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Tag: crisi

L’Europa è morta di troppa austerità!

Dall’ultimo meeting tenuto dal gruppo nel 2012 a Rimini, la MMT torna in Italia in grande stile e con una nuova credibilità; se nel 2012, i suoi sostenitori erano associati a fantasiose teorie complottiste o populismi, oggi le ricette espansive ed eterodosse sembrano le uniche possibili per salvare l’Occidente dalla de-industrializzazione e dalla sicura sconfitta nel conflitto multipolare. Lo Stato deve tornare a svolgere un ruolo attivo nella vita economica del paese e per farlo deve ricorrere a tutti gli strumenti nel cassetto degli attrezzi, tra cui la politica monetaria. La presenza di Warren Mosler è quindi un momento cruciale di riconoscimento della caparbietà e coerenza alla fine premiata; così, a distanza di oltre un decennio, Draghi, Monti e rettiliani vari sono costretti a fare autocritica, mentre il gruppo del MMT continua a predicare la lieta novella inascoltato. Le istituzione europee svoltano a destra e diventano monopolio del dogmatismo del PPE, ma negli USA è ormai chiarissimo chi avesse ragione quindici anni fa. L’Unione europea si sta suicidando di austerità assistita.  Buona visione!

#MMT #crisi #UE #USA #economia #politicaespansiva #politicamonetaria #finanza

Dem USA alla disperata ricerca del leader giusto per la guerra civile del capitalismo imperiale

Le fazioni del capitalismo imperiale sono a un passo dalla guerra civile? Da outsider, negli ultimi mesi Trump è riuscito a riconquistare il titolo di golden boy di numerose fazioni del grande capitale del centro imperiale, dai petrolieri agli hedge fund, passando per gli anarcocapitalisti selvaggi della Silicon Valley; vogliono che Trump (e la bimba di Peter Thiel e di Bob Mercer JD Vance, inspiegabilmente elevato a working class hero da un pezzo di mondo del dissenso completamente egemonizzato dall’alt right) imponga ai mega-fondi che, da 15 anni a questa parte, dettano la linea ai democratici (da Blackrock a Vanguard) un nuovo compromesso che ne ridimensioni lo strapotere fondato sulla gigantesca liquidità che tiene in piedi la bolla speculativa USA e ne restituisca una parte ai cari vecchi capitani di ventura che rappresentano lo spirito selvaggio del capitalismo del centro imperiale. Una partita fondamentale che potrebbe sfociare in una reingegnerizzazione complessiva del superimperialismo per com’è emerso 50 anni fa con l’abbandono del gold standard da parte dell’amministrazione Nixon e si è consolidato come via di fuga dalla crisi finanziaria del 2008. Ne vedremo delle belle; intanto, ne abbiamo parlato con un Alessandro Volpi più lucido e determinato che mai.

Come nascono i nazionalismi? – Come crisi e guerre definiscono le identità collettive

Come nasce e si forma il nazionalismo? E quale conseguenze comporta per la comunità in cui si diffonde e per i rapporti che intrattiene con le altre comunità?  L’antropologo Marco Traversari ha scritto recentemente un saggio sull’etno-nazionalismo basco, esito delle proprie ricerche sul campo attraverso l’osservazione partecipante (vale a dire una tipologia di ricerca etnografica prolungata partecipando direttamente alla vita sociale di una comunità sotto osservazione) nella Spagna settentrionale.

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Crisi e cambiamenti: come l’economia cinese sta influenzando il mondo, con @SongYang

Oggi esploriamo lo stato attuale dell’economia cinese, tra crisi e cambiamenti, in compagnia di @SongYang

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
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I BRICS ribaltano il tavolo e aprono squarci rivoluzionari – ft. Fosco Giannini

La svolta multipopolare ha ribaltato le regole del sistema-mondo imperialista: l’ascesa di Cina, India, Brasile e altri attori in Africa e Medio Oriente fa traballare le classi dirigenti occidentali. La ristrutturazione economica mondiale va a sfavore dell’Impero e gli USA tremano. La crisi odierna apre spazi di manovra per gruppi organizzati anti-capitalisti. Ne parla Fosco Giannini al nostro Gabriele Germani, buona visione!

#BRICS #crisi #guerra

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Chi ha paura della decrescita – Ft. Paolo Cacciari

Da molto tempo sono invalsi luoghi comuni in quantità sul decrescismo come paradigma ecologico-politico, accomunato a forme di ambientalismo trendy innocuo perché incapace di aggredire i meccanismi di sfruttamento effettivi, scambiato per pauperismo primitivistico (questa la critica più frequente di una certa sinistra modernista) oppure (nel caso dell’ex premier M. Renzi) interpretato come una mera forma di regressione economica indesiderabile in sé. Quello che ci proponiamo in questa chiacchierata è un tentativo di dialogare con orizzonti di ricerca alternativi al sistema economico vigente nel suo sovrasfruttamento ambientale e dinanzi alla crisi climatica in atto in cui ci dibattiamo (senza un’agenda politica seria) che si fa sempre più pressante.

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Andrea Zhok – L’Occidente sta collassando dall’interno e per questo vuole la guerra

Le ex democrazie occidentali non son minacciate dall’esterno, ma dall’interno: dal potere oligarchico sempre più illiberale, dalla distruzione dello stato sociale, e della crisi demografica. Questa crisi interna si riversa all’esterno aumentando il caos internazionale e tentando le nostre elitè dal risolvere queste contraddizioni attraverso la guerra, come successo nella prima guerra mondiale. La cultura e l’economia neoliberista sono il sintomo di questo lento ma pericolosissimo declino.

La Cina si sta preparando per dichiarare guerra all’Occidente?

