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Tag: draghi

Draghi l’americano vs Letta il francese: la guerra per decidere a chi vendere i lavoratori italiani

La fase terminale dell’imperialismo e le manovre messe in campo da Washington per prolungarla, causano danni giganteschi alle economie di tutti i paesi vassalli. Per rispondere ai crescenti mal di pancia del mondo produttivo europeo, le istituzioni hanno deciso di mettere in campo due pesi massimi della politica europea: Mario Draghi ed Enrico Letta, il futuro dell’Europa come ha affermato la Von der Leyen, ma sebbene entrambi propongano sostanzialmente di scaricare il costo della ristrutturazione capitalistica radicale necessaria per tenere in vita un sistema ormai decotto, le ricette potrebbero rivelarsi non facilmente conciliabili: Mario Draghi l’americano continua ad immaginare un Europa a trazione tedesca completamente subalterna alle oligarchie finanziarie USA, delle quali San MarioPio da Goldman Sachs è sempre stato un umile servitore; Enrico Mitraglietta, invece, espressione delle oligarchie finanziarie francesi, immagina un processo di feroce finanziarizzazione dell’economia europea nel tentativo di creare un polo finanziario subordinato geopoliticamente agli USA, ma autonomo e incentrato, appunto, sugli interessi concreti dei suoi mandanti. Chi prevarrà? Riusciranno a trovare una sintesi? E sarà sufficiente per tenere a bada l’insofferenza del mondo produttivo?

Ne abbiamo parlato con Alessandro Volpi.

Dopo gli USA, anche l’Europa arruola Draghi e Letta nella guerra economica contro la Cina

Annunciazione, annunciazione! E’ tornato Mariolone e le groupies sono in brodo di giuggiole. Draghi scende in campo titolava mercoledì La Stampa: l’Europa va cambiata. Draghi scuote l’Unione Europea rilancia la Repubblichina: è necessario un cambio radicale. San MarioPio da Goldman Sachs torna in campo e annuncia il verbo: “Dobbiamo essere ambiziosi come i padri fondatori” afferma con tono messianico; “Resta da capire” commentano i discepoli della Repubblichina, se i miscredenti sapranno aprire il loro cuore alla sua verità svelata e, cioè, “quanti, nell’Europa dei piccoli passi e delle piccole patrie, siano realmente disposti ad imbarcarsi in un percorso rivoluzionario”: usano proprio questo termine – RIVOLUZIONARIO. Andrà ribattezzato San MarioPio da Goldman Marx che, come ogni buon messia, ha i suoi apostoli tra cui spicca lvi, Enrico Mitraglietta, un esempio lampante del metodo di selezione delle classi dirigenti del giardino ordinato: dopo aver causato al suo partito un’emorragia di circa 5 – 6 mila voti per ogni parola pronunciata per due anni, quando infine, nel suo paese, è arrivato a un livello di popolarità inferiore soltanto a Elsa Fornero e a Mario Monti, ecco che gli si sono magicamente spalancati i portoni dorati dei paladini delle oligarchie contro la democrazia di Bruxelles e, proprio come Mario Monti, è stato incaricato di redigere un dossier per capire come far fare all’intera Unione Europea la stessa fine che ha fatto il PD. Compiti che, d’altronde, sono anche piuttosto agevoli: basta proporre la vecchia strategia del more of the same che, tradotto, significa la solita vecchia zuppa, ma in un contenitore nuovo molto più grande; è la strategia non tanto dei perdenti in senso generale, ma di quelli che nei confronti della sconfitta nutrono proprio un’attrazione fatale e perversa, dettata in buona parte dalla consapevolezza di cascare sempre in piedi.

