ennesimo braccio armato del capitale contro le classi subalterne: da Katrina in poi, gli eventi naturali catastrofici nell’era della dittatura neoliberista sono diventati un potente strumento per accelerare ulteriormente lo spostamento della ricchezza dal basso verso l’alto, favorire lo smantellamento dello Stato e incentivare speculazione e gentrificazione sulla pelle di milioni e milioni di poveri cristi che vivono in contesti urbani totalmente inadeguati ad affrontare anche solo una qualsiasi bomba d’acqua; figuratevi un uragano – o, come in questo caso, addirittura due, e nell’arco di poche settimane. Nonostante si trovino in uno dei posti più esposti ad eventi naturali catastrofici del pianeta, infatti, un terzo abbondante delle case della Florida in Europa avremo difficoltà a definirle propriamente case: il 10% delle case sono case mobili, con telai ultraleggeri in acciaio (se non addirittura in alluminio), pavimentazioni in compensato, rivestimenti in leggerissimo vinile o, appunto, ancora alluminio e tetti in lamiera; il resto sono vecchie abitazioni in legno che, senza fargli manutenzione da decenni, è diventato un ammasso di muffa. E quello è il meno: generalmente, le pareti sono in compensato o giù di lì, i tetti, leggerissimi, non sono manco ancorati decentemente al resto della struttura e l’intera casa non è ancorata alle fondamenta (quando esistono); nonostante le leggi sempre più restrittive, gli aiuti governativi per adeguarle un minimo scarseggiano. Ed ecco così che, negli ultimi 20 anni. meno del 20% di questo tipo di abitazioni è stato sottoposto a interventi significativi. Vista la fragilità, nonostante abbiano spesso un valore irrisorio (inferiore a quello di un garage a Miami), un’assicurazione contro i danni costa un’enormità e, quindi, nessuno la fa.

E quindi anno dopo anno, uragano dopo uragano, ci si limita a mettere una toppa qui e una toppa là e la casa diventa una catapecchia pronta ad essere spazzata via alla prima folata di vento; a quel punto, a darti una mano ci dovrebbe pensare la mano pubblica che, invece, non fa che mettere i soldi in tasca ai cittadini in condizioni socio-economiche più critiche per sostenere quelli messi meglio: secondo uno scioccante studio dell’Università di Pittsburgh, le classi agiate, bianche e con titoli di studio superiori delle zone colpite da eventi naturali catastrofici si sono arricchite, negli anni che vanno dal 1999 al 2013, molto di più dei pari grado residenti in aree che non hanno subìto questo tipo di eventi. Le classi più disagiate, invece – minoranze etniche con titoli di studio inferiori – non hanno fatto altro che impoverirsi ulteriormente a dismisura: come scriveva (ormai quasi 20 anni fa) Naomi Klein, “Fino a non molto tempo fa i disastri erano periodi di livellamento sociale, rari momenti in cui le comunità atomizzate mettevano da parte le divisioni e si univano. Sempre più spesso, tuttavia, i disastri sono diventati l’esatto opposto: finestre su un futuro crudele e spietatamente polarizzato in cui denaro e razza comprano la sopravvivenza”. Ma prima di addentrarci in tutto quello che avreste sempre voluto sapere sul tragico fenomeno degli uragani in Florida e dintorni, ma che la propaganda analfoliberale ha sempre evitato accuratamente di dirvi, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per aiutarci a combattere (anche oggi) la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi che lucrano sulla guerra di religione tra analfoliberali e negazionisti di ogni genere e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti nostri canali su tutte le piattaforme social: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi l’amministrazione USA per approfittare della fuga dei poveracci perseguitati dagli uragani dalle coste della Florida per dare il via libera a qualche bella speculazione edilizia, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a contrastare sia la narrazione di chi fa felice la gigantesca lobby del fossile negando la crisi climatica (perché, comunque, spera che a pagarla sarà qualcun altro) come quella di chi, con la scusa del cambiamento climatico, spera di coprire ogni sorta di responsabilità, anche quando non c’incastra una seganiente.