Quante probabilità ci sono che la Cina inizi una guerra? A lanciare l’allarme su Foreign Policy sono Michael Beckley della prestigiosa Università di Tufts, nei sobborghi di Boston, e Hal Brands, professore di relazioni internazionali alla John Hopkins University, un esempio da manuale del rovesciamento totale della realtà che alberga nelle menti distorte dei suprematisti liberaloidi; i due ricercatori denunciano come in alcuni ambienti accademici USA prevalga spesso una certa ingenuità: “Alcuni studiosi” sottolineano “sostengono che il pericolo sarebbe gestibile se solo Washington evitasse di provocare Pechino. Altri” continuano “ricordano come la Cina non abbia più avviato una guerra di invasione da quella con il Vietnam del ‘79, che durò appena tre settimane”. “Ma tutta questa fiducia” ci mettono in guardia “riteniamo che sia pericolosamente mal riposta”. I due ricercatori ci ricordano come storici e scienziati politici abbiano individuato, in particolare, 4 fattori che determinano la propensione alle avventure belliche di un paese e “se si considerano questi quattro fattori” allertano “diventa chiaro che molte delle condizioni che un tempo hanno favorito un’ascesa pacifica, oggi potrebbero invece incoraggiare una discesa violenta”. Ah beh, certo, la famosa discesa cinese, un tracollo proprio. Si parte benissimo, diciamo, e si procede meglio: gli autori, infatti, sottolineano come “il fatto che Pechino si sia astenuta da grandi guerre – mentre gli Stati Uniti ne hanno combattute diverse – ha permesso ai funzionari cinesi di affermare che il loro Paese sta seguendo un percorso unico e pacifico verso il potere globale”. Cioè, pensa te quanto so’ manipolatori questi cinesi: al solo scopo di farci credere che sono pacifici e che non vogliono la guerra, per farci abbassare la guardia e coglierci di sorpresa effettivamente non fanno guerre. Geniale! Tipo la storia di Kubrik che aveva il compito di simulare per la NASA l’allunaggio, ma era così meticoloso che, per simularlo, è andato a girarlo direttamente sulla Luna; ma tranquilli, perché il bello deve ancora arrivare e, da qui in poi, il fuffometro è tutto in crescendo.

Michael Beckley

Il primo dei famosi 4 fattori presi in considerazione, infatti, sono le contese territoriali coi vicini: in tutte le controversie, affermano i due ricercatori, “la Cina sta diventando sempre meno incline al compromesso e alla risoluzione pacifica di quanto non lo sia stata in passato, rendendo la politica estera un gioco a somma zero”. Eh già: i cinesi sono talmente aggressive che se dopo 50 anni che sostieni formalmente la politica di Una Sola Cina, per la prima volta nella storia approvi un pacchetto di aiuti militari diretti (come ha fatto in agosto Biden) contraddicendoti in maniera plateale, se la prendono pure, come se la prendono anche quando ti fai consegnare un’intera fetta di territorio filippino per metterci un’altra sfilata di missili puntati direttamente contro di loro. Eh, ma quanto so’ suscettibili però, eh? Si vede proprio che non fanno altro che cercare un pretesto per incazzarsi, un po’ come Putin che si lamenta dell’espansione della NATO contro le promesse che – come dicono i nostri amici analfoliberali‘ndo sta scritta sta promessa, eh? Metti il link!
Il secondo fattore preso in considerazione, comunque, è ancora meglio: “Le dittature personaliste” sostengono infatti gli autori “hanno più del doppio delle probabilità di scatenare guerre rispetto alle democrazie, e anche alle autocrazie, dove comunque il potere è detenuto in molte mani. I dittatori” infatti, continuano “iniziano più guerre, perché sono meno esposti ai costi del conflitto: negli ultimi 100 anni, i dittatori che hanno perso le guerre sono caduti dal potere solo il 30% delle volte”; precedenti particolarmente allarmanti, ovviamente, perché – manco a dirlo – “Xi ha trasformato la Cina in una dittatura personalista particolarmente incline a disastrosi errori di calcolo e guerre costose”. Insomma: la Cina, nonostante 1,5 miliardi di abitanti, la più grande potenza produttiva del pianeta e un partito con 100 milioni di iscritti sarebbe, in realtà, dominata da un uomo solo al comando che, senza nessun contro – potere e senza nessun bisogno di mediare con chicchessia, potrebbe tranquillamente svegliarsi la mattina e decidere di bombardare un paese a caso giusto per ammazzare un po’ la noia, e senza rischiare nulla manco in casa di sconfitta; d’altronde, mica so’ occidentali bianchi quelli. Je poi fa’ quello che te pare, mica se n’accorgono: ed è esattamente quello che fa Xi il sadico, dai “brutali lockdown anti – covid ai campi di concentramento in Xinjiang”. Dal vademecum delle puttanate sinofobe degli analfoliberali manca giusto la carne di cane. Tutte “forme di aggressione interna” sostengono gli autori, che “dovrebbero renderci molto nervosi per l’aggressione esterna che potrebbe verificarsi”. Ovviamente, e fortunatamente, questa storia dell’uomo solo al comando è una barzelletta in ogni stato moderno con una certa complessità; figurarsi in un vero e proprio continente come la Cina dove i centri di potere – sia pubblici che privati – sono infiniti, dove ci sono aziende di Stato che sono Stati dentro lo Stato con fatturati che si avvicinano al PIL di interi paesi e dove vige un federalismo molto spinto, con le singole regioni che gestiscono direttamente una fetta enorme delle loro entrate fiscali che autonomia differenziata scansate proprio. Ma questi sono tutti distinguo da professoroni che non possono intralciare i deliri del pragmatismo guerrafondaio di un vero cowboy che si rispetti. Purtroppo, comunque, la lista dei fattori che fanno suonare l’allarme rosso nei confronti della Cina non è ancora finita.
E il terzo fattore, tutto sommato, ha anche un che di ragionevole: “L’equilibrio militare in Asia” ricordano infatti gli autori “si sta modificando in modi che potrebbero rendere Pechino pericolosamente ottimista sull’esito della guerra”. Oh, lo vedi? Anche due propagandisti suprematisti, dai e dai qualcosa di sensato riescono a dirlo: avranno realizzato che mentre prendi gli schiaffi in Ucraina e mentre sei diventato incredibilmente vulnerabile anche in Medio Oriente – che fino a ieri trattavi come terra di scorribande senza rischiare nessuna ritorsione – che tu possa reggere un terzo fronte nel Pacifico non è molto credibile. Macché; con un virtuosismo da manuale, dopo poche righe ecco che ribaltano di nuovo completamente la frittata: “Un punto di vista” affermano così a caso, senza senso, a un certo punto – infatti “è che la guerra della Russia in Ucraina renda meno probabili altre guerre di aggressione”. Il fatto sarebbe, sostengono gli autori, che questa guerra dimostrerebbe “quanto le guerre di aggressione possono ritorcersi contro” e così “dall’indecente furto di terre da parte di Putin” continuano “la Cina sta imparando lezioni importanti”. Tipo? Secondo gli autori, Pechino starebbe imparando:
UNO: “quanto possa essere difficile la conquista contro un difensore impegnato”;
DUE: “quanto le forze armate autocratiche possano sottoperformare in combattimento”;
TRE: “quanto sia abile l’intelligence statunitense nell’individuare piani di predazione” e
QUATTRO: “quanto duramente il mondo democratico possa penalizzare i paesi che sfidano le norme dell’ordine liberale”.

Hal Brands

Cioè, dopo due anni pieni di schiaffi a due mani dati con nonchalance dalla Russia a tutta la NATO messa insieme nella guerra per procura in Ucraina, questi vogliono trarre insegnamenti su come affrontare la Cina partendo dal presupposto che l’Ucraina ha vinto la guerra: bene, ma non benissimo, diciamo. Ma soprattutto, qui oltre a un’overdose di pensiero magico, non si capisce proprio manco la logica: cioè, da un lato dici che la Cina potrebbe essere spinta a gettare il cuore oltre l’ostacolo dal fatto che i rapporti di forza sembrano avvantaggiarla un po’ e poi, nel periodo dopo, dici che dalla guerra in Ucraina dovrebbero aver imparato che quando un uomo con gli occhi a mandorla si trova di fronte a un marine, l’uomo con gli occhi a mandorla è un uomo morto. Prodigi dell’analfoliberalismo suprematista.
Ma la vera chicca arriva alla fine: “Le grandi potenze” scrivono infatti i nostri due autori “diventano bellicose quando temono il futuro declino”. Dai, dai che dicono una roba sensata! Quando “la concorrenza geopolitica si fa feroce e spietata” continuano “le nazioni difendono nervosamente la loro ricchezza relativa e il loro potere”; “pesantemente armata, ma sempre più ansiosa” insistono “una grande potenza sull’orlo del declino sarà ansiosa, persino disperata, e tenderà a respingere le tendenze sfavorevoli con ogni mezzo necessario”. Oh, ecco: finalmente parlano della sindrome da declino degli USA. Bravi! Ah, no? Cioè, quando dicono potenza in declino pesantemente armata in preda al panico non si riferiscono a Washington? Eh, voi pensavate ci fosse una soglia minima di dignità anche per gli accademici suprematisti, eh? Macché; qui siamo di fronte a un vero e proprio capolavoro: secondo gli autori, gli esempi di queste forze in declino in preda alla disperazione sarebbero, infatti, nientepopodimeno che “la Germania nazista, l’impero giapponese e la Russia di Putin”. Ora, si può buttare a ridere – che ridere non fa mai male, ma (Imprecazioni, ndr), questi insegnano in università con rette da 100 mila euro l’anno e non pubblicano sul Foglio o fanno le dirette sul canale di Ivan Grieco, ma pubblicano articoli sulla più autorevole rivista di politica internazionale del pianeta e affermano serenamente che quando la Germania nazista è entrata in guerra era una potenza in declino, e pure il Giappone: cioè, due paesi all’apice della loro potenza politica, economica e militare dichiarano guerra al resto del mondo per conquistarlo e assoggettarlo, e secondo loro sono potenze in declino. Cioè, ci si può anche ridere, ma quando l’intera élite intellettuale di un paese che, da solo, spende in armi più di tutti gli altri messi insieme non capisce un cazzo a questi livelli, non so quanto ci sia da ridere ecco, soprattutto quando dalla storia passano all’attualità: “Man mano che le prospettive militari a breve termine della Cina migliorano” scrivono infatti i ricercatori “le sue prospettive economiche a lungo termine si stanno oscurando” e questa, sottolineano “è una combinazione che in passato, spesso, ha reso le potenze revisioniste più violente”.
Un’analisi completamente scollegata dalla realtà ed estremamente pericolosa perché da questo punto di vista – dal momento che, senza nessuna motivazione plausibile, pensi che la Cina sia in declino – non solo crei allarmismo ingiustificato perché, appunto, sostieni che le rimane solo da lanciare una guerra disperata, ma ti fai anche un viaggio totalmente strampalato su cosa dovresti fare per ridurre i rischi, un trip delirante che, infatti, arriva subito: “I requisiti per frustrare l’ottimismo della Cina sull’esito di un’eventuale guerra” sostengono i due autori “sono abbastanza semplici”; si comincia con “una Taiwan irta di missili antinave, mine marine, difese aeree mobili e altre capacità economiche ma letali”, si prosegue poi con un bel “esercito americano in grado di utilizzare droni, sottomarini, aerei furtivi e quantità prodigiose di capacità di attacco a lungo raggio per portare una potenza di fuoco decisiva nel Pacifico occidentale”, si passa poi a “accordi con alleati e partner che danno alle forze statunitensi l’accesso a più basi nella regione e minacciano di coinvolgere altri paesi nella lotta contro Pechino” e si finisce con “una coalizione globale di paesi che può colpire l’economia cinese con sanzioni e soffocare il suo commercio transoceanico”. “Washington e i suoi amici” ammettono gli autori “stanno già portando avanti ognuna di queste iniziative. Ma” lamentano “non si stanno muovendo con la velocità, le risorse o l’urgenza necessarie per superare la minaccia militare cinese in rapida maturazione”. Insomma: partendo da un’analisi storica completamente strampalata e da un’analisi economica che non sta né in cielo né in terra, i nostri autori arrivano alle considerazioni di un Edward Luttwack qualsiasi: sono selvaggi, bombardiamoli; almeno Luttwack, però, per dire ‘ste cose mica studia. Passa da un buffet all’altro: se devi dire solo puttanate, almeno goditela, diciamo; imparate da Zio Silvio così almeno, quando – a questo giro – i vostri deliri si paleseranno per le gigantesche cazzate che sono, potrete dire che almeno ve la siete spassata.