Enrico Letta in un momento di serenità

E se c’è qualcuno al mondo che può avere la certezza di cascare sempre in piedi, quello è proprio Enrico Letta: la sua sconfinata famiglia, infatti, ha accumulato una sconfinata serie di incarichi sin dai tempi del fascismo, durante il quale il nonno ha ricoperto il ruolo di podestà, il prozio quello di prefetto e un pro-cugino, addirittura, quello di vicesegretario della camera; e la repubblica fondata sull’antifascismo li ha adeguatamente premiati fino a quando, a partire dal 2001, per lunghi dieci anni hanno trasformato l’incarico a sottosegretario della presidenza del consiglio in un affare di famiglia con l’eterna staffetta tra lui e lo zio Gianni, a copertura familiare dell’intero arco costituzionale. Con questo background, ragionare sempre e solo in termini di continuità diventa naturale e il more of the same diventa parte del tuo DNA: significa, sostanzialmente, sperimentare un determinato approccio e quando poi fallisce miseramente, riproporlo, ma on steroids – che è proprio una caratteristiche delle élite in declino di tutte le epoche e, in particolare, di quelle neoliberali. L’austherity è fallita? Ci vuole più austerity! Le privatizzazioni sono state un disastro? Vuol dire che erano troppo poche! I piani combinati del messia MarioPio e del suo apostolo Gianni Mitraglietta sono esattamente così: la creazione del mercato unico europeo è stata un disastro? Ce ne vuole di più! E dopo la Repubblichina, anche la von der Leyen è in brodo di giuggiole: “Draghi e Letta indicano la via del futuro” ha dichiarato.
Ma prima di addentrarci nei contenuti dei rapporti del nostro messia e del nostro apostolo, vi ricordo di mettere un like al video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; un piccolo gesto che a voi porta via pochissimi secondi e a noi permette di far conoscere e di far crescere il primo media che alla favoletta del more of the same ha smesso di crederci da tempo.
“La competitività è stata una questione controversa per l’Europa” ha sottolineato San MarioPio nel suo discorso alla Conferenza europea sui diritti sociali organizzata dalla presidenza di turno belga della UE a La Hulpe, a un tiro di schioppo da Bruxelles, durante il quale ha offerto un assaggio del report sulla competitività che sta preparando su richiesta della presidente von der Leyen: con slancio riformatore, San MarioPio brandisce poi un colpo mortale contro il dogma dell’infallibilità della chiesa di Maastricht fondata da Goldman Sachs e ammette che, in passato, l’Europa “ha perseguito una strategia deliberata fondata sul tentativo di abbassare i salari l’uno rispetto all’altro, il tutto combinato con una politica fiscale debole. E l’effetto netto fu solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare le fondamenta del nostro modello sociale”. E’ un’autocritica che non dovrebbe stupire: con una decina abbondante di anni di ritardo, infatti, ormai tutti i principali protagonisti di quella stagione di fondamentalismo ideologico volto a coprire gli interessi materiali concreti del progetto coloniale tedesco hanno fatto mea culpa; pure Mario spread Monti si è detto pentito.
D’altronde funziona sempre così: a differenza dei complottisti brutti sporchi e cattivi, quelli che piacciono alla gente che piace di mestiere negano l’evidenza per anni e poi, quando sono scappati tutti i buoi, fanno un po’ di autocritica; e, così, non solo rimangono inspiegabilmente i primi della classe, ma raccolgono anche una montagna di punti simpatia per l’onestà intellettuale e l’umiltà che si riconosce a chiunque abbia il coraggio di rivedere le sue posizioni. L’importante è che quella confessione non aiuti a svelare i veri interessi materiali concreti che stanno alla base delle eventuali scelte sbagliate e che permetta di continuarli a difendere con strumenti concreti e retorici nuovi, che è esattamente l’operazione di San MarioPio: se, in passato, abbiamo scelto l’austerità è perché avevamo capito male, ma siccome siamo persone trasparenti e intelligenti, quando la realtà si è rivelata essere diversa dal previsto ne abbiamo preso atto e ci siamo adeguati. Ora, io non voglio sopravvalutare i nostri nemici e, quindi, ci sta benissimo che San MarioPio – come Mario Monti, come Enrico Mitraglietta – sia talmente intriso di ideologia da aver sposato l’austerity in buona fede, semplicemente perché sono duri pinati, ma non li voglio nemmeno sottovalutare; e quindi il dubbio che l’abbiano fatto con spietata lucidità per meglio servire il padrone di turno sulla pelle dei lavoratori europei necessariamente rimane anche perché, a parte gli analfoliberali a libro paga della propaganda, eviterei di illudermi che tutti quelli che si sono arricchiti e che continuano ad arricchirsi sulla nostra pelle sono tutti dei coglioni e noi morti di fame siamo tutti dei geni incompresi. E se, dopo aver sostenuto un paradigma così palesemente disfunzionale come quello dell’austerity, i suoi principali sacerdoti sono ancora lì ai posti di comando, il sospetto che sappiano esattamente cosa facciano e nell’interesse di chi lo fanno mi pare piuttosto fondato, soprattutto dal momento che, nonostante facciano mea culpa, sugli interessi materiali concreti che – grazie a quelle scelte scellerate – si sono imposti continuano a non dire mezza parola.
L’austerity – e quindi, come riassume Draghi stesso, l’idea di mettere uno contro l’altro i paesi dell’unione in una competizione spietata a chi abbatteva di più e meglio i salari – è stata un gioco a somma zero che ha impedito all’Europa, nel suo insieme, di fare mezzo passo avanti; ma dentro all’Europa nel suo insieme, ovviamente, ha beneficiato enormemente una parte, minuscola, a discapito di tutto il resto. E questa parte, ovviamente, sono le oligarchie che, grazie alla deflazione salariale, hanno continuato a fare profitti senza mai investire un euro e quei profitti, poi, li hanno portati tutti via dall’Europa per trasformarli in rendita finanziaria nelle bolle speculative d’oltreoceano, spesso passando pure dai paradisi fiscali in modo da non pagarci manco qualche spicciolo di tassa sopra; e, guardacaso, sono le stesse oligarchie che hanno contribuito a costruire le istituzioni europee a immagine e somiglianza dei loro interessi particolari, evitando dalle fondamenta che potessero essere organismi democratici e che, quindi, fosse possibile – di volta in volta – metterci a capo un nemico giurato del popolo come San MarioPio o la von der Leyen, che mai riuscirebbero a ottenere democraticamente quel mandato.
Ecco allora che San MarioPio si presenta agli esami di fedeltà agli interessi delle oligarchie alle quali chiede una nuova sponsorizzazione con la sua tesi affascinante: l’austerity non è stato un piano deliberato per sostenere la lotta di classe delle oligarchie contro il 99%, ma un errore. E pensare che qualcuno ci aveva anche avvisato: “Nel 1994” ricorda infatti San MarioPio “il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman ci metteva in allarme su come concentrarsi sulla competitività rischiava di diventare un’ossessione pericolosa. La sua tesi è che nel lungo periodo la crescita è dovuta all’aumento della produttività, che beneficia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la tua posizione relativa rispetto agli altri per appropriarti di una fetta di crescita”; e qui chi ha dimestichezza con il re assoluto della fuffologia Krugman, ecco che sente arrivare il cetriolone: “Se non avessi mai incontrato Krugman, e non sapessi quanto è stupido” dichiarava qualche tempo fa il nostro Michael Hudson su Geopolitical Economy Report “avrei pensato che stesse semplicemente spudoratamente mentendo. Ma io ho incontrato Krugman, e devo dire che è davvero stupido”.
La battuta di Hudson era la reazione a due editoriali di Krugman pubblicati dal New York Times dove, in soldoni, dava del complottista a chiunque sostenesse che l’economia mondiale è condizionata da una sorta di dittatura del dollaro e cioè, sostanzialmente, a tutti gli economisti che si occupano di questi temi e che non sono direttamente a libro paga delle oligarchie che su quella dittatura fondano il loro potere economico e politico: “Krugman” rilanciava Hudson “non capisce minimamente come funziona il commercio e la finanza internazionale, altrimenti non avrebbe vinto un Nobel. Una precondizione per vincere un Nobel in economia è non capire come funziona il commercio e la finanza internazionale, così che tu non possa mai mettere in discussione le superstizioni che vengono insegnate nell’accademia”; d’altronde, il finto Nobel in economia (che non ha niente a che vedere con l’eredità del povero Alfred Nobel) è stato inventato ad hoc dalle oligarchie per costruire in laboratorio un qualche prestigio accademico per gli economisti neoliberali, a partire – in particolare – dai membri della famigerata Mont Pelerin Society, il buco nero della scienza economica che, tra i suoi adepti, di Nobel ne conta addirittura nove.
Ma cosa c’entra questa digressione con la rivoluzione europea proposta da San MarioPio? Beh, c’entra eccome: la sua ricetta, come quella di Enrico Mitraglietta, infatti, partono proprio dalla negazione dell’esistenza della dittatura del dollaro; siccome l’imperialismo non esiste – e la dittatura del dollaro tantomeno – come nei sermoni motivazionali dei predicatori creazionisti americani, per superare le vecchie debolezze dell’Europa dobbiamo guardarci dentro e, appunto, riproporre more of the same. Le magnifiche sorti e progressive del mercato unico non sono naufragate perché, strutturalmente, è un progetto di doppia subordinazione – dell’Europa nel suo insieme all’imperialismo USA e, all’interno dell’Europa, dei capitali straccioni dei paesi periferici alla Deutschland Uber Alles (anche se non in der Welt) visto che, appunto, a sua volta è una semicolonia; è fallito perché non ci abbiamo creduto abbastanza e, ovviamente, perché siamo buoni e ingenui. Secondo San MarioPio, infatti, ci siamo fatti la guerra a suon di deflazione salariale tra noi, ma non “abbiamo visto la competitività esterna come una priorità politica” e questo perché pensavamo di vivere “in un ambiente internazionale benigno”, dove per benigno San MarioPio, non so quanto volontariamente, intende saldamente fondato sul colonialismo e sul dominio gerarchico dell’uomo bianco sul resto del pianeta.
Il problema, però, è che l’era d’oro dello spietato colonialismo europeo è tramontata da un po’, da due punti di vista: il primo è che le ex colonie del tuo dominio si erano già abbondantemente rotte i coglioni e quelle meglio attrezzate, come la Cina, si sono attrezzate adeguatamente per mettergli fine; il secondo è che ti sei illuso che esistesse questa grandissima puttanata dell’Occidente collettivo, l’unione delle superiori civiltà degli uomini liberi che condividono un giardino ordinato guidato dalle regole. In soldoni, come Krugman, hai fatto finta che non esistessero l’imperialismo USA e la dittatura del dollaro e, quindi, pensavi di poter dominare il Sud globale a suon di politiche neocoloniali (e poi spartirti la torta con l’alleato nordamericano), ma a Washington non ci sono alleati. Solo padroni, che ti hanno preso a sberle: “Abbiamo confidato nella parità di condizioni a livello globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso” ammette San MarioPio, “ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva”.
Da buon agente degli interessi USA, ovviamente, SanMarioPio qui si lamenta principalmente delle ex colonie che si azzardano ad alzare la testa e mettono fine alla dinamica neocoloniale, dove chi è più arretrato e si è avviato dopo allo sviluppo è costretto a rimanere subordinato per sempre e sempre di più grazie agli svantaggi tecnologici e di accesso ai capitali; ed ecco, quindi, che ovviamente il problema principale è la Cina che, addirittura, si azzarda a investire “per catturare e internalizzare tutte le parti della supply chain nelle tecnologie avanzate e in quelle green” quando noi ci aspettavamo che sarebbe rimasta per sempre schiava del nostro primato tecnologico e dei nostri capitali. Ma – e questa la parte positiva di tutta la faccenda – San MarioPio, fortunatamente, ha qualche parola chiara anche per gli USA: “Gli Stati Uniti, da parte loro” ha affermato infatti San MarioPio “stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini, compresa quella delle imprese europee, utilizzando al tempo stesso il protezionismo per escludere i concorrenti e sfruttando il proprio potere geopolitico per ri-orientare e proteggere le catene di approvvigionamento”. Oooohh, lo vedi che, dai dai, c’arrivano anche le bimbe di Davos! Chissà ora San MarioPio cosa ci dirà su com’è possibile che gli USA si possono permettere queste costosissime “politiche industriali su larga scala” e cosa dobbiamo fare noi europei per reagire! Macché, zero; non vorrete mica far piangere gli amici della Mont Pelerin. D’altronde, se la dittatura del dollaro non esiste, di cosa volete parlare?

Mario Draghi

Nel discorso di San MarioPio, come nel dossier di Enrico Mitraglietta, manca il più e il meglio: ammettono che gli USA stanno attirando investimenti grazie a una politica industriale costosissima, ma non ci dicono perché loro si possono permettere di finanziarla aumentando a dismisura il debito, mentre noi reintroduciamo l’austerity con il patto di instabilità e decrescita (anche se leggermente rivisitato) e, quindi, sono costretti a dilungarsi su una lunga serie di cazzatine marginali che in nessun modo sono in grado di invertire il gigantesco furto di capitali perpetuato dagli USA ai nostri danni da almeno 15 anni e, ancora di più, negli ultimi due, quando s’è scatenata la spirale inflazione – rialzo dei tassi. Nel suo dossier, Letta si spinge anche a riconoscere che “Una tendenza preoccupante è la deviazione annuale di risorse europee verso l’economia americana e i gestori patrimoniali statunitensi”, ma non si azzarda a dire la dinamica imperiale che ci sta sotto e quindi cosa è necessario fare per invertire questa tendenza; e alla fine, quindi, entrambi si riducono a dire – banalmente – che serve un mercato finanziario più omogeneo su scala continentale in grado di attirare più risparmi degli europei, che oggi stanno sui conti correnti. Intendiamoci, questa è una cosa giusta e importante: riuscire a convogliare più risorse che già ci sono per finanziare l’innovazione, anche attraverso i mercati azionari, è una cosa positiva; siamo socialisti sì, ma con caratteristiche cinesi. E, infatti, anche in Cina è in corso un grande dibattito su come rendere i mercati finanziari più attrattivi, dinamici e quindi utili allo sviluppo economico, ma tra la Cina e l’Unione Europea c’è una bella differenza; in Cina gli strumenti per fare una politica industriale vera ci sono eccome: non ci sono vincoli assurdi creati ad hoc proprio per impedire che lo Stato possa imporre le sue scelte, una scelta politica precisa sulla base della quale in Cina i meccanismi di mercato sono al servizio delle finalità politiche scelte dal governo, mentre nell’Unione Europea le scelte del governo sono al servizio del mercato e, cioè, dei monopoli finanziari privati. In questa gabbia ordoliberista, rendere i mercati finanziari più efficienti non significa mobilitare risorse per lo sviluppo, ma significa semplicemente una cosa: finanziarizzare ulteriormente l’economia.
I meccanismi citati sono tanti, in particolare i fondi previdenziali e sanitari che in Europa non sono mai decollati del tutto; e come si fa a farli decollare lo sappiamo: tagliando il welfare e obbligando così le persone che vogliono curarsi e che vogliono andare in pensione a dedicare una quota sempre maggiore del loro reddito e dei loro risparmi a ingrassare i monopoli finanzia privati. Insomma: esattamente quello che succede negli USA, ma senza avere il dollaro. Visto che non c’abbiamo il dollaro, la speranza di SanMarioPio e di Mitraglietta è quella, un giorno, di avere almeno la nostra BlackRock e la nostra Vanguard e, cioè, delle concentrazioni private di risparmio gestito tali da poter sostenere artificialmente i titoli dei campioni europei che vorremmo costruire per competere nell’arena globale perché, come sottolinea Mitraglietta nel dossier “non scontiamo soltanto un gap in termini dei capitali che riusciamo a mobilitare, ma anche rispetto alla tipologia dei fondi che sono a disposizione. I fondi pubblici” sottolinea il rapporto “non sempre sono quelli più adatti per andare incontro alle esigenze di uno specifico settore, specialmente quando si tratta di sviluppare nuove tecnologie” e quindi “la nostra priorità dovrebbe essere quella di mobilitare i capitali privati”.
Il modello è chiaro ed è perfettamente coerente con quello ordoliberista sposato da Mitraglietta da sempre: compito dello Stato non è dirigere l’economia, ma garantire ai capitali finanziari una remunerazione stabile annullando, con soldi pubblici, i rischi e creando grazie a questi capitali dei monopoli in ogni settore in grado di imporre i prezzi che vogliono – come abbiamo visto in questi due anni di inflazione, durante i quali le aziende hanno continuato a macinare profitti scaricando sui consumatori tutte le oscillazioni di prezzo dovute, in gran parte, alla speculazione.L’idea di fare come l’America, ma senza un dollaro in grado di fare politiche industriali aumentando il debito a piacere, è – nella migliore delle ipotesi – una vaccata puerile che non può approdare da nessuna parte; nella peggiore, una narrazione utile solo a scatenare un’altra guerra per la concentrazione che colpisca tutte le periferie, per concentrare le risorse in pochissime supermegacorporation, magari concentrate in settori non abbastanza strategici da impensierire Washington o, anzi, fargli un piacere.
Come, ad esempio, la difesa: l’aspetto del rapporto di Mitraglietta che (anche giustamente) ha più colpito la propaganda analfoliberale ieri era la denuncia che l’80% di quello che abbiamo speso per sostenere la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è andato direttamente nei bilanci del complesso militare – industriale made in USA; ma l’impero, oggi, vede di buon occhio uno sviluppo dell’industria bellica degli alleati, molto semplicemente perché, per portare avanti la guerra contro il resto del mondo che sta combattendo, la sua sola industria bellica non basta. Quindi ben venga un’industria bellica europea sufficientemente grande da permettere all’Europa di combattere una lunga guerra contro la Russia in nome della difesa dell’imperialismo, che ci ha ridotti a rubare i soldi delle pensioni e delle cure mediche per rimandare ancora di un po’ il collasso definitivo.
Ciononostante, questo uno due di due fedeli servitori di Washington, appunto, ha anche degli aspetti positivi: le borghesie europee conoscono benissimo la portata della guerra economica che gli amici di oltreoceano gli hanno fatto contro e cominciano un po’ a scalpitare; fino ad oggi questa frustrazione è rimasta un po’ sottotraccia, sicuramente molto più sottotraccia di quanto avessi previsto e, quindi, sicuramente mi sbaglio anche questa volta. Fino ad oggi, però, pesava anche la percezione diffusa – e sulla quale la propaganda si è concentrata senza mai risparmiarsi – che c’era poco da fare: alla fine, quello che conta sono i rapporti di forza e la supremazia militare USA appariva indiscutibile; dopo due anni di schiaffi in Ucraina, il Medio Oriente che non si riesce a tenere a bada e il dubbio che nel Pacifico basti mettere d’accordo giapponesi e filippini per tenere a bada il gigante cinese, quella supremazia non sembra più tanto evidente e qualcuno si comincia a chiedere se non sia arrivato il momento di provare un po’ ad alzare la testa. San MarioPio e Mitraglietta, da questo punto di vista – per dirla col linguaggio dei complottisti – sembrano più che altro dei gatekeeper: figure istituzionali che cercano di dare una risposta di facciata a queste esigenze, per evitare che deflagrino in una sfiducia più ampia e rimangano all’interno del rispetto delle gerarchie imposte dall’imperialismo.
Per me, alla fine, la lezione è principalmente una: le borghesie nazionali e gli zombie delle istituzioni europee non hanno più niente di dirigente; sono dei morti che camminano e che noi, che siamo ancora vivi, abbiamo il dovere di mandare a casa. E non a partire da chissà quali ideali astratti, ma dalla realtà materiale, concreta; per farlo, abbiamo bisogno di un media che non si faccia abbindolare dalle vaccate sui buoni sentimenti e dalle ideologie delle borghesie fintamente illuminate in piena putrescenza, ma che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è San MarioPio da Goldman Sachs