Dixie, Lafayette, Taylor; sono alcune delle 16 contee della Florida che nell’arco di poche settimane sono state colpite non da un evento naturale catastrofico, ma da due: Helene prima e Milton poi. E siccome piove sempre sul bagnato, sono tra le contee più povere non solo della Florida, ma anche degli interi Stati Uniti, fatta eccezione – ovviamente – per le riserve indiane, dove il genocidio intrapreso a suo tempo va ancora avanti alla spicciolata con altri mezzi: questo significa che una fetta consistente della popolazione (e, in particolare, le minoranze etniche) vive in condizioni abitative che definire disagiate è un eufemismo e che prima si son viste volare via i tetti, le pareti e i quadri elettrici da Helene, e mentre avevano appena cominciato a mettere qualche toppa qua e là, con i pochi spiccioli che gli rimanevano in tasca sono stati travolti da Milton, che ha portato a termine il lavoro; una tragedia di dimensioni epocali. D’altronde, però, ci dicono da settimane all’unisono i media mainstream Che ci vuoi fare? E’ il cambiamento climatico: gli eventi naturali catastrofici sono aumentati in numero e in intensità, continuano a ripetere; e, ovviamente, per affrontarli ci vuole tempo, mica puoi pretendere che arrivi te così e fai il paladino dei poveracci. Fate presto voi zecche rosse a puntare subito il ditino! Il problema è che messo in questi termini, in realtà, il ricorso al tema dei cambiamenti climatici – molto banalmente – è una puttanata: secondo climate.gov, infatti, effettivamente nell’ultimo decennio ci sono stati 165 eventi naturali catalogati come catastrofici; poco meno del doppio del decennio passato e due volte e mezzo quello ancora precedente. E, a prima vista, non sarebbero stati solo più numerosi, ma anche più potenti perché, sempre secondo le stesse stime, i danni economici complessivi causati dagli eventi naturali catastrofici in questo decennio sarebbero stati il doppio che nel decennio passato e tre volte e mezzo quelli del decennio ancora precedente: tutto confermato allora? Non proprio; il punto è che, nello stesso arco di tempo, ad essere aumentati sostanzialmente della stessa misura sono stati anche i prezzi medi degli immobili che, ad esempio, in un’altra contea tra le più povere di quelle colpite da entrambi gli uragani, come la Contea di Escambia, sono passati (in termini di dollari per metro quadrato) da poco più di 500 a poco meno di 1900, e in una delle contee invece più ricche, come quella di Sarasota, da circa 1300 a 3100.
Insomma: i danni reali, negli ultimi 30 anni, sono rimasti sostanzialmente invariati; ad essere cambiato è l’arrivo di una gigantesca bolla speculativa immobiliare. Colpa del cambiamento climatico pure quella? Pare difficile. Al che uno dice: ok, ma il numero degli eventi però sì, quello sì che è più che raddoppiato. Chissà: magari fanno meno danni perché, nel frattempo, sono stati fatti investimenti per mettere in sicurezza, visto anche che sono entrate in vigore nuove normative e che le magnifiche sorti e progressive del Paese leader del mondo libero e democratico (ovviamente) permettono di mitigare i danni anche del Padreterno. Col cazzo: l’inghippo, infatti, è esattamente lo stesso, perché per fenomeni naturali catastrofici di grandi dimensioni si intendono, molto banalmente, eventi che hanno causato danni per oltre 1 miliardo di dollari; solo che se per superare 1 miliardo di danni 25 anni fa dovevi tirar giù – facciamo l’ipotesi – 10 mila case, con i prezzi che si sono triplicati basta tirarne giù 300. E, quindi, anche il numero di eventi (nonostante le apparenze) non sembra essere cambiato. Insomma: se noi siamo i primi a sottolineare quanto sia grave e inconfutabile il riscaldamento globale e la sua matrice – almeno in buona parte – antropica, mi pare evidente che qui c’è qualcuno che rema contro; e prendendoci per il culo utilizzando il cambiamento climatico per coprire altre magagne, fornisce armi preziosissime alla campagna di disinformazione, sostenuta (a suon di centinaia e centinaia di milioni) da parte della lobby fossile e dagli utili idioti dell’alt right, sempre pronti ad avvelenare i pozzi per servire la borghesia più reazionaria del momento. D’altronde, qui le magagne da coprire con un po’ di propaganda woke un tot al chilo, senza curarsi delle conseguenze, sono piuttosto grossine e non è il caso di andare troppo per il sottile: mentre la gente comune si stava mobilitando per cercare di salvare il salvabile dall’arrivo dell’uragano Helene, infatti, a Washington andava in scena una commedia raccapricciante. Nel tira e molla tra repubblicani e democratici, il Congresso chiudeva l’ultima sessione prima della pausa pre-elettorale di 6 settimane, e si sono rifiutati di rifinanziare la FEMA (Federal Emergency Management Agency), l’agenzia governativa che si occupa della gestione delle emergenze e della protezione civile: sostanzialmente, significa che può affrontare esclusivamente i bisogni immediati e non è in grado di pianificare alcunché; tanto, a cosa servirà mai?
Il problema è che gli uragani e gli altri eventi naturali catastrofici, in realtà, per le classi sociali che sono rappresentate in un Congresso che ha espulso ogni rappresentanza dei ceti subalterni ormai da decenni, sono una discreta manna: lo ha ricostruito nel dettaglio questo scioccante articolo uscito sulla rivista scientifica Social Problems e scritto da una ricercatrice dell’Università di Pittsburgh e un ricercatore dalle Rice University; lo studio afferma che se i cittadini della maggioranza bianca che vivono in contee dove si sono registrati danni da eventi naturali inferiori ai 100 mila dollari (quindi niente) dal 1999 al 2013 hanno visto il loro patrimonio aumentare, in media, di soli 26 mila dollari, i loro pari grado che, invece, abitavano in contee dove si sono registrati danni per oltre 10 miliardi di dollari hanno visto aumentare il loro patrimonio di ben 126 mila dollari – 5 volte di più. Quindi, per i cittadini bianchi, in media, abitare in zone colpite da disastri è una vera manna; per le minoranze, però, un po’ meno (un po’ tanto): in quel caso, infatti, quelli che vivono in contee senza disastri hanno visto il loro patrimonio aumentare di 19 mila dollari (che è un po’ meno dei bianchi, ma almeno va nella stessa direzione). Quelli, invece, che vivono in contee che hanno registrato danni da fenomeni naturali per oltre 10 miliardi, al contrario di tutte le altre categorie viste finora, hanno visto il loro patrimonio addirittura diminuire; e non di qualche spicciolo, ma addirittura di ben 27 mila dollari. E il problema, ovviamente, non è razziale (o, almeno, non solo): diciamo che in una società che fa finta di essere multiculturale come quella statunitense, ma che – in realtà – economicamente è ancora incredibilmente segregata, le differenze tra diverse appartenenze etniche offrono sempre un ottimo proxy rispetto alla condizione socioeconomica più in generale.
Ma ce n’è anche un altro piuttosto efficace, che è la differenza del livello di istruzione: ed ecco che così lo studio rileva che per i residenti con un’istruzione universitaria, vivere in una contea colpita da disastri naturali ha fruttato (sempre nello stesso arco di tempo) addirittura 110.000 dollari in più rispetto ai pari grado che – poverini – vivono in contee dove a livello di disastri naturali non succede sostanzialmente mai una seganiente; per quelli che, invece, non sono andati oltre il decimo grado (cioè la scuola dell’obbligo), vivere in una contea colpita da disastri significa aver perso un quota di patrimonio equivalente a 48 mila dollari rispetto ai pari grado che vivono in contee tranquille. C’avete già il vomito? Ecco: trattenetelo per il gran finale. Perché, a questo punto, uno dice: sarà colpa del mercato cinico a baro; ci vorrebbe un po’ più di intervento dello Stato per mitigare le sperequazioni. Ecco: a vedere i dati, meglio di no; lo Stato neo-liberale che gli USA hanno insegnato a tutto il resto del mondo, infatti, quando interviene fa esattamente il contrario. Il mercato arricchisce sempre di più chi è già ricco e impoverisce sempre di più che è già povero? Ecco: quando negli USA interviene direttamente lo Stato, questa cosa, invece che venire moderata, avviene in modo ancora più eclatante; i nostri ricercatori, infatti, hanno stabilito che più aiuti della FEMA arrivano in una zona disastrata, più questo aberrante processo di divaricazione, che avviene approfittando dei disastri naturali, aumenta. “I bianchi che vivono in contee che hanno ricevuto almeno 900 milioni di dollari in aiuti dalla FEMA dal 1999 al 2013” si legge infatti nello studio “hanno accumulato in media 55.000 dollari in più di ricchezza rispetto a bianchi altrimenti simili che vivono in contee che di aiuti hanno ricevuto 1000 dollari o meno. Al contrario, i neri che vivono in contee che hanno ricevuto almeno 900 milioni di dollari in aiuti FEMA hanno accumulato in media 82.000 dollari in meno di ricchezza rispetto a neri altrimenti simili che vivono in contee che hanno ricevuto solo 1.000 dollari in aiuti FEMA”.
Ma com’è possibile? Le motivazioni sono tante, ma ce n’è una che pesa più di tutte e si chiama gentrificazione climatica: già senza l’intervento pubblico, laddove ci sono le risorse, i disastri – anche col supporto delle assicurazioni private che non sono minimamente accessibili per il grosso della popolazione – vengono colti come opportunità per riqualificare le aree colpite, mentre nelle zone più povere si assiste impotenti al continuo progressivo degradamento di quel poco che già c’era. E quando arriva il pubblico ci mette il carico da 90: invece che operare per ridurre il divario, l’intervento pubblico, senza vergogna, lo amplifica dando di più ha chi già aveva di più e di meno a chi aveva di meno; ma non solo, perché nei casi più estremi (e sono tanti), il disastro diventa l’opportunità per evacuare intere comunità che non hanno le risorse per riparare ai danni da zone potenzialmente pregiate (soprattutto per fini turistici), dove si fa shopping a prezzi d’occasione delle catapecchie mezze rotte che rimangono dopo l’ennesimo uragano e si trasformano in pittoresche destinazioni di villeggiatura. Una dinamica feroce che, ormai quasi 20 anni fa, Naomi Klein colse con grande lungimiranza nel suo celebre Shock economy: l’ascesa del capitalismo dei disastri: la Klein racconta di quando, mentre stava girando proprio delle riprese per un documentario sulle conseguenze di Katrina, ebbe un brutto incidente automobilistico; la cosa che la preoccupava di più era che tipo di assistenza medica avrebbe ricevuto, visto che proprio lo stesso pomeriggio aveva visitato il principale ospedale dell’area, il Charity Hospital, e la situazione era disastrosa. L’uragano l’aveva colpito in pieno, allagandone varie parti, danneggiando tutte le altre e lasciandolo a lungo senza elettricità proprio mentre doveva affrontare una quantità smisurata di pazienti disperati, vittime di incidenti di ogni genere causati sempre dall’uragano. E, invece, si è ritrovata in una “clinica dove ho ricevuto un trattamento degno della migliore spa”: era l’Ochsner Hospital, il più importante ospedale privato dell’area, che ha continuato a tenere sistematicamente alla larga le persone povere colpite dall’uragano anche mentre, tutto attorno, le strutture sanitarie erano letteralmente collassate; e ha garantito così alle vittime benestanti lo stesso, impeccabile servizio di sempre. “Quando Katrina ha colpito” scrive la Klein “il netto divario tra il mondo dell’Ochsner Hospital e quello del Charity Hospital si è improvvisamente palesato sul palcoscenico globale”: “I benestanti erano fuggiti dall’area, avevano fatto il check in in qualche hotel lussuoso e avevano chiesto l’intervento immediato delle loro costose assicurazioni. I 120 mila abitanti di New Orleans che non possedevano un’auto e che dipendevano dalla macchina pubblica per l’organizzazione della loro evacuazione, avevano atteso soccorsi che non era arrivati e avevano cercato di mettersi in salvo su zattere costruite con gli sportelli dei frigoriferi”; “Quelle immagini” continua la Klein “hanno sconvolto il mondo perché, anche se siamo tutti rassegnati alle diseguaglianze quotidiane tra chi ha o meno accesso a servizi sanitari decenti o a un’istruzione di qualità, c’era ancora l’idea diffusa che almeno in caso di disastri le cose sarebbero funzionate diversamente. Si dava per scontato che lo Stato, almeno in un paese così ricco, durante un cataclisma sarebbe corso in aiuto di tutti. Le immagini da New Orleans dimostravano che questa credenza generale che in tempo di disastri le logiche del capitalismo selvaggio siano messe da parte e temporaneamente lo Stato assuma la posizione di comando, era diventata roba del passato e senza che vi fosse un dibattito pubblico a riguardo”. La Klein ricorda come nell’estate del 2004, un anno prima di Katrina, lo Stato della Louisiana aveva chiesto fondi alla FEMA per sviluppare un piano di salvataggio esausti
vo in caso di grandi uragani; la richiesta era stata respinta e, al suo posto, era stato assegnato un milione di dollari a una compagnia privata chiamata Innovative Emergency Management per fare esattamente la stessa cosa: la società si è intascata i soldi, ha effettivamente fatto un piano, ma poi, per renderlo concreto, non è mai arrivato nemmeno un euro. Ergo, abbiamo regalato un milione a un privato per fare una cosa totalmente inutile. Classicissimo.
Appena 14 giorni dopo l’arrivo dell’uragano, a Washington si tiene una conferenza in grande stile dal titolo Idee pro libero mercato per rispondere all’uragano Katrina e all’aumento dei prezzi del gas: come aveva scritto poco prima Milton Friedman, infatti, Katrina rappresentava sì una tragedia, ma anche una grande opportunità; a organizzare la conferenza era la Heritage Foundation, una sorta di riedizione dell’istituto Ahnenerbe della Germania nazista. Se lo scopo dell’Ahnenerbe, infatti, era giustificare l’idea della superiorità della razza ariana, quello dell’Heritage Foundation è giustificare la teoria (altrettanto antiscientifica) alla base della forma contemporanea del nazismo, più presentabile e politically correct: la superiorità biologica e antropologica dei super-ricchi. Tra le proposte emerse dalla conferenza, coerentemente all’impianto generale, l’idea che nelle aree colpite da disastri dovessero essere sospese tutte le leggi che regolano sia il diritto del lavoro – a partire dal salario minimo – che quelle fiscali, che regolano il patto tra le aziende e lo Stato: il privato deve essere messo nella condizione di fare cosa stracazzo gli pare, senza limiti. E con parecchi incentivi: la conferenza, infatti, proponeva di dare contributi pubblici alle famiglie da spendere presso i privati, dalle scuole ai servizi sanitari; servizi che, ovviamente, dovevano essere (appunto) offerti pagando gli operatori meno del salario minimo e senza pagare tasse sui profitti. Una formula vincente; d’altronde, il modello era già stato ampiamente rodato in Iraq: tutta la ricostruzione nell’Iraq (recentemente raso al suolo grazie alla guerra criminale di aggressione, ovviamente umanitaria) era stata affidata ad appaltatori privati che avevano applicato esattamente quella logica. “A pochi giorni dalla tempesta” sottolinea la Klein “era come se la zona verde di Baghdad si fosse sollevata dalla sua perla sul Tigri e fosse atterrata sul bayou” (l’ecosistema tipico del delta del Mississippi): proprio le stesse identiche aziende, spesso con lo stesso identico personale e, ovviamente, le stesse identiche pratiche. Alla Service Corportation International, grande donatrice della campagna elettorale di Bush Jr, venne affidato l’incarico di recuperare le salme dei cadaveri alla modica cifra di 12500 dollari a corpo: “Agli operatori di emergenza e agli impresari di pompe funebri volontari locali” riporta la Klein “era vietato intervenire perché la movimentazione dei corpi interferiva con l’attività commerciale dell’azienda”. Risultato: “Ancora un anno dopo l’alluvione si continuavano a scoprire cadaveri decomposti nelle soffitte”. Il compito di rimuovere i detriti fu affidato alla AshBritt che, però, non aveva a disposizione neanche un singolo mezzo adatto allo scopo; si limitava a subappaltare tutto (e manco a lavoratori locali). Secondo uno studio citato dalla Klein “Oltre un quarto dei lavoratori impiegati erano immigrati senza permesso di soggiorno” che venivano sistematicamente derubati: “In un sito appaltato ad Halliburton, migranti senza permesso hanno raccontato di essere fuggiti nella notte prima di riscuotere la paga dopo che il loro datore, un subappaltatore, li aveva terrorizzati diffondendo la falsa informazione che ispettori dell’ufficio immigrazione stavano arrivando nel campo”; “I migranti” commenta ironica la Klein “volevano evitare di finire in una delle nuove prigioni per migranti che Halliburton stava costruendo su mandato del governo”.
D’altronde, i migranti erano spesso gli unici che potevano accettare di lavorare con i pochi spiccioli che rimanevano dopo che la lunga schiera di appaltatori e subappaltatori avevano prelevato la loro quota; la Klein ricorda che la FEMA, per rifare i tetti, aveva riconosciuto all’appaltatore 175 dollari a piede quadrato: l’operaio che, a valle, i tetti li ricostruiva davvero, di dollari al piede quadrato ne guadagnava 2. “Come in Iraq” scrive la Klein, “le multinazionali hanno incassato i fondi e hanno ripagato il governo, invece che con lavori affidabili, con contributi elettorali. Secondo il New York Times, i primi 20 appaltatori di servizi hanno speso quasi 300 milioni di dollari dal 2000 in attività di lobbying e hanno donato 23 milioni di dollari a campagne politiche”. E la rapina non era ancora finita perché, per finanziare tutti questi regali alle corporation, l’anno dopo l’amministrazione Bush ha tagliato di 40 miliardi il budget federale andando a colpire, in particolare, l’assistenza sanitaria e i buoni pasto riconosciuti agli indigenti; e non è ancora finita perché, per accelerare la ripresa economica nell’area, la proposta emersa dalla conferenza della Heritage Foundation – e che l’amministrazione Bush Jr poi ha fatto immediatamente sua – è stata quella di dare il via libera a tutte le trivellazioni e le estrazioni di fossile possibili immaginabili lungo le coste che, fino ad allora, erano tutelate da inutili e controproducenti regolamenti ambientali. In questo modo si cercava di dare il massimo contributo possibile alla crisi climatica che avrebbe favorito altre Katrina nel futuro, alle quali si sarebbe immediatamente risposto con altre proposte nazi-liberiste che avrebbero sdoganato, pezzo dopo pezzo, quello che fino ad allora appariva socialmente inaccettabile.
Chissà come mai a denunciare queste cose per prima c’ha dovuto pensare una Gretina come Naomi Klein e, invece, non c’hanno pensato i negazionisti climatici amici dei palazzinari, della cedolare secca per chi approfitta dei nuovi rifugiati climatici per fare incetta di catapecchie lungomare e trasformarle in redditizi Aribnb e lautamente finanziati dalla lobby del fossile. Contro la doppia narrazione tossica dei nemici della modernità e del pensiero scientifico a libro paga delle lobby del fossile, dei palazzinari e delle aziende automobilistiche che, invece di investire nella transizione, hanno imboscato i profitti nei paradisi fiscali, da un lato, e dei complici della rapina neoliberista che cercano di coprire con una bella manata di greenwashing ogni nefandezza del capitale finanziario possibile immaginabile, ci serve come il pane un media indipendente, ma di parte, che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
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