Edward Luttwak (quasi)

Sfortunatamente per i nostri due autori, l’idea strampalata del declino economico cinese non poteva arrivare in un momento meno adatto; due giorni fa, infatti, il Fondo Monetario Internazionale – che non è esattamente un braccio della propaganda di Pechino – ha ribadito, numeri alla mano, l’ovvio che ormai sfugge solo a Rampini e a Scacciavillani: “Anche quest’anno” ha affermato Steven Barnett al China Daily “la Cina offrirà il contributo di gran lunga maggiore alla crescita globale con oltre un quarto della crescita stessa” e fino a qui, diciamo – a parte chi legge Rampini – lo sapevamo. La cosa importante, invece, è che sempre il Fondo Monetario sottolinei quanto questo risultato sia straordinario e dimostri tutta la resilienza dell’economia cinese, dal momento che avviene non solo mentre la crescita globale va a rilento – e quindi la situazione economica generale non è delle migliori – ma, in particolare, mentre due degli elementi fondamentali dell’economia cinese sono in profonda crisi: il mercato immobiliare e l’export. Non è un risultato da poco: la Cina, in 30 anni, si è trasformata da un paese agricolo fatto di contadini che vivono in campagna, in una potenza industriale fatta di operai che vivono nelle città: questo, che è in assoluto e di gran lunga il più grande processo di urbanizzazione della storia dell’umanità – e che ho descritto in dettaglio nel mio CEMENTO ROSSO, il secolo cinese, mattone dopo mattone (che, per inciso, è il primo e unico mio libro, visto il clamoroso fallimento editoriale) – ha rappresentato, ovviamente, una componente gigantesca del miracolo economico cinese; ora quella spinta propulsiva è arrivata al capolinea, e alla crescita cinese manca un tassello enorme. Molte altre economie sono andate gambe all’aria per molto, ma molto meno: la Cina, invece, è continuata a crescere anche quest’anno del 5,2% e, secondo l’IMF, anche il prossimo anno – di poco meno, e senza mettere in campo chissà che incentivi, eh? Al contrario del 2008 – e al contrario degli USA, infatti – la Cina, a questo giro, ha deciso di non schiacciare troppo sull’acceleratore degli interventi anticiclici finanziati a debito, ma quello che ha ancora più del miracoloso è che tutto questo avveniva mentre anche la seconda componente storica del miracolo cinese subiva una contrazione piuttosto significativa: parliamo delle esportazioni, che hanno subito una battuta d’arresto non solo e non tanto per la guerra commerciale combattuta a suon di retorica su decoupling e reshoring – che è più fuffa propagandistica che altro – ma soprattutto perché, appunto, i mercati più ricchi dove i cinesi vendevano un sacco di roba (a partire dall’eurozona) sono tutti più o meno in recessione a parte gli USA, dove però la crescita è tutta a debito ed è dovuta agli investimenti privati sostenuti dai soldi pubblici. Insomma: per essere in declino non male, diciamo; per 30 anni fondi il tuo miracolo su due gambe, fai un incidente, te le tronchi tutte e due eppure cominci ad andare in meta. Non so quante volte sia successo in passato, sinceramente; come sia possibile, l’ha spiegato in modo piuttosto convincente in un recente articolo Richard Baldwin, professore di Economia Internazionale alla Business School di Losanna – come l’IMF, non esattamente una bimba di Xi, diciamo – ma a differenza di Rampini e dei due prof di Foreign Policy, evidentemente, manco uno che vive in un mondo parallelo tutto suo. “Non sono un esperto di Cina” esordisce Baldwin “ma durante il lavoro in corso sulle interruzioni della catena di approvvigionamento globale, non ho potuto fare a meno di riflettere su un fatto evidente che però non credo sia così ampiamente noto come dovrebbe essere: la Cina oggi è l’unica superpotenza manifatturiera mondiale”. Baldwin sottolinea, infatti, come la Cina rappresenti oggi una quota di produzione manifatturiera superiore alla somma dei successivi 10 paesi, dagli Stati Uniti al Giappone, per arrivare al Regno Unito, una cosa mai vista e che, sottolinea Baldwin, è avvenuta con una rapidità senza precedenti: “L’ultima volta che il re della collina manifatturiera è stato spodestato dal trono” scrive Baldwin “è stato quando gli Stati Uniti hanno superato il Regno Unito poco prima della Prima Guerra Mondiale. Un passaggio di consegne che è durato poco meno di un secolo. Il passaggio tra Cina e Stati Uniti invece ha richiesto meno di 20 anni. L’industrializzazione della Cina, in breve” conclude Baldwin “non può essere paragonata a nessun altro evento del passato”.

Richard Baldwin

Contro questa ascesa impetuosa e inarrestabile, agli USA non rimane che buttarla tutta in un altro settore dove invece la superpotenza, almeno sulla carta, continuano a essere indiscutibilmente loro; esattamente come la Cina nella produzione di cose che rendono la nostra vita migliore, gli USA – infatti – primeggiano in cose che la nostra vita la annientano del tutto: la spesa militare di Washington è superiore alla somma delle spese militari dei 10 paesi successivi. La strada, quindi, sembra segnata: la Cina produce e ha bisogno di pace e di sicurezza nelle rotte commerciali per vendere, gli USA son buoni solo a spendere quattrini in armi di ogni genere e per arrestare il loro inarrestabile declino non hanno opzione migliore che scatenare la guerra. In realtà, però, Baldwin sottolinea due aspetti che complicano ulteriormente il quadro: il primo si chiama GGR, Gross Globalisation Ratio, che sta per rapporto lordo di globalizzazione ed è un indice che rappresenta la quota di produzione manifatturiera venduta all’estero; a differenza del PIL manifatturiero, che indica soltanto le vendite di beni finiti, include tutte le vendite di tutti i produttori presenti in Cina. “Durante la sua ascesa allo status di superpotenza manifatturiera” scrive Baldwin “il GGR della Cina è aumentato vertiginosamente, quasi raddoppiando”: tradotto, la Cina è diventata enormemente più dipendente dalle esportazioni ma, a differenza di quanto generalmente si pensi, questa impennata in realtà è sostanzialmente tutta concentrata tra il 1999 e il 2004; “quel periodo” sottolinea Baldwin, effettivamente “ha rappresentato lo straordinario effetto della globalizzazione, ed è probabilmente il motivo per cui così tanti pensano alla Cina come a un’economia incredibilmente dipendente dalle esportazioni”. “Ma la storia” continua Baldwin “non è finita nel 2004. Da allora infatti il GGR cinese è in costante calo. E nel 2020 è ritornato ai livelli del 1995”. Cosa significa? Molto semplicemente che “la produzione cinese non è più dipendente dalle esportazioni come molti potrebbero credere” e questo, continua Baldwin “sfata il mito secondo cui il successo della Cina può essere interamente attribuito alle esportazioni. A partire dal 2004 circa, piuttosto, la Cina è diventata sempre più il miglior cliente di se stessa”; tradotto: continuare a sperare che la Cina continui ad accettare ogni sorta di ritorsione commerciale da parte di chi non è in grado di competere sul piano produttivo perché è troppo dipendente dai nostri mercati e senza la domanda delle nostre economia decotte crollerebbe da un momento all’altro, potrebbe rivelarsi – e in parte si è già rivelato – puro wishful thinking. E non è tutto perché nel frattempo, invece, la dipendenza degli USA dai prodotti cinesi – compresi i semilavorati e tutta la componentistica – non ha fatto che aumentare a dismisura, mentre quella cinese nei confronti dei prodotti USA è leggermente, ma costantemente, diminuita. Insomma: “Nel suo documento di ricerca” scrive il sempre ottimo Ben Norton “Baldwin dimostra che gli USA sono molto più dipendenti dall’acquisto di manufatti cinesi di quanto la Cina dipenda dal mercato statunitense per vendere i propri prodotti”; “I politici che indulgono in chiacchiere sul disaccoppiamento dalla Cina” conclude Baldwin “avrebbero probabilmente bisogno di valutare con un po’ più di lucidità questi fatti oggettivi: il disaccoppiamento sarebbe difficile, lento, costoso e distruttivo, soprattutto per i produttori del G7”.
Insomma: per mesi si è parlato di quanto la Cina fosse ormai in una profonda crisi economica e di come, sostanzialmente, la tenevamo per le palle perché più era in crisi e più aveva bisogno dei nostri ricchi mercati per le sue merci; oggi scopriamo che non c’è nessuna crisi e che abbiamo più bisogno noi della Cina che lei di noi e che, anche a questo giro, andando dietro alla retorica bellicista USA non facciamo altro che darci l’ennesima martellata sui coglioni. Forse, e dico forse, avremmo bisogno di un media che non ci racconta fregnacce per convincerci a darci altre martellate sui coglioni; forse, e dico forse, avremmo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

VINCENZO COSTA: manuale di resistenza contro il mondo piatto del totalitarismo neoliberale

Ottoliner buonasera e benvenuti a questo nuovo appuntamento con le interviste di OttolinaTV. Come vi aveva anticipato questa mattina il buon Alessandro nel suo pippone su Bigpharma e le oligarchie che ci fanno sbroccare, oggi abbiamo con noi Vincenzo Costa che, per restare sul pezzo, ci parlerà della gigantesca epidemia di disagio psichico che sta devastando le nostre società, e del perchè, paradossalmente, chi c’ha il PIL più grosso di sempre più grosso c’ha pure anche il conto in farmacia per imbottirsi di psicofarmaci.

Della serie: non è depressione, è neoliberismo.

Ma la questione del disagio psichico, vista con gli occhi di Vincenzo Costa, che di mestiere insegna Fenomenologia all’Università San Raffaele di Milano, e per passione conduce da anni una battaglia feroce contro le perversioni del pensiero unico neoliberale ovunque ci sia un millimetro quadrato di spazio per far sentire la voce della ragione e del dissenso, è una lente di ingrandimento che ci permette di toccare con mano le conseguenze di un conflitto ancora più profondo: quello tra i disvalori delle elite occidentali ammantati di universalismo, ma che di universale hanno solo la logica predatoria del capitale, e le complesse tradizioni culturali che si stratificano nella mente e nello spirito delle classi popolari, che laddove riescono a organizzarsi in stati nazionali sovrani in grado di difenderli dal colonialismo culturale dell’occidente suprematista, tutta questa voglia di occidentalizzarsi tutto sommato non sembrano avercela. Una forma di resistenza piena di contraddizioni, ma che di sicuro ci insegna una cosa: se vogliamo davvero costruire un’alternativa, dobbiamo scansare come la peste tutte le fughe in avanti e i sogni astratti e avveneristici di ingegneria istituzionale di ogni genere, e tornare a sporcarci le mani con quella sostanza spuria e puzzolente che sono le culture politiche nazionali.

Perchè, diceva de André, “dai diamanti non nasce niente. dal letame nascono i fiori”

L’era dei Media Mainstream è Finita? – con Andrea Legni ed Enrica Perucchietti

Oggi parliamo di media e di informazione e lo facciamo con Andrea Legni, direttore dell’indipendente, e Enrica Perucchietti, giornalista free lance e uno dei volti di Visionetv. L’occasione è questa: l’uscita della monografia mensile de l’indipendente, con il quale abbiamo avviato già da qualche tempo una collaborazione,e il numero di questo mese è proprio dedicato all’informazione e in particolare, come dice il titolo, alla crisi della disinformazione di regime. Una crisi che va avanti da tempo, ma che si è approfondita dall’inizio della guerra per procura della nato contro la russia in ucraina, e ancora di più con lo scoppio della guerra di israele contro i bambini arabi a Gaza, che, appunto come titola il suo articolo proprio enrica, nel tentativo disperato di giustificare la ferocia genocida di quella che ancora inspiegabilmente viene definita l’unica democrazia del medio oriente, ha fatto raggiungere “nuove vette” alla “disinformazione di regime”.

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

Le conseguenze economiche della guerra [pt1]: chi pagherà l’inflazione che arriva dal Medio Oriente?

“I venti di guerra gelano la crescita” titolava già martedì scorso Il Sole 24 ore. Ma – non per essere puntiglioso eh – di quale cazzo di crescita parlano?

in foto: Alessandro Volpi

Come insieme ad Alessandro Volpi abbiamo spiegato con dovizia di particolari già la settimana scorsa, ben prima che si riaprisse questo ennesimo capitolo di questa terza guerra mondiale a rate, l’economia del nord globale era già bella che affacciata sul bordo di un gigantesco baratro. Quella italiana in particolare poi si è già portata un bel pezzo avanti: non solo è già in caduta libera, ma ha anche raggiunto il fondo ed ha già iniziato a scavare, ma solo con le mani. L’escalation in Medio Oriente, diciamo, non fa altro che fornirci una bella trivella nuova di pacca per scavare più velocemente. Il meccanismo è di nuovo quello che si è già ampiamente manifestato dopo lo scoppio nel febbraio del 2022 della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. A partire da una tensione di carattere geopolitico, a prescindere dal suo impatto concreto sull’economia reale, parte un’offensiva speculativa che innesca una spirale inflazionistica; le banche centrali colgono la palla al balzo e, con la scusa della lotta all’inflazione, avviano una corsa al rialzo dei tassi d’interesse. All’inflazione però, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie, perché ormai il mercato e la concorrenza sono solo ricordi del passato: in tutti i settori che contano davvero vige un regime oligopolistico, e a determinare i prezzi sono una manciata di imprese che continuano a tenerli alti anche quando la crescita dei prezzi delle materie prime ormai è rientrata.
In compenso però la corsa al rialzo dei tassi d’interesse un effetto lo scatena eccome: la recessione, e nella recessione, la fuga dei capitali verso i beni rifugio, e cioè i titoli di stato USA e le bolle speculative denominate in dollari. D’altronde chi te lo fa fare di investire nell’economia reale in tempi così turbolenti quando puoi parcheggiare i tuoi quattrini in macchine infernali che non fanno altro che generare soldi da altri soldi? Ed ecco così che le economie più deboli, per far finta di tenere un minimo in ordine i conti, si ritrovano costrette a vendere i gioielli di famiglia, e le oligarchie finanziarie col portafoglio ovunque ma col cuore a Washington fanno shopping in giro per il mondo a prezzi di saldo e riempono le tasche all’1%, sulla pelle del 99.
Con questo video, grazie al contributo essenziale del mitico Alessandro Volpi e dell’amico Matteo Bortolon de La Fionda, abbiamo deciso di inaugurare una piccola miniserie che nel corso di questa settimana cercherà non solo di farvi una cronaca di quello che sta accadendo, ma anche di fornirvi gli strumenti analitici per capire perché sta accadendo e che ripercussioni avrà sulla nostra vita quotidiana e di provare a convincervi che l’unica soluzione realistica e razionale è distruggere una volta per tutte il meccanismo perverso imposto dall’1% e tornare a dare voce e potere al 99.
Con l’avvio dell’operazione Diluvio di al Aqsa da parte della resistenza palestinese sabato scorso, e con l’intensificarsi della pulizia etnica da parte del regime sionista che ha scatenato, il Medio Oriente, dopo una fase di apparente relativa calma, è tornato a incendiarsi e con lui, inevitabilmente, anche il mercato dell’energia, ridando così rinnovato slancio alla spirale inflazionistica che questi due anni di politiche monetarie suicide non erano in realtà riuscite mai a spezzare sul serio.

Alessandro Volpi: “il prezzo del gas, che prima che iniziasse questa nuova tensione bellica era indicativamente intorno ai 32 – 34 € a megawattora. Oggi siamo a cinquantatré, quindi nel giro di pochissimi giorni il gas ha preso venti euro senza che in realtà sia successo nulla sul piano delle forniture reali. Questo è il preludio di un’ulteriore crescita, perché è evidente che è ripartita la speculazione. Non dimentichiamoci che durante l’ondata inflazionistica 2021 – 2022 il petrolio era stato sostanzialmente intorno ai 70 – 75 $ al barile. Ora siamo ormai ampiamente sopra gli 80. Ci dirigiamo verso i 90 e quindi è abbastanza evidente che ci troveremo con una bolletta energetica molto pesante. Questo è un quadro per niente rassicurante e ancora una volta figlio delle ventate speculative prima ancora che dell’economia reale, perché dieci giorni di tensione militare, pur nella loro crudezza, non hanno inciso in nessun modo su quelli che sono gli approvvigionamenti reali e siamo anche certi che non incideranno negli approvvigionamenti reali dei prossimi mesi e probabilmente di tutto il prossimo anno.
Quindi, veramente, stiamo facendo stiamo facendo pura speculazione che determina di nuovo un’inflazione pesantissima.
Ma come fa concretamente la finanziarizzazione e la speculazione finanziaria ad alterare alla radice il meccanismo attraverso il quale i così detti mercati, che è l’eufemismo che la propaganda liberale ha adottato per descrivere un manipolo di oligarchi, determinano il prezzo reale delle materie prime senza le quali tutto il mondo si blocca. Il buon Alessandro Volpi ci ha fatto un riassuntino for dummies, perchè anche se il giochino ormai dovrebbe essere arcinoto, la potenza di fuoco della propaganda che usa ogni mezzo per dissimulare i crimini contro l’umanità sui quali si fonda la dittatura globale delle oligarchie finanziarie rischia sempre di distrarci dai nodi fondamentali. Ecco allora che con grande piacere vi introduco questa piccola rubrica di Rieducottolina, dove spieghiamo perché la finanziarizzazione dei mercati delle materie prime rappresenta uno ‘mbuto gigantesco per l’economia reale.

Alessandro Volpi: “Il prezzo del gas europeo continua a essere fatto, appunto, in questo listino privato che si chiama TTF che – mettiamolo in chiaro con evidenza – è di proprietà dei grandi fondi speculativi, perché gli azionisti di TTF sono in larga misura Vanguard, Black Rock e State Street, quindi gli stessi soggetti che direttamente e indirettamente – in quanto azionisti di banche che operano sul listino su questo TTF – contribuiscono a determinare il prezzo perché fanno scommesse sui contratti reali. In altre parole lo scambio di gas viene definito in termini reali fra un compratore e un venditore nel listino TTF a un prezzo pari a 32 – 33 € per megawattora a parte, una serie di scommesse che prevedono un’ipotetica mancanza di gas, perché c’è stato un boicottaggio? Perché? Partono queste scommesse prodotte da questi grandi fondi o dalle banche che sono possedute, dei fondi che sono a loro volta i proprietari del listino dove vengono fatte queste scommesse che dicono: scommettiamo che fra tre mesi il prezzo, al momento dell’eventuale consegna dei gas, non sarà trentatré ma sarà cinquantatré? Immediatamente il prezzo sale arriva a cinquantatré. Il contratto successivo di vendita reale non è più firmato, non è più concluso a trenta, trentatré euro a megawattora, ma cinquantatré e così via. Questo perché, appunto, il TTF è un listino privato che definisce i prezzi, che ammette al proprio interno non solo compratori e venditori reali, ma anche tutta una serie di oggetti finanziari che sono di proprietà di questi stessi fondi che alla fine, peraltro, sono gli stessi che sono in larga misura gli azionisti principali delle società di produzione e distribuzione dei gas del petrolio. Noi peraltro ci siamo invaghiti ormai del gas liquido naturale che per sua natura è il più soggetto alle ondate speculative, perché è un mercato dove la speculazione si può fare: nella Borsa dove si definisce; durante i transiti doganali; sul noleggio della nave. Una roba dove la definizione del il prezzo, lo sanno bene gli operatori, è praticamente impossibile Quindi noi non abbiamo più in questo momento una dimensione dell’economia reale. Abbiamo una dimensione dell’economia dove i prezzi sono finanziarizzati e quindi la valutazione è semplicemente quella di stabilire, in un clima di forti aspettative o comunque di probabili aspettative di tensione, significhi la possibilità di scommettere al rialzo. Si scommette al rialzo, la forza di questi soggetti è tale che è come se tutti scommettevano nella stessa direzione. Chi capisce il vento, ovviamente, va dietro a quel tipo di scommesse. I prezzi si sganciano dalla realtà e ogni tensione si traduce appunto per effetto di questa finanziarizzazione, in un’ondata inflazionistica che travolge il potere d’acquisto reale delle popolazioni. E chi scatena le tensioni è consapevole che dietro c’è l’effetto amplificatore estremo della finanziarizzazione.
Aggiungerei peraltro, un’ultima annotazione: non so se hai notato negli Stati Uniti hanno inasprito alcune sanzioni nei confronti della Russia proprio in questi giorni, guarda caso nel momento in cui i prezzi del petrolio hanno cominciato a risalire. Perché in effetti questo dato ha contribuito a un ulteriore aumento del prezzo del petrolio e del gas e qui è una sorta di braccio di ferro. Perché paradossalmente l’aumento del prezzo dei gas poi alla fine finisce per favorire anche la stessa Russia di Putin. Gli americani ne traggono beneficio perché certamente c’è un aumento del prezzo del petrolio. Alla fine chi ne subisce le conseguenze in maniera chiara sono gli importatori di questo tipo di produzione, di questo tipo di energia, quindi in larga parte buona parte del sistema del sistema produttivo europeo.”

La concorrenza sleale del finto alleato USA a partire dai costi dell’energia, è ormai un vecchio classico, come d’altronde è un vecchio classico la risposta che le banche centrali si sentono in dovere di dare ogni qualvolta si ripresenta una spinta inflazionistica. Anche se, come abbiamo visto, le cause sono meramente di carattere speculativo e quindi l’arma di distruzione di massa della corsa al rialzo dei tassi di interesse molto banalmente, non funziona. Ancora meno funziona nella fase successiva e cioè quando la speculazione rientra, i costi delle materie prime ritornano a livelli più o meno ragionevoli, ma non quelli dei prodotti delle aziende, che anzi continuano ad aumentare senza nessunissima ragione concreta, con l’unico risultato che fette sempre più grandi di ricchezza passano dalle tasche di chi lavora alle tasse di chi campa sul lavoro altrui. La corsa al rialzo dei tassi di interesse serve a qualcosa per contenere l’inflazione soltanto nella fase ancora successiva, e cioè quando i lavoratori finalmente si incazzano, e si organizzano per pretendere un adeguamento dei salari all’aumento del costo della vita. Che è un po’ la fase che stiamo attraversando adesso, anche se in Italia non si direbbe.

Ma negli USA ad esempio si.

Come sta succedendo ad esempio nell’industria automobilistica, dove i sindacati sono ormai da oltre un mese sul piede di guerra per pretendere aumenti salariali nell’ordine del 40%, e anche la riduzione dell’orario di lavoro. Ora si che i tassi di interesse alti servono: ai padroni. come arma contro le rivendicazioni di chi lavora.
Ed ecco perchè, nonostante l’intera economia del nord globale sia ormai più o meno ufficialmente in recessione, le banche centrali continuano in questa politica folle e con il medio oriente che torna a incendiarsi, ogni speranza di un cambiamento di rotta nel prossimo futuro, per quanto esile, va definitivamente a farsi benedire.

Alessandro Volpi: “È probabile che questo significhi che la Banca centrale europea non riveda le proprie strategie, quindi continui con una politica di tassi che è una politica di alti tassi alti, con le conseguenze che ne derivano in termini di collocamento del debito pubblico a partire dai Paesi più deboli. Questo che cosa farà? Favorirà chi ci ha già la liquidità. Chi ce l’ha la liquidità? I grandi fondi. È chiaro che si determina una soluzione per cui invece tutti quelli che hanno bisogno del credito bancario lo pagano l’ira di Dio e quindi sono fuori dal mercato. Quindi chi è che si compra le aziende in difficoltà che non hanno più credito bancario? I grandi fondi che la liquidità ce l’hanno. Quindi è evidente che il gioco funziona e c’è questa selezione, perché è ovvio che questi soggetti potranno comprare grandi fondi, pezzi di imprese, potranno comprare parti di società pubbliche messe in dismissione. Voglio vedere chi si comprerà questo famoso venti e i famosi venti miliardi delle privatizzazioni italiane, probabilmente venti non basteranno, ne faranno venticinque. Avranno bisogno di soldi e cosa venderanno? All’Italia e Monte dei Paschi? Ci credo poco proveranno, ma venderanno qualcosa che sia appetibile. Quindi titoli di Eni, titoli di Enel. Io penso che questo non sia soltanto una follia. È una follia che ha una sua profonda lucidità. La finanziarizzazione consente di fatto una inflazione stellare, non rende più possibile il finanziamento dei debito per far fronte all’aumento del costo della vita e quindi obbliga alla riduzione del perimetro degli interventi pubblici, obbliga prima alla privatizzazione dei settori e poi, appunto, la riduzione del perimetro e questo va a vantaggio di quelli che si possono appunto comprare Eni, Enel e via dicendo. Al tempo stesso va a vantaggio di quelli che diventeranno i destinatari dei risparmi degli italiani. Blackrock e Vanguard invece che fare ventiduemila miliardi di attivi faranno anche venticinque, trentamila miliardi, perché ci saranno anche risparmi degli italiani. Che ad oggi sono solo in parte e finiranno lì. Questo è il mondo nel quale siamo drammaticamente avviluppati, è l’affermazione della centralità assoluta dei grandi fondi che stanno occupando gli spazi non solo della finanza, ma anche dell’esistenza degli Stati in quanto tali.”

La cosa più divertente in queste ore, è proprio vedere come di fronte alle evidenti ripercussioni catastrofiche che l’escalation in Israele avrà necessariamente anche sulla nostra economia già tramortita, la nostra classe dirigente sia tra le più entusiaste sostenitrice della soluzione finale. Se è raccapricciante vedere come le oligarchie non abbiano nessuna remora a sostenere un genocidio pur di arraffare un po’ di quattrini in più, vedere qualcuno sostenere apartamente con entusiasmo un genocidio addirittura contro i suoi stessi interessi, non ha prezzo. Nell’attesa di portare avanti il loro piano complessivo per il dominio globale, infatti, almeno le oligarchie finanziarie a stelle e strisce e i loro fondi speculativi intanto sono già passati all’incasso. Grazie alla carneficina in corso a Gaza, nell’arco di poche ore Lockheed Martin ha guadagnato in borsa il 9,8%, General Dynamics il 9,9%, Northrop Grumman, poco meno del 14%. Indovinate chi sono i principali azionisti? la risposta la sapete già: sempre loro, blackrock, vanguard e state street, il simbolo per eccellenza della più grande concentrazione di potere e di ricchezza nelle mani di un manipolo di aristocratici del’intera storia dell’umanità.

Una bella boccata d’ossigeno.

In media infatti dall’inizio dell’anno le azioni dei tre colossi delle forniture militari avevano perso intorno al 20%. Era l’effetto delle magnifiche sorti e progressive della controffensiva ucraina, che mano a mano che si rivelava anche agli occhi dei liberali più ottusi per il grandissimo inevitabile fallimento che era, lasciava presagire che l’era d’oro delle supercommissioni per portare avanti la guerra per procura sarebbe presto tramontata. Nel frattempo, lontano dagli uffici delle oligarchie del fronte democratico, il mondo è alla fame, letteralmente.
Come ricorda Stephen Devereux dell’Institute of Development Studies su Project Syndicate infatti, “Dagli anni ’60 fino alla metà degli anni 2010, la fame è diminuita in tutto il mondo”. Il Contributo di gran lunga più importante è arrivato dalla Cina, che è talmente ferocemente turbocapitalista che ha emancipato dalla schiavitù della fame tutta la sua popolazione. Risolto il problema della fame in Cina, ricorda Devereux, “nonostante la produzione alimentare record, la tendenza è tornata a invertirsi, con circa 828 milioni di persone colpite dalla fame a livello globale nel 2021 – un aumento di 46 milioni rispetto al 2020 e di 150 milioni rispetto al 2019”.

E potrebbe essere soltanto l’inizio.

Alessandro Volpi: “I prezzi agricoli sono definiti fondamentalmente da due, tre borse a livello mondiale. Le più importanti sono la Borsa di Chicago, la Borsa di Parigi, la Borsa di Mumbai. La Borsa di Chicago, che è la più importante, in parte anche la Borsa di Parigi, sono totalmente finanziarizzate, cioè la proprietà della Borsa di Chicago è ancora una volta di State street, Vanguard e Black Rock. Quindi il luogo dove si definisce il prezzo dei prodotti agricoli, il contenitore dove si definisce è di proprietà di questi fondi. Questi fondi sono presenti, come nel caso del gas, nonostante c’entrano nulla con la produzione di beni agricoli, che peraltro sono beni assolutamente sensibili e le prime tre, quattro società di produzione di cereali e non solo, ma anche di altri beni in giro per il mondo, sono di proprietà di questi fondi. Le altre tre, quattro, le famose Big Three che regolano i prezzi. Quindi anche nel momento in cui si decide che per determinate aspettative futuribili ci può essere una carenza di determinati prodotti agricoli, abbiamo visto il caso dello zucchero, per esempio, che ha avuto un balzo del 45% in virtù di una carenza di produzione limitata al 4% complessivo. Quindi senza nessuna giustificazione, perché dietro quel contenitore sono partite le scommesse. Quindi noi dobbiamo avere ormai chiaro che il mondo nel quale viviamo non è più un mondo nel quale esiste un mercato che è in grado di fare un qualche tipo di valutazione sull’impatto geopolitico delle questioni. Cioè scoppia una tensione fra Hamas e Israele, c’è un conflitto fra Hamas e Israele? Bene, valutiamo il mercato. Dovrebbe servire indicativamente a valutare che tipo di effetti produca. Ecco, questo non esiste più.

È il libro nero del capitalismo globalizzato neoliberista, che ogni anno genera direttamente oltre dieci milioni di morti. Fortunatamente sono morti democratiche e per la libertà dei mercati, quindi non sono proprio morti vere, sono danni collaterali, in nome della democrazia e della libertà. Oltre alle decine di milioni di morti dirette, poi, c’è la schiavitù del debito che generano, e della quale ci occuperemo domattina nella seconda puntata di questa miniserie, con un lavoro a quattro mani scritto insieme all’amico Matteo Bortolon. Affinchè il libro nero del capitalismo finanziario globalizzato, che proviamo a scrivere giorno dopo giorno, raggiunga il maggior numero di persone, affidarsi ai media pagati da chi di tutto questo è la causa potrebbe essere piuttosto velleitario

Piuttosto, ci serve un media tutto nostro, che stia dalla parte del 99%.

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E chi non aderisce è Antonio Tajani.

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