La Meloni SVENDE il Paese a Washington e Wall Street e viene nominata REGINETTA DI DAVOS

Dopo 15 mesi di governo, la Meloni passa a pieni voti l’esame di sudditanza geopolitica e di tecniche avanzate di svendita del paese alle oligarchie finanziarie, e Davos la incorona ufficialmente reginetta del ballo annuale del globalismo targato World Economic Forum; mentre i riflettori si concentravano tutti sulla performance dello scemo del villaggio globale, Javier motosega Milei, e della rappresentazione plastica del livello di degrado umano e culturale nel quale le oligarchie vorrebbero intrappolare il Sud globale nella speranza che la grande decolonizzazione segni una battuta d’arresto, lontano dalle luci della ribalta – e in modo molto più subdolo – persone molto più misurate e presentabili ma ancora più spietate e prive di scrupoli tessevano la trama del mondo distopico che ci aspetta. In una sorta di raffinato rituale pieno di simbolismi, Giorgia la madrecristiana ha offerto lo scalpo del paese ai fondi speculativi che dominano la finanza globale e ha siglato un patto di sangue col demonio che prevede il sacrificio dei cittadini italiani e di quel che rimane della nostra democrazia in cambio della salvezza di un ristrettissimo gruppo di potere. Ma in cosa consiste concretamente questo patto demoniaco?

Kenneth Rogoff

La Stampa, venerdì 19 gennaio; in diretta dalla lounge del Centro Congressi di Davos, ecco che torna in grande style una delle principali star internazionali dell’economia mainstream: Kenneth Rogoff, una specie di vademecum del perfetto analfoliberale suprematista. Il neocidio a Gaza? Colpa dell’Iran. L’inflazione? Colpa dei terroristi yemeniti. La guerra in Ucraina? Colpa della Russia, e pure della Corea del Nord, e anche della Cina, che la riempiono di armi. La crisi in Europa? Colpa di Donald Trump. La nota positiva? Tenetevi forte: GIORGIA MELONI. Serio, eh? Da buon analfoliberale, Rogoff inizialmente su Giorgia la madrecristiana aveva espresso più di qualche perplessità: “Dopo un anno di governo Meloni” gli chiede l’intervistatore “è ancora spaventato?”. “No,” risponde Rogoff “affatto. Sono giorni che continuo a sentire persone parlare bene di lei”; Rogoff racconta di come tra i corridoi di Davos abbia cercato di capire da banchieri e policy makers quali pensavano potessero essere i leader più promettenti in Europa: “Beh,” dichiara “in molti hanno tirato fuori il nome proprio di Giorgia Meloni”. “Il cancelliere tedesco è debole,” continua “il presidente francese è in declino. E di certo, non possiamo guardare al Regno Unito. Meloni invece” ribadisce Rogoff “è stata una sorpresa positiva. Potrebbe essere davvero lei la risposta giusta per questa Europa alla disperata ricerca di leader”; ed ecco che immediatamente la propaganda filogovernativa si dimentica per un attimo della sua retorica antiglobalista e festeggia come di fronte a un’investitura papale: Meloni, l’economista Rogoff: “leader d’Europa”, titola Libero.
Ma chi è esattamente Kenneth Rogoff? Ve la ricordate la teoria dell’austerità espansiva? Per anni è stata la parola d’ordine per eccellenza del mainstream, e indovinate un po’ chi l’ha inventata? Esatto: proprio lui, di persona personalmente; sulla base di quelli che allora vennero spacciati come una grossa mole di dati empirici certificati e inequivocabili, Kenneth Rogoff nel 2010, infatti, riuscì a dimostrare una cosa che avrebbe scioccato tutti gli economisti keynesiani: secondo gli economisti keynesiani, infatti, l’unico modo concreto per stimolare l’economia è che lo Stato metta nell’economia – sottoforma di servizi, investimenti e sussidi – più di quanto ci preleva sottoforma di tasse. Rogoff stravolge questo principio: dimostra come quando il debito pubblico supera il 90% del PIL, la crescita dei paesi – in media – diventa negativa e non supera il -0,1% e come, invece, se lo Stato mette meno soldi nell’economia di quanti ne preleva – e quindi diminuisce il debito – incomprensibilmente, come per magia, i consumi e gli investimenti privati aumentano; l’austerità, conclude Rogoff, al contrario di quello che sostengono gli statalisti, le zecche rosse e tutte le persone accecate dall’invidia e dal rancore verso i ricchi e il capitale, non deprime l’economia ma, al contrario, la rilancia. Un risultato totalmente controintuitivo che però per le élite e l’oligarchia è una vera e propria gigantesca manna dal cielo: se non fosse arrivato, toccava inventarselo. A partire dal 2009, infatti, i famigerati PIIGS entrano in una profonda recessione: se ci fossimo ancora attenuti al verbo delle zecche rosse e dei socialisti, saremmo per forza dovuti intervenire con soldi pubblici per stimolare l’economia; però lo Stato è brutto e il debito è cattivo, e quindi n se po’ fa. Come si risolve allora l’inghippo? Grazie alla teoria dell’austerità espansiva la soluzione è semplicissima: basta prendere l’autostrada in contromano e tagliare ancora un po’ e, per magia, l’economia riprenderà; ed ecco così che, in men che non si dica, questo risultato viene propagandato ai quattro venti da tutti i principali economisti di regime.
Citazioni entusiastiche si moltiplicano sul Financial Times, sull’Economist e sul Wall Street Journal: Paul Ryan, speaker alla camera USA dal 2015 al 2019, lo userà come base per una risoluzione a suo nome a sostegno delle politiche di austerity europee; l’attuale governatore della Banca di Finlandia Olli Rehn che, all’epoca, era nientepopodimeno che vice presidente della Commissione europea, in una lettera indirizzata ai ministri economici e finanziari della UE, al FMI e alla BCE, scriverà che “È largamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca accademica, che quando i livelli del debito pubblico superano il 90%, tendono ad avere un impatto negativo sull’andamento dell’economia, che si traduce in bassa crescita per molti anni”. Vi imponiamo ricette lacrime e sangue che vi riducono in miseria? Ma è per il vostro bene! Lo dicono i numeri di Rogoff! Lo dice la scienziaaah!
Particolarmente entusiasti della nuova rivoluzione copernicana di Rogoff da noi saranno i vari Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e, in generale, gli economisti che gravitano attorno alla Bocconi che, da lì in poi, diventeranno vere e proprie superstar; i risultati li conoscete tutti benissimo: ovviamente il PIL, invece che ripartire, non ha fatto che contrarsi ulteriormente. La disoccupazione è aumentata, il tenore di vita è peggiorato, i consumi sono diminuiti e paradossalmente poi, per mettere le toppe, pure il debito è aumentato molto di più di quanto non sarebbe stato necessario per introdurre politiche espansive prima; l’austerità espansiva ha funzionato talmente male da riuscire – addirittura – a far tornare qualche accenno di combattività anche tra le masse popolari anestetizzate ormai da decenni di controrivoluzione neoliberista e dalle sue conseguenze antropologiche. Nel 2013 se n’è accorto addirittura il Fondo Monetario Internazionale: ogni euro di contrazione fiscale – ha sottolineato – ha avuto un impatto recessivo di 1,5 euro; secondo i nostri prestigiosissimi teorici dell’austerità espansiva l’impatto recessivo sarebbe dovuto essere di 0,5 euri. In confronto, le previsioni di Mario Draghi sugli effetti delle sanzioni alla Russia sono state già più affidabili. Ma com’è possibile?
A differenza delle puttanate di Draghi sulle sanzioni russe, che erano palesemente solo propaganda e wishful thinking della peggiore specie, l’austerità espansiva non si fondava su un fondamentale studio empirico di indiscutibile rigore scientifico? Ecco, appunto. No. Il fondamentale studio di Rogoff, osannato da tutti gli economisti mainstream come una grande rivoluzione scientifica al pari di quelle di Newton e di Galileo, era in realtà un discreto troiaio: “Lo studio intitolato Growth in a time of debt – La crescita al tempo del debito – e pubblicato nel 2010 sulla prestigiosa American Economic Reviewricorda Vittorio Daniele su economiaepolitica.it “non è stato smentito da sofisticate applicazioni econometriche ma, come nella favola di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, da un umile studente di dottorato dell’Università del Massachusetts che, utilizzando proprio i dati di Reinahrt e Rogoff per un’esercitazione, si è accorto che qualcosa non quadrava nelle stime dei due economisti”.

