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Cina, Iran, Russia e Corea del Nord: per la NATO globale è guerra mondiale

“Quello che c’è di veramente eccessivo non è la capacità produttiva cinese, ma l’ansia degli Stati Uniti”: sono queste le parole che il direttore generale del Dipartimento per gli affari nordamericani del ministero degli esteri cinese ha selezionato con cura per riassumere i contenuti della tanto attesa visita di Blinken a Pechino, a poche settimane di distanza da quella del segretario del tesoro Janet Yellen. “Il vero problema” sottolinea Warwick Powell dell’Università del Queensland su Global Times “non è la sovracapacità cinese, ma la sottocapacità occidentale”; Warwick ricorda come i numeri oggettivi facciano un po’ a cazzotti con la narrazione sulla quale l’Occidente collettivo e la sua macchina propagandistica hanno deciso di investire tutte le loro energie: ad esempio, Warwick ricorda come le esportazioni rappresentino il 13% della produzione cinese, poco superiore all’11% che rappresentavano nel 1995 (6 anni prima che la Cina entrasse nel WTO) e di gran lunga inferiori al picco del 18% raggiunto nel 2004. “Questo significa” sottolinea Warwick “che il mercato interno ha assorbito la stragrande maggioranza della crescita della produzione”; “in confronto” insiste Warwick “i settori manifatturiero tedesco e giapponese sono significativamente più dipendenti dalle esportazioni”: nel caso dell’automotive, ad esempio, che è uno dei settori più chiacchierati del momento, Warwick ricorda come la Cina, nel 2023, abbia prodotto la bellezza di oltre 30 milioni di veicoli e ne abbia esportati in tutto meno di 5 milioni, cioè circa il 16%. Il Giappone, invece, è sì sceso al secondo gradino del podio degli esportatori in numeri assoluti, ma i 4,4 milioni di veicoli che ha esportato rappresentano il 63% della sua produzione totale; in Germania l’export pesa addirittura per il 75%.

Warwick Powell

Warwick ricorda anche come l’accusa di sovracapacità è poi regolarmente accompagnata dall’accusa sulla domanda interna cinese tenuta bassa; in realtà però, sottolinea Warwick, nel 2023 “Il reddito disponibile pro capite cinese è aumentato del 6,1% in termini reali rispetto all’anno precedente, ma nello stesso periodo i consumi sono aumentati del 9%”: quindi, a differenza del Giappone e della Germania, i redditi reali crescono rapidamente e la quota dedicata ai consumi ancora di più. Insomma: le potenze industriali ferocemente mercantiliste, il cui modello di sviluppo è incompatibile con uno sviluppo equilibrato (perché mantengono artificialmente bassi redditi e mercato interno per aggredire i mercati esteri) sono altre; eppure, sottolinea Warwick sarcasticamente, “Inspiegabilmente gli USA non si sono mai lamentati della sovracapacità tedesca o giapponese”. In questo caso, poi, la gigantesca fake news sulla sovracapacità cinese è doppiamente infame perché ha come obiettivo difendere i monopoli e le oligarchie delle ex potenze coloniali sulla pelle del Sud globale: gli sherpa dell’imperialismo, infatti, accusano i cinesi di praticare prezzi troppo bassi; ora, effettivamente, i prezzi cinesi sono decisamente competitivi. E graziarcazzo: la politica industriale cinese consiste in uno sforzo gigantesco per aumentare la produttività; la non politica industriale del giardino ordinato invece, al contrario, fino ad oggi è sempre consistita nella protezione dei monopoli privati e nella loro capacità di continuare a fare profitti e scappare col malloppo senza mai investire mezzo dollaro, un lasciapassare nei confronti dell’avidità delle big corporation che ha avuto un peso particolarmente rilevante proprio nella sviluppo delle tecnologie necessarie alla transizione ecologica, anche perché – nel frattempo – evitando di investire si continuavano a riempire le casseforti degli amici petrolieri che continuano ad essere, ancora oggi, la lobby industriale di gran lunga più potente dell’Occidente.
I primi che hanno solo da guadagnare dalla capacità cinese di produrre tutto quello che serve per la transizione ecologica sono invece i paesi, appunto, del Sud globale, che avrebbero così la possibilità di emanciparsi gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili a costi ragionevoli: come sottolinea Warwick “Le lamentele occidentali sono in effetti un tentativo di ostacolare l’opportunità per i paesi in via di sviluppo di accedere alle tecnologie di trasformazione a basso costo”; d’altronde, l’emancipazione dalle fonti fossili dei paesi del Sud globale per gli USA sarebbe un vero e proprio disastro. La trappola del debito nella quale l’imperialismo ha costretto il grosso dei paesi in via di sviluppo, infatti, è in gran parte dovuta proprio alla necessità di indebitarsi in dollari per importare fonti fossili e rappresenta uno degli strumenti strutturali di dominio neocoloniale più efficaci e inaggirabili: quindi, conclude Warwick, è abbastanza evidente che “Il problema non è la sovracapacità cinese, ma le potenze dominanti che vogliono mantenere il controllo su chi può svilupparsi e quando farlo”.
Di fronte a rivendicazioni così platealmente infondate da parte dell’impero, la Cina, ovviamente, non poteva che rispondere picche a Blinken (come aveva già risposto alla Yellen), mentre, nel frattempo, stendeva tappeti rossi alle big corporation che che vogliono continuare ad avere accesso a un mercato interno che, evidentemente, tanto depresso non deve essere; ma allora perché i massimi funzionari USA continuano a incaponirsi così tanto e fanno la fila per andare a raccogliere l’ennesimo inevitabile due di picche a Pechino? Il primo obiettivo è provare, in qualche modo, a disincentivare l’integrazione economica e la cooperazione militare e politica con gli altri paesi che si oppongono esplicitamente al vecchio ordine unipolare: Blinken, infatti, è andato a Pechino fondamentalmente per supplicarli di non correre più in aiuto di Mosca e lo spauracchio delle accuse infondate su fantomatiche pratiche commerciali scorrette è il deterrente che hanno messo sul piatto. La progressiva integrazione economica e politica dei paesi che vengono definiti revisionisti e che, cioè, mettono in discussione l’esorbitante privilegio del dollaro e il meccanismo globale di sfruttamento su cui si fonda l’imperialismo, negli USA è diventata una vera e propria ossessione, anche perché si sono cominciati ad accorgere, negli ultimi due anni, di averla favorita.
Le nuove alleanze autocratiche era il titolo di un lungo articolo del mese scorso di Foreign Affairs. L’articolo ricordava come il sistema di alleanze messo insieme dagli USA non ha precedenti: “Nessuna rete di alleanze in tempo di pace è mai stata così ampia, duratura ed efficace come quella guidata da Washington dalla seconda guerra mondiale”; in mezzo a mille affermazioni apologetiche, l’articolo fa intravedere un barlume di veridicità quando ricorda come “Le alleanze statunitensi sono asimmetriche”, con Washington che “si è fatta carico a lungo di una quota ineguale del carico militare, per evitare uno scenario in cui paesi come la Germania o il Giappone potrebbero destabilizzare le loro regioni costruendo proprie capacità di difesa a tutto spettro”, che è un modo carino e sofisticato di dire che gli USA hanno imposto ai loro alleati asimmetrici – e, cioè, subordinati – di non riarmarsi, in modo da garantire a Washington il monopolio della forza all’interno dell’alleanza e, quindi, la capacità di piegarla ai suoi obiettivi strategici – tra l’altro, facendo pagare il tutto direttamente agli alleati grazie, appunto, all’esorbitante privilegio del dollaro che impone agli altri paesi di finanziare il debito USA col quale, a loro volta, finanziano la macchina bellica.
Ora, sottolinea giustamente l’articolo, l’alleanza che si sta affermando tra gli Stati canaglia dell’ordine internazionale neocoloniale creato a immagine e somiglianza degli interessi imperiali di Washington, giustamente non ha niente a che vedere con quella che l’articolo definisce la rete di alleanze degli USA e che noi, invece, definiamo l’internazionale imperialista: nel loro caso, infatti, non c’è un unico centro di dominio imperiale con i vassalli attorno, ma ci sono Stati nazione sovrani, ognuno con la sua agenda, ma anche se “I legami tra i revisionisti eurasiatici” e cioè, nello specifico, Cina, Russia, Iran e Corea del Nord “potrebbero non sembrare alleanze nel modo in cui gli americani le intendono solitamente, hanno comunque effetti simili”. La prima di queste funzioni che – letteralmente – terrorizza l’impero è che “Le alleanze revisioniste stanno rendendo le aggressioni meno costose, mitigando l’isolamento strategico che gli aggressori potrebbero altrimenti dover affrontare” che, scremato dalla neolingua della propaganda suprematista, in soldoni significa che gli stati sovrani possono oggi pensare di reagire ai soprusi dell’imperialismo senza crollare il giorno dopo perché l’impero ha imposto a tutto il resto del mondo di isolarli: “Nonostante le sanzioni occidentali e le orribili perdite militari” specifica l’articolo ad esempio “la Russia ha sostenuto la sua guerra in Ucraina grazie ai droni, ai proiettili e ai missili forniti da Teheran e Pyongyang. E l’economia del presidente russo Vladimir Putin è rimasta a galla perché la Cina ha assorbito le esportazioni russe e ha fornito a Mosca microchip e altri beni a duplice uso”. Queste capacità di sfuggire alle armi di distruzione di massa dell’imperialismo finanziario USA sono anche dovute a un elemento prettamente geopolitico: questi paesi sono un pezzo rilevante del supercontinente eurasiatico, il che significa che il monopolio della forza per il controllo dei mari (che l’imperialismo USA ha ereditato dalle sue fondamenta talassocratiche), ammesso e non concesso che sia ancora valido, può essere facilmente aggirato.
D’altronde non è un caso se, da sempre, il primo obiettivo geostrategico USA è stato esattamente quello di impedire l’integrazione del supercontinente eurasiatico: provocando la guerra per procura contro la Russia in Ucraina è riuscito a staccare, scaricando i costi sulle nostre spalle, la propaggine più occidentale, ma per il grosso del supercontinente – invece – non ha fatto che accelerare un processo di integrazione che, molto semplicemente, non ha gli strumenti concreti per ostacolare; e che l’accelerazione di questa integrazione sia dovuta, in buona parte, a una strategia fallimentare degli USA ormai lo denunciano in parecchi. Ne parla un altro articolo, sempre su Foreign Affairs: “Solo dieci anni fa” sottolinea “la maggior parte dei funzionari statunitensi ed europei erano sprezzanti riguardo alla durabilità del partenariato emergente tra Cina e Russia. Nelle capitali occidentali si pensava che l’ostentato riavvicinamento del Cremlino alla Cina dal 2014 fosse destinato a fallire e che non importava quanto intensamente il presidente russo Vladimir Putin tentasse di corteggiare la leadership cinese, la Cina avrebbe sempre privilegiato i suoi legami con gli Stati Uniti e i suoi alleati piuttosto rispetto alle sue relazioni simboliche con la Russia, mentre Mosca a sua volta si pensava temesse una Pechino in ascesa e avrebbe continuato a cercare un contrappeso in Occidente”, tutte riflessioni che, anche se con sfumature diverse, abbiamo fatto noi stessi più volte su questo canale; ma tutto “questo scetticismo non riesce a fare i conti con una realtà importante e triste: Cina e Russia sono oggi più saldamente allineate di quanto non lo siano mai state dagli anni ’50”. L’articolo ricorda come, nel 2022, il commercio bilaterale tra i due paesi è cresciuto del 36% raggiungendo i 190 miliardi di dollari, più dell’interscambio commerciale tra Italia e Germania; e nel 2023 è cresciuto di un altro 25% abbondante, sfondando quota 240 miliardi. Secondo Foreign Affairs, addirittura “Il consolidamento di questo allineamento tra Russia e Cina è uno dei risultati geopolitici più importanti della guerra di Putin contro l’Ucraina.”; “Certamente” sottolinea l’articolo “le relazioni sino-russe non sono prive di tensioni, e le tensioni esistenti potrebbero essere esacerbate man mano che la Cina diventa più fiduciosa ed è tentata di iniziare a comandare i russi in modo più pesante, qualcosa che nessun governante di Mosca prenderebbe alla leggera. Per ora, tuttavia, Pechino e Mosca hanno dimostrato una notevole capacità di gestire le proprie differenze”, che è il motivo per cui ogni tanto ci viene voglia di tifare Trump e le sue groupies di casa nostra.
Secondo questi raffinati scienziati politici, infatti, ancora oggi la strategia USA dovrebbe essere appunto quella di Kissinger al contrario: riportare la Russia di Putin nella sfera di influenza dell’impero per poi convincerlo ad affrontare tutti insieme appassionatamente la Cina di Xi. A ringalluzzire questa prospettiva strategica piuttosto delirante c’è un approccio ultraideologico che tiene insieme l’alt right d’accatto e la sinistra delle ZTL: Putin è un fascista e quindi è pronto a tornare in Occidente se solo l’Occidente, invece che da Rimbambiden e dalla democratica illuminata Ursula von der Leyen, sarà guidato da the Donald e da Giorgia Meloni. Su La Verità c’è un articolo che più o meno ripropone questa illuminata strategia un giorno sì e l’altro pure e io, che ho una grande fiducia nell’umanità, continuo a credere che non sia un errore palese, ma una raffinata strategia dei nostri compagni di fare per accelerare il declino; purtroppo, però, gli amici della Verità sono un po’ dei fenomeni da baraccone e i think tank che contano, come il Council on foreign relations (che è l’editore di Foreign Affairs) non hanno più nessun dubbio: “Qualsiasi speranza di staccare Mosca da Pechino non è altro che un pio desiderio” sentenziano.

Andrea Kendall-Taylor

E presa coscienza di questo processo irreversibile e, in buona parte – appunto – accelerato dall’arroganza dell’imperialismo, ecco l’ultimo compendio, sempre su Foreign Affairs, delle conseguenza che questa alleanza rafforzata tra gli Stati canaglia avrà sulle magnifiche sorti e progressive dell’imperialismo. L’asse dello sconvolgimento è il titolo: “Come gli avversari dell’America si stanno unendo per ribaltare l’ordine globale” ; a firmarlo, Andrea Kendall-Taylor che, dal 2015 al 2018, è stato nientepopodimeno che vice segretario del Dipartimento per la Russia e l’Eurasia del Consiglio Nazionale dell’Intelligence USA. L’articolo ricorda come la Russia abbia fatto abbondante ricorso ai droni iraniani, alle munizioni nord coreane e ai rapporti commerciali con la Cina: “Troppi osservatori occidentali” sottolinea Kendall-Taylor “si sono affrettati a ignorare le implicazioni del coordinamento tra Cina, Iran, Corea del Nord e Russia. I quattro paesi hanno le loro differenze, certo, e una storia di sfiducia e di spaccature contemporanee potrebbero limitare la crescita delle loro relazioni. Tuttavia, il loro obiettivo condiviso di indebolire gli Stati Uniti e il suo ruolo di leadership costituisce un forte collante. In molti luoghi dell’Asia, dell’Europa e del Medio Oriente, le ambizioni dei membri dell’asse si sono già rivelate destabilizzanti. Gestire gli effetti dirompenti del loro ulteriore coordinamento e impedire che l’asse sconvolga il sistema globale devono ora essere obiettivi centrali della politica estera degli Stati Uniti”; “Gli ordini globali” spiega Kendall-Taylor “amplificano la forza degli stati che li guidano. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno investito nell’ordine internazionale liberale perché questo ordine riflette le preferenze americane ed estende l’influenza statunitense. E finché un ordine rimane sufficientemente vantaggioso per la maggior parte dei membri, ci sarà un gruppo ristretto di Stati lo difenderà. E anche i paesi dissenzienti, nel frattempo, saranno vincolati da un problema di azione collettiva: senza un nucleo centrale di Stati potenti attorno al quale coalizzarsi, il vantaggio rimane a favore dell’ordine esistente. Ma se dovessero disertare in massa, potrebbero riuscire a creare un ordine alternativo più di loro gradimento”. La guerra per procura in Ucraina ha accelerato proprio questa diserzione di massa e così oggi “L’asse dello sconvolgimento rappresenta un nuovo centro di gravità: un gruppo a cui possono rivolgersi altri paesi insoddisfatti dell’ordine esistente” e cioè, a vario titolo, tutti i paesi sovrani.
E agli USA gli rimangono solo i cani da compagnia che però, in quanto cani da compagnia, ovviamente hanno problemi enormi di legittimità e stabilità al loro interno e anche se 40 anni di controrivoluzione neoliberista ne hanno rincoglionito le popolazioni, il rischio che prima o poi la difesa dei propri interessi concreti torni a prendere il sopravvento sulle puttanate – dai deliri sulla superiorità delle democrazie delle sinistre ZTL alle armi di distrazione di massa dell’alt right – si fa ogni giorno più consistente. Prima che sia troppo tardi allora, suggerisce Kendall-Taylor, è arrivata l’ora che l’imperialismo smetta di considerare “ogni minaccia come un fenomeno isolato”: “Washington, per esempio, non dovrebbe ignorare l’aggressione russa in Europa per concentrarsi sulla crescente potenza cinese in Asia. È già chiaro che il successo della Russia in Ucraina avvantaggia la Cina revisionista, dimostrando che è possibile, anche se costoso, contrastare uno sforzo occidentale unito. Anche se Washington considera giustamente la Cina come la sua massima priorità, per affrontare la sfida di Pechino sarà necessario competere con altri membri dell’asse in altre parti del mondo”. Tradotto: la guerra è già mondiale, i vari avversari vanno considerati un unico nemico e l’imperialismo deve diventare una forza unica diffusa su tutto il globo che, sotto l’egemonia USA, combatte contemporaneamente su tutti i fronti una guerra esistenziale; “Affrontare l’asse sarà costoso” sottolinea Kendall-Taylor: “Una nuova strategia richiederà agli Stati Uniti di rafforzare la spesa per la difesa, gli aiuti esteri, la diplomazia e le comunicazioni strategiche”, ma non sarà nemmeno lontanamente sufficiente. “Washington” sottolinea Kendall-Taylor “dovrà fare pressione sugli alleati affinché investano in capacità che gli Stati Uniti non potrebbero fornire se fossero già impegnati in un altro teatro militare”.
Il timore per le potenziali conseguenze del riarmo degli alleati vassalli, che ha caratterizzato la lunga era della pax americana fino ad oggi, deve essere messo da parte; d’altronde la subordinazione finanziaria che gli USA hanno imposto agli alleati in particolare in questi ultimi 15 anni – a partire dall’inizio della terza grande depressione inaugurata con la crisi finanziaria del 2008 – servono proprio a questo: gli alleati hanno cessato di esistere come Stati nazione sovrani e la totale integrazione delle loro oligarchie con quelle USA li hanno trasformati stabilmente in emanazioni dirette del centro imperiale. Possiamo anche lasciare che si armino; tanto, fino a che non scoppia una rivoluzione, le loro élite fanno gli interessi dell’imperialismo basato su Washington, mica quelli dei loro paesi, motivo per cui parlare di pace oggi rischia di non servire assolutamente a una cippa e, per quanto abbiano provato a convincerci si trattasse di una parola desueta, da vetero nostalgici, rovesciare il potere costituito con ogni mezzo necessario potrebbe risultare, in realtà, oggi l’unica cosa sensata da fare.
Insomma: il tempo della resistenza e della resilienza potrebbe essere finito e, proprio per puro istinto di sopravvivenza, potrebbe essere arrivato il tempo della riscossa, che non può che essere MULTIPOPOLARE. Per sostenerla ci serve un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

Blinken porta l’ultimatum USA alla Cina (e la Cina fa la supercazzola della camicia e del bottone)

Il segretario di stato statunitense Blinken in questi giorni è atterrato a Pechino per consegnare un ultimatum: “Voi cinesi dovete smetterla di commerciare coi russi e dovete cambiare la vostra politica industriale” questa la richiesta di Blinken, “altrimenti ci saranno gravi conseguenze”. La risposta di Pechino è stata altrettanto netta: “O voi americani capite che le relazioni tra Cina e Stati Uniti sono cambiate strutturalmente, o ci saranno gravi conseguenze”. I discorsi sono diametralmente opposti, ma la conclusione è la stessa e, cioè, che ci saranno gravi conseguenze… Insomma, la relazione tra Cina e Stati Uniti è arrivata a un punto di alta tensione, probabilmente un punto di svolta, e la strada che si intraprenderà nei prossimi mesi è destinata a riflettersi nel futuro. Ne parliamo in questo video!

Gli USA dichiarano guerra alla Cina e alla concorrenza (e Parabellum, nel suo piccolo, a Ottolina TV)

“Non esiste nessuna alternativa alla vittoria. La competizione dell’America con la Cina deve essere vinta, non gestita”; in mezzo a un profluvio di fake news sull’overcapacity e le pratiche commerciali cinesi, che fanno impallidire le pale usate dai russi come ultima arma dopo aver finito i missili (ormai quasi due anni fa) e i bambini decapitati da Hamas, Foreign Affairs, la testata ufficiale del think tank più guerrafondaio del pianeta, ha il merito, finalmente, di dire chiaramente le cose come stanno: l’impero in declino, per mantenere la sua egemonia, ha dichiarato la sua guerra ibrida contro il resto del mondo. Ora deve avere il coraggio di dichiarare apertamente non solo che quella contro la Cina è una guerra commerciale a tutti gli effetti che non richiede teorie strampalate per essere giustificata, ma che, in generale, gli USA hanno deciso di dichiarare guerra alla concorrenza e al mercato tout court; e, a proporlo, non sono due personaggi a caso. Ma prima di farveli conoscere e di descrivervi il loro delirante articolo col quale dichiarano guerra a tutto campo contro la Cina fino alla caduta definitiva del feroce regime comunista di Xi Jinping, una piccola, edificante storiella dal Tubo italiano.
Ieri c’eravamo un po’ sbizzarriti a perculare Parabellum per un video di pochi giorni prima dell’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, dove il bimbone pacioccone livornese incredibilmente esprimeva concetti di buon senso ampiamente condivisibili: che a comportarsi da aggressore era stata la NATO che aveva provocato per decenni la Russia; che da un eventuale conflitto con la Russia l’Europa aveva solo da perdere; che l’Euromaidan era stato un colpo di stato architettato dagli USA. Insomma: l’abc di tutte le persone minimamente ragionevoli che non hanno né quello strano morbo che si chiama analfoliberalismo, né vengono in nessun modo retribuite per dire il contrario della realtà facendo un po’ la figura degli ebeti (che è, comunque, sempre meglio che lavorare) e che, però, è l’esatto contrario di quello che abbiamo sempre sentito sostenere proprio dallo stesso Parabellum, che non manca mai di condire qualche osservazione arguta e qualche dato interessante con una quantità di retorica propagandistica filo occidentale abbastanza imbarazzante e anche un po’ stucchevole. Un’ora dopo di me, ha pubblicato un video simile anche il nostro amico Dazibao, tra l’altro senza che nessuno dei due si accorgesse del video dell’altro (anche se spesso, proprio per non accavallarci, ci sentiamo e ci confrontiamo sui temi da affrontare), ma si vede che era destino: dopo la pubblicazione del suo video, qualche ottoliner ci gira uno screenshot che arriva dal gruppo Telegram di Parabellum e che dimostra come gli amici di Parabellum abbiano un po’ questa mentalità da protezione paramafiosa nei confronti del loro guru. Invece di chiedergli com’è che la Russia era passata, magicamente, da essere da aggredita ad aggressore (proprio mentre lui, a 40 anni suonati, da piccolo genio incompreso era diventato magicamente uno dei sedicenti analisti geopolitici più citati dal baraccone della propaganda ultra atlantista), si chiedevano come fare a mettere insieme un numero sufficiente di segnalazioni per spingere Youtube a buttare giù il video di Dazibao; d’altronde, le bimbe di Bandera e i lettori di Kant ragionano così: è assolutamente coerente.
Decenni fa erano temprati dal lavoro manuale ed erano reattivi e muscolosi e si dedicavano al manganello e all’olio di ricino; ora, gli agi dell’era postmoderna li hanno ridotti a bimbiminkia brufolosi e si limitano alle infamate, ma lo spirito è esattamente quello. Lì per lì, io me la sono anche un po’ presa – devo dire la verità – che per quanto mi impegni a essere sempre il più sguaiato di tutti poi non mi caca mai nessuno (ancora attendo di essere messo nelle liste di proscrizione dei banderisti del Corriere della serva); purtroppo però, a questo giro, dopo poco l’attenzione è arrivata e non è stata proprio piacevolissima: Youtube, infatti, ha cancellato il mio video e non su segnalazione dei follower brufolosi di Parabellum, ma di Mirko Campochiari di persona personalmente. Dev’essere stato quell’amore spassionato per l’open society e il dibattito franco, aperto e libero che l’ha portato, magicamente, da riconoscere che l’aggressore era la NATO a dedicare tutta la vita a dirci quanto è cattivo Putin e quanto è essenziale continuare a fargli la guerra fino all’ultimo ucraino. Oggi, ovviamente, ripubblicheremo il video tagliando quel microframmento che ha permesso a Campochiari di dimostrare, ancora una volta, la genuinità dei suoi valori e la trasparenza dei suoi fini facendoci cancellare il video dalla piattaforma. Ma ora basta parlare della propaganda di basso cabotaggio e torniamo a parlare della propaganda che conta davvero.

Mike Gallagher

Chi sono i due autori dell’articolo di Foreign Affairs che chiede alla Casa Bianca di mettere da parte le buone maniere e di dichiarare, finalmente, davvero guerra alla Cina? Il primo si chiama Mike Gallagher, è un parlamentare repubblicano del Wisconsin e, nella scorsa legislatura, ha ricoperto il ruolo di uno dei miei comitati preferiti di tutto quel gigantesco circo che è il congresso USA – il comitato sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito Comunista Cinese. Notare: non tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese, ma proprio tra USA e Partito Comunista; d’altronde “La più grande minaccia contro gli Stati Uniti” aveva affermato proprio Gallagher nel suo discorso di insediamento “è il Partito Comunista Cinese. Il Partito Comunista Cinese” sosteneva “continua a commettere genocidi, nasconde l’origine della pandemia da corona virus, minaccia Taiwan e ruba proprietà intellettuale americana per un valore di svariate centinaia di miliardi di dollari”. Il comitato, aveva sottolineato l’ex speaker della camera Kevin McCarthy, era stato fondato perché “per vincere la Nuova Guerra Fredda, dobbiamo rispondere con forza all’aggressione cinese”.
Negli anni, Gallagher è stato costantemente al centro di tutte le principali battaglie della fazione più spregiudicata dell’imperialismo USA: è stato uno dei promotori della proposta di Trump di comprarsi la Groenlandia e, poi, ha litigato con Trump quando Trump aveva proposto di ritirare le truppe USA dalla Siria; è stato tra i promotori della famosa lettera bipartisan tra guerrafondai di entrambe le sponde per richiedere a Biden l’invio immediato degli F-16 in Ucraina ed ha guidato una delegazione di provocatori a Taiwan per rendere omaggio all’ex presidente Tsai Ing-Wen, giusto per far incazzare un po’ Pechino. Sul fronte economico, ha votato per smantellare la legge Dodd-Frank che aveva introdotto alcune piccole misure restrittive alla speculazione finanziaria e ha votato contro l’innalzamento del salario minimo; ed è stato uno dei promotori della battaglia per vietare TikTok negli USA, che ha definito fentanyl digitale utilizzato per fare brainwashing a favore di Hamas in seguito all’operazione diluvio di al aqsa del 7 ottobre scorso. Nel febbraio 2024, infine, ha annunciato le sue dimissioni da parlamentare; poco dopo si è scoperto che era stato assunto da Palantir, il colosso delle piattaforme digitali per l’intelligence e lo spionaggio fondato da Peter Thiel, il guru dell’alt right psichedelica e anarcocapitalista che spadroneggia tra gli yuppies della Silicon Valley.
L’altra firma dell’articolo è ancora più di peso: si chiama Matthew Pottinger – che suona un po’ tipo Cazzenger; purtroppo, però, qui alla fine c’è poco da ridere. Pottinger, infatti, è nientepopodimeno che l’ex vice consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ruolo che ha ricoperto dal settembre del 2019 fino al gennaio del 2021, dopo aver passato due anni a dirigere la sezione asiatica del consiglio per la sicurezza nazionale; uno dei pochissimi ad essere durato per tutta l’amministrazione Trump, Pottinger è stato tra i principali artefici della fallimentare guerra commerciale inaugurata da Trump contro la Cina. Gallagher e Pottinger hanno fortificato il loro rapporto di collaborazione e il loro odio viscerale per tutto ciò che odora di Cina durante la guerra illegale di aggressione degli USA contro l’Iraq, durante la quale Pottinger dichiara di aver sviluppato “una sorta di senso di disagio per il fatto che la Cina non sarebbe realmente riuscita a convergere con il nostro ordine liberale”; da allora, continua Pottinger, ho realizzato che la democrazia “non è inevitabile e non dovrebbe essere data per scontata, ma è una forma di governo per cui dovremmo essere pronti a combattere”.
Ed ecco così che, nonostante un’ideologia ultra conservatrice profondamente radicata, i nostri due eroi si ritrovano costretti ad ammettere che “in una presidenza afflitta da una lunga serie di fallimenti in termini di deterrenza – dall’Afghanistan all’Ucraina, passando per il Medio Oriente – la politica cinese dell’amministrazione Biden si è distinta come un punto relativamente positivo”: “L’amministrazione” ricordano “ha rafforzato le alleanze statunitensi in Asia, limitato l’accesso cinese alle tecnologie americane critiche e creato una convergenza bipartisan” per le politiche anti cinesi; “Eppure” allertano i nostri due simpatici guerrafondai “l’amministrazione sta sprecando questi primi guadagni cadendo in una trappola familiare: dare priorità a un disgelo a breve termine con i leader cinesi a scapito di una vittoria a lungo termine sulla loro strategia malevola”. “Gli Stati Uniti” sostengono “non dovrebbero gestire la competizione con la Cina; dovrebbero vincerla. Pechino” infatti, allertano “sta perseguendo una serie di iniziative globali progettate” addirittura – pensate un po’ – “per disintegrare l’Occidente e inaugurare” – udite udite – “un nuovo ordine globale antidemocratico”. La Cina infatti, ricordano, “sta sostenendo dittature espansionistiche in Russia, Iran, Corea del Nord e Venezuela”, ma non solo: la Cina, infatti, ha anche “più che raddoppiato il suo arsenale nucleare dal 2020” e, soprattutto, “sta rafforzando le sue forze convenzionali più velocemente di quanto abbia fatto qualsiasi altro paese dalla Seconda Guerra Mondiale”; e, a quanto pare, sono anche bravissimi a farlo a costi contenutissimi, dal momento che riescono a finanziare il rafforzamento delle forze convenzionali più veloce di tutto il secondo dopoguerra continuando, comunque, a mantenere la spesa militare complessiva sotto l’1,6% del PIL, contro il 3,5 degli USA che, tradotto, significa meno di 300 miliardi contro quasi 900. Un terzo; e se, spendendo un terzo, invece che aumentare il gap lo riduco, significa solo una cosa: che il socialismo è oltre 3 volte più efficiente del tuo sistema di rapina legalizzata generalizzata, cosa che, però, non so se i nostri due ultras dell’anarcocapitalismo sarebbero disposti ad ammettere. Ma qui non siamo nel regno della coerenza logica e della realtà; siamo nel regno dei redneck creazionisti millenaristi: c’è una missione divina da compiere e non saranno i conti di voi secchioni nerd miscredenti fissati coi numerini a cambiare il corso della volontà del nostro signore creatore.
Ma cosa intendono, concretamente, quando dicono vincere la competizione con la Cina e non semplicemente gestirla? Essenzialmente due cose; uno: imporre ai governanti comunisti cinesi di “rinunciare a cercare di prevalere in un conflitto caldo o freddo con gli USA e i suoi amici”, che questa, in teoria, è una cosa anche abbastanza fattibile perché basterebbe quel conflitto non continuare a scatenarlo (cosa che ai nostri due simpatici amici suprematisti non sembra, però, convincere tantissimo), ma, soprattutto, due: convincere “il popolo cinese, dalle élite al potere ai cittadini comuni” che si dovrebbero ispirare “a nuovi modelli di sviluppo e di governance che non si basino sulla repressione interna e sull’ostilità compulsiva all’estero” che mi pare già più complicatino, se non altro per il fatto che convincere qualcuno del fatto che un paese che, negli ultimi 80 anni, si è reso protagonista di oltre 200 episodi di guerra ibrida di vario genere in tutto il pianeta, ha un modello di sviluppo che è meno fondato “sull’ostilità compulsiva verso l’estero” di uno che ha fatto solo una guerra 45 anni fa che è durata meno di un mese, potrebbe non essere proprio facilissimo.

Matthew Pottinger

Anche i nostri due esaltati guerrafondai riconoscono che “nessun paese dovrebbe essere felice di intraprendere un’altra guerra fredda”; il punto però, rilanciano con forza, è che “i leader cinesi stanno già conducendo una guerra fredda contro gli Stati Uniti”: come è noto, infatti, i cinesi riempiono di armi tutti gli avversari di Washington – anche se come fanno esattamente è difficile dirlo dal momento che, come ricordava, ad esempio, Business Standard l’”export delle armi cinesi affronta il declino”. Secondo l’International Peace Research Institute di Stoccolma, infatti, l’export di armi cinese tra il 2016 e il 2020 sarebbe diminuito del 7,8% e rappresenterebbe, oggi, appena il 5,2% delle esportazioni globali (dal 6,3 di qualche anno fa) contro il 40 degli Stati Uniti; un dato eclatante? Sì, vabbeh. Per noi persone normali. Per quelli in missione per conto di Dio un po’ meno: il crollo dell’export di armi cinese, infatti, per la propaganda suprematista sarebbe dovuto – quando è giorno dispari – al fatto che se le tengono tutte per se per ingrassare gli arsenali; quando è pari, invece, alla scarsa qualità, come d’altronde di tutto ciò che è cinese, come ricorda sempre Business Standard. Quindi, secondo questa logica, i cinesi rinunciano a degli ottimi affari per riempirsi gli arsenali di armi che funzionano di merda e che li condannano alla sconfitta militare. Geniali!
La realtà, ovviamente, è un po’ diversa – e molto più semplice: gli USA danno la caccia con le sanzioni a chiunque si azzardi a vendere armi ai paesi che non sono al 100% al servizio degli interessi di Washington e siccome l’economia cinese, a differenza di quella USA, è fondata sulla produzione di oggetti che servono a vivere e non a morire, i cinesi, ad andare incontro a delle sanzioni per un mercato che per loro è del tutto marginale, non ci pensano proprio; ciononostante, suggeriscono i nostri equilibratissimi amici, “Piuttosto che negare l’esistenza di questa guerra, Washington dovrebbe appropriarsene, e vincerla” e “per vincere è necessario dichiarare apertamente che un regime totalitario che commette genocidi, alimenta i conflitti e minaccia la guerra, non sarà mai un partner affidabile”. Che detto da un parlamentare che, ancora il 21 marzo scorso, spingeva “il Dipartimento della Difesa a impegnarsi pubblicamente a sostenere Israele nella distruzione di Hamas” potrebbe suonare non esattamente credibile, diciamo. I nostri due eroi riconoscono che l’amministrazione Biden non solo “ha rinnovato” le misure intraprese già dall’amministrazione Trump, ma le ha anche “significativamente estese” e riconoscono anche quanto l’amministrazione Biden si sia prodigata per rafforzare tutte le alleanze militari costruite nel Pacifico per minacciare la sicurezza cinese, dal QUAD all’AUKUS, per passare dal summit trilaterale USA-Giappone-Corea del Sud e finire con quello inedito che si svolgerà a breve tra USA, Giappone e Filippine; ma tutte le aspettative che queste iniziative lodevoli avevano sollevato sono state poi tradite: Biden, a un certo punto, ha addirittura deciso di stringere la mano a Xi in mondovisione nella villa di Dynasty a San Francisco e, ora, leader politici e grandi uomini d’affari USA si alternano in pellegrinaggi a Pechino che non fanno altro che legittimare un regime che, negli ultimi due anni, non ha fatto altro che mostrare il suo lato peggiore. “Il 1° febbraio” scrivono i nostri due amici senza nessun senso del ridicolo “Gli abitanti del Montana hanno avvistato un’enorme sfera bianca che si spostava verso est. L’amministrazione stava già seguendo il pallone spia cinese, ma aveva intenzione di lasciarlo passare sopra di loro senza avvisare il pubblico. Ed è stato solo grazie alla pressione politica che Biden ha ordinato l’abbattimento del pallone una volta raggiunto l’Oceano Atlantico e che il segretario di Stato Anthony Blinken ha rinviato un viaggio programmato a Pechino” ed era solo l’inizio: “Nel giugno 2023” ricordano infatti i due autori “fughe di notizie alla stampa hanno rivelato che Pechino stava progettando” – pensate un po’ – addirittura “di costruire una base di addestramento militare congiunta a Cuba”, che è una cosa veramente disdicevole. Contro le oltre 1000 basi USA di ogni tipo sparse per il mondo, infatti, la Cina ne conta solo 2, meno anche dell’India o di Singapore, per non parlare della Turchia o della Francia e, men che mai, della Gran Bretagna. Una volta che trovi un paese amico che ti dà un po’ di spazio che fai, costruisci una base sola? E, infatti, era una mezza bufala, come fu costretto a sottolineare anche un portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale che rivelò quanto “le informazioni trapelate sulla stampa fossero imprecise”: “La Casa Bianca minimizzò” denunciano i nostri due autori, mentre in realtà si trattava di “una notevole eco della Guerra Fredda”; cosa volevano di meglio per inscenare una nuova Baia dei Porci?
Evidentemente i nostri due amici non si sono confrontati abbastanza con l’analista militare di fama internazionale, noto col nome di Parabellum, che gli avrebbe potuto spiegare – come fa continuamente dagli autorevoli schermi della prestigiosa miniera di Ivan Grieco – che ogni paese ha il diritto di ospitare tutti i missili a lunga gittata di una potenza ostile che vuole figurarci una base per l’addestramento; d’altronde gli USA hanno fatto sapere di averne una addirittura nelle isole Kinmen, che non solo sono ad appena 10 chilometri dalla Cina, ma che appartengono a una nazione, come Taiwan, che gli USA sono i primi a non riconoscere ufficialmente e che, ufficialmente, fa parte della Cina, che è una sola e indivisibile, anche per la Casa Bianca.
Ma tutta questa accondiscendenza verso crimini plateali come far volare un pallone gonfiabile e addestrare qualche decina di cubani, alla fine – si chiedono i nostri due autori – cosa ha portato di buono? Assolutamente niente, come si è visto nel caso di quello che loro definiscono “Il massacro di Hamas del 7 ottobre in Israele”; quello che sconvolge i nostri due simpatici autori è che la Cina non solo non ha fatto niente per sostenere la pulizia etnica di Gaza, ma addirittura ha messo il veto alle risoluzioni USA, in Consiglio di sicurezza, che permettevano a Israele di perpetrare il genocidio con l’assenso della comunità internazionale e, al loro posto, ne hanno proposte altre che avevano intenzione – per lo meno – di stoppare lo sterminio, alle quali gli USA sono stati costretti a mettere il veto da soli contro tutto il resto del mondo. Ma non solo: quando, poi, gli yemeniti hanno deciso di ricorrere ai mezzi in loro possesso per creare un po’ di deterrenza contro il sostegno allo sterminio, invece di attaccarli illegalmente a casa loro a suon di bombe, come hanno fatto gli USA senza grossi risultati, i cinesi ci si sono messi a parlare e hanno pure trovato un accordo per far passare le loro navi dimostrando che non servivano a portare armi e altre merci al regime genocidario sionista. Tutta questa spavalderia che porta un paese come la Cina a pensare di potersi sottrarre dal sostenere l’ennesimo sterminio colonialista senza pagare dazio è dovuta a questa idea dei buonisti che circondano Rimbambiden che, con la Cina, si debba trattare, un po’ come Nixon e Carter con l’URSS: volevano trovare un nuovo equilibrio, ma non c’era equilibrio possibile; per l’impero USA non esiste altro equilibrio che il dominio totale del globo, cosa che capì perfettamente Reagan che, infatti, “la guerra fredda decise che voleva vincerla, non semplicemente gestirla”.
Reagan si impegnò per tirare giù il muro di Berlino; oggi Washington deve concentrare tutti i suoi sforzi per buttare giù il great firewall, il muro che la Cina ha tirato su per non farsi invadere dalla propaganda delle oligarchie suprematiste occidentali perché, nel frattempo, “Xi ha investito miliardi di dollari” per influenzare le opinioni pubbliche occidentali e creare divisione dentro il giardino ordinato; come si spiegherebbe, altrimenti, che così tanta gente, di fronte a delle belle soldatesse israeliane che fanno degli ingenui balletti su Tiktok di fronte alle macerie dopo aver sterminato 15 mila bambini, continua ad indignarsi? Cosa cazzo gliene frega alla gente normale dello sterminio di bambini che, come dicono i democratici sionisti, sono solo i terroristi di domani? La prima cosa da fare, suggeriscono i due autori, è invertire immediatamente il corso di quello che “con l’amministrazione Biden, al netto dell’inflazione, è diventato un taglio netto alla spesa militare”; “invece di spendere poco più del 3% del PIL per la difesa” sostengono “Washington dovrebbe spendere il quattro, se non addirittura il 5%”: solo “per una deterrenza decente per Taiwan” specificano “gli USA dovrebbero spendere come minimo 20 miliardi aggiuntivi l’anno per i prossimi 5 anni, da mettere in una sorta di fondo deterrenza gestito direttamente dal segretario di Stato”. “Il fondo di deterrenza” continuano “dovrebbe essere il simbolo di uno sforzo generazionale diretto dal presidente per ripristinare il primato degli Stati Uniti in Asia”.
I nostri due amici hanno anche idee piuttosto precise su come impiegare questi soldi: “La priorità” sostengono “dovrebbe essere quella di massimizzare le linee di produzione esistenti e costruire nuova capacità di produzione di munizioni critiche per l’Asia, come missili antinave e antiaerei che possono distruggere obiettivi nemici a grandi distanze”; poi dovrebbero servire, ovviamente, a “produrre migliaia e migliaia di droni per trasformare lo stretto di Taiwan in un fossato ribollente” e poi ci si dovrebbe dare sotto di creatività, ad esempio pensando di “disperdere lanciamissili nascosti in container commerciali o schierare la Powered Joint Direct Attack Munition, un kit a basso costo che trasforma bombe standard da 500 libbre in missili da crociera a guida di precisione”. Poi, siccome i cinesi son pieni di missili a lunga gittata di ogni tipo che possono raggiungere il grosso delle istallazioni militari nell’area, è necessario distribuirle nel modo più diffuso possibile e, quindi, servono tanti accordi con gli attori regionali per ampliare il numero di basi, che le oltre mille che hanno ad oggi (che sono tipo 10 volte le basi straniere di tutti gli altri paesi messi assieme) per gli USA vanno bene in tempo di pace; ora che siamo in guerra dobbiamo averne minimo 50 volte il resto del mondo messo assieme. E ovviamente, poi, tutte queste basi andranno attrezzate a dovere e ci andranno “preposizionate forniture critiche come carburante, munizioni e attrezzature” e questo “in tutto il Pacifico”, ma tutto questo, sottolineano, potrebbe essere inutile se comunque continuassimo a permettere alla Cina “di tenere economicamente in ostaggio l’Occidente”.
Da questo punto di vista, le sanzioni di Trump rafforzate da Biden sono un primo passo importante, ma devono essere solo l’antipasto: gli USA devono stoppare l’esportazione di tutto quello di cui la Cina ha ancora bisogno di importare per continuare a sostenere la sua crescita, ma tutto questo ancora potrebbe non essere sufficiente se non si decide di fare una campagna ideologica come si deve, proprio come quando Reagan decise di fare un salto di qualità e definì l’Unione Sovietica Il fulcro del male nel mondo moderno “e cominciò deliberatamente a danneggiare la sua intera economia” anche perché, sostengono, esattamente come con l’Unione Sovietica “Washington non dovrebbe temere lo sbocco finale che ormai viene auspicato da un numero crescente di cinesi: una Cina in grado di tracciare il proprio percorso libero dalla dittatura comunista.
Il governo draconiano di Xi ha convinto anche molti membri del PCC che il sistema che ha prodotto il recente rapido declino della prosperità, dello status e della felicità individuale della Cina merita un riesame. Il sistema che ha prodotto uno stato di sorveglianza onnicomprensivo, colonie di lavoro forzato e il genocidio di gruppi minoritari all’interno dei suoi confini è un sistema” che ovviamente va contro anche gli interessi e la cultura stessa dei cinesi che, ovviamente, ambirebbero tutti – invece che in Cina – a vivere in India, che solo 40 anni fa aveva un PIL pro capite superiore a quello cinese e ora è ferma a un sesto (che però non dà un’idea chiara della condizioni di vita dell’indiano medio rispetto al cinese, perché quasi metà della ricchezza indiana è concentrata nelle mani dell’1% più ricco e il coefficiente di Gini indiano è il doppio di quello cinese). Risultato: la Cina, nel 2020, ha messo fine alla povertà assoluta in tutto il paese o, come recitava un titolo, Ha costretto tutti i suoi abitanti a uscire dalla povertà, mentre l’India ha lasciato la libertà di continuare a morire di fame a oltre 80 milioni di suoi cittadini; sicuramente Washington avrà vita facile nel convincere i cinesi che a seguire il modello neoliberista USA c’hanno solo da guadagnare.
Abbiamo voluto dedicare così tanto tempo a questo singolo articolo perché riteniamo sia importante capire fino in fondo il livello raggiunto dal dibattito pubblico nel cuore delle sfere più alte della politica statunitense; difficile dire quanto la ferocia inaudita e la totale spregiudicatezza nell’invocare la distruzione totale di un paese da 1,5 miliardi di abitanti sia il delirio di una minoranza rumorosa dell’establishment americano o quanto, piuttosto semplicemente, questi due personaggi abbiano il ruolo di dire ad alta voce quello che gli altri pensano per cominciare a tastare un po’ il terreno, come dei Macron qualsiasi. Fatto sta che qui non parliamo di due blogger esagitati o di un Parabellum qualsiasi che, come ritorsione, al massimo può buttare giù un video da un canale Youtube indipendente con 50 mila follower e poi piangere in un angolino nella cameretta in videocall con Stirpe e Nane Cantatore; qui parliamo di un pezzo dei piani alti della classe dirigente che dice apertamente che l’obiettivo politico è rovesciare uno Stato e spiega, per filo e per segno, passo dopo passo, cosa farebbero se fossero al governo – come è molto probabile che saranno fra non moltissimo – per arrivare a quell’obbiettivo. Come diceva il compianto Giulietto Chiesa, prendendosi del complottista, gli USA l’obiettivo finale l’hanno deciso già da mo’; il dibattito interno è solo per decidere, di volta in volta, quale strada prendere per arrivarci.
Questo video, inizialmente, doveva parlare del viaggio della Yellen a Pechino e delle sue deliranti dichiarazioni sull’overcapacity industriale cinese, una vera e propria barzelletta: l’overcapacity, cioè la sovracapacità, non è un termine generico. Ha un significato specifico e, per dimostrare che c’è overcapacity, si deve verificare almeno una, se non tutte, le tre le seguenti condizioni: gli impianti devono avere un basso livello di impiego; una percentuale elevata di merci deve rimanere accatastata invenduta nei magazzini; il margine di profitto degli operatori del settore deve essere particolarmente basso. Nel caso degli autoveicoli elettrici cinesi, come ricordava anche Bloomberg qualche giorno fa, queste tre condizioni molto banalmente non si presentano, nessuna delle 3; molto banalmente, i cinesi hanno investito di più di noi per sviluppare un settore che richiedeva troppi investimenti che le nostre oligarchie – che sono abituate a fare soldi speculando sulle azioni – non avevano intenzione di fare (che investire è sempre un po’ rischioso). Grazie a questi investimenti, ora le aziende cinesi sono incomparabilmente più efficienti e produttive delle nostre e, quindi, a noi non rimane che impedirgli con ogni mezzo necessario di venirci a fare concorrenza in casa nostra; e siccome la concorrenza è stata, per 40 anni, la nostra religione laica in nome della quale ci hanno rifilato le peggio fregature, andava inventata una cazzata per alzare un po’ un polverone. E quella cazzata si chiama overcapacity, che tanto, nell’Occidente in preda alla sinofobia, la spacci bene (che nessuno sa cosa significa) e genericamente, comunque, non gliene frega abbastanza un cazzo.
Poi, però, ci siamo fatti prendere da questo articolone delirante su Foreign Affairs e ci siamo persi; fortunatamente, su questo tema ieri ha pubblicato un bellissimo video il nostro amico Davide di Dazibao, che ha spiegato tutto come sempre in modo più che chiaro e preciso. Andatevelo a vedere perché merita. Nel frattempo, se ti è piaciuto questo contenuto, ricordati di mettere un like, di iscriverti a tutti i nostri canali e di attivare le notifiche, ma – soprattutto – ricordati che canali come il nostro, senza santi in paradiso (in particolare nel paradiso di chi finanzia fino all’ultimo bamboccione, basta che si allinei alla propaganda guerrafondaia suprematista), per campare hanno bisogno del tuo contributo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Mirko Campochiari

L’incredibile confessione dei militari ucraini: aiuti o meno, la guerra è persa

“Luglio 2024. L’esercito russo è alle porte d Kiev”; pochi mesi prima, “Mentre la primavera si trasformava in estate, e gli Stati Uniti dopo mesi di litigio avevano da poco approvato il pacchetto di aiuti da 60 miliardi, le truppe di Putin avevano costretto alla ritirata gli ucraini, e avevano sfondato le linee nel sud e nell’est. E quando alla fine avevano accerchiato la capitale, una nuova ondata di rifugiati era fuggita dall’Ucraina in cerca di sicurezza dai bombardamenti incessanti”. Non è il sogno bagnato di qualche z blogger in cerca di like; è l’incipit dell’inquietante editoriale di qualche giorno fa dell’ultrà filoucraino Iain Martin, firma di riferimento del britannico Times: “Uno scenario da incubo” che però, sottolinea Martin, “è quello che attualmente fuori dai riflettori stanno contemplando tutti i politici occidentali”. E c’è chi si spinge oltre: “Come finirà la guerra russo-ucraina?” si chiede su The American Spectator il fondatore dell’International Political Risk Analytics Samir Tata; “Con una grande sorpresa ad ottobre” è la risposta. “L’Ucraina verrà sciolta e nascerà una Nuova Ucraina in virtù di una dichiarazione unilaterale dell’attuale governo ucraino, con il sostegno dell’alto comando militare. E i confini della Nuova Ucraina coincideranno con il territorio attualmente sotto il controllo amministrativo dell’attuale governo”.
A sdoganare definitivamente – anche tra i propagandisti ultra-atlantisti – l’idea che tutto il fronte ucraino possa definitivamente crollare da un momento all’altro c’ha pensato Politico che ha raccolto le testimonianze anonime di alcuni ufficiali militari ucraini di alto rango: il “quadro militare” che ne è emerso è, per usare eufemismo, “cupo”, con “le forze armate russe che potrebbero avere successo ovunque decidano di concentrare la loro prossima offensiva”. Ora, non è certo la prima volta che la propaganda accetta di riconoscere la gravità della situazione, ma fino ad oggi era sempre stato per fare pressione sugli alleati e spingere per l’approvazione di nuovi aiuti: se solo non esistessero i trumpiani e gli USA approvassero quei benedetti 60 miliardi di nuovi aiuti militari… era un po’ il retropensiero. Ora, però, la musica è cambiata: “Non c’è nulla adesso che possa aiutare l’Ucraina” avrebbe affermato una delle fonti anonime interrogate da Politico, “perché non esistono tecnologie in grado di compensare l’Ucraina per la grande massa di truppe che la Russia probabilmente scaglierà contro di noi. Noi non disponiamo di queste tecnologie e anche l’Occidente non le possiede in numero sufficiente”; “L’Ucraina” commenta Simplicius “non ha più letteralmente alcuna possibilità di fare qualcosa militarmente in questa guerra. L’unica possibilità di sopravvivenza dell’Ucraina e di Zelensky è quella di spingere la Russia ad uno scontro con la NATO”.

Valerij Zalužnyj

Al netto di tutte le millemila differenze, almeno da questo punto di vista sembra la fotocopia della situazione in Medio Oriente, dove Israele sta facendo di tutto per provocare l’Iran e l’intero asse della resistenza nella speranza di trasformare l’inutile e arbitrario sterminio della popolazione palestinese in una guerra regionale dalla quale Washington non possa tirarsi indietro; gli USA speravano di poter gestire comodamente i due fronti attraverso i loro proxy per dedicarsi a tempo pieno alla Grande Guerra contro il vero nemico principale nel Pacifico. Non sembra aver funzionato proprio benissimo, diciamo: oggi entrambi i fronti, senza l’intervento diretto degli USA, rischiano di consegnare una vittoria di portata epocale ai sostenitori del Nuovo Ordine Multipolare. Per l’Impero è un vero e proprio incubo strategico: comunque scelgano di procedere, nella migliore delle ipotesi dovrà fare i conti con una sconfitta epocale in almeno uno dei tre fronti; se decide di tornare a concentrarsi sul Pacifico prima che sia troppo tardi, dovrà accettare la sconfitta strategica sui fronti ucraino e mediorientale. Se decide, invece, di assecondare il tentativo di coinvolgerlo direttamente nei fronti ucraino e mediorientale, dovrà accettare la definitiva ascesa cinese oltre il livello che rende ancora pensabile un intervento USA nell’area; d’altronde quando, per rinviare il tuo declino, decidi di dichiarare guerra al resto del mondo senza aver fatto i conti col fatto che gli strumenti per combattere contro tutti allo stesso tempo non ce li hai più, è così che necessariamente va a finire. Ma prima di addentrarci nei meandri di questa scioccante presa di coscienza da parte della propaganda atlantista, ricordatevi di mettere un like a questo video per permetterci di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e, già che ci siete, ricordatevi anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare le notifiche; anche noi, nel nostro piccolo, combattiamo la nostra guerra contro il resto del mondo: il mondo dell’informazione al servizio dell’impero e delle sue oligarchie. E l’unica arma che abbiamo siete voi.
A dare il via all’ultimo valzer di necrologi, mercoledì scorso ci aveva pensato l’Economist: “L’arrivo della primavera in Ucraina” scrivevano “porta due tipi di tregua. Il clima più caldo significa che i frenetici attacchi di missili e droni russi alle infrastrutture elettriche e del gas non saranno così insopportabili. E con il calore arriva anche il fango, e circa un mese durante il quale i movimenti sul campo diventano difficili. Questo dovrebbe ostacolare l’ondata di attacchi russi lungo la linea del fronte che si estende attraverso l’Ucraina orientale e meridionale”. Ma la calma “non durerà” avverte l’Economist: “Mano a mano che la primavera volgerà verso l’estate, il timore è che la Russia lanci una nuova grande offensiva, come ha fatto l’anno scorso. Solo che questa volta la capacità dell’Ucraina di tenerla a bada sarà molto inferiore di quanto lo sia stata allora”; parte della responsabilità è degli ucraini stessi che, alla fine, si sono ritrovati a credere un po’ troppo alla loro stessa propaganda e a quella dei finti amici della propaganda ultra-atlantista, troppo impegnati a inseguire il sogno di spezzare le reni al plurimorto dittatore del Cremlino per potersi occupare anche degli interessi concreti degli ucraini. Infarcito di pensiero magico, “il governo” sottolinea l’Economist, ha continuato a sognare anche fuori tempo massimo “una nuova controffensiva” che evitasse di dover considerare “l’attuale linea del fronte, che taglia un quinto del paese e lo priva della maggior parte del suo accesso al mare, la base per un futuro negoziato di pace”; ed ecco, così, che l’Ucraina ha perso mesi preziosi per concentrare le forze nella fortificazione di una linea difensiva decente: “Nelle ultime settimane” finalmente “gli scavatori hanno cominciato a muoversi e si stanno seminando i denti di drago”.
Potrebbe essere decisamente troppo tardi: “Un anno fa” ha scritto su X Elon Musk “ la mia raccomandazione era che l’Ucraina si rafforzasse e utilizzasse tutte le risorse per la difesa”; adesso, continua, “più a lungo va avanti la guerra, più territori guadagnerà la Russia, fino almeno a raggiungere il Dnepr, che è difficile da superare. Tuttavia, se la guerra dovesse durare abbastanza a lungo, anche Odessa cadrebbe. L’unica vera questione rimasta aperta, a mio avviso” conclude Musk “è se l’Ucraina perderà o meno l’accesso al Mar Nero. Raccomanderei una soluzione negoziata prima che ciò accada”. Grazie all’assenza di fortificazioni, l’esercito russo può ricorrere alla strategia che il quotidiano francese Le Figaro ha definito dei morsi o delle punte e, cioè, una lunga serie di piccoli attacchi su più segmenti del fronte contemporaneamente; non avendo, gli ucraini, uomini e mezzi sufficienti per coprire l’intero fronte, i russi “sono in grado di tormentare l’avversario sul campo, e ottenere così contemporaneamente piccoli avanzamenti, il dissanguamento degli ucraini e l’indebolimento delle loro riserve”, una strategia piuttosto efficace che porta anche siti apertamente schierati come Militaryland a pubblicare annunci disperati come questo: “La 153esima brigata meccanizzata non è più meccanizzata”. “La mancanza di veicoli” riporta il sito “ha costretto il comando ucraino a fare marcia indietro rispetto ai piani originali. La leadership delle forze armate ucraine ha riorganizzato la 153a brigata meccanizzata in una brigata di fanteria” e “potrebbe non essere un evento isolato”; “Secondo le nostre fonti” continua l’articolo “nel prossimo futuro è prevista anche la trasformazione della 152a brigata meccanizzata in una brigata di fanteria”: molto banalmente, “I partner occidentali non forniscono più una quantità adeguata di attrezzature per ricostituire le brigate meccanizzate esistenti” e i russi hanno spesso campo libero. Ad esempio a ovest di Bakhmut, dove i russi, secondo Simplicius, “si preparano a lanciare l’assalto a Chasov Yar”, che “è un importante snodo ferroviario, e soprattutto si trova su una collina che domina l’intero agglomerato difensivo delle forze armate ucraine della regione”, mentre si intensificano “le voci su un’eventuale evacuazione totale della città di Kharkiv, e non solo a causa dei problemi elettrici dopo gli attacchi russi alle centrali, ma soprattutto in previsione dell’apertura di un nuovo potenziale fronte da nord”.
Dalle pagine del Washington Post ( ) Zelensky stesso ha sottolineato la gravità della situazione: “Se hai bisogno di 8.000 colpi al giorno per difendere la linea del fronte, ma ne hai soltanto 2.000” ha affermato “non puoi che arretrare e accorciare la prima linea. E se si rompesse anche questa, i russi potrebbero entrare nelle grandi città”; e i colpi di artiglieria sono solo una parte del problema. Ancora più preoccupante, ammette, è la situazione della difesa antiaerea e, per convincere gli alleati a sbloccare gli aiuti, rinnova una minaccia: se non ci mandate i missili che ci servono, intensificheremo gli attacchi contro aeroporti, strutture energetiche e altri obiettivi strategici in territorio russo. “Mentre i droni, i missili e le bombe di precisione russi sfondano le difese ucraine per attaccare le strutture energetiche e altre infrastrutture essenziali” scrive Il Post, “Zelensky ritiene di non avere altra scelta se non quella di attaccare oltre confine, nella speranza di stabilire una deterrenza”; “Se non esiste una difesa aerea per proteggere il nostro sistema energetico, e i russi lo attaccano” avrebbe affermato Zelensky “la mia domanda è: perché non possiamo rispondere? La loro società deve imparare a vivere senza benzina, senza diesel, senza elettricità”.
L’articolo di Politico di ieri, però, ci regala un’altra prospettiva: “Zelensky” si legge “fa di tutto per sbloccare gli aiuti, ma la triste verità è che, anche se il pacchetto venisse approvato dal Congresso degli Stati Uniti, un massiccio rifornimento potrebbe non essere sufficiente per evitare un grave sconvolgimento del campo di battaglia”. Intanto perché, come avrebbero sottolineato le fonti anonime a Politico, ci sarebbe bisogno di “molti, molti più uomini”: prima di ricevere il benservito, verso la fine dell’anno scorso, il generale Zaluzhny aveva parlato di circa 500 mila uomini, che può sembrare anche una cifra astronomica, ma – in realtà – è poco più degli uomini che dall’inizio del conflitto, tra morti e feriti, l’Ucraina ha perso sul campo di battaglia, senza contare quelli esausti perché, da mesi, sono al fronte senza una minima programmazione della rotazione. Nei mesi successivi, però, abbiamo visto tutti le gigantesche difficoltà incontrate nel reclutamento, con gente che rincorreva i reclutatori a cavallo con l’accetta in mano o li sovrastava con un cespuglio di schiaffi nei centri delle città: ed ecco, così, che alla fine la propaganda di Kiev ha fatto di necessità virtù, con Syrski (che è il sostituto più docile di Zaluzhny) che la settimana scorsa ha avuto la faccia tosta di dichiarare che l’”Ucraina ha bisogno di molte meno truppe di quelle preventivate”; “Il piano” sostitutivo, scrive Politico, “sarebbe quello di spostare in prima linea il maggior numero possibile di personale in uniforme che ora sta dietro una scrivania o comunque non ricopre ruoli da combattenti, dopo un addestramento intensivo di 3, 4 mesi”, ma gli alti funzionari interpellati da Politico hanno affermato che il piano di Sirsky non è realistico e che “sta semplicemente seguendo la narrazione dei politici”.

Oleksandr Syrs’kyj

E poi, ovviamente, c’è il problema degli aiuti che, però, in molti ritengono – molto semplicemente – irrisolvibile perché i soldi si potrebbero anche trovare, a partire dai 60 miliardi USA bloccati dal Congresso; il problema, però, è cosa riesci a comprarci una volta che li hai ottenuti, da una parte perché, come ricorda Simplicius “Gli Stati Uniti hanno già svuotato quasi tutto il loro stock di armi principali in eccedenza utilizzabili per l’Ucraina, dai carri armati, all’artiglieria, per non parlare delle munizioni”, dall’altra perché vale la famosa teoria dell’unica possibilità di Zaluzhny e, cioè, “I sistemi d’arma diventano superflui molto rapidamente, perché i russi sviluppano continuamente nuove modalità per contrastarli”. “Ad esempio” avrebbero dichiarato le fonti militari a Politico, “abbiamo utilizzato con successo i missili da crociera Storm Shadow e SCALP, ma solo per un breve periodo”; una volta entrati in gioco, i russi si sono messi a studiare e hanno capito come contrastarli: “I russi studiano sempre. Non ci danno una seconda possibilità” e noi “semplicemente non riceviamo i sistemi d’arma nel momento in cui ne abbiamo bisogno: e quando arrivano non sono più rilevanti”. Potrebbe essere, ad esempio, il caso degli F-16: si prevede che, entro l’estate, si dovrebbe riuscire a renderne operativi una dozzina, ma – sottolineano le fonti di Politico – “ogni arma ha il suo momento giusto. Gli F-16 erano necessari nel 2023; nel 2024 non saranno più adatti” e questo, appunto, perché la Russia, nel frattempo, si è attrezzata per contrastarli. “Negli ultimi mesi” avrebbero dichiarato le fonti a Politico “abbiamo iniziato a notare missili senza testate esplosive lanciati dai russi dal nord della Crimea. Non riuscivamo a capire cosa stessero facendo, e poi lo abbiamo capito: stavano prendendo le misure”; “La Russia” continua l’articolo “ha studiato dove è meglio schierare i suoi sistemi missilistici e radar S-400, al fine di massimizzare l’area che possono coprire per colpire gli F-16, tenendoli così lontani dalle linee del fronte e dagli hub logistici principali”.
Ma se anche sbloccando gli aiuti le sorti della guerra, ormai, non possono essere in nessun modo ribaltate, perché allora Zelensky continua a minacciare sempre più interventi in territorio russo per convincere gli alleati a sbloccarli? Secondo Simplicius, appunto (come abbiamo già anticipato), Zelensky avrebbe adottato una strategia simile a quella adottata da Netanyahu: provocare il nemico per costringerlo a una reazione tale da costringere gli USA a scendere direttamente in campo; “Mentre la Russia sta schiacciando il potenziale di combattimento delle forze armate ucraine sul campo di battaglia” scrive Simplicius “Zelensky si rivolge all’ISIS per massacrare i civili russi, attacca i grattacieli di Belgorod con droni e artiglieria, e carica i Cessna di bombe per farli precipitare su edifici dove risiedono studenti africani che partecipano a programmi di scambio culturale”. “Prima l’Occidente si renderà conto che la guerra in Ucraina è perduta” ha commentato Belpietro su La Verità “e prima sarà meglio per tutti, in particolare per gli ucraini che, come si può leggere quando la censura imposta da Zelensky non riesce a tappargli la bocca, pensano esattamente ciò che pensiamo noi, e cioè che la situazione sta irrimediabilmente precipitando. Non ci sono armi” continua Belpietro “perché dopo due anni di aiuti all’Ucraina, l’America, l’Europa e gli altri alleati hanno svuotato gli arsenali. E non c’è neppure tempo per produrre missili e aerei, perché dopo 80 anni di pace, i cosiddetti Paesi democratici hanno tenuto in vita l’industria degli armamenti solo per fornire ai dittatori la dose giusta di cannoni e carri armati per reprimere le rivolte. O al massimo per combattere qualche guerra lampo in giro per il mondo contro avversari infinitamente più deboli”.
Per fortuna però che, quando la realtà si fa particolarmente complicata, c’è sempre una via di fuga: fare finta di niente e guardare altrove, che è esattamente quello che hanno deciso di fare i nostri più importanti organi di manipolazione del consenso e dell’opinione pubblica sui quali, della bomba sganciata da Politico, non c’è traccia; al suo posto, la fuffa di Stoltenberg che, di fronte ai ministri degli esteri riuniti a Bruxelles in attesa delle celebrazioni per il 75esimo anniversario della NATO, ha proposto un pacchetto da 100 miliardi in 5 anni per assicurare all’Ucraina tutto il sostegno di cui ha bisogno, anche nell’ipotesi che a novembre alla Casa Bianca arrivi The Donald. Il Foglio l’ha definita enfaticamente “Rivoluzione NATO”, ma il problema di cosa ci si possa realmente comprare con quei quattrini e che impatto possa avere su un fronte prossimo al collasso viene, semplicemente, rimosso; qualcuno sostiene che gli USA non vedano troppo di buon occhio la proposta di Stoltenberg, che segnerebbe un cambiamento importante: invece che non ricevere più aiuti sufficienti dai singoli Paesi, l’Ucraina non li riceverebbe più dalla NATO nel suo insieme.
Peccato, però, che i ministri non siano riusciti a farsi spiegare le titubanze direttamente da Blinken: è arrivato 3 ore in ritardo; il suo aereo ha avuto un guasto ed ha dovuto raggiungere Bruxelles, da Parigi, in auto. Forse, più che mandare fuori tempo massimo inutili aerei in Ucraina, sarebbe il caso di investire per tornare a far funzionare quelli che usiamo noi; la strategia dell’impero, negli ultimi 2 anni, ha rivelato tutte le sue insormontabili criticità: l’unica arma che gli rimane è quella della propaganda che, quando non può completamente distorcere i fatti, si limita a ignorarli, ma la distanza dalla realtà ormai è talmente palese che nascondere le crepe diventa impossibile. Serve solo dargli il colpo finale per far crollare tutto l’edificio: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di fornire un’informazione completamente diversa, indipendente, ma di parte, quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carletto librocuore Calenda



GAZA: lo Stato italiano potrebbe essere condannato per genocidio

“Questa guerra durerà a lungo” confessa il superconsulente delle forze armate israeliane Gabi Siboni su La Stampa; “Ma cosa intende esattamente per lungo?” chiede Lucia Annunziata: almeno “un paio d’anni” risponde Siboni. E questo solo “per raggiungere il nostro primo stadio”, dopodiché – continua – “per riuscire a ottenere quello che vogliamo, dovremo rimanere a Gaza 50 anni”.

A quasi due settimane dalla storica sentenza preliminare della Corte di Giustizia dell’Aja che, per la prima volta, abbatte il muro della totale impunità dell’occupazione criminale di Israele, gli esponenti di spicco dell’entità sionista continuano a ostentare tutta la loro sicurezza e a sfidare apertamente il diritto internazionale, e anche il buon gusto; d’altronde, tutto sommato, continuano a godere di un sostegno incondizionato al genocidio da parte del giardino ordinato che, pur di difendere l’ultimo avamposto dell’imperialismo a guida USA, rischia di catapultarci tutti in una nuova Norimberga. Nel tentativo di screditare la Corte di Giustizia internazionale e tutte le istituzioni multilaterali che non sono sfacciatamente eterodirette da Washington, il mondo libero e democratico, infatti, ha deciso di contribuire attivamente all’holodomor di Gaza ritirando di botto i finanziamenti all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU incaricata dell’assistenza umanitaria dei palestinesi, di gran lunga la più importante delle organizzazioni che stanno cercando di evitare che – prima ancora di morire sotto le bombe delle forze di occupazione – i palestinesi vengano decimati dalla fame, dalla sete e dalle malattie. L’Aja aveva imposto esplicitamente a Israele di garantire l’arrivo di aiuti umanitari adeguati; contribuire a impedirlo come, insieme ad altri 15 governi occidentali, sta facendo Giorgiona la svendipatria significa, in punta di diritto, andare contro la Corte e andare a braccetto con chi è formalmente indagato per genocidio: “Questo sposta la maggior parte di questi stati occidentali dalla loro attuale semplice complicità con i genocidio di Israele, attraverso la vendita di armi, gli aiuti e la copertura diplomatica, a una partecipazione diretta attiva al genocidio stesso” ha affermato il celebre professore di diritto statunitense Francis Boyle.
A venire violato in maniera piuttosto esplicita infatti, continua Boyle, sarebbe il divieto della Convenzione sul genocidio del 1948 di “infliggere deliberatamente al gruppo” e, cioè, ai palestinesi “condizioni di vita calcolate per provocare la sua distruzione fisica totale o parziale” e l’aggravante, a questo giro, è che la decisione sarebbe stata presa per motivi più che futili: il ritiro dei finanziamenti all’UNRWA, infatti, si fonda su un unico elemento che ha dell’incredibile: l’accusa da parte di Israele nei confronti di 12 funzionari – tra i 13 mila impiegati dall’agenzia – di complicità con l’operazione diluvio di Al Aqsa, un’accusa alla quale l’agenzia ha reagito tempestivamente, in un eccesso di accondiscendenza, licenziando in tronco le persone coinvolte senza che vi fosse lo straccio di una prova; solo la parola di chi sta perpetrando il genocidio. Vista la funzione vitale e la posizione delicatissima che ricopre l’agenzia in questa fase si è scelto, insomma, di evitare in ogni modo polemiche, anche se sulla pelle di 12 persone (che al momento, ovviamente, risultano completamente innocenti) dopo che, per mesi, hanno rischiano la vita sotto le bombe criminali di Israele – che con il personale e le strutture dell’UNRWA non ci è andato certo di scartino, radendo al suolo scuole, rifugi, ospedali e registrando il record assoluto di vittime tra i lavoratori delle organizzazioni umanitarie in un conflitto moderno: 152 secondo la CNN, ed era 10 giorni fa. Purtroppo, l’eccesso di zelo dell’agenzia è servito comunque a poco; i sostenitori del genocidio hanno deciso di fare un doppio sgarbo a ogni idea di stato di diritto: il primo decretando la colpevolezza preventiva di 12 persone e il secondo facendo ricadere questa sentenza preventiva ingiustificata sull’intera struttura e, a cascata, sull’intera popolazione di Gaza. Chi ci accusava di nutrire troppe speranze dopo la sentenza dell’Aja quindi aveva ragione?
In parte, sicuramente sì, almeno fino a ieri perché negli ultimi 2 giorni, in realtà, qualcosa s’è cominciato a muovere; il primo segnale è arrivato nientepopodimeno che dal Giappone: a inviarlo, in questo caso, non è stato un governo, ma un’azienda privata gigantesca. E’ la Itochu Corporation, un supermegaconglomerato da oltre 100 mila dipendenti attivo in millemila settori diversi, compresa la difesa; nel marzo scorso aveva firmato un accordo a tre con la Nippon Aircraft Supply e il colosso israeliano della tecnologia militare Elbit Systems: “Tenendo conto dell’ordinanza della Corte internazionale di giustizia del 26 gennaio e del fatto che il governo giapponese sostiene il ruolo della Corte” ha annunciato in una conferenza stampa due giorni fa il direttore finanziario del gruppo Tsuyoshi Hachimura “abbiamo già sospeso le nuove attività relative al memorandum d’intesa e prevediamo di concluderlo entro la fine di febbraio”. Nelle stesse ore, nel parlamento regionale della Vallonia, in Belgio, la rappresentante del partito ambientalista Ecolo, Hélène Ryckmans, ha presentato un’interrogazione sull’esportazione di polvere da sparo che da Anversa raggiunge il porto di Ashdod, una quarantina di chilometri a nord di Gaza; all’inizio dell’anno, infatti, la fabbrica di munizioni di Liegi della PB Clermont aveva ottenuto la licenza per le esportazioni che ora si chiedeva venisse revocata, e la risposta è stata tempestiva: “L’ordinanza del 26 gennaio della Corte internazionale di giustizia” ha dichiarato in conferenza stampa il ministro regionale dell’edilizia abitativa Cristophe Collignon “nonché l’inaccettabile deterioramento della situazione umanitaria nella Striscia di Gaza hanno portato il Ministro – Presidente a sospendere temporaneamente le licenze valide”. Per quanto ne so, in 75 anni di occupazione e in 20 di carcere a cielo aperto a Gaza, non era mai successo; nonostante le decine di risoluzioni dell’ONU, fino ad oggi il giardino ordinato aveva sempre dato, senza distinguo, tutto il suo sostegno incondizionato ai crimini dell’entità sionista, eppure non dovrebbe sorprenderci: è esattamente quello che aveva previsto il nostro Triestino Mariniello commentando a caldo la sentenza una decina di giorni fa.

Triestino Mariniello

Nel frattempo, anche la guerra dell’Occidente collettivo contro l’UNRWA perde pezzi: lunedì scorso, infatti, Jose Albares, il ministro degli esteri spagnolo, ha annunciato che non solo il suo paese non farà parte del nutrito fan club democratico del genocidio da assedio, ma anzi aggiungerà ai finanziamenti già autorizzati altri 3,5 milioni di euro: “La situazione dell’UNRWA è disperata” ha affermato “e c’è il serio rischio che le sue attività umanitarie a Gaza vengano paralizzate entro poche settimane”. Pochi giorni prima era stato il turno di Joao Cravinho, il ministro degli esteri del Portogallo, che su X aveva affermato che era essenziale “non voltare le spalle alla popolazione palestinese in questi momenti drammatici” e aveva annunciato ulteriori finanziamenti all’UNRWA per 1 milione di euro; al di là delle valutazioni di merito, anche solo per levarsi di torno possibili accuse di genocidio – anche proprio ragionando cinicamente – mi sembrano spesi benino, diciamo. D’altronde, le accuse di Israele nei confronti dei famosi 12 dipendenti incriminati si fonderebbero su un dossier che fino ad ora Tel Aviv pare avesse condiviso solo con Washington; Blinken, ovviamente, ha affermato subito che le prove erano più che solide, ma dopo che Biden ha affermato di aver visto le foto dei bambini decapitati solo per venire smentito poche ore dopo dal suo stesso staff – appena prima che tutto il mondo venisse a sapere che quelle foto non sono mai esistite – diciamo che non è esattamente una fonte credibilissima, come confermerebbe un’inchiesta del canale pubblico britannico Channel 4. L’emittente, infatti, sarebbe entrata in possesso del dossier e il giudizio è inequivocabile: “Non contiene nessuna prova” hanno affermato; secondo Axios, tutte le prove consisterebbero in “informazioni di intelligence, che sarebbero il risultato degli interrogatori dei militanti arrestati durante l’attacco del 7 ottobre”. “Le forze israeliane” però, ricorda il sempre ottimo Jake Johnson su Consortium News “sono state ripetutamente accusate da esperti delle Nazioni Unite e gruppi per i diritti umani di usare la tortura per estorcere confessioni forzate ai detenuti palestinesi”, anche quando in ballo c’era decisamente meno che la battaglia per la soluzione finale a Gaza: è quanto ci ha raccontato in dettaglio qualche settimana fa Khaled El Qaisi, il cittadino italo – palestinese che era stato sequestrato dalle forze dell’ordine israeliane senza nessun capo di imputazione il 31 agosto scorso e che era rimasto prigioniero nelle carceri israeliane senza nessun motivo per poco meno di un mese. Insomma: decidiamo di rischiare di essere accusati formalmente di complicità in genocidio per accuse formulate sulla base di confessioni estorte attraverso la tortura; cosa mai potrebbe andare storto?
Il delirio suprematista ha raggiunto un livello tale che manco quando è in ballo la difesa dei propri interessi materiali immediati diventa lecito sollevare qualche dubbio e adottare un po’ di cautela; abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio media che quel delirio suprematista sia in grado di contrastarlo, giorno dopo giorno, informazione dopo informazione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu

Canada vs India: le accuse all’india e il doppio standard dell’occidente

India accusata di omicidio di un cittadino canadese in Canada

Ci sono due motivi per cui il Canada è sotto i riflettori mondiali nell’ultima settimana, uno abbastanza imabarazzante e l’altro abbastanza interessante.

Il motivo imbarazzante è che, in occasione della visita di Zelensky, al Parlamento canadese è stato reso omaggio ad un ex SS ucraino, definendolo un eroe ucraino che ha combattuto contro i russi per l’indipendenza dell’Ucraina e che ancora oggi, ultranovantenne, si batte per la verità. Insomma, che Putin menta quando dice che in Ucraina c’è il nazismo, il Canada ha scelto di farcelo spiegare proprio da un eroico ex-SS ucraino applaudito in mondo visione da Zelensky, un’operazione davvero brillante, se lo scopo era quello di fare un favore a Putin. Tanto che dopo pochi giorni il Presidente dell’istituzione Canadese ha dovuto scusarsi con le varie comunità ebraiche che hanno protestato ricordando come la divisione delle SS in cui l’eroe ha prestato volontariamente servizio è stata una unità militare i cui crimini contro l’umanità sono ben documentati.

Ma c’è un secondo motivo per cui si parla di Canada, cioè il fatto che il Primo Ministro canadese Trudeau ha accusato l’India di essere dietro all’omicidio di un cittadino canadese. L’India ha respinto le accuse è tra i due paesi è in corso una tensione diplomatica, fatta di reciproche espulsioni di funzionari.

La vittima dell’omicidio è il leader separatista Sikh Nijjar, residente in Canada e con cittadinanza canadese. Un membro della folta diaspora Sikh sparpagliata in vari paesi del mondo, tra cui anche l’Italia, ma specialmente in Canada. Il movimento separatista Sikh chiede all’India la formazione di uno Stato autonomo almeno dal 1947, dai tempi della Partizione dell’India, decisa dall’Impero britannico, che divise la colonia dell’india britannica in due stati separati, India e Pakistan: una separazione che portò ad enormi tensioni, che si tradussero in oltre un milione di morti e la regione del Grande Panjaab, centro geografico della cultura Sikh, si trova proprio in mezzo a questa divisione.

Da allora le tensioni tra il governo indiano e il separatismo Sick non si sono mai placate, e l’ultimo episodio, secondo l’accusa canadese, appare particolarmente grave: il 18 giugno di quest’anno due uomini hanno sparato e colpito a morte Nijjar all’esterno di un centro religioso Sikh in un sobborgo di Vancouver e seconodo Trudeau dietro a questo omicidio ci sarebbe l’agenzia di intelligence indiana e il governo indiano.

Insomma, proprio mentre, sempre a Giugno, un confuso Biden con la mano sul cuore mentre suonavano l’inno indiano accoglieva Modi sottolineando l’alleanza basata sui valori tra India e Stati Uniti, contemporaneamente l’India, secondo il Canada, aveva appena ordinato l’esecuzione extraterritoriale di un cittadino canadese in territorio canadese. La notizia a prima vista è simile a tante altre: da Putin che avvelena le persone a Bin Salman che le squarta, ma a differenza delle altre volte, in questo caso, la condanna verso l’India è molto più cauta e per il momento non è ancora apparso nessun titolo di giornale con su scritto “Modi spara alle persone”; diciamo che della questione si è parlato molto poco, nella politica estera abbiamo sentito parlare molto di più di questioni che al confronto paiono minori. Pensiamo ad esempio all’allontanamento di Hu Jintao durante l’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese, interessante per carità, ma niente in confronto ad una accusa di omicidio extraterritoriale.

Su “il foglio” il leader separatista sick ucciso viene liquidato come “un killer prezzolato e trafficante di droga ricercato dall’Interpol”, e certo, questo è ciò che sostiene l’India che in questi termini ha fatto emettere l’avviso dall’interpol. Ma “il foglio” dimentica di dire che Nijjar ha risposto a queste accuse in una lettera al Primo Ministro canadese nel 2016, in cui ha affermato che le accuse del governo indiano erano “fabbricate, infondate, fittizie e politicamente motivate” e la polizia canadese aveva detenuto brevemente Nijjar per un interrogatorio nell’aprile 2018 per poi rilasciarlo dopo neanche ventiquattr’ore senza formulare alcuna accusa. Insomma, diciamo che Nijjar non è che vivesse in fuga e braccato dall’interpol, ma anzi, la sua vita in canda era pubblica e sotto i riflettori per varie attività legate all’indipendentismo Sick. Ma allo stesso modo non dimentichiamoci che il separatismo Sick non è certo estraneo ad episodi di violenza e anche molto gravi, ad esempio [IMG9] nel 1985 un gruppo di estremisti Sikh ha fatto esplodere con una bomba il Volo Air India 182, uccidendo 329 persone, in risposta all’operazione Blue Star, un’operazione militare lanciata da Indira Gandhi l’anno prima, nel 1984 e nella regione del Panjaab, dove si stima che tra i cinque e i dieci mila civili siano rimasti uccisi nel corso delle operazioni. Allo stesso modo la stessa Indira Gandhi sarà vittima della vendetta dei Sick, con un omicidio che provocò gravi disordini in tutto il Paese e particolarmente nella capitale, dove migliaia di cittadini sikh vennero uccisi per ritorsione, nella sostanziale indifferenza delle forze dell’ordine.

Insomma, vicende estremamente delicate in un Paese in cui religione e identità culturale si legano a fenomeni di scontri sociali particolarmente cruenti e dove l’eredità post coloniale ha contribuito ad esacerbare queste questioni. In un contesto intricato come questo è interessante vedere giornali come il foglio che diventano portavoce acritici della voce ufficiale di un paese del sud del mondo. Ma non illudiamoci, non è che son diventati multipolaristi e se invece che l’India ad essere accusata di omicidio extraterritoriae nel territorio di una democrazia occidentale fosse stata la Cina, beh non avremmo certo visto questa prona adesione de “il foglio” al punto di vista del Governo accusato.

Ma d’altra parte a preoccupare “il foglio”, come scrive, è “Il rischio che anche per America, Australia e Regno Unito, si apra una fase critica nei rapporti con Canada e India, in un’escalation diplomatica che potrebbe minare l’unità dell’occidente nell’Indo-Pacifico”, una unità che serve, per l’appunto, a contenere la Cina… cioè, non è che adesso vi mettete lì a litigare per gli omicidi extraterritoriali, il foglio invita alla calma.

Insomma della vicenda non se ne è parlato molto, una lodevole eccezione qui su youtube è rappresentata da Braking Italy, che certo ne ha parlato con quello che è il suo stile, e le sue riflessioni, che non condivido particolarmente, ma quantomeno ne ha parlato, soprattutto non condivido che nell’elenco dei Paesi che hanno compiuto omicidi extraterritoriali ha inserito la Russia e l’Arabia Saudita ma si è dimenticato di inserirne uno abbastanza grandicello nella questione, cioè gli Stati Uniti. Pensiamo ad esempio all’omicidio del generale iraniano Soleimani, ordinato da Donald Trump e definito illegale dalla relatrice speciale ONU sui diritti umani; o pensiamo a cosa è accaduto in Afghanistan il 29 agosto 2021, dopo l’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi, quando un drone americano ha falcidiato una intera famiglia afghana, uccidendo dieci civili tra cui sette bambini. Secondo l’intelligence statunitense, che aveva seguito per ore una Toyota bianca prima di sparargli contro uno di quegli ordigni che perforano le lamiere e le persone, secondo loro in quella macchina vi erano terroristi che trasportavano bombe, un’operazione dell’ISIS-K, la stessa organizzazione coinvolta in un attacco di tre giorni prima all’aeroporto di Kabul, dove erano morti anche tredici soldati statunitensi. Biden aveva promesso una dura e pronta risposta, ma la risposta è stata quella di massacrare Ezmarai Ahmadi e la sua famiglia e lui per di più era un operatore umanitario e cooperante con la statunitense Nutrition and Education International, una organizzazione che si occupa di distribuire aiuti umanitari in Afghanistan. Lavorava per gli Stati Uniti insomma, e come successive indagini hanno rivelato, la macchina non trasportava bombe, ma taniche d’acqua, tanto che il Pentagono ha dovuto ammettere l’errore, definito “spiacevole ma onesto” dall’ispettore generale del Pentagono, che ha anche specificato che nessun militare statunitense sarebbe stato punito per quell’errore, perché era appunto un errore onesto. Come ha commentato il fondatore e Presidente di Nutrition & Education International “Questa decisione è scioccante. Come possono i nostri militari togliere ingiustamente la vita di 10 preziose persone e non ritenere nessuno responsabile in alcun modo?”. Risposta, perché è un errore onesto!

Secondo alcuni oltre che un essere onesto questo errore è anche una esecuzione extraterritoriale in un Stato dal quale avevano già annunciato il disimpegno e il ritiro delle truppe: a che titolo fai piovere la morte dal cielo in uno stato estero nel quale il Governo che sostenevi si era già dissolto come la neve da settimane? Come commenta il “New York Times”: in due decenni di guerra l’esercito americano ha ucciso in raid mirati migliaia di civili per sbaglio in Iraq, Afghanistan, Siria e Somalia, e “mentre l’esercito di tanto in tanto si assume la responsabilità di questi attacchi, raramente ritiene responsabili persone specifiche”. Braking italy nel suo video sottolinea come l’occidente non debba permettere all’India o ad altri Stati di intervenire extra territorialmente con esecuzioni, e sono perfettamente d’accordo, ma aggiungerei pure che tutto sommato l’occidente potrebbe provare anche ad impedire all’occidente stesso di intervenire extra territorialmente con esecuzioni, come dice Confucio dare il buon esempio è il primo passo per una leadership di successo. Ma non solo l’occidente non riesce ad impedire all’occidente di farle queste cose, ma al momento non è neppure in grado di formulare una condanna forte e compatta verso l’India. La reazione ufficiale degli Stati Uniti alle accuse canadesi contro Modi è stata abbastanza tiepida, limitandosi a dichiarare che si aspettano che il governo indiano collabori con il Canada per indagare sul possibile coinvolgimento di agenti di Nuova Delhi nell’omicidio.

Bin Salman per l’omicidio Khash oggi era stato definito da Biden un Paria internazionale, salvo poi più recentemente andare a stingergli la mano in varie occasioni: l’ultima al G20 di settembre che c’è stato proprio in India. Oppure pensiamo agli avvelenamenti di Putin, con Biden che nel 2021 aveva definito Putin un assassino ancor prima della guerra in Ucraina, mentre in questo caso ci si muove con molta più cautela, in quello che a prima vista sembra un perfetto esempio dei doppi standard, i due pesi e due misure dell’Occidente.

Ma in realtà qui la questione potrebbe essere molto più intricata, se non altro perché, come ha rivelato il New York Times: “le agenzie di spionaggio americane hanno fornito informazioni al Canada dopo l’uccisione del leader separatista sikh nell’area di Vancouver”. Come riporta il giornale, all’indomani dell’omicidio, le agenzie di intelligence statunitensi avrebbero offerto alle loro controparti canadesi informazioni chiave che hanno aiutato il Canada a concludere che il governo indiano era stato coinvolto. Mentre il Segretario di Stato Antony J. Blinken ha invitato l’India a collaborare con l’indagine canadese, i funzionari americani hanno ampiamente cercato di evitare di innescare qualsiasi reazione diplomatica da parte dell’India. Ma, commenta il New York Times: “la rivelazione del coinvolgimento dell’intelligence americana rischia di intrappolare Washington nella battaglia diplomatica tra Canada e India in un momento in cui è desiderosa di avvicinarsi a Nuova Delhi”.

Insomma, pubblicamente gli Stati Uniti fanno da pompiere, ma segretamente avrebbero fatto da incendiari, non solo fornendo al Canada informazioni che hanno aiutato a incastrare l’India ma oltre a questo funzionari di intelligence hanno spifferato di averlo fatto al New York Times.

Uno scontro tra apparati che non passa certo inosservato, con la presidenza che va in una direzione e i servizi che vanno nella direzione opposta.

Da questa vicenda si possono trarre almeno due conclusioni: primo, il mantra della “guerra tra democrazie e autocrazie” che sentiamo ripetere così spesso come chiave di lettura per qualsiasi cosa è quanto mai insufficiente per comprendere il mondo di oggi. Non solo la nostra definizione di democrazia sta molto stretta a uno stato come l’India, ma oltre a questo mi pare ormai chiaro che l’idea che esistano due blocchi contrapposti, le democrazie di stampo occidentale da una parte e le autocrazie dall’altra, è una idea insufficiente, e che cade continuamente in contraddizione con se stessa. Ad esempio: perché l’Italia deve uscire dalla Via della Seta? Perché la Cina è una autocrazia, scrive Mario Platero su Repubblica: “la Via della Seta è diventata insostenibile nel momento in cui l’autocrazia cinese ha deciso di schierarsi con la Russia e contro l’Ucraina e contro l’Europa”. A Mario Platero il fatto che nella Via della Seta cinese ci sia pure l’Ucraina, e che non ha nessuna intenzione di uscirne, è un dettaglio che a lui non lo sfiora nemmeno, ed è strano, perché se dobbiamo uscire dalla Via della Seta perché la Cina si è schierata contro l’Ucraina, non sarebbe forse normale che la prima a volerne uscire dovrebbe essere proprio l’Ucraina stessa?

E non lo sfiora neppure il fatto che, annunciando al G20 il ritiro dalla via della Seta, l’Italia abbia annunciato contemporaneamente il suo ingresso nel corridoio Medio Orientale che unsice India, Arabia Saudita ed Europa, e consideriamo che non solo l’Arabia Saudita non è una democrazia ma una monarchia ereditaria, ma oltre a questo Cina, India e Arabia Saudita condividono la stessa posizione nei confronti della guerra in Ucraina.

Perciò, se la tesi è che per solidarietà con l’Ucraina dobbiamo uscire da una iniziativa in cui c’è pure l’Ucraina, o che per contrastare le autocrazie dobbiamo stringere legami con la monarchia saudita e gli Emirati Arabi, chiamarla ipocrisia o doppio standard è pure un eufemismo.

La seconda considerazione è che, come dicono alcuni osservatori, la leadership statunitense è spaccata al suo interno. Secondo Andrew Korybko negli usa “oggigiorno ci sono due fazioni ferocemente concorrenti, i liberal-globalisti e i loro rivali relativamente più pragmatici. I primi sono ideologi ossessionati dall’imporre i loro valori a tutti gli altri, mentre i secondi vogliono che l’America si adatti al multipolarismo ponendo gli interessi nazionali al di sopra di tutto il resto”.

Nel contesto delle relazioni India-Stati Uniti, i liberal-globalisti vorrebbero continuare a fare pressione sull’India affinché si adatti alle richieste di condanna e sanzione contro la Russia, creando tensione nei legami indo-statunitensi anche a scapito dei loro comuni interessi nel contenere la Cina, mentre i pragmatici vorrebbero dare priorità all’obiettivo geopolitico del contenimento della Cina. “Il viaggio del primo ministro Narendra Modi negli Stati Uniti a giugno ha dimostrato che i pragmatici hanno vinto in questo dibattito, ma ora è noto, col senno di poi, che i liberal-globalisti si sanno muovendo per sabotare i loro legami”, conclude Korybko, riferendosi alla fuga di notizie da parte di fonti dell’inteligence sul coinvolgimento degli Stati Uniti delle indagini canadesi contro l’India.

E se gli Stati Uniti condannassero l’India come hanno condannato altri Paesi per azioni del tutto simili, sarebbe un grosso problema per gli Stati Uniti stessi, hanno un bisogno strategico dell’India. Ma se la leadership statunitense davvero pensa che ci sia una condivisione di valori tra India e Stati Uniti allora anche questo può diventare un problema: non solo in termini di valori, tradizioni e situazione politica sono Paesi con differenze abbastanza evidenti, ma anche in termini di posizione internazionale. Di relazione con la Russia, totalmente diversa la relazione che l’India ha con la Russia rispetto alla relazione tra Russia e occidente; ma anche nel rapporto con la Cina, per quanto l’India abbia un rapporto conflittuale con la Cina, per l’India la Cina rappresenta comunque il più grande attore economico a livello regionale, quindi un vettore di crescita dell’area asiatica, un’area nella quale l’India è inserita.

Insomma, per gli Stati Uniti l’india è un banco di prova relativamente nuovo, se non altro perché ha aspetti inediti l’importanza che l’India ha assunto negli ultimi anni, e sarà interessante vedere come gli USA si muoveranno, e non a caso Kissinger nell’intervista per i suoi 100 anni con il suo cinismo da uomo che nel mondo ha fatto di tutto, consigliava agli Stati Uniti di smetterla di fare gli idealisti nel loro rapporto proprio con l’India e di mantenere il pragmatismo.

Se volete approfondire la questione tra India e Canada, oltre che l’intensificarsi delle politiche anti corruzione in Cina,il cosiddetto cerchio di Xi come lo chiamano i media cinesi, una immagine che il presidente cinese aveva tratto dal viaggio in occidente, un romanzo della letteratura classica cinese, quello che ha scimmiotto come personaggio, il prototipo di Goku di Dragon Ball, insomma se volete approfondire queste questioni, ne ho parlato nella newsletter, un contenuto riservato a chi ci sostiene su tipeee, almeno un euro al mese per riceverla per email tre volte a settimana, almeno 5€ per poter accedere all’archivio delle vecchie newsletter, oppure potete sostenerci su gofoundme.

NONCIELODIKONO!!! USA: “Sul pallone spia avevano ragione i cinesi”. Ma i media censurano la notizia

Fermi tutti, fermi tutti, perché finalmente abbiamo le prove! L’informazione mainstream non è semplicemente propaganda!

Magari, quello sarebbe già buono.

È proprio una fabbrica di fake news.

Sfacciata, plateale.

Febbraio del 2023.

Tra i cieli del Montana, d’improvviso appare un gigantesco pallone gonfiabile bianco. La sentenza è unanime. Tutte le prime pagine dei giornali italiani titolano all’unisono nello stesso identico modo: un sofisticato pallone spia cinese ha provocato gli USA e ha invaso il loro spazio aereo. Per tre giorni non si è parlerà di altro; d’altronde, non era mica una cosa da niente.

Il pallone”, sentenziava Bretella Rampini, “di sicuro avrà raccolto una ricca messe di fotografie sorvolando una base di armi nucleari nel Montana”. DI SICURO, mica chiacchiere.

E ora facciamo un piccolo salto avanti nel tempo 

17 settembre

Il Generale Mark Milley è ospite al celebre programma domenicale della CBS.

Siamo piuttosto certi”, afferma il generale, “che il pallone non abbia raccolto nessuna informazione e che nessuna informazione sia stata trasmessa in Cina”.

In sala cade il gelo e pure nelle redazioni dei giornali italiane.

Come facciamo a riportare questa notizia senza perdere la faccia e dimostrare che tutto quello che diciamo sulla Cina e in generale sui paesi che non fanno da cagnolini da riporto a Washington sono gigantesche minchiate?

Semplice, basta fare finta di niente.

La clamorosa smentita a una settimana di speculazioni di ogni genere, per giustificare il muro dei guerrafondai a stelle e strisce innalzata contro il dialogo con la Cina, è letteralmente scomparsa.

Niente, silenzio, zero assoluto.

Il controllo dei media da parte del partito unico della guerra e degli affari, d’altronde, è esattamente a questo che serve: a fabbricare e dare il massimo risalto alle fake news prima, e letteralmente a nascondere le notizie vere poi.

Un pallone aerostatico”, scriveva il 4 Febbraio scorso su la Repubblichina l’inarrivabile Paolo Mastrolilli, “può sembrare uno strumento di spionaggio rudimentale e ovviamente non è l’unico mezzo di cui dispone la Cina, che ha anche satelliti e armi moderne come i missili ipersonici. Però”, ci avvisa Mastrolilli, “l’atto di sfida, o di irresponsabilità, rivela il vero umore di Xi”.

Subito sotto, l’ineffabile Di Feo, che ha fatto della necessità di parlare di cose che palesemente non conosce una vera e propria arte, rilanciava, e metteva in allerta contro pericolose sottovalutazioni. Questi giganteschi palloni aerostatici, sottolineava Di Feo, “sono spie di sorprendente semplicità ma anche efficacia, capaci di attraversare i continenti cavalcando le correnti per raccogliere informazioni top secret”.

C’è poco da fare ironia, rilanciava Stefano Piazza su La Verità. “Occorre ricordare” infatti, scriveva, “che in Montana si trova nientepopodimeno che la Malmstrom Air Force Base, una delle tre basi americane con missili nucleari, e nello Stato sono presenti 150 missili balistici intercontinentali”.

È per questo che, come scriveva Maurizio Stefanini su Libero, “il governo degli Stati Uniti non ha la minima voglia di scherzare sul pallone proveniente dalla Repubblica Popolare che ha sorvolato una base con missili nucleari

Quella che però in assoluto c’ha marciato di più, ovviamente, è la mitica Giulia Pompili, che le spara così grosse da essersi guadagnata un posto al sole nella capitale web dei bimbiminkia italiani nota come la miniera di Ivan Grieco. “La Cina ha ammesso che si tratta di un suo dirigibile”, scrive, che però sarebbe molto banalmente uno strumento “civile, di quelli usati da quasi tutte le agenzie metereologiche per fare rivelazioni atmosferiche”.

Ma, sostiene la Pompili, “è completamente falso: i palloni sonda meteorologici sono di piccolissime dimensioni, perché funzionano con strumenti miniaturizzati, e poi esplodono automaticamente a una certa altezza”.

Per un attimo, avevo sperato che la totale incompetenza della Pompili fosse limitata ai temi economici. E invece in tema di cazzate è proprio tuttologa la ragazza.

Come avevamo sottolineato proprio mentre questa gara incredibile a chi la sparava più grossa era in pieno svolgimento, infatti, le sarebbe bastato dare un’occhiata veloce al sito della NASA, dove da anni si descrivano nei minimi dettagli missioni che sono in corso da decenni e che prevedono l’impiego di palloni aerostatici “in grado di contenere un intero stadio di football dentro” per missioni scientifiche che mediamente durano oltre 45 giorni (https://www.nasa.gov/scientific-balloons/types-of-balloons).

Ma quello che preoccupa ancora di più la Pompili, non è cosa fa quel pallone, che tanto ormai tutti spiano tutti, ma la sfacciataggine. “Non è una novità che la Cina spii l’America”, sottolinea infatti la nostra istrionica minatrice, “ma la crisi politica e diplomatica che il pallone da ricognizione ha aperto riguarda soprattutto un’operazione sfacciata, visibile, una violazione dello spazio aereo con un messaggio chiaro: arriviamo ovunque”.

Ma anche sulla provocazione sfacciata, duole dirlo, la Pompili non ci aveva visto proprio benissimo, diciamo. Il pallone cinese infatti, ha dichiarato domenica scorsa Milley, sarebbe entrato in territorio USA involontariamente, a causa del vento: “A quelle altitudini il vento è incredibilmente forte”, ha dichiarato il Generale, “i motori di quel pallone non sono in grado di andare contro quel genere di vento a quell’altitudine”. Alla ricerca spasmodica dell’ennesimo casus belli immaginario, la Pompili ha continuato a ricamare sulla faccenda per giorni e giorni, articoli su articoli.

Anche quando ormai negli USA la situazione era ormai completamente sfuggita di mano

Alla Fox News uno squadrone di attivisti neoconservatori a libro paga di vari think tank finanziati dall’industria bellica si alternava, affermando all’unisono che Pechino stava usando i palloncini per “preparare il campo di battaglia” per un intervento militare diretto sul suolo statunitense.

Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg affermava che il pallone spia non rappresentava solo un’evidente minaccia per gli USA, ma anche per tutti gli alleati. “Il pallone sopra gli Stati Uniti”, aveva dichiarato pubblicamente, “conferma il modello di comportamento cinese. Abbiamo bisogno di essere consapevoli del rischio costante rappresentato dall’intelligence cinese e intensificare le nostre azioni per proteggerci e reagire”.

Il top però era stato raggiunto solo alcuni giorni dopo, quando gli USA spinti dalla follia sinofobica dell’opinione pubblica, in preda al panico, avevano cominciato a tirar giù tutto quello che di gonfiabile vedevano nel cielo; fino a quando un gruppo di amatori dell’Illinois aveva denunciato che un suo pallone per le misurazioni atmosferiche da appena 12 dollari di valore, era stato tirato giù con un missile che di dollari da solo ne costava poco meno di 450 mila.

L’analisi della Pompili? “L’America abbatte quattro oggetti volanti”, scrive. Ma “non è isteria, è un messaggio chiaro alla Cina”. “Il messaggio è trasparente, chiaro”, scrive enfaticamente la Pompili, “ed è diretto contro la Cina, che invece porta le sue contro-accuse come un semplice show di propaganda”. Che tra l’altro dimostra come la Pompili, oltre a spararle grosse, scriva quasi peggio di David Puente. Ma con tutti i quattrini che c’hanno per fare propaganda, non lo trovano un pennivendolo altrettanto servizievole ma che almeno sappia scrivere decentemente?


Ma al di là della ghiotta occasione per perculare per l’ennesima volta l’Armata Brancaleone del giornalismo analfoliberale italiano e per raccontare un caso concreto di come funziona la macchina della propaganda del partito unico della guerra e degli affari, le nuove rivelazioni del Generale Milley sono interessanti anche, se non soprattutto, da un altro punto di vista. Per quanto possa apparire ridicolo infatti, le fake news sul pallone spia non sono state semplicemente l’ennesimo esercizio di retorica suprematista, ma hanno avuto conseguenze politiche piuttosto pesanti.

Come sicuramente ricorderete, poco prima si era celebrato il G20 di Bali, durante il quale Xi e Biden si erano stretti la mano, e avevano promesso una “nuova distensione”. Il primo passo, sarebbe dovuto essere il viaggio ufficiale di Blinken a Pechino previsto proprio per quel Febbraio. Ma l’isteria scatenata dall’incidente del pallone, strumentalizzata a più non posso dalle fazioni USA più radicalmente sinofobe, aveva spinto l’amministrazione Biden ad annullarlo.

I mesi successivi, hanno rappresentato probabilmente il livello più basso delle relazioni tra le due grandi potenze da qualche anno a questa parte. Nel giro di pochi mesi i cinesi hanno sfornato una quantità gigantesca di documenti, studi e report che denunciavano tutte le storture degli USA con un linguaggio di un’aggressività che raramente si era vista prima: dalla critica al sistema economico e alle diseguaglianze che genera, a quella sulle violazioni sistematiche del diritto internazionale.

Ma non solo. Convinta di non poter trovare nessun interlocutore minimamente serio ed affidabile oltrepacifico, la Cina ha passato mesi e mesi a premere sull’acceleratore dei rapporti sud-sud, incentivando così quel processo di contrapposizione tra Sud Globale e Nord Globale che fino ad allora aveva sempre cercato di stemperare. In quanto di gran lunga prima potenza economica globale reale infatti la Cina ha tutto l’interesse a mantenere almeno una parvenza di pace e di ordine e poter così procedere tranquillamente con gli affari e con il commercio. In tempo di pace il declino relativo del Nord Globale e degli USA in particolare, e l’ascesa cinese, sono letteralmente inarrestabili. Ma quando arrivi a far saltare un incontro di quel livello a causa di una vaccata come quella del pallone gigante, significa che probabilmente fare lo sforzo di provare a concordare alcuni paletti per evitare un’escalation potrebbe essere una totale perdita di tempo e pure di dignità, che è una cosa che da quelle parti ha ancora un certo valore.

Ed ecco così che la nuova distensione è andata a farsi benedire.

Quando le acque poi si sono calmate però, gli USA hanno per lo meno fatto finta di voler riprendere quel percorso: la visita di Blinken alla fine c’è stata e poi pure quella della Yellen, del Segretario di Stato al Commercio e molte altre ancora. Tutti che affermavano esplicitamente che l’idea stessa di disaccoppiare le due economie è una follia e che non hanno nessuna intenzione di ostacolare lo sviluppo cinese, ma che semplicemente vogliono emanciparsi dalla Cina per tutta una serie di materie prime e di prodotti strategici, e che non sono disposti ad aiutare la Cina a colmare il gap con gli USA in termini di capacità militare.

Nel frattempo però le sanzioni unilaterali non solo sono sempre tutte lì, ma sono pure peggiorate, a partire dal decreto che ha sancito l’impossibilità per i capitali occidentali di andare a investire in Cina nei settori tecnologici più avanzati: dall’intelligenza artificiale, al quantum computing.

Insomma, pochi fatti, e tante chiacchiere.

E dopo la pagliacciata del pallone spia, i cinesi le chiacchiere che non sono accompagnate anche dai fatti hanno deciso che non gli bastano più.

E negli USA c’è chi comincia a credere che forse è arrivato il caso di dimostrare un po’ di buona volontà in più. Anche tra le fila della destra.

John Muller è uno degli analisti di punta del Cato Institute, il famigerato think tank fondato e finanziato dal miliardario ultrareazionario Charles Koch e su Foreign Affairs ha appena pubblicato un lungo articolo che traccia la strategia che gli anarcocapitalisti made in USA vorrebbero adottare nei confronti della Cina. “Il caso contro il contenimento”, si intitola. Quella “strategia non ha vinto la Guerra Fredda e non sconfiggerà la Cina”. Nell’articolo Muller fa una lunga disamina della strategia del contenimento adottata dagli USA contro l’URSS durante la Guerra Fredda, e che imponeva a “Washington di respingere i progressi politici e militari sovietici ovunque apparissero, cercando così di impedire la diffusione del comunismo internazionale, e controllando il potere dell’unione sovietica senza dover ricorrere a una guerra diretta”. Secondo Muller la buona fama di cui gode questa strategia, sarebbe del tutto ingiustificata. “In realtà”, scrive, “più che il contenimento, furono gli errori e le debolezze dell’Unione Sovietica a causarne la caduta”.

Muller ricorda come quella strategia fosse stata descritta in dettaglio in un altro articolo del 1947 pubblicato proprio su Foreign Affairs. “Le fonti della condotta sovietica”, si intitolava. Firmato dal padre ufficiale della strategia del contenimento: l’ambasciatore e studioso di Scienze Politiche George Frost Kennan. Ma “Nei decenni successivi all’articolo”, sottolinea Muller, “il contenimento, oltre a ispirare fallimenti come l’invasione della Baia dei Porci e la guerra del Vietnam, sembrava aver impedito a pochi paesi di diventare comunisti

Nei confronti diretti dell’espansionismo sovietico, invece, riflette Muller, il contenimento era tutto sommato inutile. “I sovietici”, scrive Muller, “non avevano bisogno di essere scoraggiati: cercavano di aiutare e ispirare movimenti rivoluzionari in tutto il mondo, ma non avevano mai avuto interesse a condurre qualcosa di simile al ripetersi della Seconda Guerra Mondiale” e “dopo aver analizzato gli archivi sovietici, lo storico Vojtcch Mastny osservò che tutti i piani di Mosca erano difensivi e che l’enorme rafforzamento militare in Occidente “era irrilevante nel scoraggiare una grande guerra che il nemico per primo non aveva intenzione di lanciare””.

Secondo Muller, tutte le sconfitte subite dal comunismo in quegli erano autoinflitte: dai conflitti interni al campo comunista stesso, alle repressioni anticomuniste in alcuni paesi del sud del mondo, come la carneficina indonesiana. E quando invece vincevano da qualche parte, era una vittoria di Pirro, come nel caso del Mozambico nel ‘77, o in Nicaragua nel ’79.

Tutti paesi, scrive Muller, che “presto divennero casi disperati a livello economico e politico”. E anche nel crollo finale dell’impero sovietico, il contenimento secondo Muller c’entrerebbe poco o niente. “A quel punto”, sostiene Muller, “Washington aveva da tempo assunto che la Guerra Fredda fosse finita e aveva ufficialmente abbandonato quella politica. E Anche Mosca”.

Ora, ovviamente si tratta di una sequenza di puttanate che suscita quasi ammirazione. Se fosse italiano Muller lavorerebbe senz’altro per Il Foglio. Ma le implicazioni di questa analisi totalmente delirante invece sono bellissime. Secondo Muller infatti, come il contenimento non avrebbe avuto nessun ruolo nell’ostacolare l’ascesa dell’Unione Sovietica, allo stesso modo sarebbe del tutto inefficace per contrastare quella cinese. “La cosa più preoccupante per la Cina, come lo è stata per l’Unione Sovietica”, scrive Muller, in realtà, “è la sua crescente serie di difficoltà interne”.

Muller a questo punto fa un altro lungo elenco completamente delirante dei fallimenti immaginari della Cina: dalla corruzione endemica, al degrado ambientale, passando per il rallentamento della crescita e pure ovviamente il sostanziale fallimento della Via della Seta. Quasi per caso in mezzo a questa sequela di minchiate, ne dice una giusta. Come per l’Unione Sovietica, sottolinea infatti Muller, “la maggior parte delle mosse espansionistiche della Cina non hanno nulla a che fare con la forza. Come ha affermato l’ex diplomatico statunitense Chas Freeman: “Non esiste una risposta militare a una grande strategia costruita su un’espansione non violenta del commercio e della navigazione”.

Quindi non c’è motivo di allarmarsi, e basta “sedersi tranquilli ed aspettare

Si tratta della saggezza di restare indietro”, scrive Muller, “mantenere la calma e lasciare che le contraddizioni nel sistema del tuo avversario diventino evidenti”. “I politici”, conclude Muller, “dovrebbero tenere a mente una massima di Napoleone Bonaparte: “Non interrompere mai il tuo nemico quando sta commettendo un errore””.

Ecco, esatto. È quello che diciamo pure noi di fare per accelerare il declino.

Che vi state a sgolare a fare voi analfoliberali. Il globalismo neoliberista è un modello di sviluppo troppo superiore rispetto al multipolarismo industriale e produttivo, è evidente.

Basta che abbiate un po’ di pazienza, la smettiate di fare colpi di stato, cambi di regime, guerre e sanzioni economiche illegali a destra e manca e il vostro amato sistema alla lunga non potrà che dimostrare tutta la sua superiorità. E alla fine vincerete, insieme a Koch, a Giulia Pompili, a Federico Rampini e a John Muller.

Più o meno intorno al 31 settembre del duemilacredici.

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E chi non aderisce è Giulia Pompili.