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Se gli ecologisti fanno pagare la transizione ai poveracci per fare dispetto alla Cina

La cinese BYD supera Tesla e diventa il più grande produttore di veicoli elettrici al mondo. Il sorpasso, riporta il Financial Times, sarebbe avvenuto nell’ultimo trimestre dell’anno scorso: 526 mila veicoli venduti contro i 484 mila dell’azienda di Elon Musk. Anche a questo giro il buon vecchio Warren Buffet, che con la sua Berkshire Hathaway è il primo azionista straniero del colosso cinese, c’ha visto giusto, ma soprattutto c’hanno visto giusto i cinesi: BYD, che sta per Build your dreams – costruisci i tuoi sogni – infatti non è un’azienda come tutte le altre; è probabilmente l’esempio più completo di azienda integrata verticalmente al mondo. E’ stata fondata nel 1995 dal chimico Wang Chuanfu, che rispetto a Elon Musk era partito leggermente svantaggiato: invece che essere proprietari di miniere di smeraldi nel feroce regime coloniale della Rhodesia, erano umili contadini della povera provincia dello Anhui; inizialmente produceva batterie per i principali marchi di telefonia mobile giapponesi, coreani ed europei e, a vedere dai risultati, gli riusciva benino: nell’arco di meno di 10 anni era diventato il principale produttore di batterie ricaricabili di ogni genere di tutta la Cina e il quarto al mondo. Nel frattempo, però, contro il parere del suo stesso consiglio di amministrazione, Wang si era comprato anche una piccola azienda un po’ decotta dell’allora ancora inconsistente automotive cinese; aveva costruito una nuova fabbrica da zero. Il suo obiettivo: farsi tutto in casa, e che tutto diventasse rigorosamente elettrico.

La BYD oggi controlla miniere di litio in giro per il mondo, costruisce le sue batterie e anche i suoi chip e sostanzialmente ogni singolo pezzo. E contro i 130 mila scarsi dipendenti di Tesla in giro per il mondo, dà lavoro a quasi 600 mila persone. Poteva succedere soltanto in Cina, probabilmente l’unico paese al mondo a credere davvero che il futuro non potrà che essere elettrico e rinnovabile con caratteristiche cinesi.
Uno dei problemi fondamentali delle auto elettriche, ovviamente, sono le stazioni per ricaricarle: in Italia ce ne sono circa 25 mila; in Cina 2 milioni e mezzo – poco meno del 70% del totale mondiale – e ricaricarle costa circa un terzo che alimentarle a benzina o a gasolio. Risultato: dal 2017 sono stati venduti oltre 18 milioni di veicoli elettrici – circa la metà del mercato mondiale – e oltre 4 volte quello USA. Un’economia di scala che ha permesso il miracolo: in Cina le auto elettriche costano meno di quelle tradizionali, e così si stima che nel 2026 sarà completamente elettrica un’auto nuova ogni due – e senza che nessuno abbia mai fatto mezza campagna per dire agli automobilisti che se il mondo esplode è colpa loro che non si svenano per comprare la stessa macchina di Di Caprio. D’altronde, da un certo punto di vista, sarebbe una discreta presa per il culo: il 60% dell’elettricità che arriva alle colonnine per ricaricare le auto elettriche in Cina, infatti, è prodotta col carbone; tutta la filiera ha un impatto gigantesco, e fino a che le batterie andranno prodotte ex novo, invece che essere più o meno totalmente riciclate, parlare di sostenibilità è un po’ azzardato. La buona notizia, però, è che a tutti questi intoppi una soluzione in realtà c’è; quella cattiva è che per raggiungerla non bastano le chiacchiere: ci vogliono gli investimenti, una quantità spropositata di investimenti, talmente spropositata che pensare che ognuno faccia per se, molto semplicemente è una cazzata e il problema, ovviamente, va ben oltre i veicoli elettrici.
Lo ricorda per l’ennesima volta – in questo bell’articolo pubblicato da Foreign AffairsHenry Sanderson, autore di “Il prezzo della sostenibilità. Vincitori e vinti nella corsa globale all’auto elettrica“: “The problem with de-risking” si intitola; il problema del de-risking, e cioè della politica che vorrebbe ridurre i rapporti commerciali dell’Occidente collettivo con la Cina per evitare di esserne troppo dipendenti e quindi, in soldoni, essere impossibilitati un domani a fargli la guerra. Sanderson ricorda come, per emanciparsi dalla dipendenza dalla Cina, nell’Occidente collettivo è partita la corsa agli incentivi alle aziende per spingerle a tornare a investire per produrre in casa, ma “Sebbene l’obiettivo di accelerare la produzione di energia pulita sia positivo” sottolinea Sanderson “questa strategia in realtà non è sostenibile”. “Se i governi occidentali iniziassero una guerra totale tra loro per i sussidi” riflette infatti Sanderson “ciò non farebbe altro che spostare gli investimenti verso il miglior offerente”, cioè farebbe svenare i singoli stati in concorrenza tra loro, arricchendo soltanto le oligarchie finanziarie e aumentando esponenzialmente i costi della transizione ecologica stessa che, d’altronde, è esattamente quello che le oligarchie hanno ottenuto in generale in tutti i settori industriali imponendo la libera circolazione dei capitali, con gli stati che regalano alle aziende i soldi delle tasse dei loro cittadini per elemosinare qualche posto di lavoro; solo che, in questo caso, c’è anche l’aggravante che oltre a rimetterci le casse dello stato e il portafoglio di tutti i cittadini, ci rimette anche il pianeta.

Henry Sanderson

Sanderson ricorda come “Quando si tratta di energia pulita, l’Occidente è molto indietro rispetto alla Cina, che è all’avanguardia non solo nella produzione e nella distribuzione, ma anche nell’innovazione”: è l’esito di 50 anni di scelte sbagliate imposte, in buona parte, dalla lobby del fossile. Sanderson ricorda come l’Occidente abbia inventato sostanzialmente tutte le principali tecnologie green disponibili: nel 1954 negli USA i laboratori della Bell inventarono le celle solari in silicio; 15 anni dopo, l’università di Oxford produsse la prima batteria al litio, giusto pochi anni prima che in Danimarca si cominciasse a sviluppare l’industria delle turbine eoliche, tutte tecnologie che negli anni ‘80, quando il prezzo del petrolio crollò, vennero sostanzialmente abbandonate. A parte in Cina, che il petrolio era costretta a importarlo in un mondo militarmente controllato da altri potenzialmente ostili; e così la Cina ha sempre continuato a investire, e piano piano si è conquistata il dominio incontrastato dell’intera filiera. Sanderson ricorda come la Cina produce oggi poco meno del 70% di tutta la grafite necessaria per le batterie, “elabora oltre il 90% del manganese, sempre per le batterie, produce la maggior parte del polisilicio mondiale per celle solari e produce quasi il 90% dei magneti permanenti in terre rare del mondo” ma soprattutto, investimento dopo investimento, ha creato una capacità produttiva che, molto banalmente, rende impossibile agli altri di competere sui costi. In un mondo normale dove, al di là della retorica green e a trovare il modo per riempire di quattrini i conti in banca delle oligarchie, si punta davvero alla decarbonizzazione, dovremmo esserne felici e, magari, dire anche grazie per aver investito in cose di cui ci sbattevamo allegramente il cazzo e oggi risultano indispensabili.
Ovviamente questo non significa consegnarsi mani e piedi alla Cina: per alcuni prodotti specifici che, magari, sono anche indispensabili per l’industria della difesa – come nel caso di alcune terre rare – è necessario che gli stati si facciano carico dei costi che comporta costruirsi una filiera autonoma e indipendente; per tutto il resto, molto banalmente, dobbiamo fare una scelta: transizione ecologica o guerra ibrida contro la Cina? Tanto più se l’obiettivo della transizione ecologica non deve essere semplice greenwashing, ma un modello di sviluppo realmente sostenibile. Prendiamo ad esempio il litio: per rispettare la tabella di marcia della decarbonizzazione, nell’arco dei prossimi 25 anni il consumo di litio dovrebbe decuplicare. Estrarre dieci volte il litio che estraiamo oggi con le metodologie utilizzate oggi vuol dire devastare in modo irrimediabile porzioni gigantesche di territorio; alternative più sostenibili esistono, ma costano enormemente di più: un costo che, fino a che continuerà a prevalere la competizione tra aziende e tra stati geopoliticamente ostili sulla cooperazione, ovviamente nessuno si accollerà per salvare il culo all’altro.
Chi ci prova non fa una bella fine: ad esempio i verdi tedeschi, che vorrebbero tenere insieme ferocia imperialista, speculazione finanziaria ed ecologismo e far pagare questa equazione irrisolvibile alla gente comune che, quando poi s’incazza, si sente anche dare della troglodita. Davvero strano che poi crollino nei sondaggi. Inspiegabile proprio.
La realtà è che senza pace non c’è giustizia, nemmeno climatica: sarebbe arrivata l’ora che gli ambientalisti se lo mettessero in testa. Aiutiamoli, con un media serio e credibile che, invece che ai suprematisti e agli speculatori, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Annalena Baerbock

OttolinaTV

4 Gennaio 2024

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