Rogoff, in sostanza, sosteneva che la crescita dei paesi afflitti da un insostenibile debito – di oltre il 90% rispetto al PIL – avessero registrato in media una crescita negativa del – 0,1%; lo studentello dimostrò che, invece, la crescita era stata positiva, e manco di poco: +2,2%. Nel tempo, tutti i grandi sostenitori dell’austerità espansiva si sono rimangiati tutto: da Mario Monti a Mario Draghi, passando anche per lo stesso Giavazzi; ovviamente, non possiamo che esserne felici. Rimane il dubbio, però, del perché a governare la nostra economia poi siano stati richiamati sempre loro, invece del ragazzino che ha smontato il pessimo studio di Rogoff e tutte le persone minimamente ragionevoli che non ci sono mai cascate. Non è che più che la competenza tecnica e scientifica, pesa la fedeltà ad alcuniinteressi specifici? Perché se, dal punto di vista dell’economia generale, l’austerità espansiva è stata una disastro totale, non è che ci hanno perso tutti: le oligarchie finanziarie ci hanno guadagnato eccome, e quando dici oligarchie finanziarie, dici Washington. Guarda qua: dall’arrivo dell’austerità espansiva ad oggi i mercati finanziari americani si sono quintuplicati, e se a guidarli – e a garantirgli il posto di comando – non sono le competenze ma la fedeltà agli interessi delle oligarchie, non è che ora che i Monti, i Draghi e i Giavazzi sono stati illuminati e si sono riscoperti moderatamente keynesiani, ci sta dietro una fregatura?
Il sospetto, sinceramente, viene: il nuovo tormentone di questi prestigiosi e sofisticati economisti infatti è che sì, lo Stato dovrebbe tornare a investire un po’ – come fa Biden con la Bidenomics –, però i soldi che mette sul tavolo non devono servire ad aumentare di nuovo il ruolo dello Stato nell’economia, ma solo a incentivare i privati ad investire nella giusta direzione, azzerando i rischi; non è che questa idea non è fondata su solide basi scientifiche, ma non è altro che un’altra gigantesca cazzata come quella dell’austerità espansiva, utile solo agli interessi che hanno già dimostrato di tutelare così bene? E quando Rogoff si complimenta con la nostra Giorgiona, non è che non lo fa sulla base di solide valutazioni sul tipo di politica necessaria per rilanciare l’economia in Europa, ma esclusivamente in base al fatto che è quella che, più di ogni altro, è in grado di garantire che quegli stessi interessi saranno difesi anche a costo di dover passare sul cadavere dell’ultimo cittadino europeo?
Da questo punto di vista – bisogna ammetterlo – la nostra Giorgiona non s’è fatta mancare niente: ovviamente, prima di tutto, dal punto di vista geopolitico, dove i padroni a stelle e strisce non si sono accontentati – come con altri paesi vassalli – della totale sudditanza di Roma all’agenda di Washington a spese dell’interesse nazionale. Per lavare via i peccati di alcune affermazioni del passato decisamente ostili nei confronti della globalizzazione neoliberista e dei suoi architetti, hanno preteso anche un gesto simbolico eclatante: l’uscita dalla via della seta. La maggioranza dei paesi europei, infatti, continua ad aderire al memorandum – a partire dai paesi strutturalmente più vicini a Washington, dai baltici alla Polonia e, addirittura, la colonia ucraina; a nessuno Washington ha chiesto di uscire, a parte a Roma: non bastava garantire eterna fedeltà. Per suggellare il patto di sangue ci voleva proprio l’umiliazione in mondovisione, e Roma è stata ben felice di accontentarli perché la sua sudditanza non doveva essere nota solo a Biden e ai suoi uomini: bisognava convincere anche le oligarchie finanziarie e gli economisti come Rogoff che, però, non campano solo di posizionamenti geopolitici e gesti simbolici; vogliono la ciccia, al sangue. Che eccola che a Davos è arrivata puntualmente: Mossa a sorpresa del ministero dell’economia titolava entusiasta venerdì Il Giornanale; “ENI, il tesoro cederà il 4% per rassicurare i mercati”, dove – ovviamente – per mercati si intendono le poche decine di oligarchi presenti a Davos e che, tra un festino a base di escort e l’altro, hanno concesso un po’ dei loro sterminati capitali ai governanti più servizievoli dell’impero.

Giancarlo Giorgetti

A Davos Giorgetti si è intrattenuto un po’ con tutti: dal mitico Ray Dalio di Bridgewater, all’amministratore delegato di Bank of America Brian Moynihan, a quello di Jp Morgan Jamie Dimon e, oltre a ENI, sul piatto c’erano anche Poste e, in prospettiva, anche Ferrovie dello Stato; L’Italia in vendita titola indignata addirittura La Repubblichina. Il bue che dà del cornuto all’asino: l’obiettivo infatti, come sapete, sarebbe quello di fare un po’ di cassa per abbattere un po’ di debole, ma è fuffa allo stato puro; in tutto, secondo il governo stesso, si parlerebbe al massimo di una ventina di miliardi, che ai nostri quasi 3 mila miliardi di debito, ovviamente, gli fanno come il cazzo alle vecchie. L’idea che il debito non si possa abbattere vendendo i gioielli di famiglia non è esattamente un’esclusiva di noi oltranzisti bolscevichi: lo dice chiaramente su La Stampa anche l’ultramoderato Mario Deaglio che, da liberale, non è in linea di principio contrario a vendere quel poco di partecipazioni statali che ci rimane ma, sempre da buon liberale, capisce anche quali dovrebbero essere i paletti minimi essenziali, e cioè che questo ingresso dei capitali privati avvenga nell’ambito di una politica industriale degna di questo nome, e che sia capace di mettere al servizio di questa politica i capitali, e non viceversa -che però, è più facile da dire che da fare.
La Cina, ad esempio, segue esattamente questa strada: anche la Cina, infatti, cerca di attirare capitali privati per finanziare le sue gigantesche e potentissime aziende di Stato, ma – appunto – lo fa nell’ambito di una politica industriale precisa decisa dal governo. L’operazione, però, non è che stia dando chissà che frutti, e graziarcazzo: seguire una precisa politica industriale, infatti, molto banalmente vuol dire che la remunerazione dei capitali impiegati dipende dal successo di quelle politiche industriali e dalla loro capacità di generare plusvalore; la finalità non è generare profitti in se, ma ottenere qualcosa di concreto per l’economia nazionale – che sia energia più pulita o un servizio postale più efficiente: ovviamente il tutto viene fatto e pensato in modo che possa generare dei profitti, ma non è per niente scontato e quando si dovrà decidere se i profitti fatti vanno redistribuiti tra i soci o reinvestiti, il fatto di dover perseguire una finalità concreta peserà. Insomma: chi porta capitali si accolla un certo rischio di impresa. Nel nostro modello di derisking state, come lo chiama la Gabor, l’ingresso di capitali invece ha una logica completamente diversa; se manca una politica industriale non è un caso: è semplicemente perché l’unica politica industriale che ci deve essere è quella di garantire in ogni modo che i capitali vengano remunerati adeguatamente; per il capitale finanziario non ci deve essere nessuna forma di rischio, e se questo implica trasformare un’azienda produttiva in un carrozzone inutile, pazienza. L’importante è che il dividendo sia sempre garantito: ovvio, quindi, che se i capitali possono scegliere se entrare nella compagine azionaria di un’azienda che deve rispettare una determinata politica industriale o in una dove l’unica politica industriale è riempirli di soldi, opteranno sempre per la seconda; ed ecco perché le aziende di Stato cinesi fanno fatica ad attirare capitale privato, e perché Giorgetti va col piattino in mano a Davos a svendere pezzi di Stato senza avere uno straccio di politica industriale. Qualcuno cerca di minimizzare la cosa sottolineando come, alla fine – ad esempio nel caso di ENI – si tratterebbe soltanto del 4%: in realtà, con questa logica, potrebbe anche essere l’1%; la dinamica non cambierebbe. A guidare l’azienda rimarrebbe sempre e comunque la stretta logica del capitale finanziario: la remunerazione il prossimo trimestre e chi s’è visto s’è visto.
Ma allora, se non serve ad abbattere il debito pubblico e costringe a trasformare le poche aziende decenti che ci rimangono in pure e semplici macchine da dividendi incapaci di creare valore reale per il paese, perché Giorgetti si abbassa al ruolo di mendicante per raccattare questi miseri 20 miliardi? Semplice: come per l’uscita dell’Italia dalla via della seta, è un atto plateale di sottomissione e di sudditanza, ma il masochismo come forma di piacere fine a se stessa non c’entra; molto più banalmente, Giorgetti deve assicurare le oligarchie e i grandi fondi che l’Italia è al loro servizio e che, aiutandola a rimanere in piedi, ci saranno ottimi affari per tutti. E del sostegno dei fondi per non affondare definitivamente, a breve ce ne sarà parecchio bisogno: anche quest’anno, infatti, il Tesoro italiano dovrà collocare sui mercati – che non esistono – 350 miliardi di euro di titoli di Stato. Fino all’anno scorso, una fetta consistente glieli comprava la BCE; quest’anno non solo non ne comprerà, ma venderà anche una fetta di quelli che ha già al ritmo di 7,5 miliardi al mese, e una mole del genere di titoli hanno un solo acquirente: i grandi fondi. Il resto è fuffa: il mercato, i risparmiatori… tutte leggende metropolitane. Quando il debito è a questi livelli, i titoli li possono comprare solo le banche centrali e i fondi, e siccome la nostra politica è al servizio delle oligarchie finanziarie private, la Banca Centrale ha deciso di tirare i remi in barca, cosicché il manico del coltello rimane esclusivamente in mano ai fondi che, quindi, possono pretendere dai paesi indebitati tutto quello che vogliono. Se non lo fai, i titoli non te li comprano, e loro vogliono due cose: impossessarsi dei gioielli di famiglia per spolparli per bene e che lo stato privatizzi tutti i servizi essenziali.
L’unico modo per vedere il bicchiere mezzo pieno è accontentarsi del fatto che a Davos, a quanto pare, Giorgetti il secondo tema non sembra averlo affrontato; ma la strada è tracciata e non sarà certo La Repubblichina che si riscopre statalista per il tempo di un titolone – dopo decenni passati a osannare i Rogoff, il rigore affamapopoli di Bruxelles e la lotta di classe dall’altro contro il basso condotta dai suoi editori e dai loro amicici senza esclusione di colpi – a fermarli: dalla geopolitica alla politica economica, il governo dei fintosovranisti e l’opposizione dei veri svendipatria – di comune accordo – hanno svenduto e stanno continuando a svendere gli interessi nazionali a Washington e alle oligarchie finanziarie.
Contro questo asse del male è arrivata l’ora di riorganizzare un vero fronte popolare, ampio, plurale democratico che dia di nuovo rappresentanza alla stragrande maggioranza del paese affrontando le contraddizioni alla radice: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si fondi davvero su dati solidi e informazioni reali, invece di inventarsele di sana pianta per far contente le oligarchie. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Kenneth Rogoff

Elena Basile: come ho scoperto che Mario Draghi prendeva ordini da Washington

Ottoliner buongiorno, e benvenuti a questo nuovo appuntamento con le interviste di ottolina. Come ogni giorno, anche oggi il nostro obiettivo è rovinarvi la giornata e farvi venire un grandissimo giramento di coglioni, perchè è l’energia che si sprigiona dal giramento dei coglioni che smuove il mondo. Oggi vi gireranno con il turbo, perché per dipingervi un quadro deprimente della situazione in cui è precipitata la nostra amministrazione coloniale abbiamo chiamato i rinforzi. L’intervistata di oggi la conoscete tutti, è l’ex ambasciatrice italiana in belgio e in svezia Elena Basile, che a un certo punto era diventata uno tra i volti più ricercati della tv italiana. Per chi come noi nutre qualche perplessità sul sostegno incondizionato del nostro governo allo sterminio dei bambini arabi a gaza, una vera e propria boccata d’ossigeno: finalmente una donna delle istituzioni che non sostiene il genocidio e l’apertheid. Purtroppo, è durata poco: a qualche giorno di meritata celebrità, infatti, ha subito reagito la cara vecchia macchina del fango.

Titolava così “Il Giornale”. Tutto d’un tratto, come per magia, i media italiani e i fan del genocidio sparsi per la penisola sono diventati magicamente pignoli, e hanno scoperto un nuovo termine che fino ad allora non avevano mai nemmeno sentito nominare: ministro plenipotenziario. Elena Basile era una millantatrice, si faceva chiamare ambasciatrice, e invece era solo un ministro plenipotenziario, che è il grado immediatamente inferiore. Peccato, che sia lo stesso grado raggiunto dal 99% dei funzionari diplomatici che da alemno 70 anni tutti i media chiamano sempre, senza esclusione, ambasciatori. Come ad esempio Stefano Pontecorvo, che come riporta anche wikipedia, “ha ricoperto l’incarico di ambasciatore d’italia in pakistan, col rango di ministro plenipotenziario”.

E che però non ha mai condannato israele

Risultato, l’ex ambasciatore Pontecorvo il 12 aprile scorso è stato nominato presidente del consiglio d’amministrazione di leonardo spa, l’ex ambasciatrice elena basile è stata epurata dai media mainstream. 

Oggi però almeno è ospite di ottolinatv, e ci spiega da dietro le quinte il mistero che ci perseguita ormai da due anni: com’è che i funzionari dello stato italiano hanno deciso di ridurre in brandelli il nostro paese?

Fine lavoro mai: se la Meloni fa l’atlantista con le pensioni degli altri

Pensavate di esservi liberati della Fornero, eh? In realtà non aveva fatto altro che indossare una parrucca bionda, frequentare qualche corso di dizione in burinese per darsi un nuovo tono più popolare e rieccola lì ai posti di comando, pronta a condannarvi di nuovo, tra una lacrima e l’altra, ai lavori forzati a vita.
La riforma delle pensioni partorita dal governo dei fintosovranisti svendipatrioti è un inno all’austerity che fa impallidire i tecnici neoliberisti più feroci: “Dopo anni di propaganda per abolire la legge Fornero” sottolinea con una certa nota di soddisfazione Luca Monticelli su La Stampa “il centrodestra è arrivato al governo e ha di fatto eliminato la flessibilità, creando un meccanismo che addirittura rafforza il sistema pensato dal governo Monti del 2011”. Difficile dargli torto; per andare in pensione, dal prossimo anno bisognerà mettere assieme 63 anni di età e 41 anni di contributi ma non solo, perché ormai i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a tempo pieno a 22 anni e non hanno mai spesso per i 41 successivi sono una esigua minoranza. Per tutti gli altri, si arriverà in scioltezza a 67 e per quelli che non sono riusciti a mettere assieme nemmeno 20 anni di contributi – e sono tanti – direttamente a 71. In Francia, contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, centinaia di migliaia di persone hanno messo a ferro e fuoco il paese per mesi.
Ovviamente, l’informazione e le élite liberali gongolano e lasciano il palco alla Fornero original che, sempre dalle pagine de La Stampa, si prende la sua rivincita: “La manovra dimostra che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori, ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale. Alle condizioni date, nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile”. Non ha tutti i torti. Basta intendersi su cosa si intende per “condizioni date”: per lei – e i tecnocrati come lei – sarebbero le condizioni imposte dalle scienze economiche, dove con scienza intendono quell’insieme di superstizioni create ad hoc dalle oligarchie finanziarie e osservate religiosamente dalle nostre élite, nonostante siano state smentite millemila milioni di volte negli ultimi 20 anni. Per noi, molto più prosaicamente, consistono nel fatto che tra Monti, Draghi, Letta, Giorgetti e la Meloni non ci sono differenze se non di carattere cosmetico: stanno dove stanno per svendere il paese a Washington e alle sue oligarchie finanziarie.
Avevamo basse aspettative, ma di*c**e! Non c’è modo migliore per descrivere la nostra reazione quando abbiamo visto la bozza di disegno di legge di bilancio che è cominciata a circolare martedì scorso e che tutti sostengono sia più o meno definitiva. Nonostante le avvisaglie, abbiamo sperato fino alla fine che la Lega di Salvini non fosse disposta a sbracare in maniera ignobile di fronte alla macellazione di uno dei suoi cavalli di battaglia “ma non c’è stato nulla da fare” sottolinea il Corriere della Serva: “Palazzo Chigi ha avocato a sé la scrittura della manovra anche sulle pensioni, dove il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha concorso a stringere le norme per mandare un segnale di rigore alla commissione Ue e ai mercati, agenzie di rating comprese”.
La botta più feroce è per i millennial, che passeranno alla storia, probabilmente, come una delle generazioni più sfigate di tutti i tempi; per chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1996, cioè l’anno del passaggio criminale dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione sarà una cosa da ricchi. Per andare in pensione alla tenera età di 64 anni, infatti, dovranno aver raggiunto un assegno mensile da 1.700 euro che, in soldoni, significa aver avuto per 20 anni stipendi netti intorno ai 2.300/2.400 euri: una piccola minoranza. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare di spegnere 67 candeline. Nella peggiore 71, sempre che le aspettative di vita, nel frattempo, non aumentino; in tal caso si ricalcolerà tutto e l’età aumenterà automaticamente. Siamo arrivati al punto che ogni volta che un vecchietto muore prima degli 80 anni dovremo festeggiare, e forse non basterà: tutte le risorse della manovra, infatti, sono andate al taglio del cuneo fiscale che, in realtà, non è fiscale manco per niente. A venire messi direttamente in busta paga del lavoratore, infatti, sono soldi che fino ad oggi andavano all’INPS; per il prossimo anno quei soldi all’INPS li darà lo Stato. Poi chissà.
Una fregatura; il taglio del cuneo, infatti, è diventato indispensabile dopo che l’anno scorso le aziende, nonostante l’inflazione, hanno aumentato i profitti (e di parecchio) ma senza aumentare di un centesimo gli stipendi dei lavoratori che, così, hanno perso oltre il 7% del loro potere d’acquisto, come se gli avessero tagliato di botto la tredicesima. E questo nella migliore delle ipotesi: secondo una relazione di Mediobanca del mese scorso, infatti, la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori delle 2000 principali aziende italiane sarebbe stata addirittura del 20%. Oltre alla tredicesima gli hanno fregato pure un altro stipendio e mezzo. Con il taglio del cuneo, a colmare la lacuna non dovranno essere le aziende, redistribuendo una piccola parte dei profitti letteralmente fregati sia ai lavoratori che ai consumatori, ma ci penserà lo stato, ovviamente con i soldi dei lavoratori stessi, che sono sostanzialmente gli unici che pagano davvero tutte le tasse e per i quali, in futuro, ci saranno ancora meno soldi per pagare le pensioni.
E sapete lo Stato da dove prenderà i soldi per pagare gli aumenti salariali al posto delle aziende? L’ipotesi che va per la maggiore è il blocco del turn over: se ne sentiva proprio il bisogno. L’Italia infatti, al di là delle leggende metropolitane spacciate dalla propaganda e che fanno immediatamente presa sul popolo delle partite iva – che è incazzato nero e non senza ragioni – è uno dei paesi OCSE col numero più basso di lavoratori pubblici sia rispetto al totale della popolazione attiva, sia rispetto alla popolazione complessiva; per raggiungere gli standard medi del mondo sviluppato, avremmo bisogno domattina di assumere tra gli 1 e i 2 milioni di dipendenti pubblicicosì, de botto. In queste condizioni, fare cassa rinnovando il blocco del turn over significa solo una cosa, molto semplice: ridurre l’amministrazione pubblica una scatola vuota a partire dalla sanità, dove la carenza di personale è un vero e proprio dramma.
La soluzione della Fornero con la parrucca? Pagare di più gli straordinari ed evitare scientificamente di assumere, e quello che si risparmia regalarlo alla sanità privata. Ma attenzione: non sono errori. E’ una strategia deliberata; se a garantire pensioni adeguate e sanità dignitosa non è più il pubblico, infatti, ecco che non rimane altra alternativa che dare un po’ dei nostri quattrini a fondi e assicurazioni private, e cioè alle oligarchie finanziarie – in particolare d’oltreoceano – che ormai hanno più quattrini e potere degli stati nazionali stessi che, ormai, assolvono molto banalmente il ruolo di loro comitato d’affari. E, da questo punto di vista, accanirsi più di tanto con questo governo di fenomeni da baraccone lascia il tempo che trova; sono solo l’ennesima variante, magari leggermente più pittoresca e maldestra, del partito unico degli affari e della guerra che governa l’Italia dalla fine della prima repubblica, con differenze del tutto marginali.
E quindi non ce ne vogliate, ma qui tocca aprire l’ennesimo capitolo di educ8lina e, insieme al leggendario Alessandro Volpi, provare a raccontarvi un altro pezzetto oscuro del capitalismo ai tempi della globalizzazione finanziaria che sui media mainstream non troverete mai.

Capitolo primo: come l’efficientissimo ordine economico neoliberale si è trasformato in una gigantesca trappola del debito

Alessandro Volpi: “Io voglio provare a fare un ragionamento che è sostanzialmente legato a 2 o 3 questioni fondamentali: la prima, che mi sembra una questione di natura generale che a mio modo di vedere merita una riflessione, sono i dati che sono emersi in questi giorni sul livello di indebitamento globale. Abbiamo visto che in questi giorni sono usciti questi rapporti di varia natura. Sono più rapporti che mettono in luce come il debito complessivo e il debito pubblico e privato abbiano superato ampiamente i 300.000 miliardi di dollari, quindi ormai è un livello stabilizzato. Sembrava che questa forte impennata dipendesse dalle spese per il covid e quant’altro, anche a livello globale; in realtà ormai viaggiamo su un indebitamento complessivo che è superiore ai 300.000 miliardi, quindi vuol dire grossomodo il 300% del prodotto interno lordo mondiale. Dentro questo numero ce n’è un altro, cioè il gigantesco indebitamento pubblico, perché siamo ormai stabilmente sopra i 100.000 miliardi: oscilliamo fra i 100 e i 98 mila miliardi, quindi il 100% del prodotto interno lordo globale. Ma il dato più rilevante rispetto a questi numeri è rappresentato dal fatto che, secondo le stime di questi istituti di varia origine e provenienza (quindi è certamente un dato oggettivo o almeno presumibilmente oggettivo) la percentuale di interessi maturati sul debito e sul prodotto interno lordo tende a oscillare fra il 15 e il 20%, che è veramente un’esagerazione. Pensare che noi abbiamo una massa di interessi da pagare – intendo il sistema globale degli stati in giro per il mondo – che è grossomodo intorno al 15% del prodotto interno lordo mondiale, vuol dire veramente una montagna di soldi. Da questa fotografia, secondo me, emergono due considerazioni di rilievo. La prima, ce lo dobbiamo mettere in testa (e spero che questo messaggio riusciremo a trasmetterlo), è che è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di mantenimento in vita di una parvenza di stati sociali – ma a questo punto direi anche dello stesso sistema delle imprese e delle famiglie – senza il debito. Cioè l’idea che il debito sia in qualche modo, soprattutto nel caso del confronto dei debiti pubblici, un dato patologico per cui bisogna riavviare politiche di austerity, ridurre il debito, riportare i parametri – come vuole fare l’Europa con il patto di stabilità in qualche modo, sia pur gradatamente – a una riduzione, mi sembra che cozzi contro questo dato di fatto. Cioè se noi prendiamo i dati, banalmente, del 2000, i dati del 2000 ci fanno vedere che il rapporto fra il debito complessivo e il prodotto interno lordo mondiale era intorno, grossomodo, al 20 – 25%; oggi siamo al 300%. Come si può pensare che noi manteniamo in vita dei parametri, peraltro pensati a metà degli anni ‘90, quindi in condizioni dove i rapporti debito – PIL pubblico (e in parte privato) facevano dire “Beh, ma il debito è il male e quindi mettiamo tutta una serie di misure che devono far rientrare in direzione della riduzione dell’indebitamento”?

Oggi è abbastanza palese che immaginare una contrazione del debito vuol dire strangolare le economie dei paesi sia dal punto di vista privato sia dal punto di vista pubblico. È evidente che al debito si somma debito e si strangola ancora, in maniera marcata, l’economia pubblica. Quindi bisognerebbe cominciare a pensare che il debito pubblico è un dato sostanzialmente fisiologico, che va rapportato alla capacità di mantenere i Paesi in condizioni di vita che siano dignitose dal punto di vista dei servizi, e servono le politiche delle banche centrali – laddove necessario – per il finanziamento del debito. Ce lo dicono i numeri: a volte veramente è come se noi non volessimo vedere i numeri (e poi su questa arriverò a cascata sulle considerazioni anche legate allo specifico), ma i numeri ci dicono che il debito è indispensabile. Se noi non facciamo debito non siamo in grado di mantenere in vita il nostro sistema economico. I debiti pubblici hanno un ruolo decisivo.

Fortunatamente, però, un modo per sopravvivere e rendere tutto questo gigantesco debito sostenibile c’è, si chiama monetizzazione: in soldoni, significa che quando uno Stato cerca di finanziare il suo debito attraverso l’emissione di titoli di Stato ma sul mercato non trova abbastanza acquirenti, o per trovarli gli deve garantire interessi troppo alti, ecco che a intervenire è la Banca Centrale, che stampa moneta e a comprare il debito ci pensa direttamente lei. Non è una tecnica particolarmente innovativa; quando il capitalismo era ancora capitalismo industriale e per fare quattrini si puntava alla crescita economica – invece che al furto di una fetta sempre più grande di ricchezza in un’economia che si rimpicciolisce sempre di più – era la norma: in Italia, ad esempio, fino al 1981, quando la religione neoliberista ci impose di rendere la Banca Centrale indipendente e al servizio – invece che del governo – delle oligarchie finanziarie. Ma ancora oggi, in piena era di dominio delle oligarchie, c’è chi lo fa ancora, e non sono soltanto gli stati sovrani del sud globale che, anzi, da questo punto di vista qualche difficoltà in più ce l’hanno. No, no. E’ proprio il centro dell’impero.Negli USA la Fed, infatti, fa esattamente questo: dà carta bianca al governo per aumentare il debito sostanzialmente all’infinito. Questo infatti è l’andamento del debito pubblico USA dal 1970 ad oggi: ancora nel 2008 era paragonabile a quello dell’area euro,appena poco sopra il 60%. Oggi è poco meno del 125% e continua ad aumentare di brutto, e la Fed continua a comprare tutti i titoli che servono. Da noi invece, dopo la parentesi del whatever it takes di Draghi, la BCE non solo i titoli ha smesso di comprarli, ma ha anche iniziato a vendere quelli che c’aveva già, nonostante il debito complessivo dell’eurozona sia enormemente inferiore a quello USA: appena appena sopra il 90%. Secondo la leggenda metropolitana degli economisti mainstream, l’eurozona sarebbe quella virtuosa: la teoria magica, infatti, prevede che se aumenti il debito e poi lo monetizzi fai esplodere l’inflazione. Peccato, però, che l’inflazione nell’eurozona sia stabilmente superiore a quella USA: maledetta realtà, che continua a contraddire i tecnocrati neoliberisti. Senza rispetto proprio.
Ma il masochismo dell’eurozona non finisce qui, perché se non hai una Banca Centrale che monetizza il tuo debito, il tuo debito – appunto – lo devi vendere ai privati. Ma come fanno i privati a decidere quanti interessi gli devi riconoscere perché si prendano il rischio di comprare il tuo debito?
Ed ecco che qui entrano in gioco le agenzie di rating, tre aziende private che danno le pagelle al debito di tutti i paesi del mondo, e gli investitori istituzionali – come i fondi pensione – se le agenzie di rating ti hanno dato un brutto voto, il tuo debito molto banalmente non lo comprano. Insomma, delle prof esigenti e influentissime che, però, spesso non agiscono in modo esattamente disinteressato, diciamo. Le tre agenzie di rating che decidono le sorti delle finanze pubbliche di tutto il mondo sono Fitch, Moody’s e Standard & Poor; i primi tre azionisti di Standard & Poor sono Vanguard, State Street e Blackrock ,che sono anche tre dei principali cinque azionisti di Moody’s insieme a Bearkshire Hathaway, il fondo di investimento di Warren Buffet. Un conflitto di interessi gigantesco, che va ben oltre semplicemente assecondare le scommesse al ribasso dell’azionista di riferimento. Il problema è molto più generale; il voto delle agenzie di rating è per forza di cose influenzato dagli interessi generali dei grandi fondi speculativi e il modello è molto chiaro: più svendi il tuo paese ai fondi speculativi e più alti saranno i tuoi voti. Ecco perché, al di là delle polemiche da talk show, essere disposti a svendere la patria non è un’opzione politica tra le tante, ma è proprio il prerequisito per salire al governo di un paese, che tu ti chiami Monti, Fornero, Giancazzo Giorgetti o Giorgia famigliatradizionale Meloni. E sui media mainstream tutto questo noncielodikono.
Per cominciare a guardare la luna invece del dito, l’unica possibilità è che un media tutto nostro – che non faccia da megafono alle oligarchie finanziarie – ce lo si costruisca da no. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti