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La guerra commerciale degli USA contro la Cina è il funerale delle democrazie liberali

“Mentre leggete questo articolo, il sistema commerciale globale si sta disintegrando” titola l’Economist; depositario da sempre dei dogmi religiosi più oltranzisti della globalizzazione neoliberista, almeno ha il merito di dimostrare una certa coerenza. L’annuncio di Rimbambiden, martedì scorso, di un aumento stratosferico dei dazi su una serie infinita di prodotti cinesi segna definitivamente la fine di un’epoca, una vera e propria bomba atomica lanciata contro le colonne portanti dell’ordine economico mondiale che ha regolato le nostre vite negli ultimi 40 anni; i dazi, infatti, rappresentano la negazione per eccellenza del cosiddetto Washington Consensus, l’insieme di 10 regole create a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie euroatlantiche e che Washington ha imposto al resto del mondo anche attraverso colpi di Stato, rivoluzioni colorate e tante tante bombe umanitarie e che, appunto, nella formulazione originale che nel 1989 ne ha fatto l’economista angloamericano John Williamson, prevedono la liberalizzazione del commercio con l’eliminazione di ogni restrizione quantitativa e il crollo, appunto, delle tariffe. Ma per chi trova questi temi un po’ astratti e poco intuitivi, tranquilli: ce n’è anche per voi perché questo terremoto non può che avere anche enormi ripercussioni di carattere politico e istituzionale; al contrario di quanto sostengono gli analfoliberali, infatti, la forma specifica delle nostre istituzioni politiche – le cosiddette democrazie liberali in nome delle quali l’Occidente collettivo si è arrogato il diritto di sanzionare (se non addirittura di bombardare) mezzo pianeta – non si fonda ovviamente su particolari principi o valori (che sono solo fuffa per i poveri di intelletto), ma sul fatto che sono la forma istituzionale più adeguata proprio ai dettami neoliberisti del Washington Consensus.
Con la scusa dell’inviolabilità delle libertà individuali e della divisione dei poteri, infatti, le democrazie liberali, che hanno sostituito gradualmente, senza fare troppo rumore, le democrazie costituzionali moderne – che erano nate dopo due guerre mondiali proprio per eliminare le cause profonde che avevano portato ai conflitti imperialistici e all’affermazione del nazifascismo – impediscono ogni forma di concentrazione del potere alternativa a quella del grande capitale privato trasformando lo Stato in un semplice comitato d’affari al servizio degli interessi egoistici delle oligarchie. Anche la famosa democrazia dell’alternanza, a ben vedere, ha sostanzialmente questa finalità: ridurre le elezioni a un televoto tra due fazioni, divise su temi di facciata, di un partito unico degli affari e della guerra la cui agenda fondamentale è dettata, appunto, da oligarchie inamovibili; con la fine dell’ordine economico neoliberale sancita dal ritorno del protezionismo, quindi, è del tutto inevitabile che anche la sua incarnazione istituzionale sia destinata a subire la stessa sorte (e molto più rapidamente di quanto possiate immaginare).

Charles Michel

Lo ha anticipato, in modo cristallino, nientepopodimeno che il presidente del consiglio europeo di persona personalmente, l’universalmente odiatissimo Charles Michel che, nonostante l’appartenenza alla famiglia cosiddetta progressista, ha deciso di buttare alle ortiche un antico tabù: “Nei partiti che vengono definiti di estrema destra” ha dichiarato “vi sono personalità con cui si può collaborare”; l’importante è che siano “pronti a collaborare per sostenere l’Ucraina e a rendere l’Ue più forte”. Che, tradotto, significa che siano schierati dalla parte giusta nella guerra che l’imperialismo ha dichiarato ai paesi sovrani di tutto il mondo e che siano pronti a demolire quel poco di democrazia che è rimasta a livello di Stati nazionali per trasferire tutto il potere in un’istituzione post democratica come l’Unione europea. D’altronde, non è certo una novità: liberali e fascisti sono sempre andati a braccetto, da quando Benedetto Croce e Luigi Einaudi salutavano con entusiasmo l’arrivo di un Duce in grado di reprimere nel sangue le intemperanze delle classi lavoratrici, che rischiavano di importare anche in Italia il morbo della rivolta antimperialista che aveva travolto la Russia; anche se non c’è più l’Unione Sovietica, stringi stringi, la dinamica è esattamente la stessa. Ma prima di provare a capire nel dettaglio perché la svolta protezionista di Rimbambiden comporta la morte dell’ordine economico mondiale e delle democrazie liberali, vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro un’altra dittatura (quella degli algoritmi) e, se non l’avete fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali social e ad attivare tutte le notifiche: a voi non costa niente, ma per noi può fare la differenza.
Da oltre 30 anni, il culto del mercato e del libero scambio è l’unica vera religione civile rimasta in tutto l’Occidente collettivo e, come ogni religione, ha comportato le sue guerre in nome dell’evangelizzazione di ogni genere: in nome dell’imposizione del binomio liberalizzazione del commercio/istituzioni liberali si sono strozzati paesi nel debito, imposte sanzioni di ogni genere, architettato colpi di Stato e, quando ancora non bastava, pure raso al suolo interi paesi, fino a che qualcosa non è cominciato a cambiare. Una prima avvisaglia è arrivata con la prima amministrazione Trump durante la quale ci fu un primo ricorso al caro vecchio strumento delle barriere tariffarie, proprio nel paese che, più di ogni altro, si era fino ad allora speso per impedirle in tutto il resto del mondo; una contraddizione che venne fortemente denunciata anche dall’opposizione democratica e dallo stesso Rimbambiden, che proprio sulle parole d’ordine del dogma liberoscambista ha incentrato una bella fetta della sua prima campagna elettorale. Una volta salito al potere, però, la retorica ha fatto spazio alla realpolitik: le sanzioni sono rimaste tutte dov’erano e ora, alla vigilia di un’altra campagna elettorale infuocata, si rilancia con proporzioni assolutamente inedite e inaspettate.
Il tema del momento, ovviamente, sono le auto elettriche, per le quali i dazi passeranno dal 25 al 100% – come aveva già minacciato Trump nelle settimane scorse a più riprese; ma è solo la punta dell’iceberg: i dazi su tutti i tipi di batterie, dal 7,5%, saranno innalzati al 25, come per la grafite e le terre rare che, fino ad oggi, pagavano zero. Da zero a 25 anche le gigantesche gru utilizzate nei porti; per le celle solari, che pagavano già il 25, si passerà al 50. Stessa cosa per i semiconduttori; per alluminio e acciaio, invece, l’aumento sarà più contenuto, dal 7,5 al 25. Ovviamente il valore complessivo attuale dell’interscambio delle merci coinvolte, in realtà non è granché (circa 18 miliardi di dollari) e, ovviamente, si tratta di una manovra dal chiaro sapore elettoralistico, tant’è che i cinesi, grossomodo, li stanno perculando: “Un tipico atto di bullismo” l’ha definito il ministro degli esteri cinesi Wang Yi che, sostiene, ha “messo in luce la mancanza di fiducia piuttosto che la forza di Washington” e che, sottolinea, “non fermerà lo sviluppo della Cina, ma al contrario ispirerà 1,4 miliardi di cinesi a lavorare di più”; ma, nonostante gli effetti immediati sull’ascesa cinese e sull’economia americana siano piuttosto limitati, si tratta comunque di una svolta storica che indica chiaramente la strada che è stata irrevocabilmente intrapresa. La domanda è: perché? Perché, nonostante le cifre – tutto sommato contenute – in ballo, si è deciso di minare definitivamente le fondamenta stesse della religione civile sulla quale è stato costruito l’unipolarismo USA che ha dominato negli ultimi 40 anni? Cos’è cambiato?
Per capirlo è necessario fare un piccolo riassuntino delle puntate precedenti e provare a capire perché il mito del libero scambio, negli ultimi decenni, ha rappresentato la pietra miliare del sistema economico mondiale che le oligarchie USA hanno costruito a loro immagine e somiglianza. Secondo i dogmi liberisti, il libero scambio tra due paesi rappresenterebbe uno stimolo incredibile allo sviluppo e alla crescita: da un lato, infatti, permetterebbe a tutti i paesi coinvolti di avere accesso alle merci competitive e, dall’altro, permetterebbe ai singoli paesi di specializzarsi in quei settori nei quali hanno dei vantaggi competitivi; e così, alla fine, a beneficiarne sarebbe il sistema nel suo insieme perché la mano invisibile del mercato farebbe piazza pulita di tutte le inefficienze e di tutto quello che sta in piedi esclusivamente per valutazioni che con la gestione efficiente delle risorse non hanno niente a che vedere. E intendiamoci: questo assunto è tutt’altro che campato in aria, anzi! L’integrazione delle economie ha rappresentato spesso uno straordinario impulso allo sviluppo e alla crescita della quale tutti hanno beneficiato, ma c’è un piccolo problemino: il giochino funziona se e solo se a integrarsi sono economie – tutto sommato – abbastanza simili; non simili nel senso che producono le stesse identiche cose, ovviamente, ma simili nel senso che, complessivamente, hanno un livello comparabile di sviluppo e di diversificazione economica. Quando invece a integrarsi sono due economie a un livello molto diverso di sviluppo, quello che accade è molto semplice: la più forte diventa sempre più forte e la più debole sempre più debole; e a guadagnarci sono solo le oligarchie (che è esattamente quello che è successo con la globalizzazione neoliberista). E non è stato un incidente di percorso: nessuno sa meglio degli USA che, prima di poter trarre vantaggio dal libero scambio, l’unica strada possibile è quella di sviluppare l’industria nazionale con politiche ferocemente protezionistiche; l’hanno fatto per un secolo. Fino alla seconda guerra mondiale, per recuperare il gap che li separava dalle economie del vecchio continente gli USA hanno mantenuto un regime di dazi e tariffe astronomico: attorno al 40%; durante la globalizzazione neoliberista, le tariffe medie su scala globale sono state tenute con la forza sotto al 3.
E quello statunitense non è certo un caso isolato: prima di loro, anche la Gran Bretagna aveva fatto altrettanto, adottando tariffe – di nuovo – nell’ordine del 40% fino a quando non si è garantita un vantaggio competitivo nei confronti del resto del mondo; dopodiché, di punto in bianco, come per magia ecco che le tariffe spariscono – come spariscono manu militari in tutti i paesi dove l’impero britannico era in grado di dettare legge. Quindi, in soldoni, la globalizzazione neoliberista è consistita, appunto, nell’imporre la religione liberoscambista riassunta nei 10 punti del Washington Consensus a tutto il resto del mondo, sicuri che – visto che si partiva da una posizione di vantaggio competitivo – questo non avrebbe fatto altro che aumentare il divario con gli altri paesi; che è, fondamentalmente, anche il motivo per cui erano convintissimi che avrebbero potuto investire quanto volevano in Cina senza che per questo la Cina potesse ambire a diventare un competitor in grado di mettere in discussione la loro egemonia. Avevano fatto i conti senza l’oste: in quanto paese sovrano e (per quanto agli analfoliberali questa sembri una bestemmia) democratico, la Cina non ha mai visto negli investimenti esteri, fondamentalmente, un’opportunità per le sue oligarchie di arricchirsi a dismisura ed entrare così a far parte del club esclusivo del grande capitalismo transnazionale; come molti predicano (ma in pochi fanno davvero), la Cina ha visto questi investimenti come una necessità e un’opportunità non solo, genericamente, per svilupparsi, ma anche per raggiungere una qualche forma di indipendenza tecnologica e finanziaria – e, quindi, sfuggire a quella che viene definita la middle income trap, la trappola in cui cadono i paesi imprigionati dalla logica fondante della globalizzazione neoliberista non appena superano un primo stadio di sviluppo e, da paesi arretrati e sottosviluppati, diventano paesi industrializzati (ma sempre subordinati al centro imperialistico).
La globalizzazione neoliberista, infatti, in realtà fa anche cose buone, perché quando i capitali cominciano ad arrivare in un paese sottosviluppato per approfittare dei salari bassi e della sudditanza dei governi assetati di investimenti, inizialmente – in realtà – producono anche un reale sviluppo: paesi che, fino ad allora, avevano fondato la loro economia in buona parte su un’agricoltura di sussistenza a bassissima produttività, hanno l’opportunità di avviare una prima industrializzazione; ma non solo, perché per produrre in modo efficiente non basta costruire una fabbrica nel mezzo del nulla e riempirla di schiavi semianalfabeti. Bisogna liberare un po’ le forze produttive e, per farlo, servono infrastrutture – dalle strade all’energia – e, tutto sommato, servono anche un po’ di servizi sociali: un minimo di istruzione e anche un minimo di servizio sanitario. Ed ecco così che, anche nell’ambito della globalizzazione neoliberista, anche i paesi del Sud del mondo dove si sono concentrati gli investimenti per le delocalizzazioni, oggettivamente attraversano un periodo di sviluppo; certo, non privo di conseguenze, perché comunque il capitalismo non è molto previdente e, quindi, tutto quello che non è strettamente necessario nell’immediato per ottimizzare le spese non viene cacato, come – ad esempio – la tutela degli ecosistemi. Ma uno sviluppo c’è; il problema, però, è che poi, a un certo punto, inesorabilmente e magicamente si arresta e, cioè, quando si arriva al livello di sviluppo che permette a chi gerarchicamente sta in cima alla piramide di estrarre il massimo di plusvalore possibile. A quel punto, gli interessi di sviluppo del paese entrano in conflitto con quelli del centro imperiale – e delle élite compradore che hanno cooptato – e il coltello dalla parte del manico ce l’ha chi sta in cima alla piramide perché, nel frattempo, il grosso dei dividendi di questa fase di sviluppo, comunque, li ha incassati lui e li ha usati per rafforzare il suo rapporto gerarchico nei confronti dei sottoposti, aumentando sempre di più il divario tecnologico e la concentrazione dei capitali.
La parabola che le oligarchie imperialiste avevano in mente per la Cina era esattamente questa: una parabola che non solo avrebbe impedito alla Cina di diventare un competitor in grado di contendere le posizioni di comando delle catene del valore globale, ma che avrebbe dovuto anche costringere la Cina a diventare un pezzo integrante dell’ordine economico neoliberale guidato da Washington e da Wall Street; l’idea, infatti, era che quell’ordine è anche negli interessi delle oligarchie cinesi, che possono continuare a estrarre valore dalla loro gigantesca economia e poi indirizzare i loro capitali laddove c’è la massima concentrazione di capitali, nella cima della piramide dove, in cambio di una rendita cospicua, sarebbero stati felici di partecipare da subordinati al grande banchetto dello schema Ponzi della speculazione finanziaria a stelle e strisce. Avevano fatto i conti senza l’oste: quello che non avevano messo in conto, infatti, è che per quanto anche la borghesia cinese si sia arricchita a dismisura, il partito non le ha mai consentito di trasformare questa ricchezza in potere politico, che è rimasto sempre saldamente nelle sue mani e l’ha usato proprio per porre le basi per non rimanere impantanato nella middle income trap; sin dal principio la Cina, infatti, ha avuto le idee piuttosto chiare su cosa era necessario fare per non diventare una colonia, nonostante l’impatto enorme dei capitali esteri e il crescente potere delle oligarchie interne.
Il primo punto, ovviamente, è evitare di diventare una colonia tout court e, quindi, attrezzarsi per resistere a qualsiasi tentativo di imporre qualcosa di estraneo ai propri interessi internazionali attraverso il ricorso alla forza bruta (e su questo, sinceramente, credo nessuno – tutto sommato – si sia mai fatto troppe illusioni); il secondo è l’aspetto finanziario: mantenendo il controllo pubblico delle grandi banche – e, quindi, il controllo politico di dove vanno i soldi per fare cosa – la Cina ha impedito di consegnare il controllo della sua economia alle oligarchie che, naturalmente, hanno interesse a indirizzare i soldi dove rendono di più – e, cioè, nelle bolle speculative dirette dalle oligarchie USA e non dove serve al paese per continuare a svilupparsi. Il terzo è utilizzare lo sviluppo per diminuire il gap tecnologico, invece di vederlo aumentare come succede quando ti affidi al cosiddetto libero mercato; per fare questo, sin da subito la Cina ha posto delle condizioni molto chiare a chi voleva andare a investire in Cina: formare delle joint ventures con imprese locali, molto spesso di proprietà pubblica, in modo da garantire un trasferimento di tecnologia costante. E così, con i loro soldi e le loro tecnologie, hanno messo in piedi – giusto per fare l’esempio che oggi preoccupa di più – la filiera dell’auto elettrica, che sono tutte case nazionali che usano tecnologie nazionali e anche capitali nazionali; o quando, come nel caso di BYD (dove, tra gli azionisti, c’è la Berkshire di Warren Buffet), vedono una grossa partecipazione delle oligarchie internazionali, è comunque sempre in posizione subordinata rispetto alle borghesie nazionali che, se entrano in conflitto col partito, rischiano sempre di fare la fine di Jack Ma. E ovviamente, visto che – dopo 30 anni di deindustrializzazione negli USA e di investimenti in Cina – la Cina oggi è l’unica vera superpotenza manifatturiera mondiale che, da sola, produce circa un terzo di tutto quello che viene prodotto nel mondo, va da se che, a parte per alcuni significativi ma limitati settori specifici, i rapporti di forza si sono completamente invertiti; e, quindi, il libero scambio necessariamente favorisce la Cina e penalizza gli USA.
Ed ecco così che, in men che non si dica, le fondamenta della religione civile che ci hanno imposto per decenni magicamente non contano più e possono essere gettate nel cesso e, insieme a loro, si cominciano già a vedere i primi segni della fine anche dell’involucro politico che meglio rappresentava queste profonde dinamiche materiali – e che gli analfoliberali ci spacciavano come una libera scelta dovuta a valori e principi condivisi e fortemente radicati.
Insomma: l’Occidente, per come l’abbiamo conosciuto e per come c’è stato spacciato, è finito e i rapporti materiali che, sotto il velo di Maya dell’ideologia neoliberale, ne hanno sempre determinato il funzionamento, emergono in tutta la loro ferocia in superficie. Basterà per farci capire quanto ci hanno sempre preso profondamente per il culo? In buona parte dipende anche da noi e da quello che sapremo fare concretamente per approfittare di questa vera e propria incursione della verità nel mondo della post verità, a partire da un vero e proprio media che sia in grado di mettere a nudo l’ipocrisia e i doppi standard dell’imperialismo neoliberista e dia finalmente voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Laura Boldrini

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L’Imperialismo USA dichiara guerra anche al Messico sovranista di AMLO?

Andate al diavolo, fottuti yankees!”; il comunicato col quale i movimenti dell’ALBA hanno deciso di chiudere il lungo weekend della totale perdita di dignità dei regimi latinoamericani più vicini a Washington non va per il sottile: il tutto era iniziato venerdì di prima mattina quando, a Ushuaia, la città più a sud di tutta l’Argentina, un Milei con una grottesca tenuta mimetica riceveva in pompa magna Laura Richardson, l’implacabile comandante del SouthCom, il famigerato Comando Sud degli Stati Uniti responsabile, in passato, delle feroci e totalmente illegali invasioni imperialiste di Granada prima e di Panama poi. A questo giro, in ballo c’è la base navale integrata già proposta dall’ex presidente Fernandez: come ricorda Telesur, prevede la costruzione di “un porto per la riparazione e il rifornimento delle navi, che sarà la struttura più vicina all’Antartide e “la porta d’accesso al continente bianco”, come ha sottolineato lo stesso Milei”. Nei piani di Fernandez, doveva essere un’operazione tesa a tutelare gli interessi argentini nell’area, ma, evidentemente, erano altri tempi; da allora l’impero, per rinviare il suo ineluttabile declino, ha deciso di dichiarare guerra al resto del mondo e, per conservare ancora qualche remota chance di successo, ha bisogno di trasformare di nuovo il giardino di casa latinoamericano in una sua emanazione diretta, dove tutto quello che si muove si deve muovere esclusivamente in funzione dei suoi interessi: ed ecco, così, che la base argentina, una volta sostituito un presidente moderatamente sovranista con un campione degli svendipatria come Milei, diventa magicamente “congiunta”. “Durante un discorso ai militari di entrambi i paesi” riporta, infatti, sempre Telesur “il politico di estrema destra ha ribadito la sua volontà di stringere un’alleanza strategica con gli Stati Uniti e i suoi alleati, annunciando che il SouthCom parteciperà alla base navale integrata”; “Vestito da soldato coloniale per compiacere il comandante del SouthCom” ha dichiarato l’ex ambasciatrice argentina nel Regno Unito Alicia Castro, “Milei è determinato a cedere il controllo geopolitico, strategico e di sfruttamento delle risorse e dei beni naturali del nostro paese”. “Milei” ha rilanciato su X l’ex presidente Fernandez “ha tenuto un discorso non necessario che esprime la sottomissione dell’Argentina a una nazione straniera, e ci riempie di vergogna come Nazione”.

Jorge Glas

Poche ore dopo, in Ecuador, andava in scena una gravissima violazione del diritto internazionale che scatenava una ancor più grave crisi diplomatica: con un atto di forza del tutto illegittimo, illegale e ingiustificato, il neo presidente filo-occidentale Daniel Noboa ha ordinato ai suoi uomini di fare irruzione nell’ambasciata messicana e di trarre in arresto l’ex vicepresidente correista Jorge Glas. Tra i principali registi della rivoluzione cittadina guidata da Rafael Correa, Jorge Glas è stato vittima di una persecuzione giudiziaria terrificante che l’ha visto già scontare in carcere oltre 5 anni di pena: l’accusa era la stessa che poi ha travolto anche lo stesso Correa e, cioè, di aver incassato tangenti in cambio di appalti pubblici per finanziare il movimento. Insomma: una tangentopoli in salsa ecuadoregna e, cioè, un colpo di stato delle oligarchie compradore per sostituire a una classe dirigente democratica e sovranista la crème crème dei peggiori svendipatria, come era già successo a Christina Kirchner in Argentina e a Lula in Brasile. Una volta ottenuta una sorta di libertà provvisoria per aver già scontato oltre il 40% della pena, Glas, allora, ha cercato protezione contro la persecuzione giudiziaria presso l’ambasciata messicana che, da quando c’è Lopez Obrador, è diventata un po’ l’ancora di salvezza di tutti i leader perseguitati del continente: quando la presidenza Castillo, in Perù, è stata rovesciata da un golpe sostenuto dagli USA, il Messico è stato il primo a rompere le relazioni diplomatiche e quando in Bolivia i gruppi paramilitari di estrema destra, dopo il golpe del 2019, si sono messi a dare la caccia a Evo Morales, a offrirgli riparo è stata, ancora una volta, l’ambasciata messicana di La Paz.
“Ma cosa hanno in comune l’ecuadoriano Daniel Noboa e Javier Milei ?” si chiede Gustavo Veiga sul quotidiano kirchnerista argentino Pagina12; ovviamente, si risponde, “il loro allineamento incondizionato con gli Stati Uniti” che, in particolare, “è simboleggiato dallo stesso identico dono che i rispettivi governi hanno appena ricevuto a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro: una coppia di giganteschi aerei Hercules c-130. Il sigillo a un patto di ferro con la principale potenza militare del pianeta, che vede i due paesi rinunciare a una buona fetta della loro sovranità politica”. L’uno due tra Ecuador e Argentina a cui abbiamo assistito lo scorso weekend, secondo le 400 organizzazioni dei movimenti ALBA, segnala una sorta di nuova Operazione Condor 2.0, un remake all’altezza dei tempi della lunga serie di operazioni coordinate dalla CIA tra anni ‘70 e ‘80 a sostegno di tutte le più feroci dittature militari del continente: a giustificare l’aggressività USA, come sempre, c’è la Guerra Fredda – che, poi, tanto fredda ormai non è -, allora contro il blocco sovietico e i paesi non allineati e, adesso, contro quell’asse dei paesi del Sud globale che vogliono mettere fine all’unipolarismo dell’impero USA. In questa guerra ibrida totale, riuscire a imporre di nuovo un dominio pressoché totale di Washington su tutto il continente è una priorità strategica assoluta: solo attraverso questo dominio incondizionato, infatti, gli USA possono continuare a coltivare l’ambizione di riuscire a ricostruire una base industriale minimamente comparabile con quella cinese e, quindi, poter affrontare la grande guerra futura con qualche chance di uscirne vincitori. Ovviamente, in primissimo luogo, per le materie prime, come ha sottolineato chiaramente la stessa Robertson giusto un paio di anni fa: “Questa regione è così ricca di risorse” ha dichiarato di fronte al fior fiore dell’industria bellica USA nell’ambito dell’Aspen Security Forum del 2022 “e i nostri competitor e avversari anche loro sanno benissimo quanta ricchezza c’è in questa regione”, a partire dal 60% delle riserve di litio globali. E poi ancora “greggio pesante, terre rare”, “e ci sono nostri avversari che aumentano la loro presa su tutte queste risorse ogni singolo giorno, esattamente nel nostro vicinato”.
Come sempre, la lotta per il controllo delle risorse ha due giustificazioni: non solo avere accesso a delle risorse essenziali, ma – forse ancora di più – impedirne l’accesso ai tuoi competitor; gli ultimi decenni di guerre in Medio Oriente, principalmente – abbiamo sempre sostenuto – si giustificano proprio così: avere il controllo dell’accesso cinese alle fonti energetiche indispensabili per alimentare la sua impetuosa crescita economica. Evidentemente non ha funzionato proprio benissimo e, alla fine, qualche centinaia di migliaia di vittime civili sono state massacrate del tutto inutilmente; qui però, a questo giro, c’è una questione in più perché – almeno nella visione di Biden e, in generale, dello stato profondo neoconservatore – il cortile di casa è indispensabile proprio anche per permettere al capitale USA di avere sotto suo diretto controllo una capacità industriale minimamente comparabile a quella cinese.
A giocare un ruolo di primissimo piano in questa complicata partita è, in particolare, proprio il Messico: con quasi 130 milioni di abitanti e un PIL pro capite di meno di 12 mila dollari (inferiore a quello cinese e meno di un sesto di quello USA, nonostante – con oltre 2200 ore di lavoro medio a testa – sia il secondo paese OCSE dove si lavora in assoluto di più) il Messico, infatti, presenta quelle caratteristiche indispensabili per pensare di investire in una produzione manifatturiera che possa, in linea di principio, competere con quella cinese e che gli USA sicuramente non hanno. E lo si è già visto abbondantemente: grazie agli incentivi dell’inflation reduction act, non appena si è tornati a investire nell’automotive, i sindacati – forti della carenza di manodopera qualificata che perseguita gli USA dopo 40 anni di finanziarizzazione forzata dell’economia e sostegno artificiale dei consumi attraverso l’indebitamento privato – hanno intrapreso una battaglia eroica che, alla fine, gli ha portato a strappare aumenti salariali medi nell’ordine del 40%, che significa salari medi vicini ai 30 dollari l’ora, circa 6 volte i colleghi messicani; in particolare, i salari medi nell’industria messicana hanno subito una contrazione mostruosa in seguito all’ingresso nel NAFTA, l’accordo di libero scambio tra USA, Messico e Canada, risalente ormai al 1994. “Un trattato” ricorda Brandon Mancilla sulla testata USA specializzata su lavoro e battaglie sindacali LaborNotes “che ha completamente stravolto l’industria automotive del continente”, ma che alla fine non ha fatto altro, ovviamente, che “facilitare la crescita e i profitti dei padroni, mentre i lavoratori venivano colpiti a prescindere dalla nazionalità”; “Il NAFTA”, infatti, continua Mancill “è costato alla classe operaia statunitense milioni di posti di lavoro ben retribuiti nel settore manifatturiero. Prima della firma nel 1994, l’industria automobilistica statunitense era di gran lunga la più grande del continente. Successivamente, la forza lavoro automobilistica messicana da 112.000 lavoratori è cresciuta di sette volte, raggiungendo quasi 900.000 entro il 2019, un aumento concentrato soprattutto nel settore dei ricambi. Nel 2016, gli Stati Uniti impiegavano solo circa il 51% dei lavoratori automobilistici nordamericani, mentre il Messico ne impiegava il 42%”. Ma se pensate che i lavoratori messicani ne abbiano beneficiato, potreste rimanere delusi: “Dopo l’approvazione del NAFTA” svela infatti Mancilla “i salari dei lavoratori messicani del settore automobilistico sono diminuiti, da una media di 6,65 dollari l’ora per i lavori di assemblaggio finale nel 1994 a 3,14 dollari nel 2016”; e così “Ora i lavoratori automobilistici messicani guadagnano un decimo del salario dei lavoratori statunitensi”.
Ora il NAFTA non c’è più; al suo posto c’è lo USMCA che è stato voluto da Trump, che aveva introdotto qualche correttivo per incentivare il ritorno, almeno in piccola parte, della produzione negli USA, ma che – in sostanza – cambia poco o niente: oggi, quindi, i generosi incentivi che gli USA danno per tornare a Make America Great Again valgono anche, ad esempio, per le auto elettriche prodotte in Messico. Ecco, così, che il Messico è diventata la patria per eccellenza del nearshoring, il tentativo di sottrarre un pezzo di manifattura alla Cina per riportarlo vicino al centro dell’impero e il giochino ha pure funzionato: dopo quasi 30 anni di crescita inarrestabile degli scambi commerciali che avevano portato la Cina ad affermarsi come, di gran lunga, il primo partner commerciale degli USA, negli ultimi due anni il primo gradino del podio è stato conquistato, per la prima volta nella storia, proprio dal Messico. Peccato, però, che c’era il trucchetto: tra quelli che si sono catapultati in Messico per approfittare contemporaneamente di costi del lavoro contenuti e accesso agli incentivi fiscali USA ci sono, infatti, anche un sacco di cinesi. Il leader mondiale dell’auto elettrica BYD sta trattando con l’amministrazione della provincia di Jalisco per un impianto nuovo di pacca che prevede diverse centinaia di milioni di investimenti solo per iniziare e MG, che è un marchio del colosso statale dell’automotive cinese SAIC, ha già presentato i piani dettagliati per un investimento che si dovrebbe aggirare tra gli 1,5 e i 2 miliardi di dollari. In attesa di questi megainvestimenti da parte dei marchi più noti, intanto, a investire, sono arrivati una marea di fornitori e subfornitori; ed ecco, così, che se ancora nel 2023 la Cina non appariva nemmeno nella classifica dei primi 10 paesi per investimenti diretti esteri in Messico, dal primo gennaio al 15 marzo s’è subito guadagnata la quarta posizione.
Ma quello che preoccupa ancora di più è che tutte queste aziende dipendono fortemente dalle importazioni cinesi: “Le esportazioni di componenti automobilistici verso il Messico” ricorda infatti il South China Morning Post “sono aumentate del 260% nel 2023 rispetto alla vigilia della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina nel 2017”: se l’obiettivo è ricostruire una base industriale comparabile a quella cinese e disaccoppiare le economie, in modo da non dover temere un crollo della produzione quando si decide di innalzare ulteriormente il livello del conflitto, potrebbe non essere esattamente l’ideale; al momento, se gli USA vogliono considerare il Messico come un pezzo della loro base industriale, la dipendenza dai fornitori cinesi è aumentata (non certo diminuita), consegnando paradossalmente alla Cina una potenziale arma di ricatto in più, non in meno. Ora, siccome – per quello che abbiamo detto più sopra – gli USA non possono rinunciare a trasformare il Messico in una massiccia macchina produttiva di ferro e acciaio con cui oggi ci facciamo le macchine e magari domani, alla bisogna, i vari veicoli a guida autonoma che servono per fare la guerra alla Cina, chi governa il Messico – e che atteggiamento ha rispetto sia alla Cina che agli USA – diventa un fattore strategico dirimente e che, ad oggi, non depone a favore degli USA.

Andrés Manuel López Obrador

Il caro vecchio Lopez Obrador, infatti, non è esattamente il tipo da farsi infinocchiare dalla retorica sui valori immaginari da difendere come un Olaf Scholz o un Enrico Letta qualsiasi; ed ecco quindi che, come ampiamente anticipato, tra guerra dei cartelli del narcotraffico e incidenti diplomatici, parte la guerra ibrida al vicino ribelle nel tentativo disperato di influenzare l’esito delle elezioni presidenziali della prossima estate, un tentativo che però, al momento, non sembra dare chissà che frutti. Secondo i sondaggi, infatti, la candidata del partito di Lopez Obrador continuerebbe a viaggiare agevolmente sopra quota 60% e la percentuale di elettori che dichiarano che sarà lei a vincere senza troppi intoppi continua a crescere giorno dopo giorno; l’unico piano B che rimane, allora, è quello di Trump che, un paio di settimane fa, ha spiazzato gli osservatori di mezzo mondo quando, durante un suo comizio, ha dichiarato senza peli sulla lingua che “Se i produttori di auto cinesi vogliono venire a investire direttamente negli USA, sono i benvenuti”; ma non era quello anticinese? In realtà, l’idea di Trump è esattamente quella che più favorirebbe il disaccoppiamento dalla Cina e la creazione di una base industriale adeguata anche solo per pensare a un conflitto: l’idea di Trump, infatti, è sostanzialmente quella di limitare le importazioni sia dal Messico che dalla Cina e, invece, sfruttare la sete di affari dei privati cinesi per spingerli coi soldi loro a investire direttamente negli USA, sia i grandi marchi, sia tutti i fornitori e subfornitori. Trump si rivela così, ancora una volta, decisamente più lucido delle sue groupies italiche che quando, il mese scorso, Stellantis ha suggerito l’ipotesi di poter rivitalizzare l’impianto di Mirafiori portandoci la produzione di alcuni modelli della controllata cinese Leap Motor, sono andati subito nel panico e hanno dedicato pagine e pagine dei loro giornali alla svendita dell’Italia alla feroce dittatura comunista.
D’altronde, se uno corre per guidare l’impero e gli altri per un posto comodo da vassalli, alla fine un motivo ci sarà: il fronte latinoamericano è lontano dalle linee di faglia che sono già teatro della guerra vera o che rischiano di esserlo nel prossimo futuro; ciononostante, è un fronte fondamentale per permettere all’impero di coltivare ancora qualche speranza. Alcune partite, come l’incredibile elezione di un pagliaccio cosmico come Milei o l’essere riusciti a far abortire definitivamente l’esperienza democratica dell’Ecuador ai tempi di Correa, stanno indubbiamente dando il risultato sperato, ma che siano sufficienti a far deragliare completamente l’America latina dal suo percorso, storicamente necessario, di lottare per la sua indipendenza e per la sua sovranità mettendo definitivamente in soffitta il delirio suprematista della dottrina Monroe, sembra – tutto sommato – piuttosto difficile. Gli unici a non dare nessunissimo segno di dignità, alla fine, rimaniamo noi europei; magari sarebbe il caso cominciassimo a prenderne coscienza: per farlo, serve un vero e proprio media che non faccia da megafono ai deliri delle oligarchie compradore, ma che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani

Ma è proprio vero che la Cina ha smesso di crescere e si sta armando fino ai denti per distruggerci?

La Cina investe in difesa, l’economia resta in crisi titolava ieri Il Giornanale. Come ormai d’abitudine, anche di fronte all’appuntamento politico cinese più importante dell’anno i nostri media di regime hanno lanciato la loro gara a chi stravolgeva di più la realtà; and the winner is, appunto, Rodolfo Parietti dalle pagine del Giornanale, l’organo più mainstream della propaganda filogovernativa che di economia, evidentemente, ci capisce il giusto, però a verve poetica dà la via a tutti: “Più che quello del dragone” sottolinea, infatti “in Cina il 2024 sarà l’anno del bradipo. Un andamento lento, quasi una sorta di paresi”. L’andamento lento della Cina consiste negli obiettivi di crescita per il 2024 ufficializzati dal premier Li Qiang nel discorso inaugurale delle così dette liang hui, le due sessioni che si sono aperte lunedì scorso a Pechino: +5%, una vera paresi, in effetti; mica come da noi col governo dei patrioti. Come titola Libero, da noi c’è stato un vero e proprio Colpo di reni del PIL a fine anno: “L’ISTAT” annuncia trionfante l’organo più cringe del fascioliberismo in salsa italica “rivede al rialzo la crescita del quarto trimestre 2023”; invece che lo 0,5%, lo 0,6. Non nel trimestre, eh? Annualizzato. Vabbeh, e grazie tante che i cinesi crescono di più: come sottolinea sempre Il Giornanale “investono in difesa”; “è lì” insiste spudorato il nostro Parietti “dove la Cina manifesta propositi muscolari, rincorrendo l’America sull’aumento delle spese militari”. E’ la stessa tesi sostenuta rigorosamente anche da tutti gli altri giornali: “L’unico investimento imponente” scrive infatti Santevecchi sul Corriere della serva “è quello annunciato per la difesa”. Non sfugge alla retorica nemmeno Il Manifesto: Addio grande crescita titola; “La Cina vuole più militari”.

Li Qiang

Ma, esattamente, a quanto ammonta questo gigantesco investimento nella difesa che, come rilancia Il Giornanale, trasformerebbe l’economia cinese in un’economia di guerra? “Gli investimenti destinati alla difesa” sottolinea con enfasi Parietti “cresceranno” addirittura, udite udite, “del 7,2%”: basterà, come dice Parietti, per rincorrere l’America? Mhhh… insomma. La Cina, infatti, spende in difesa l’1,6% del PIL; gli USA oltre il 3,5 e il PIL USA – quello nominale in dollari, perlomeno – è ancora un bel po’ più grande di quello cinese. Eh, vabbeh, però di questo passo si stanno avvicinando! Mmhh… anche qui, non proprio: se il budget cinese, infatti, per il 2024 aumenterà del 7,2%, quello statunitense, invece, aumenterà dell’8,5, nonostante le stime per la crescita del PIL nel 2024 siano di poco superiori al 2% contro, appunto, il 5 cinese. Risultato: la Cina, nel 2024, spenderà per la difesa 231 miliardi di dollari; gli USA 886. Come abbiamo sottolineato diverse volte, i cinesi lavorano, gli americani bombardano chi lavora; risultato: la Cina è l’unica vera superpotenza produttiva e, da sola, pesa per il 35% della produzione globale, più dei 9 paesi che la seguono messi assieme. Gli USA, invece, sono l’unica vera superpotenza distruttiva, con una spesa militare che supera la somma dei 10 paesi che la seguono; la Cina spende in armi 163 dollari per ogni suo abitante, gli USA poco meno di 2700 dollari – 16 volte tanto – e nel giardino ordinato dell’Occidente collettivo sono sempre più in buona compagnia.
L’anno scorso, dei 26 paesi membri della NATO, 18 hanno raggiunto l’obiettivo del 2% di PIL di spesa militare; erano soltanto 3 appena 15 anni fa, ed è solo l’inizio: recentemente, il ministro della difesa tedesco Borsi Pistorius ha dichiarato che il suo obiettivo sarebbe portare la spesa militare stabilmente sopra il 3% del PIL nonostante la Germania sia in piena recessione e la Polonia, già dal prossimo anno, supererà abbondantemente quota 4%. Che ci vuoi fare, i colonialisti son fatti così: non solo si armano fino ai denti per ingaggiare guerre di aggressione illegale ai 4 angoli del pianeta, ma se poi qualcuno decide di starsene lì a guardare mentre loro programmano l’aggressione, ecco che immediatamente diventa un pericoloso guerrafondaio. Anche a questo giro, per capire qualcosa di uno degli eventi politici mondiali più importanti – se non il più importante – dell’anno, la nostra propaganda suprematista serve decisamente a poco e, allora, proviamo a metterci una piccola pezza noi. Ora, intendiamoci, noi siamo abituati bene perché viviamo nel giardino ordinato dove vige lo stato di diritto, la libertà – e la democrazia – di votare Mario Draghi (senza o con parrucca bionda) o, come negli USA, di scegliere tra le due gang della casa di riposo più importante del pianeta; è quello che involontariamente ha sottolineato, in un articolo esilarante di un mesetto fa, l’incomprensibilmente celebre guru dell’economia USA Paul Krugman su La Stampa: “Sì, è vero, Biden è anziano” ricorda “e sarà ancora più anziano a fine secondo mandato se verrà rieletto. E sì, è vero che parla a voce bassa e un po’ lentamente, ma chi ha avuto modo di chiacchierare direttamente, e io l’ho fatto, vi dirà che è in possesso di tutte le sue facoltà mentali”. Oh, e se lo dice Krugman che c’ha addirittura parlato dal vivo, chi siete voi per giudicare? Ma aspetta: la parte più bella viene dopo, perché se Biden, a prima vista, appare addirittura in possesso delle sue facoltà mentali – che, evidentemente, è un requisito più che sufficiente per guidare la più grande superpotenza globale – lo stesso, sostiene Krugman, non si può dire del suo sfidante che, sottolinea Krugman, “è più giovane di lui di soli quattro anni”. “Forse” argomenta Krugman “alcune persone sono colpite dal fatto che Trump parla a voce alta e in modo aggressivo, ma cosa dice quando parla?”; “A me ricorda” conclude l’autorevole economista “l’ultimo terribile anno di mio padre quando, colpito dall’alzheimer, ebbe attacchi di incoerenza e di aggressività. E noi dovremmo preoccuparci per le condizioni mentali di Biden?” In sostanza quindi, conferma Krugman, la democrazia USA si riduce alla possibilità di poter scegliere qual è il meno rincoglionito tra due vecchietti che reggono l’anima coi denti. In Cina, questo culo non ce l’hanno mica; in Cina c’è un omino che la mattina si sveglia e decide vita, sorte e miracoli di 1,4 miliardi di persone: cioè, sono tutti schiavi sfigatissimi che lavorano 12 ore al giorno e poi c’è lui che li manovra a piacimento come dei bambolotti e, visto che è tutto così semplice, cosa ci potrà mai essere di così interessante da capire?
Il momento del liang hui, e cioè delle due sessioni, rischia però di mettere un po’ in crisi questa caricatura profondamente razzista e neocoloniale; in cosa consiste? Sostanzialmente, è il periodo dell’anno durante il quale oltre 5000 delegati provenienti dagli angoli più remoti del paese si danno appuntamento nei palazzi monumentali della gigantesca piazza Tienanmen: in poco meno di 3 mila partecipano ai lavori dell’assemblea nazionale del popolo e, cioè, il massimo organo legislativo della repubblica popolare; di questi, circa 2000 sono iscritti al Partito Comunista Cinese, ma ci sono anche circa 500 indipendenti e pure altrettanti iscritti ad altri partiti. Sono i partiti del cosiddetto Fronte unito, che vanno dagli eredi degli ex militanti del Kuomintang, che si separarono da Chang Kai Shek durante la guerra civile e che contano ancora oggi oltre 130 mila iscritti, alla Lega Democratica, che di iscritti ne vanta poco meno di 300 mila e che è uno dei tre partiti nati in opposizione al partito comunista nella cosiddetta primavera di Pechino del ‘78 e che è stato tra i protagonisti delle proteste di Tienanmen dell’89. In contemporanea, altri duemila partecipano invece ai lavori della Conferenza politica consultiva del popolo, l’organo consultivo dove, al fianco degli stessi partiti di cui sopra, si riuniscono ampie delegazioni di alcune delle principali organizzazioni popolari del paese – dalla Federazione delle donne all’Associazione cinese per la scienza e la tecnologia e anche una folta rappresentanza di alcune categorie specifiche, divise per settore – da quello artistico a quello sportivo, passando per quello religioso, come quello sanitario o quello dell’informazione: insieme formano il cuore di quella che viene definita la democrazia con caratteristiche cinesi che, per carità, con l’idea che abbiamo noi di democrazia c’entrano un po’ come il cavolo a merenda, ma che – tutto sommato – dubito siano meno degne di attenzione che la faida a chi c’ha il finanziamento miliardario più grosso combattuta da due vecchi rimbambiti dall’altra parte del Pacifico. Come ricorda il Global Times, infatti, “Nelle due sessioni dell’anno scorso, i deputati hanno avanzato 271 proposte e 8.314 suggerimenti, che nel corso dell’anno sono state esaminate da nove comitati speciali e da 204 organizzazioni diverse. Durante questo anno inoltre il comitato consultivo ha organizzato 94 consultazioni, dalle quali sono pervenute 350 raccomandazioni”.
Insomma: la storiella del paese in preda agli umori dell’uomo solo al comando non sembra essere proprio rigorosissima, ecco, anche perché -, al contrario di quello che avviene sempre più spesso tra le diverse forze politiche dell’Occidente collettivo e, in maniera ancora più clamorosa, nella postdemocrazia a stelle e strisce – in queste 5000 persone trovi davvero le posizioni più disparate, come d’altronde anche all’interno del partito comunista stesso che, ricordiamo, vanta 100 milioni di iscritti che lo rendono, di gran lunga, l’organizzazione politica più grande e complessa della storia dell’umanità e dove dentro, appunto, ci trovi letteralmente di tutto. E non nel senso nostro di diverse sfumature del pensiero unico neoliberale e della dittatura thatcheriana del There is no alternative, ma proprio letteralmente di tutto: dai reazionari ultranazionalisti ai liberisti più sfegatati, fino anche, ovviamente, a un sacco di gente normale, e cioè – in varie forme e misure – socialisti. Tra queste varie anime, sia dentro al partito che, più in generale, in questi organi più ampi, c’è una dialettica feroce il cui esito è tutt’altro che scontato e non solo per questioni tutto sommato marginali, come accade nel nostro giardino ordinato dove il potere vero risiede sempre più spesso in strutture tecnocratiche che di democratico non hanno assolutamente niente (come ad esempio le banche centrali) se non, addirittura, direttamente nei consigli d’amministrazione delle principali corporation private e, soprattutto, in quelli dei grandi monopoli finanziari; è quello che, ad esempio, emerge con grandissima forza dal bellissimo libro di Isabella Weber How China escaped shock therapy – come la Cina è sfuggita alla terapia d’urto – che racconta come, in almeno 2 circostanze, la Cina optò per la via del socialismo con caratteristiche cinesi al posto della distruzione programmata dell’economia e della sovranità nazionale sulla falsariga di quanto imposto alla Russia dal regime eltsiniano al photofinish. Il famoso processo di accentramento del potere che, oggettivamente, è avvenuto con la leadership di Xi Jinping, nasce proprio da qui e dall’esigenza di garantire che si mantenesse la barra dritta in una fase di aggressione imperialista a tutto tondo senza precedenti, ma – appunto – da qui alla leggenda dell’uomo solo al comando ce ne corre.
Come sempre, anche quest’anno ad inaugurare la settimana di lavoro delle due sessioni c’ha pensato il premier che ha presentato ai delegati il report sul lavoro del governo e che non si è nascosto dietro a un dito: “Pur sottolineando i risultati ottenuti” ha dichiarato “siamo profondamente consapevoli dei problemi e delle sfide che ci troviamo ad affrontare. La crescita economica globale manca di slancio e la nostra ripresa economica non è sufficientemente solida, come risulta evidente dalla debolezza della domanda effettiva come anche dalla crisi di sovracapacità in alcuni settori industriali”; “a livello globale” insiste “la ripresa economica è lenta, i conflitti geopolitici sono sempre più acuti, il protezionismo e l’unilateralismo sono in aumento, e queste condizioni ambientali hanno esercitato un impatto sempre più negativo sullo sviluppo della Cina” e “a livello nazionale” poi “i problemi già radicati sono diventati più pronunciati, e ne sono emersi di nuovi. Al calo della domanda esterna si è sommata una mancanza di domanda interna e sono emersi problemi sia ciclici che strutturali. I rischi potenziali del settore immobiliare, del debito delle amministrazioni locali e della debolezza delle piccole e medie aziende sono diventati particolarmente severi”.
Le sfide principali che si trova di fronte la Cina per continuare a registrare un tasso di crescita molto superiore a quello statunitense – sostenuto dalla dittatura del dollaro e dal saccheggio sistematico degli alleati vassalli – sono fondamentalmente due: le esportazioni verso i mercati più ricchi dell’Occidente collettivo e la bolla immobiliare e cioè, sostanzialmente, i due tasselli fondamentali della spettacolare crescita cinese nella prima lunga fase di aperture e riforme e che sono tra loro profondamente interconnessi; il settore immobiliare ha rappresentato, negli ultimi 30, anni un traino gigantesco per l’economia cinese, pesando per circa un quarto del suo prodotto interno lordo – quasi il doppio di quanto registrato negli USA, in Gran Bretagna o in Giappone. D’altronde la sfida che si è trovata ad affrontare la Cina da questo punto di vista è stata epocale: trasformare, nell’arco di pochi anni, un gigantesco paese quasi interamente agricolo in una superpotenza industriale urbanizzata; il processo di urbanizzazione cinese è stato, in assoluto, il più grande e rapido della storia dell’umanità e, a differenza di tutti gli altri paesi in via di sviluppo, senza che il paese diventasse un concentrato di slum e di homeless. La Cina ha – in proporzione – ancora oggi meno homeless non solo degli Stati Uniti, ma anche di Francia, Gran Bretagna e Canada, ma ovviamente, un processo di questa portata non poteva non avere anche enormi controindicazioni: la prima consiste, appunto, nel fatto che per finanziarlo si è fatto ricorso ai risparmi dei cittadini, che sono abituati a risparmiare assai e che sono stati convinti attraverso incentivi fiscali succulenti a investire tutto nel mattone, dove viene custodito oltre il 70% dei loro patrimoni. La seconda è che si è creata una gigantesca bolla, non tanto nel senso che, a parte i principali centri urbani, le case in Cina abbiano raggiunto chissà che prezzi, ma più che altro nel senso che alcuni dei principali costruttori, che in Cina hanno raggiunto dimensioni spaventose, per cavalcare l’onda hanno creato una sorta di gigantesco schema Ponzi che riusciva a stare in piedi solo fino a che la gente continuava ad accumulare case su case pagandole in anticipo e facendo affidamento sul fatto che il prezzo delle case sarebbe aumentato all’infinito; fino a quando, come tutti gli schemi Ponzi, a un certo punto il giochino è saltato per aria e, in buona parte, a farlo saltare per aria è stato proprio Xi in persona da quando, nel 2016, ha cominciato ad affermare chiaramente che Le case servono per viverci, non per speculare, e poco dopo sono state introdotte le prime misure restrittive per limitare l’indebitamento dei costruttori. I sapientoni della propaganda occidentale, allora, anche se non sono mai stati in grado di anticipare l’esplosione delle megabolle di casa loro – a partire da quella di svariati ordini di grandezza più grande del 2008 – si sono profusi in consigli non richiesti; la formula è chiara ed è esattamente quella adottata da Obama nel 2008: salvare il grande capitale e rilanciare la bolla speculativa più forte che mai.

Le vie della seta

La Cina, seppur non senza tentennamenti e con qualche concessione qua e là, sembra però aver scelto una strada fondamentalmente diversa e ovviamente, in termini di crescita del PIL, sta pagando un prezzo e dovrà continuarlo a pagare, ma difficile credere ci possa essere una retromarcia; l’obiettivo fondamentale, infatti, a 8 anni di distanza continua a stare tutto sempre in quell’affermazione: le case servono per viverci, non per speculare. E non è soltanto questione di giustizia e di equità: ancora di più, piuttosto, l’obiettivo – infatti – è fare in modo che i risparmi dei cinesi, dal mattone, si spostino verso qualcosa di più produttivo, un’esigenza strutturale che, negli ultimi anni, è diventata una vera e propria emergenza. Dopo un decennio abbondante di investimenti esteri diretti senza precedenti, infatti, le recenti tensioni geopolitiche hanno fatto precipitare l’arrivo di capitali dall’estero ai minimi storici: dai 350 miliardi del 2021, che è stato un anno record, a poco più di 30 miliardi nel 2023; nel frattempo, gli investimenti cinesi all’estero sono tornati ad aumentare, anche se hanno disertato completamente l’Occidente – che li disincentiva, quando non li vieta tout court – e si sono concentrati tutti nei paesi che hanno aderito alla Belt and road initiative. Questa ritirata dei capitali privati internazionali non è tanto – o, almeno, non solo – un problema quantitativo, ma anche qualitativo: quei capitali, infatti, in buona parte erano legati a investimenti che permettevano alla Cina di colmare gradualmente il gap tecnologico rispetto ai paesi a capitalismo più avanzato che, nonostante tutto, in alcuni settori rimane. La Cina, allora, si è trovata di fronte a un imperativo categorico: sviluppare una vera e propria indipendenza tecnologica, più o meno totale; per farlo, oltre ai grandi progetti guidati dalle aziende di Stato e dai capitali pubblici, ha bisogno di incentivare l’iniziativa privata e la concorrenza e, per farlo, ha bisogno di indirizzare verso questi settori i risparmi privati, che è quello che, ad esempio, è successo con i veicoli elettrici. Da bravo Stato sviluppista, il governo ha sviluppato tutte le forze produttive necessarie ad avviare il settore e poi ha incentivato una concorrenza spietata tra gruppi privati, che ha portato la Cina a essere ordini di grandezza più competitiva del resto del mondo e così oggi – come ha sottolineato lo stesso Elon Musk – “Senza barriere commerciali, le aziende di veicoli elettrici cinesi demoliranno i rivali”; c’ha messo 12 anni ma, alla fine, c’è arrivato: quando, nel dicembre scorso, è uscita la notizia che il colosso BYD aveva superato Tesla nella vendita di veicoli elettrici, Bloomberg infatti ha ritirato fuori questa chicca risalente ormai al lontano 2011:

Giornalista: C’è un concorrente adesso, che sta crescendo. Immagino tu lo conosca, è BYD, che è presente anche sulla West Coast e che sta aumentando la sua produzione di veicoli elettrici.
Musk: <ride>
Giornalista: Perché ridi? Stanno provando a competere, cosa c’è da ridere? Hai visto le loro auto?
Musk: Sì, le ho viste. <ride ancora>
Giornalista: Non li vedi come competitor?
Musk: No.
Giornalista: Perché? Hanno prezzi molto competitivi.
Musk: Non credo abbiano un buon prodotto.


S
impatico eh, Musk, come una gattina attaccata ai coglioni.
Comunque, se c’ha messo 12 anni Musk a capire cosa stava succedendo, potete immaginare quanto ci metteranno i nostri Rampini o la Vestager: la concorrenza spietata tra decine e decine di marchi a colpi di innovazione è stata resa possibile proprio grazie ai risparmi privati che si sono riversati sulle borse di Shenzhen, di Shanghai e di Hong Kong, alla ricerca dell’unicorno del secolo e lo stesso è successo anche con i produttori di batterie e con i produttori di tutto quello che serve per produrre energia da fonti rinnovabili, a partire dal fotovoltaico; sono quelli che i cinesi chiamano i tre nuovi e cioè i tre nuovi pilastri della nuova Cina industriale, che fa qualche passetto indietro sulle vecchie produzioni a basso valore aggiunto e punta tutto sulle produzioni ad altissimo contenuto tecnologico. E i risultati fanno paura, letteralmente: in questo grafico del Financial Times si vede la crescita, a partire dal 2020, in fucsia dei veicoli elettrici e, in blu, delle batterie:

In quest’altro, invece, la crescita delle rinnovabili in termini di gigawatt di capacità installata:

Per quanto riguarda il fotovoltaico, nel 2023 la Cina ha installato più nuova capacità del resto del mondo messo assieme e più di quanto gli USA abbiano fatto negli ultimi 30 anni.
Il problema è che i tre nuovi da soli non sono certo in grado di sostituire il vecchio manifatturiero o il real estate: questo sforzo va moltiplicato per 100 e, per farlo, serve convincere i risparmiatori a mettere i loro soldi in titoli più che in mattoni; ecco perché, da un anno a questa parte, in Cina non si fa altro che parlare di riformare il mercato finanziario. Alcuni osservatori poco pratici hanno confuso questa foga riformatrice con la volontà della Cina di scimmiottare la finanziarizzazione dei paesi a capitalismo avanzato; è l’esatto opposto: la volontà della Cina, infatti, è quella di ridurre ancora di più le rendite improduttive per destinare tutte le risorse allo sviluppo di quelle che chiamano le nuove forze produttive. Per farlo, hanno deciso, appunto – come ricorda il Global Times – “di puntare tutto sulla protezione degli investitori di piccole e medie dimensioni, perché costituiscono la principale fonte di finanziamento a lungo termine per il mercato azionario cinese”. Nella sua prima apparizione davanti ai media proprio nell’ambito delle due sessioni, il neo nominato capo dell’autorità della vigilanza sui titoli cinesi, Wu Qing, ha chiarito che, ovviamente, “Il funzionamento del mercato ha le sue regole e in circostanze normali non si dovrebbe interferire”, ma ciononostante “non esiteremo ad intervenire ogni qualvolta il mercato si discosta dai suoi fondamentali, o vi sono fluttuazioni irrazionali e violente”. Insomma: un mercato finanziario sicuro e accessibile, a misura di piccolo azionista; esattamente l’opposto di quello che – nel frattempo – sta avvenendo in Italia dove, col Decreto capitali da poco definitivamente approvato, si è fatto un passo decisivo verso un mercato dei capitali a immagine e somiglianza degli interessi della finanziarizzazione e dei grandi asset manager che, grazie all’introduzione del voto multiplo, potranno garantirsi il controllo delle aziende con appena il 10/20% delle azioni. E con lo strapotere dei grandi fondi, la direzione non potrà che essere quella intrapresa da tempo negli USA: i mercati finanziari, invece che essere lo strumento per reperire le risorse necessarie alla produzione, sono una cosa a sé che non produce niente se non la speculazione che viene fatta sui titoli azionari stessi.
Il fatto che – grazie a una riforma dei mercati finanziari efficace – la Cina punti a trovare le risorse per replicare in modo allargato il successo ottenuto nei tre nuovi pilastri dell’industria hi tech, terrorizza l’Occidente collettivo anche perché, in tutti questi casi, “Ciò che ha davvero allarmato l’Occidente” sottolinea il Financial Times “è che la tecnologia cinese è spesso superiore a quella degli Stati Uniti e di altre economie avanzate”; come hanno reagito allora? Esattamente come chiedeva Elon Musk: dopo aver sfrantumato la uallera per decenni sulle magnifiche sorti e progressive del libero commercio, hanno ricominciato ad innalzare barriere commerciali; prima l’hanno chiamato decoupling, poi – quando le loro stesse corporation gli hanno spiegato che era una minchiata e non era fattibile – hanno abbassato un po’ i toni e l’hanno ribattezzato derisking. Ma, qualsiasi sia l’etichetta, la sostanza è la stessa: la concorrenza cinese va evitata, costi quel che costi. Ora, appunto, con il mercato immobiliare che continuerà a non essere particolarmente sostenuto (nella speranza di convincere i cinesi a finanziare lo sviluppo hi tech) e l’export che continuerà a faticare perché l’Occidente ha deciso di farla finita con la retorica della libera competizione – al contrario di quanto titolavano i nostri giornalacci – l’obiettivo della crescita al 5% non è certo poca cosa, anzi! E, infatti, le principali testate dei paesi che contano – e che, quindi, non si possono accontentare di fare un po’ di propaganda da bar per affrontare la sfida cinese, ma devono cercare di capire come combatterla – è su questo che si concentrano, non certo sulle segate alla Parietti. Di fronte a tutte queste difficoltà – e il giudizio è unanime, dall’Economist al Financial Times, passando per Bloomberg e il Wall Street Journal – raggiungere una crescita del 5% richiederebbe sforzi giganteschi che però Li Qiang , nell’inaugurazione delle due sessioni, non ha minimamente citato; anzi: l’obiettivo è ridurre ulteriormente il deficit, dal 3,8 al 3%.
Nonostante il debito cinese sia, tutto sommato, piuttosto contenuto, c’è addirittura chi l’ha definita una sorta di austerity con caratteristiche cinesi: non avrebbero tutti i torti, se solo fossimo nati ieri; per chi, invece, ha un minimo di memoria storica, la narrazione – anche a questo giro – non è tanto convincente. Da quando le due sessioni indicano degli obiettivi di crescita precisi, infatti (e, cioè, da almeno una trentina d’anni), la Cina non ha mai tradito le aspettative, con l’unica eccezione della crisi pandemica. Il motivo è piuttosto semplice: il socialismo con caratteristiche cinesi ha lasciato intatti nelle mani del governo tutti gli strumenti che gli permettono di stimolare la crescita più o meno a piacimento; il punto, però, è che ogni intervento anticiclico che viene fatto per raggiungere gli obiettivi di crescita (aumentare il deficit, ridurre il tasso di interesse, introdurre alleggerimenti di carattere fiscale e legislativo che stimolano gli investimenti e i consumi) crea degli squilibri e ha conseguenze che poi si ripercuotono nel medio lungo termine. “La logica” scrive Wiliam Pesek su Asia Times “sembra essere che la Cina si impegna a fare il minimo indispensabile per stabilizzare le azioni e mantenere il PIL il più vicino possibile al 5%”; “Xi”, scrive Neil Thomas dell’Asia Society Policy Institute sul Financial Times, “non sembra farsi prendere dal panico e non sembra voler ricorrere a stimoli massicci per cercare di rilanciare la crescita. Xi vede le attuali vacillazioni economiche della Cina come la sofferenza a breve termine necessaria per ottenere il vantaggio a lungo termine della sua visione di sviluppo di alta qualità”. I primi segnali sembrano dargli ragione; mentre stavamo finendo di scrivere questo pippone, sono usciti i dati aggiornati sulle esportazioni di gennaio e febbraio: gli analisti interrogati da Bloomberg avevano previsto una crescita inferiore al 2%. E’ stata superiore al 7.

L’unica cosa che manca per avere la certezza assoluta del successo è solo il solito immancabile editoriale di Rampini che, come ogni anno, annunci il crollo della Cina: se entro la prossima settimana non dovesse arrivare, allora sì che ci sarebbe da preoccuparsi; in tal caso, l’unica consolazione sarebbe comunque che – vada come vada il mercato azionario cinese – noi tanto non c’abbiamo un euro da investire e sempre i soliti poveracci resteremmo. E i poveracci, per sognare di costruire – finalmente – un vero e proprio media che permetta anche a noi italiani di non vivere sempre e solo nel fantastico mondo incantato della nostra propaganda cialtrona e suprematista, una possibilità sola c’hanno: il tuo sostegno. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuliano Ferrara

Se i Cinesi si prendono l’Industria dell’Auto ItalianaGrosso guaio a Mirafiori

Grosso guaio a Mirafiori titolava a 6 colonne ieri Libero; “arrivano i cinesi”. Per chi ancora nutriva qualche speranza che questa destra di straccioni fintosovranisti e svendipatria avesse in serbo qualcosa di diverso per il Paese, rispetto alla solita ricetta a base di finanziarizzazione e deindustrializzazione per fare felici le oligarchie e il padrone di Washington, ieri è stata la giornata dell’Epifania; la pietra dello scandalo sarebbe questo articolo apparso su Automotive News Europe, una tra le più autorevoli testate europee dedicate al mondo dei motori: Stellantis, titola, potrebbe costruire i veicoli elettrici del partner cinese Leapmotor in Italia. “Fino a 150 mila auto Leapmotor l’anno” chiarisce il sottotitolo “potrebbero venire costruite nello storico stabilimento FIAT di Mirafiori”; un’ottima notizia, da tutti i punti di vista: attirare investimenti esteri per la produzione, infatti, è ovviamente uno degli obiettivi dichiarati di qualsiasi forza di governo – e giustamente, direi. Il problema ovviamente, semmai, sorge quando, con la scusa di attirare investimenti esteri, si concedono incentivi e finanziamenti a cazzo coi nostri soldi, o si dà una bella sforbiciata ai diritti dei lavoratori per fare concorrenza a paesi con livelli salariali e leggi sul lavoro decisamente più arretrate; il paradosso di tutti i governi degli ultimi 30 anni è proprio che hanno massacrato il mondo del lavoro e hanno promesso mari e monti a chi ci faceva la concessione di venire a investire da noi, ma in realtà senza ottenere mai una seganiente lo stesso: le multinazionali straniere si sono comprate una quantità spropositata di nostre aziende, ma – il più delle volte – la finalità era papparsi marchi e quote di mercato, e di rilanci produttivi manco l’ombra. Di cosa parliamo, invece, a questo giro?

Leapmotor è una delle ormai innumerevoli startup cinesi, spuntate come funghi negli ultimi 7 – 8 anni per ritagliarsi un posto al sole nella rivoluzione elettrica del mercato auto più grande del pianeta, e ha qualche asso nella manica: Leapmotor, infatti, ha sviluppato un chip tutto suo per i veicoli a guida autonoma e pure una piattaforma tutta sua che può essere utilizzata per la produzione di millemila modelli diversi, a seconda delle esigenze del mercato finale; Leapmotor, inoltre, ha da anni avviato una partnership strategica con FAW, il secondo gruppo per dimensioni delle 4 grandi e, cioè, le case automobilistiche di proprietà direttamente dello stato cinese – che in Cina è una cosa che fa sempre piuttosto comodo. Ed ecco così che, nell’ultimo anno, a buttare gli occhi su Leapmotor sono arrivati in diversi; ad agosto sembrava quasi fatto un accordo con Volvo, anche lei di proprietà di un altro marchio cinese, questa volta totalmente privato: si chiama Geely e – come ricordava Il Sole 24 ore nell’aprile 2020, a 10 anni dall’acquisizione – è un caso da manuale del “perché la cura cinese funziona”. “In un decennio” infatti “la casa svedese si è completamente trasformata. Ha raddoppiato il numero degli addetti, è passata da 449 mila a oltre 700 mila vendite all’anno, e da un fatturato di 126 a 274 miliardi di corone svedesi”: sono 21.500 posti di lavoro in più, tutti nella piccola, ricchissima e sindacalmente agguerritissima Svezia, talmente agguerrita che quando a fare concorrenza ai cinesi di Geely è arrivata Tesla e ha deciso di rompere con le tradizionali relazioni sindacali, ha causato un sciopero a macchia di leopardo che va avanti ormai da ottobre e che è sostenuto dall’80% della popolazione. Nel frattempo, invece, Volvo ha annunciato tre nuovi modelli interamente elettrici, ma la corsa a Leapmotor, invece, l’ha persa; e a vincerla siamo stati noi (vabbeh, si fa per dire…): a ottobre, infatti, dietro l’esborso di 1,5 miliardi di dollari, Stellantis col 21% è diventato il primo azionista. A che pro?
Leapmotor in quel momento, infatti, vende praticamente solo in Cina, che è sì il mercato automobilistico più grande del mondo – e anche di un bel po’ – ma è anche quello dove la concorrenza è più feroce, soprattutto nel mercato dell’elettrico dove la Cina, da sola, pesa più di tutto il resto del mondo messo assieme, ma a contenderselo ci sono la bellezza di 50 case diverse che si stanno facendo una guerra di prezzi spietata, alla fine della quale solo il più forte sopravviverà e, secondo gli analisti, i più forti non saranno più di una decina di marchi entro il 2030. E fino ad allora, a parte i marchi più grossi, di fare profitti non se ne parla proprio; ed ecco, infatti, che Stellantis tenta tutta un’altra strada: in Olanda, con Leapmotor dà vita a una joint venture che si chiama Leapmotor International. Obiettivo: vendere i veicoli elettrici prodotti in Cina in Europa; certo, non è un grande contributo al nostro automotive, anzi! Negli ultimi 20 anni il governo cinese ha lavorato giorno e notte per creare i presupposti per un’industria dell’elettrico di dimensioni gigantesche e, poi, ha imposto alle aziende di investire una quantità spropositata di quattrini per ritagliarsi qualche quota di mercato a colpi di innovazione e di riduzione dei costi; risultato: il nostro automotive – dove, invece, le aziende i profitti che hanno continuato a macinare solo grazie al contenimento dei salari e agli incentivi, invece che reinvestirli, li hanno redistribuiti per permettere ai grandi azionisti di andarli a buttare nel casinò della speculazione finanziaria, in particolare oltreoceano – non è minimamente in grado di reggere la concorrenza. In condizioni di libero mercato, se i cinesi cominciassero a esportare in massa le loro auto elettriche, per l’automotive europeo – molto semplicemente – sarebbe la fine; difficile dire se Stellantis, molto banalmente, allora abbia pensato di raschiare il fondo del barile facendo da spacciatore di auto cinesi: quello che sappiamo è che anche questo piano è naufragato. Con una decina d’anni abbondanti di ritardo, infatti, a un certo punto in autunno le istituzioni dell’Unione Europea si sono svegliate, hanno realizzato che mentre loro dormivano – e permettevano ai loro costruttori di intascare le miliardate senza investire un euro – i cinesi avevano sviluppato l’industria dell’automotive più efficiente del pianeta e, per proteggere i loro amichetti parassiti, hanno deciso di chiamare tutto ciò concorrenza sleale, un’ accusa non esattamente fondatissima, diciamo – come avevamo raccontato già in un video dello scorso settembre, pochi giorni prima che Stellantis concludesse l’operazione Leapmotor.
Nonostante i deliri, però, a questo giro in realtà forse ci ha detto culo; saltata l’ipotesi assalto al mercato cinese – e pure quella di dealer di roba cinese sul mercato europeo – ecco che, magicamente, salta fuori la terza opzione ed incredibilmente è la meglio di tutte: saranno i cinesi a venire qua e a dare lavoro alle nostre fabbriche. Un’opportunità gigantesca: Leapmotor, infatti, si è caratterizzata in particolare per la presenza nel segmento dei cosiddetti NEV, i Neighborhood Electric Vehicles, i veicoli elettrici di prossimità urbana; in particolare, questo modello qua:

T03 Leapmotor

si chiama T03 e ha fatto il suo esordio in Europa a settembre, al salone di Monaco, è una piccola utilitaria che ricorda un po’ la 500 delle origini – quella della prima motorizzazione di massa – e che in Cina, nella sua versione più lussuosa con 400 chilometri di autonomia, sistema di guida autonoma e un touchscreen da 10 pollici, costa poco più di 10 mila euro; in Francia, dove è già commercializzata, parte da 22 mila. Il margine per abbattere i costi cominciando a produrle direttamente in Europa sarebbero enormi e, finalmente, Stellantis avrebbe una piattaforma dignitosa per le utilitarie elettriche che, nonostante i prezzi folli e la diffidenza dei climatoscettici e degli amanti del rombo dell’endotermico, continuano a macinare numeri da capogiro: come riportava Il Sole 24 ore tre giorni fa, infatti, il mercato dell’elettrico in Europa nel 2023 ha sfondato quota 2 milioni di veicoli, raggiungendo il diesel. A trainare, come noto, sono in particolare il mercato scandinavo – dove ormai è elettrica una nuova auto su due – e, in generale, quello nord europeo, dove il rapporto scende a 1 a 5; ma anche nella più conservatrice e squattrinata Europa meridionale l’elettrico, ormai, è il 10% del mercato e a crescere, in particolare, sono proprio i veicoli cinesi, che hanno registrato una crescita annua del 79%.
Insomma: è abbastanza evidente che, come sosteniamo da sempre perché a libro paga della dittaturah cineseh, la strada per salvare l’automotive italiano c’è; si chiama integrazione con i produttori cinesi e questa notizia di Stellantis, una volta tanto, va nella giusta direzione. E infatti, ricorda Mario Sechi nel suo editoriale su Libero di scrivere vaccate, “I sindacati applaudono e le sinistre sono elettrizzate”; ma a loro non la si fa: “Dov’è” infatti, si chiede Sech, “l’auto italiana in tutta questa storia?” “Gli Stati Uniti” ricorda infatti Sechi “vogliono bloccare la Cina per concorrenza sleale” e “l’Europa si prepara a farlo in maniera ufficiale”, “e in mezzo a questa battaglia fra titani, Stellantis porta la Cina a Mirafiori” e diventa così “una sorta di cavallo di troia”. Insomma: “L’ad Tavares ha deciso di viaggiare contromano rispetto alle strategie di Stati Uniti e Unione Europea” e i sovranisti de noantri dichiarano apertamente che, a costo di smantellare completamente la nostra industria, non s’ha da fare; d’altronde, rilancia nell’articolo a fianco Sandro Iacometti – giusto qualche ora prima di dichiarare dai microfoni di La7 che se gli operai morti nel cantiere a Firenze erano clandestini, se la sono cercata – tutto questo fa parte del complotto green che rettiliani di Bruxelles e cinesi in combutta stanno ordendo contro i patrioti del fossile.

Mario Sechi

Un po’ come la gigafactory che il colosso cinese delle rinnovabili Envision sta costruendo nel nord della Francia, nell’ambito di un accordo con Renault che vuole trasformare quella che ha ribattezzato la sua ElectriCity – e, cioè, il distretto che comprende i tre stabilimenti di Douai, Maubeuge e Ruitz, al confine con il Belgio – “nell’unità di produzione di veicoli elettrici più competitiva e performante d’Europa, con 400 mila auto prodotte ogni anno entro il 2025”; il tutto, ovviamente, finalizzato – come scrive il guru dei negazionisti climatici Franco Battaglia su La Verità – “a resuscitare il socialismo”. Noi, sinceramente, ci accontenteremmo anche di meno: già cercare di recuperare un po’ il gap accumulato in questi anni grazie all’ottusità dei nostri capitani d’industria – sostenuti sia dalle istituzioni di Bruxelles che dall’alt right sinofoba a libro paga della lobby del fossile – e salvare quel poco che rimane del nostro tessuto produttivo, sarebbe un bel passo avanti; piuttosto, invece della fuffa, sarebbe il caso di tenere i fari puntati per assicurarsi che dalle parole si passi, finalmente, ai fatti. Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che non sia a libro paga delle oligarchie, ma nemmeno l’utile idiota di Washington e dei petrolieri, e dia invece voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Se gli ecologisti fanno pagare la transizione ai poveracci per fare dispetto alla Cina

La cinese BYD supera Tesla e diventa il più grande produttore di veicoli elettrici al mondo. Il sorpasso, riporta il Financial Times, sarebbe avvenuto nell’ultimo trimestre dell’anno scorso: 526 mila veicoli venduti contro i 484 mila dell’azienda di Elon Musk. Anche a questo giro il buon vecchio Warren Buffet, che con la sua Berkshire Hathaway è il primo azionista straniero del colosso cinese, c’ha visto giusto, ma soprattutto c’hanno visto giusto i cinesi: BYD, che sta per Build your dreams – costruisci i tuoi sogni – infatti non è un’azienda come tutte le altre; è probabilmente l’esempio più completo di azienda integrata verticalmente al mondo. E’ stata fondata nel 1995 dal chimico Wang Chuanfu, che rispetto a Elon Musk era partito leggermente svantaggiato: invece che essere proprietari di miniere di smeraldi nel feroce regime coloniale della Rhodesia, erano umili contadini della povera provincia dello Anhui; inizialmente produceva batterie per i principali marchi di telefonia mobile giapponesi, coreani ed europei e, a vedere dai risultati, gli riusciva benino: nell’arco di meno di 10 anni era diventato il principale produttore di batterie ricaricabili di ogni genere di tutta la Cina e il quarto al mondo. Nel frattempo, però, contro il parere del suo stesso consiglio di amministrazione, Wang si era comprato anche una piccola azienda un po’ decotta dell’allora ancora inconsistente automotive cinese; aveva costruito una nuova fabbrica da zero. Il suo obiettivo: farsi tutto in casa, e che tutto diventasse rigorosamente elettrico.

La BYD oggi controlla miniere di litio in giro per il mondo, costruisce le sue batterie e anche i suoi chip e sostanzialmente ogni singolo pezzo. E contro i 130 mila scarsi dipendenti di Tesla in giro per il mondo, dà lavoro a quasi 600 mila persone. Poteva succedere soltanto in Cina, probabilmente l’unico paese al mondo a credere davvero che il futuro non potrà che essere elettrico e rinnovabile con caratteristiche cinesi.
Uno dei problemi fondamentali delle auto elettriche, ovviamente, sono le stazioni per ricaricarle: in Italia ce ne sono circa 25 mila; in Cina 2 milioni e mezzo – poco meno del 70% del totale mondiale – e ricaricarle costa circa un terzo che alimentarle a benzina o a gasolio. Risultato: dal 2017 sono stati venduti oltre 18 milioni di veicoli elettrici – circa la metà del mercato mondiale – e oltre 4 volte quello USA. Un’economia di scala che ha permesso il miracolo: in Cina le auto elettriche costano meno di quelle tradizionali, e così si stima che nel 2026 sarà completamente elettrica un’auto nuova ogni due – e senza che nessuno abbia mai fatto mezza campagna per dire agli automobilisti che se il mondo esplode è colpa loro che non si svenano per comprare la stessa macchina di Di Caprio. D’altronde, da un certo punto di vista, sarebbe una discreta presa per il culo: il 60% dell’elettricità che arriva alle colonnine per ricaricare le auto elettriche in Cina, infatti, è prodotta col carbone; tutta la filiera ha un impatto gigantesco, e fino a che le batterie andranno prodotte ex novo, invece che essere più o meno totalmente riciclate, parlare di sostenibilità è un po’ azzardato. La buona notizia, però, è che a tutti questi intoppi una soluzione in realtà c’è; quella cattiva è che per raggiungerla non bastano le chiacchiere: ci vogliono gli investimenti, una quantità spropositata di investimenti, talmente spropositata che pensare che ognuno faccia per se, molto semplicemente è una cazzata e il problema, ovviamente, va ben oltre i veicoli elettrici.
Lo ricorda per l’ennesima volta – in questo bell’articolo pubblicato da Foreign AffairsHenry Sanderson, autore di “Il prezzo della sostenibilità. Vincitori e vinti nella corsa globale all’auto elettrica“: “The problem with de-risking” si intitola; il problema del de-risking, e cioè della politica che vorrebbe ridurre i rapporti commerciali dell’Occidente collettivo con la Cina per evitare di esserne troppo dipendenti e quindi, in soldoni, essere impossibilitati un domani a fargli la guerra. Sanderson ricorda come, per emanciparsi dalla dipendenza dalla Cina, nell’Occidente collettivo è partita la corsa agli incentivi alle aziende per spingerle a tornare a investire per produrre in casa, ma “Sebbene l’obiettivo di accelerare la produzione di energia pulita sia positivo” sottolinea Sanderson “questa strategia in realtà non è sostenibile”. “Se i governi occidentali iniziassero una guerra totale tra loro per i sussidi” riflette infatti Sanderson “ciò non farebbe altro che spostare gli investimenti verso il miglior offerente”, cioè farebbe svenare i singoli stati in concorrenza tra loro, arricchendo soltanto le oligarchie finanziarie e aumentando esponenzialmente i costi della transizione ecologica stessa che, d’altronde, è esattamente quello che le oligarchie hanno ottenuto in generale in tutti i settori industriali imponendo la libera circolazione dei capitali, con gli stati che regalano alle aziende i soldi delle tasse dei loro cittadini per elemosinare qualche posto di lavoro; solo che, in questo caso, c’è anche l’aggravante che oltre a rimetterci le casse dello stato e il portafoglio di tutti i cittadini, ci rimette anche il pianeta.

Henry Sanderson

Sanderson ricorda come “Quando si tratta di energia pulita, l’Occidente è molto indietro rispetto alla Cina, che è all’avanguardia non solo nella produzione e nella distribuzione, ma anche nell’innovazione”: è l’esito di 50 anni di scelte sbagliate imposte, in buona parte, dalla lobby del fossile. Sanderson ricorda come l’Occidente abbia inventato sostanzialmente tutte le principali tecnologie green disponibili: nel 1954 negli USA i laboratori della Bell inventarono le celle solari in silicio; 15 anni dopo, l’università di Oxford produsse la prima batteria al litio, giusto pochi anni prima che in Danimarca si cominciasse a sviluppare l’industria delle turbine eoliche, tutte tecnologie che negli anni ‘80, quando il prezzo del petrolio crollò, vennero sostanzialmente abbandonate. A parte in Cina, che il petrolio era costretta a importarlo in un mondo militarmente controllato da altri potenzialmente ostili; e così la Cina ha sempre continuato a investire, e piano piano si è conquistata il dominio incontrastato dell’intera filiera. Sanderson ricorda come la Cina produce oggi poco meno del 70% di tutta la grafite necessaria per le batterie, “elabora oltre il 90% del manganese, sempre per le batterie, produce la maggior parte del polisilicio mondiale per celle solari e produce quasi il 90% dei magneti permanenti in terre rare del mondo” ma soprattutto, investimento dopo investimento, ha creato una capacità produttiva che, molto banalmente, rende impossibile agli altri di competere sui costi. In un mondo normale dove, al di là della retorica green e a trovare il modo per riempire di quattrini i conti in banca delle oligarchie, si punta davvero alla decarbonizzazione, dovremmo esserne felici e, magari, dire anche grazie per aver investito in cose di cui ci sbattevamo allegramente il cazzo e oggi risultano indispensabili.
Ovviamente questo non significa consegnarsi mani e piedi alla Cina: per alcuni prodotti specifici che, magari, sono anche indispensabili per l’industria della difesa – come nel caso di alcune terre rare – è necessario che gli stati si facciano carico dei costi che comporta costruirsi una filiera autonoma e indipendente; per tutto il resto, molto banalmente, dobbiamo fare una scelta: transizione ecologica o guerra ibrida contro la Cina? Tanto più se l’obiettivo della transizione ecologica non deve essere semplice greenwashing, ma un modello di sviluppo realmente sostenibile. Prendiamo ad esempio il litio: per rispettare la tabella di marcia della decarbonizzazione, nell’arco dei prossimi 25 anni il consumo di litio dovrebbe decuplicare. Estrarre dieci volte il litio che estraiamo oggi con le metodologie utilizzate oggi vuol dire devastare in modo irrimediabile porzioni gigantesche di territorio; alternative più sostenibili esistono, ma costano enormemente di più: un costo che, fino a che continuerà a prevalere la competizione tra aziende e tra stati geopoliticamente ostili sulla cooperazione, ovviamente nessuno si accollerà per salvare il culo all’altro.
Chi ci prova non fa una bella fine: ad esempio i verdi tedeschi, che vorrebbero tenere insieme ferocia imperialista, speculazione finanziaria ed ecologismo e far pagare questa equazione irrisolvibile alla gente comune che, quando poi s’incazza, si sente anche dare della troglodita. Davvero strano che poi crollino nei sondaggi. Inspiegabile proprio.
La realtà è che senza pace non c’è giustizia, nemmeno climatica: sarebbe arrivata l’ora che gli ambientalisti se lo mettessero in testa. Aiutiamoli, con un media serio e credibile che, invece che ai suprematisti e agli speculatori, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Annalena Baerbock

LA MORTE DELL’AUTO ITALIANA – Stellantis: profitti record, licenziamenti e capannoni in svendita

Ciao ciao Mirafiori!
Dopo gli ultimi sviluppi, la dichiarazione di morte dell’automotive italiano è sostanzialmente ufficiale: “Costruisci il tuo futuro” l’ha chiamato Stellantis, con una bella dose di sano masochismo. E’ il progetto che ha previsto l’invio di una mail a 15 mila dipendenti, dove venivano invitati a mettersi in tasca qualche euro e levarsi definitivamente dai coglioni: il futuro che si dovrebbero costruire è da disoccupati. Vista l’aria che tira – e la possibilità concreta che se non se ne vanno oggi con una bella dose di incentivi in tasca, se ne dovranno andare comunque domani con in mano un pugno di mosche – in 500 avrebbero già accettato; a convincerli, in particolare, un annuncio apparso l’altra settimana su Immobiliare.it: capannone in vendita, Grugliasco, 115 mila metri quadrati, prezzo su richiesta.

Sergio Marchionne

Neanche 10 anni fa, il venditore di pentole in cachemire Sergio Marchionne lo aveva definito il fiore all’occhiello dell’automotive italiano: doveva essere il cuore pulsante di un fantomatico “polo del lusso” specializzato nella produzione di due modelli Maserati: la Ghibli e la Quattroporte, roba da 150/200 mila euro a botta. “Questi sono giorni cruciali per riposizionare il marchio e avviare una fase di espansione senza precedenti” aveva declamato enfaticamente Marchionne il giorno dell’inaugurazione, e a un certo punto avevano cominciato a macinare così tanto che, nel 2016, il sindacato s’era dovuto mobilitare perché “i carichi e i ritmi di lavoro sono troppo sostenuti, e questo mette a rischio la salute dei lavoratori” (Fiom-Cgil, 2016).
E’ durato come un gatto in tangenziale: “A pieno regime” ricorda Davide Depascale su Il Domani “l’impianto Maserati impiegava duemila operai. Nell’ultimo anno ne erano rimasti un centinaio.” Li hanno spremuti come limoni per qualche anno e poi gli hanno dato una pedata nel culo, e ora l’intero capannone te lo porti a casa con un click: “Lo stabilimento” si legge nell’annuncio “si presenta in buone condizioni manutentive a seguito di recenti e rilevanti interventi di ristrutturazione”. Si divertono pure a girare il dito nella piaga. D’altronde, però, quando è crisi è crisi, insomma. “Stellantis, record di utili nel 2022” titolava entusiasta Milano Finanza già nel febbraio scorso, e il banchetto era solo all’inizio: giusto pochi giorni fa sono stati pubblicati i risultati del terzo trimestre e Stellantis registra un altro risultato record: +7% di ricavi netti rispetto all’anno prima. Ottimo! Nella guerra mondiale dell’automotive in corso, per finanziare la transizione all’elettrico e mantenere la quota di mercato, un po’ di quattrini da investire sono proprio quello che ci vuole.
Macché: sapete cosa ci hanno fatto? Ci hanno ricomprato le loro azioni, l’ennesimo caso di buyback selvaggio che non serve ad altro che a continuare a gonfiare la bolla speculativa sui titoli azionari e a far intascare al management premi multimilionari a suon di stock option e altri meccanismi simili; nel 2022, il solo CDA si è messo in tasca oltre 31 milioni, 3 in più dell’anno precedente. Quando la FIAT sfornava milioni di auto e dava da lavorare a 200 mila persone, lo storico amministratore delegato Vittorio Valletta non guadagnava più di 500 mila euro: riusciremo mai a mettere fine a questo saccheggio?
A rimettere in fila due numeri su Il Domani ci pensa Edi Lazzi, segretario generale della Fiom di Torino: “A Mirafiori dal 2007, ultimo anno senza cassa integrazione” ricorda “la produzione è calata dell’89%, e la cassa integrazione ha raggiunto picchi del 70”. Nel 2022 gli occupati complessivi sono arrivati alla quota miserrima di 12 mila; erano 20 mila solo 8 anni prima. Mille in meno l’anno, “come se ogni anno chiudesse una fabbrica di medie dimensioni” sottolinea Depascale su Il Domani. “Nei prossimi anni” rilancia Lazzi “il 70 per cento dei lavoratori va in pensione. Senza nuove assunzioni Mirafiori si fermerà”, e pensare che a Mirafiori sarebbero dovuti finire anche i lavoratori della Maserati di Grugliasco dove, nel frattempo, a ritrovarsi con le pezze al culo ovviamente è anche tutto l’indotto “con tutta la componentistica” sottolinea Depascale “a rischio chiusura”. Un esempio su tutti la Lear Corporation: è una multinazionale americana con oltre 160 mila dipendenti in 37 paesi, la 147esima azienda al mondo per fatturato, stando alla classifica di Fortune 500; è specializzata di sistemi elettrici e di interni per auto – in particolare sedili – e fare i sedili in pelle umana per le auto da 200 mila euro della Maserati era un ottimo business, ma ora che la Ghibli e la Quattroporte nello stabilimento accanto non le producono più, ecco che – dei 420 dipendenti che hanno – la bellezza di 300, a breve, si ritroveranno in mezzo a una strada senza grosse alternative. Stellantis, infatti, tra un buyback e l’altro qualche investimento – in realtà – in giro per il mondo lo fa anche, a partire dalle famose gigafactory, solo che non li fa coi soldi suoi e non in Italia. Negli Stati Uniti, da pochissimo, ha annunciato il secondo impianto: entrambi si troveranno a Kokomo, in Indiana; 6,3 miliardi di investimento per 2.800 posti di lavoro previsti, oltre 2 milioni di dollari l’uno che, in buona parte, ricadranno sulle casse dello Stato sottoforma di credito d’imposta. Esattamente come in Europa, dove Stellantis ha incassato una quantità spropositata di incentivi per completare il suo primo impianto a Douvrin, nel nord della Francia, e ora sta procedendo con il cantiere di Kaiserslautern in Germania. Dopo – e soltanto dopo – arriverà, forse, il contentino anche per l’Italia: anche l’ex FIAT di Termoli, infatti, dovrebbe diventare una gigafactory. Per convincere Tavares a farci la grazia gli abbiamo dovuto promettere la bellezza di 600 milioni del PNRR, ma le condizioni che abbiamo chiesto in cambio non convincono proprio tutti: la fabbrica, infatti, dovrebbe riassorbire i vecchi operai FIAT ma il management ha già fatto sapere – riporta l’Ansa – che “l’azienda avrà la necessità di disporre di professionalità totalmente diverse da quelle tuttora presenti nel vecchio stabilimento”.
Cosa significa? Che a una bella fetta dei vecchi operai che, grazie all’anzianità, hanno raggiunto finalmente stipendi quasi dignitosi, si darà il benservito con qualche ammortizzatore sociale pagato con le nostre tasse e, al loro posto, se ne prenderanno di nuovi con trattamenti salariali e accessori peggiori possibile. D’altronde, dire che la morte dell’automotive italiano era annunciata è un eufemismo, e pensare che anche l’Italia possa avanzare qualche pretesa per le briciole che il protezionismo USA e il ritorno dell’austerity nell’Unione Europea lasceranno cadere dal banchetto della transizione ecologica e dell’elettrificazione potrebbe rivelarsi del tutto velleitario; dentro alla gabbia delle compatibilità con l’agenda geopolitica USA, da un lato, e il culto dell’austerità dell’Unione Europea dall’altro, il nostro destino è segnato. Non deve essere necessariamente così e, per dimostrarvelo, ora vi racconto una bella storiella. L’articolo è ormai un po’ datato; siamo nel 9 agosto scorso e Bloomberg titola : “La chiusura della Ford dopo 100 anni in Brasile cede il territorio degli Stati Uniti alla Cina”. La location è uno dei luoghi più iconici della lunga storia dell’automotive globale: siamo nella cittadina di Camacari, una trentina di chilometri a nord di Salvador, la capitale dello stato di Bahia; qui, in uno spazio sterminato più grande del Central park di New York, sorgeva una delle principali fabbriche della Ford del gigantesco paese sudamericano che, da un paio di anni, è stata totalmente smantellata pezzo per pezzo. Ma nell’aria non c’è segno né di sconfitta, né di rassegnazione: a breve qui si tornerà a lavorare a pieno ritmo. L’ex Ford di Camacari, infatti, è stata acquisita da BYD, il colosso dell’automotive elettrico che vanta tra i suoi principali investitori anche la Bearkshire Hathway di Warren Buffett; qui sorgerà la sua fabbrica più grande fuori dall’Asia.

Lula, Hugo Chavez e Néstor Kirchner

Per Lula, che di fabbriche se ne intende – visto che c’ha passato mezza vita e c’ha perso pure un dito -, è una vittoria di portata storica: convincere gli investitori cinesi a riaprire quella fabbrica è sempre stato un suo pallino. Per questo, quando s’è recato a Pechino appena due mesi dopo l’inizio del suo mandato, ha voluto in tutti i modi incontrare di persona l’amministratore delegato di BYD. Durante il mandato del suo predecessore, i rapporti con la Cina erano precipitati ai minimi storici: puntava a un rapporto privilegiato con l’America di Trump mentre l’America di Trump chiudeva le fabbriche. La Ford, ad esempio, non si è ritirata in fretta e furia solo dallo stato di Bahia, ma tutto il paese – dal giorno alla notte – dopo 100 anni di attività; è l’epilogo di un lungo declino, un po’ come quello italiano. La produzione industriale pesava per quasi metà PIL fino alla fine degli anni ‘80; ora pesa per meno di un quarto.
La deindustrializzazione, in questi anni, ha riguardato anche i paesi del Nord globale; la differenza però è che – grazie alle logiche neo – coloniali – il Nord globale mantiene comunque il controllo delle catene del valore. Il Brasile e l’Italia, no. Lula non è il solo protagonista della rinascita dell’ex sito Ford di Camacari; un ruolo chiave l’ha svolto anche il governatore dello stato di Bahia, il primo – nella storia dello Stato – appartenente alle popolazioni indigene: si chiama Jeronimo Rodrigues e si aspetta che i cinesi portino nella regione almeno 10 mila nuovi posti di lavoro, e non solo quelli. BYD prevede di aprire una nuova miniera nello Stato per estrarre localmente il litio che servirà alla fabbrica, e ha già investito 700 milioni solo per la parte di ricerca e sviluppo per una nuova monorotaia che permetterà di liberare Salvador dal traffico. Se è questa la giungla selvaggia che minaccia il nostro giardino ordinato, forse varrebbe la pena farci un pensierino.
C’è un intero mondo, là fuori, che è alla ricerca di opportunità per tornare a far crescere l’economia reale, e non si chiama Carlos Tavares o John Elkann, che se ancora possono scendere per strada senza essere rincorsi da una folla inferocita è perché i soldi che non reinvestono per rilanciare l’industria automobilistica italiana li spendono per far dire alla propaganda che – tutto sommato – va bene così e che “there is no alternative”, quando invece l’alternativa c’è eccome. Solo che per raccontarla per bene abbiamo bisogno di un media tutto nostro, che dia voce al Sud globale e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è John Elkann