Cina, Iran, Russia e Corea del Nord: per la NATO globale è guerra mondiale
“Quello che c’è di veramente eccessivo non è la capacità produttiva cinese, ma l’ansia degli Stati Uniti”: sono queste le parole che il direttore generale del Dipartimento per gli affari nordamericani del ministero degli esteri cinese ha selezionato con cura per riassumere i contenuti della tanto attesa visita di Blinken a Pechino, a poche settimane di distanza da quella del segretario del tesoro Janet Yellen. “Il vero problema” sottolinea Warwick Powell dell’Università del Queensland su Global Times “non è la sovracapacità cinese, ma la sottocapacità occidentale”; Warwick ricorda come i numeri oggettivi facciano un po’ a cazzotti con la narrazione sulla quale l’Occidente collettivo e la sua macchina propagandistica hanno deciso di investire tutte le loro energie: ad esempio, Warwick ricorda come le esportazioni rappresentino il 13% della produzione cinese, poco superiore all’11% che rappresentavano nel 1995 (6 anni prima che la Cina entrasse nel WTO) e di gran lunga inferiori al picco del 18% raggiunto nel 2004. “Questo significa” sottolinea Warwick “che il mercato interno ha assorbito la stragrande maggioranza della crescita della produzione”; “in confronto” insiste Warwick “i settori manifatturiero tedesco e giapponese sono significativamente più dipendenti dalle esportazioni”: nel caso dell’automotive, ad esempio, che è uno dei settori più chiacchierati del momento, Warwick ricorda come la Cina, nel 2023, abbia prodotto la bellezza di oltre 30 milioni di veicoli e ne abbia esportati in tutto meno di 5 milioni, cioè circa il 16%. Il Giappone, invece, è sì sceso al secondo gradino del podio degli esportatori in numeri assoluti, ma i 4,4 milioni di veicoli che ha esportato rappresentano il 63% della sua produzione totale; in Germania l’export pesa addirittura per il 75%.
Warwick ricorda anche come l’accusa di sovracapacità è poi regolarmente accompagnata dall’accusa sulla domanda interna cinese tenuta bassa; in realtà però, sottolinea Warwick, nel 2023 “Il reddito disponibile pro capite cinese è aumentato del 6,1% in termini reali rispetto all’anno precedente, ma nello stesso periodo i consumi sono aumentati del 9%”: quindi, a differenza del Giappone e della Germania, i redditi reali crescono rapidamente e la quota dedicata ai consumi ancora di più. Insomma: le potenze industriali ferocemente mercantiliste, il cui modello di sviluppo è incompatibile con uno sviluppo equilibrato (perché mantengono artificialmente bassi redditi e mercato interno per aggredire i mercati esteri) sono altre; eppure, sottolinea Warwick sarcasticamente, “Inspiegabilmente gli USA non si sono mai lamentati della sovracapacità tedesca o giapponese”. In questo caso, poi, la gigantesca fake news sulla sovracapacità cinese è doppiamente infame perché ha come obiettivo difendere i monopoli e le oligarchie delle ex potenze coloniali sulla pelle del Sud globale: gli sherpa dell’imperialismo, infatti, accusano i cinesi di praticare prezzi troppo bassi; ora, effettivamente, i prezzi cinesi sono decisamente competitivi. E graziarcazzo: la politica industriale cinese consiste in uno sforzo gigantesco per aumentare la produttività; la non politica industriale del giardino ordinato invece, al contrario, fino ad oggi è sempre consistita nella protezione dei monopoli privati e nella loro capacità di continuare a fare profitti e scappare col malloppo senza mai investire mezzo dollaro, un lasciapassare nei confronti dell’avidità delle big corporation che ha avuto un peso particolarmente rilevante proprio nella sviluppo delle tecnologie necessarie alla transizione ecologica, anche perché – nel frattempo – evitando di investire si continuavano a riempire le casseforti degli amici petrolieri che continuano ad essere, ancora oggi, la lobby industriale di gran lunga più potente dell’Occidente.
I primi che hanno solo da guadagnare dalla capacità cinese di produrre tutto quello che serve per la transizione ecologica sono invece i paesi, appunto, del Sud globale, che avrebbero così la possibilità di emanciparsi gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili a costi ragionevoli: come sottolinea Warwick “Le lamentele occidentali sono in effetti un tentativo di ostacolare l’opportunità per i paesi in via di sviluppo di accedere alle tecnologie di trasformazione a basso costo”; d’altronde, l’emancipazione dalle fonti fossili dei paesi del Sud globale per gli USA sarebbe un vero e proprio disastro. La trappola del debito nella quale l’imperialismo ha costretto il grosso dei paesi in via di sviluppo, infatti, è in gran parte dovuta proprio alla necessità di indebitarsi in dollari per importare fonti fossili e rappresenta uno degli strumenti strutturali di dominio neocoloniale più efficaci e inaggirabili: quindi, conclude Warwick, è abbastanza evidente che “Il problema non è la sovracapacità cinese, ma le potenze dominanti che vogliono mantenere il controllo su chi può svilupparsi e quando farlo”.
Di fronte a rivendicazioni così platealmente infondate da parte dell’impero, la Cina, ovviamente, non poteva che rispondere picche a Blinken (come aveva già risposto alla Yellen), mentre, nel frattempo, stendeva tappeti rossi alle big corporation che che vogliono continuare ad avere accesso a un mercato interno che, evidentemente, tanto depresso non deve essere; ma allora perché i massimi funzionari USA continuano a incaponirsi così tanto e fanno la fila per andare a raccogliere l’ennesimo inevitabile due di picche a Pechino? Il primo obiettivo è provare, in qualche modo, a disincentivare l’integrazione economica e la cooperazione militare e politica con gli altri paesi che si oppongono esplicitamente al vecchio ordine unipolare: Blinken, infatti, è andato a Pechino fondamentalmente per supplicarli di non correre più in aiuto di Mosca e lo spauracchio delle accuse infondate su fantomatiche pratiche commerciali scorrette è il deterrente che hanno messo sul piatto. La progressiva integrazione economica e politica dei paesi che vengono definiti revisionisti e che, cioè, mettono in discussione l’esorbitante privilegio del dollaro e il meccanismo globale di sfruttamento su cui si fonda l’imperialismo, negli USA è diventata una vera e propria ossessione, anche perché si sono cominciati ad accorgere, negli ultimi due anni, di averla favorita.
Le nuove alleanze autocratiche era il titolo di un lungo articolo del mese scorso di Foreign Affairs. L’articolo ricordava come il sistema di alleanze messo insieme dagli USA non ha precedenti: “Nessuna rete di alleanze in tempo di pace è mai stata così ampia, duratura ed efficace come quella guidata da Washington dalla seconda guerra mondiale”; in mezzo a mille affermazioni apologetiche, l’articolo fa intravedere un barlume di veridicità quando ricorda come “Le alleanze statunitensi sono asimmetriche”, con Washington che “si è fatta carico a lungo di una quota ineguale del carico militare, per evitare uno scenario in cui paesi come la Germania o il Giappone potrebbero destabilizzare le loro regioni costruendo proprie capacità di difesa a tutto spettro”, che è un modo carino e sofisticato di dire che gli USA hanno imposto ai loro alleati asimmetrici – e, cioè, subordinati – di non riarmarsi, in modo da garantire a Washington il monopolio della forza all’interno dell’alleanza e, quindi, la capacità di piegarla ai suoi obiettivi strategici – tra l’altro, facendo pagare il tutto direttamente agli alleati grazie, appunto, all’esorbitante privilegio del dollaro che impone agli altri paesi di finanziare il debito USA col quale, a loro volta, finanziano la macchina bellica.
Ora, sottolinea giustamente l’articolo, l’alleanza che si sta affermando tra gli Stati canaglia dell’ordine internazionale neocoloniale creato a immagine e somiglianza degli interessi imperiali di Washington, giustamente non ha niente a che vedere con quella che l’articolo definisce la rete di alleanze degli USA e che noi, invece, definiamo l’internazionale imperialista: nel loro caso, infatti, non c’è un unico centro di dominio imperiale con i vassalli attorno, ma ci sono Stati nazione sovrani, ognuno con la sua agenda, ma anche se “I legami tra i revisionisti eurasiatici” e cioè, nello specifico, Cina, Russia, Iran e Corea del Nord “potrebbero non sembrare alleanze nel modo in cui gli americani le intendono solitamente, hanno comunque effetti simili”. La prima di queste funzioni che – letteralmente – terrorizza l’impero è che “Le alleanze revisioniste stanno rendendo le aggressioni meno costose, mitigando l’isolamento strategico che gli aggressori potrebbero altrimenti dover affrontare” che, scremato dalla neolingua della propaganda suprematista, in soldoni significa che gli stati sovrani possono oggi pensare di reagire ai soprusi dell’imperialismo senza crollare il giorno dopo perché l’impero ha imposto a tutto il resto del mondo di isolarli: “Nonostante le sanzioni occidentali e le orribili perdite militari” specifica l’articolo ad esempio “la Russia ha sostenuto la sua guerra in Ucraina grazie ai droni, ai proiettili e ai missili forniti da Teheran e Pyongyang. E l’economia del presidente russo Vladimir Putin è rimasta a galla perché la Cina ha assorbito le esportazioni russe e ha fornito a Mosca microchip e altri beni a duplice uso”. Queste capacità di sfuggire alle armi di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA sono anche dovute a un elemento prettamente geopolitico: questi paesi sono un pezzo rilevante del supercontinente eurasiatico, il che significa che il monopolio della forza per il controllo dei mari (che l’imperialismo USA ha ereditato dalle sue fondamenta talassocratiche), ammesso e non concesso che sia ancora valido, può essere facilmente aggirato.
D’altronde non è un caso se, da sempre, il primo obiettivo geostrategico USA è stato esattamente quello di impedire l’integrazione del supercontinente eurasiatico: provocando la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è riuscito a staccare, scaricando i costi sulle nostre spalle, la propaggine più occidentale, ma per il grosso del supercontinente – invece – non ha fatto che accelerare un processo di integrazione che, molto semplicemente, non ha gli strumenti concreti per ostacolare; e che l’accelerazione di questa integrazione sia dovuta, in buona parte, a una strategia fallimentare degli USA ormai lo denunciano in parecchi. Ne parla un altro articolo, sempre su Foreign Affairs: “Solo dieci anni fa” sottolinea “la maggior parte dei funzionari statunitensi ed europei erano sprezzanti riguardo alla durabilità del partenariato emergente tra Cina e Russia. Nelle capitali occidentali si pensava che l’ostentato riavvicinamento del Cremlino alla Cina dal 2014 fosse destinato a fallire e che non importava quanto intensamente il presidente russo Vladimir Putin tentasse di corteggiare la leadership cinese, la Cina avrebbe sempre privilegiato i suoi legami con gli Stati Uniti e i suoi alleati piuttosto rispetto alle sue relazioni simboliche con la Russia, mentre Mosca a sua volta si pensava temesse una Pechino in ascesa e avrebbe continuato a cercare un contrappeso in Occidente”, tutte riflessioni che, anche se con sfumature diverse, abbiamo fatto noi stessi più volte su questo canale; ma tutto “questo scetticismo non riesce a fare i conti con una realtà importante e triste: Cina e Russia sono oggi più saldamente allineate di quanto non lo siano mai state dagli anni ’50”. L’articolo ricorda come, nel 2022, il commercio bilaterale tra i due paesi è cresciuto del 36% raggiungendo i 190 miliardi di dollari, più dell’interscambio commerciale tra Italia e Germania; e nel 2023 è cresciuto di un altro 25% abbondante, sfondando quota 240 miliardi. Secondo Foreign Affairs, addirittura “Il consolidamento di questo allineamento tra Russia e Cina è uno dei risultati geopolitici più importanti della guerra di Putin contro l’Ucraina.”; “Certamente” sottolinea l’articolo “le relazioni sino-russe non sono prive di tensioni, e le tensioni esistenti potrebbero essere esacerbate man mano che la Cina diventa più fiduciosa ed è tentata di iniziare a comandare i russi in modo più pesante, qualcosa che nessun governante di Mosca prenderebbe alla leggera. Per ora, tuttavia, Pechino e Mosca hanno dimostrato una notevole capacità di gestire le proprie differenze”, che è il motivo per cui ogni tanto ci viene voglia di tifare Trump e le sue groupies di casa nostra.
Secondo questi raffinati scienziati politici, infatti, ancora oggi la strategia USA dovrebbe essere appunto quella di Kissinger al contrario: riportare la Russia di Putin nella sfera di influenza dell’impero per poi convincerlo ad affrontare tutti insieme appassionatamente la Cina di Xi. A ringalluzzire questa prospettiva strategica piuttosto delirante c’è un approccio ultraideologico che tiene insieme l’alt right d’accatto e la sinistra delle ZTL: Putin è un fascista e quindi è pronto a tornare in Occidente se solo l’Occidente, invece che da Rimbambiden e dalla democratica illuminata Ursula von der Leyen, sarà guidato da the Donald e da Giorgia Meloni. Su La Verità c’è un articolo che più o meno ripropone questa illuminata strategia un giorno sì e l’altro pure e io, che ho una grande fiducia nell’umanità, continuo a credere che non sia un errore palese, ma una raffinata strategia dei nostri compagni di fare per accelerare il declino; purtroppo, però, gli amici della Verità sono un po’ dei fenomeni da baraccone e i think tank che contano, come il Council on foreign relations (che è l’editore di Foreign Affairs) non hanno più nessun dubbio: “Qualsiasi speranza di staccare Mosca da Pechino non è altro che un pio desiderio” sentenziano.
E presa coscienza di questo processo irreversibile e, in buona parte – appunto – accelerato dall’arroganza dell’imperialismo, ecco l’ultimo compendio, sempre su Foreign Affairs, delle conseguenza che questa alleanza rafforzata tra gli Stati canaglia avrà sulle magnifiche sorti e progressive dell’imperialismo. L’asse dello sconvolgimento è il titolo: “Come gli avversari dell’America si stanno unendo per ribaltare l’ordine globale” ; a firmarlo, Andrea Kendall-Taylor che, dal 2015 al 2018, è stato nientepopodimeno che vice segretario del Dipartimento per la Russia e l’Eurasia del Consiglio Nazionale dell’Intelligence USA. L’articolo ricorda come la Russia abbia fatto abbondante ricorso ai droni iraniani, alle munizioni nord coreane e ai rapporti commerciali con la Cina: “Troppi osservatori occidentali” sottolinea Kendall-Taylor “si sono affrettati a ignorare le implicazioni del coordinamento tra Cina, Iran, Corea del Nord e Russia. I quattro paesi hanno le loro differenze, certo, e una storia di sfiducia e di spaccature contemporanee potrebbero limitare la crescita delle loro relazioni. Tuttavia, il loro obiettivo condiviso di indebolire gli Stati Uniti e il suo ruolo di leadership costituisce un forte collante. In molti luoghi dell’Asia, dell’Europa e del Medio Oriente, le ambizioni dei membri dell’asse si sono già rivelate destabilizzanti. Gestire gli effetti dirompenti del loro ulteriore coordinamento e impedire che l’asse sconvolga il sistema globale devono ora essere obiettivi centrali della politica estera degli Stati Uniti”; “Gli ordini globali” spiega Kendall-Taylor “amplificano la forza degli stati che li guidano. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno investito nell’ordine internazionale liberale perché questo ordine riflette le preferenze americane ed estende l’influenza statunitense. E finché un ordine rimane sufficientemente vantaggioso per la maggior parte dei membri, ci sarà un gruppo ristretto di Stati lo difenderà. E anche i paesi dissenzienti, nel frattempo, saranno vincolati da un problema di azione collettiva: senza un nucleo centrale di Stati potenti attorno al quale coalizzarsi, il vantaggio rimane a favore dell’ordine esistente. Ma se dovessero disertare in massa, potrebbero riuscire a creare un ordine alternativo più di loro gradimento”. La guerra per procura in Ucraina ha accelerato proprio questa diserzione di massa e così oggi “L’asse dello sconvolgimento rappresenta un nuovo centro di gravità: un gruppo a cui possono rivolgersi altri paesi insoddisfatti dell’ordine esistente” e cioè, a vario titolo, tutti i paesi sovrani.
E agli USA gli rimangono solo i cani da compagnia che però, in quanto cani da compagnia, ovviamente hanno problemi enormi di legittimità e stabilità al loro interno e anche se 40 anni di controrivoluzione neoliberista ne hanno rincoglionito le popolazioni, il rischio che prima o poi la difesa dei propri interessi concreti torni a prendere il sopravvento sulle puttanate – dai deliri sulla superiorità delle democrazie delle sinistre ZTL alle armi di distrazione di massa dell’alt right – si fa ogni giorno più consistente. Prima che sia troppo tardi allora, suggerisce Kendall-Taylor, è arrivata l’ora che l’imperialismo smetta di considerare “ogni minaccia come un fenomeno isolato”: “Washington, per esempio, non dovrebbe ignorare l’aggressione russa in Europa per concentrarsi sulla crescente potenza cinese in Asia. È già chiaro che il successo della Russia in Ucraina avvantaggia la Cina revisionista, dimostrando che è possibile, anche se costoso, contrastare uno sforzo occidentale unito. Anche se Washington considera giustamente la Cina come la sua massima priorità, per affrontare la sfida di Pechino sarà necessario competere con altri membri dell’asse in altre parti del mondo”. Tradotto: la guerra è già mondiale, i vari avversari vanno considerati un unico nemico e l’imperialismo deve diventare una forza unica diffusa su tutto il globo che, sotto l’egemonia USA, combatte contemporaneamente su tutti i fronti una guerra esistenziale; “Affrontare l’asse sarà costoso” sottolinea Kendall-Taylor: “Una nuova strategia richiederà agli Stati Uniti di rafforzare la spesa per la difesa, gli aiuti esteri, la diplomazia e le comunicazioni strategiche”, ma non sarà nemmeno lontanamente sufficiente. “Washington” sottolinea Kendall-Taylor “dovrà fare pressione sugli alleati affinché investano in capacità che gli Stati Uniti non potrebbero fornire se fossero già impegnati in un altro teatro militare”.
Il timore per le potenziali conseguenze del riarmo degli alleati vassalli, che ha caratterizzato la lunga era della pax americana fino ad oggi, deve essere messo da parte; d’altronde la subordinazione finanziaria che gli USA hanno imposto agli alleati in particolare in questi ultimi 15 anni – a partire dall’inizio della terza grande depressione inaugurata con la crisi finanziaria del 2008 – servono proprio a questo: gli alleati hanno cessato di esistere come Stati nazione sovrani e la totale integrazione delle loro oligarchie con quelle USA li hanno trasformati stabilmente in emanazioni dirette del centro imperiale. Possiamo anche lasciare che si armino; tanto, fino a che non scoppia una rivoluzione, le loro élite fanno gli interessi dell’imperialismo basato su Washington, mica quelli dei loro paesi, motivo per cui parlare di pace oggi rischia di non servire assolutamente a una cippa e, per quanto abbiano provato a convincerci si trattasse di una parola desueta, da vetero nostalgici, rovesciare il potere costituito con ogni mezzo necessario potrebbe risultare, in realtà, oggi l’unica cosa sensata da fare.
Insomma: il tempo della resistenza e della resilienza potrebbe essere finito e, proprio per puro istinto di sopravvivenza, potrebbe essere arrivato il tempo della riscossa, che non può che essere MULTIPOPOLARE. Per sostenerla ci serve un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari