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Tag: accordi di abramo

I’m just a lonely boy: come il sostegno al genocidio di Gaza sta isolando Biden e gli USA.

A gestire le decine e decine di miliardi di aiuti militari che gli USA hanno inviato all’Ucraina negli ultimi ormai poco meno di due anni, c’è un piccolissimo ufficio con appena una decina di dipendenti che negli ambienti militari statunitensi ormai sono diventati leggendari; dal giorno alla notte hanno gestito, senza battere ciglio, un aumento del carico di lavoro del 15 mila % imparando a “svolgere in poche ore quello che prima richiedeva mesi”, come riportava enfaticamente Defenseone. Tra quei 10 eroi della patria, con ruolo apicale, c’è anche lui: Josh Paul.

“Sono entrato a far parte dell’Ufficio per gli affari politico-militari (PM) più di 11 anni fa” ha scritto Josh “e l’ho trovato immediatamente un lavoro affascinante e coinvolgente, fatto di compiti e obiettivi estremamente impegnativi sia intellettualmente che moralmente. Sono molto orgoglioso” continua Josh “di aver fatto molte volte la differenza, sia visibilmente che dietro le quinte, dalla difesa dei rifugiati afghani, all’aver influenzato le decisioni dell’amministrazione sul trasferimento di armi letali in paesi accusati di mancato rispetto dei diritti umani. Quando sono arrivato in questo ufficio, che è l’ente governativo degli Stati Uniti maggiormente responsabile del trasferimento e della fornitura di armi a partner e alleati, sapevo benissimo che il mio compito era tutt’altro che privo di complessità morale e di compromessi delicati, e mi sono ripromesso che sarei rimasto finché i danni che ero costretto a fare fossero stati controbilanciati da sufficienti contributi positivi. E in questi 11 anni ho fatto più compromessi morali di quanti riesco a ricordare, ma senza mai venir meno a quel patto con me stesso”. Ma dopo 11 anni, conclude Josh, “oggi finalmente sento il dovere di andarmene”. E questa è la sua lettera di dimissioni.
A convincere Josh che ormai quel patto si era rotto, infatti, sarebbe “la fornitura continuata, anzi, ampliata, e accelerata, di armi letali a Israele” che lo ha posto di fronte a una contraddizione insanabile: “non possiamo essere una volta contrari alle occupazioni, e un’altra volta a favore. Non possiamo essere una volta a favore della libertà, e un’altra contro. E non possiamo dirci a favore di un mondo migliore, mentre contribuiamo concretamente a crearne uno peggiore”. Josh condanna senza appello l’azione di Hamas “ma sono profondamente convinto” sottolinea “che la risposta che Israele sta dando, e il sostegno americano a quella risposta, non possa che portare inevitabilmente a sempre maggiore sofferenza sia per il popolo israeliano che per quello palestinese. E alla lunga, danneggiare anche gli interessi del nostro paese”. Secondo Josh, infatti, “la risposta di questa Amministrazione – e anche di gran parte del Congresso – non è altro che una reazione impulsiva basata solo su bias cognitivi, mera convenienza politica, e una tragica bancarotta intellettuale”. Josh si dichiara enormemente deluso, ma non sorpreso: “Il fatto” sottolinea Josh “è che il sostegno cieco a una parte a lungo termine è distruttivo per gli interessi dei cittadini di entrambe”. Il timore di Josh, insomma, è che “si stiano ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni. E io mi rifiuto di farne ancora parte”. Secondo Josh, infatti, in questo genere di conflitti “non dovremmo schierarci con uno dei combattenti, ma con le persone prese in mezzo, e quelle delle generazioni future. La nostra responsabilità” continua “dovrebbe essere aiutare le parti in conflitto a trovare una soluzione, mettendo sempre al centro i diritti umani, invece di cercare di eluderli. E, quando accadono, denunciarne le violazioni, indipendentemente da chi le commette, sia quando sono avversari, il che è facile, ma ancora di più quando sono nostri partner”. Ed è proprio per questi motivi, conclude Josh, “che mi sono dimesso dal governo degli Stati Uniti: perché se posso lavorare, e ho lavorato duramente per migliorare le politiche in materia di sicurezza, non posso lavorare a sostegno di una serie di decisioni politiche che ritengo miopi, distruttive, ingiuste e in palese contraddizione con i valori che sosteniamo pubblicamente e che sostengo con tutto il cuore: un ordine internazionale fondato sulle regole, e che promuova l’uguaglianza e l’equità”.
Abituati a esercitare un’egemonia totale in campo militare grazie all’esercito più grande e dispendioso della storia umana, in campo economico grazie allo strapotere del dollaro, e in campo ideologico grazie alla proprietà di tutti i mezzi di produzione del consenso, gli USA si sono illusi di poter applicare spudoratamente doppi standard a tutto quello che li riguarda senza mai dover pagare pegno, ma da Josh Paul ai vecchi alleati in Medio Oriente che a Biden, ormai, manco gli rispondono più al telefono perché hanno paura di essere linciati dalle loro opinioni pubbliche, il fascino indiscreto e totalizzante dell’impero sembra perdere continuamente smalto. E se a far crollare definitivamente l’impero non fosse qualche nemico esterno, ma semplicemente la sua ormai insostenibile tracotanza?

“L’America è la causa principale dell’ultima guerra tra Israele e Palestina”; nell’ultimo lungo articolo per Foreign Policy, il buon vecchio Stephen Walt, come gli capita spesso, ha deciso di toccarla pianissimo. Blasonato professorone di politica internazionale all’Università di Harvard, 15 anni fa divenne il bersaglio preferito della potente lobby israeliana dopo averne descritto, senza tanti fronzoli, la gigantesca influenza in un celebre libro scritto a 4 mani insieme al leggendario John Mearsheimer e pubblicato in Italia con il titolo “La Israel lobby e la politica estera americana”. Walt non può fare a meno di notare come “mentre israeliani e palestinesi piangono ognuno i loro morti, sembra impossibile riuscire a resistere alla tentazione di cercare qualcuno in particolare da incolpare. Gli israeliani e i loro sostenitori” continua Walt “vogliono attribuire tutta la colpa ad Hamas. Mentre coloro che sono solidali con la causa palestinese, vedono la tragedia come il risultato inevitabile di decenni di occupazione”. Walt, invece, propone un filone un po’ diverso e si propone di ricostruire a grandi linee “come 30 anni di politica estera americana si sono conclusi con un disastro”. La ricostruzione di Walt, infatti, parte dal 1991, l’anno della prima guerra del Golfo: “una straordinaria dimostrazione della potenza militare e dell’abilità diplomatica degli USA” sottolinea Walt “che sono stati in grado di eliminare la minaccia posta da Saddam Hussein agli equilibri regionali”. Walt ricorda come, all’epoca, l’Unione Sovietica fosse ormai sull’orlo del collasso, come gli USA utilizzarono questa schiacciante vittoria per consolidare la loro posizione di unica potenza globale “saldamente al posto di guida”, e anche come decisero di sfruttare questa posizione di dominio incontrastato per imporre,nell’ottobre del 1991, una conferenza di pace in grado di mettere attorno a un tavolo Israele, Siria, Libano, Egitto, Comunità Economica Europea, Unione Sovietica e una delegazione giordano-palestinese: è la famosa Conferenza di pace di Madrid che, secondo Walt, “sebbene non abbia prodotto risultati tangibili, aveva gettato le basi per un serio sforzo per costruire un ordine regionale pacifico”. Eppure, riconosce Walt, “Madrid conteneva anche un fatidico difetto, che avrebbe generato innumerevoli problemi nei decenni successivi”: a Madrid, infatti, mancava l’Iran. Non la presero proprio benissimo, diciamo; come osservava Trita Parsi nel suo Treacherous Alliance, infatti, “l’Iran vedeva in Madrid non solo una conferenza sul conflitto israelo-palestinese, ma come il momento decisivo nella formazione del nuovo ordine in Medio Oriente” e ovviamente, da grande potenza regionale quale indubbiamente era e continua ad essere, “si aspettava un posto a tavola”. E visto che quel posto a tavola non c’era, decise di prenotare un tavolo tutto suo in un ristorante diverso. Ospiti d’onore: Hamas e la Jihad islamica, due gruppi della resistenza palestinese in odor di fondamentalismo,che fino ad allora non s’era cacata di pezza. “Una risposta principalmente strategica, piuttosto che ideologica”, sottolinea Walt, per “dimostrare agli Stati Uniti e agli altri che se i suoi interessi non fossero stati presi in considerazione, era in grado di far fallire i loro piani”. Che, fa notare Walt, è esattamente quello che è successo poco dopo, “quando gli attentati suicidi e altri atti di violenza estremista hanno interrotto il processo di negoziazione degli accordi di Oslo e minato il sostegno israeliano a una soluzione negoziata”.
Per arrivare al secondo capitolo della ricostruzione di Walt, invece, bisognerà aspettare un’altra decina di anni; il riferimento, ovviamente, è all’11 settembre prima e all’invasione dell’Iraq del 2003 poi, che oltre ad essere stata una carneficina di dimensioni inaudite, in grado di trasformare in sanguinarie terroriste anche le suore Orsoline, alla fine è stata pure un altro regalo all’Iran. Come ricordava ieri il Financial Times, infatti, con quella specie di piccolo genocidio democratico “Washington non aveva fatto altro che rimuovere la minaccia più imminente ed esistenziale per la teocrazia, per poi lasciarle in eredità uno stato iracheno de debole infestato di quinte colonne iraniane”; un’evoluzione, sottolinea Walt, che “ha allarmato l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo”. Da lì in poi, prosegue Walt, “la percezione di una minaccia condivisa da parte dell’Iran ha cominciato a rimodellare le relazioni regionali in modo significativo, alterando anche le relazioni di alcuni stati arabi con Israele”.
Il terzo atto di questa lenta e inesorabile tragedia, poi, arriverà nel 2015, quando l’amministrazione Trump deciderà di abbandonare unilateralmente il patto per il nucleare iraniano. Una decisione scellerata che ha indotto l’Iran a “riavviare il suo programma nucleare e avvicinarsi molto a possedere finalmente la bomba” e, di conseguenza, ha indotto anche l’Arabia a ritenere indispensabile lo sviluppo di un nucleare suo, magari con l’aiutino di Tel Aviv.
Il quarto atto, infine, sarebbero gli Accordi di Abramo che, secondo Walt, sono un’estensione logica del ritiro unilaterale dal patto sul nucleare: “Nati da un’idea dello stratega dilettante, nonché genero di Trump, Jared Kishner” sottolinea Walt “hanno fatto relativamente poco per promuovere la causa della pace perché nessuno dei governi arabi partecipanti era attivamente ostile a Israele o capace di danneggiarlo”.

Che il piano di Trump per il Medio Oriente fosse totalmente fallimentare l’aveva capito addirittura un pezzo di classe dirigente USA e così tra le promesse elettorali di Biden, ecco che fa capolino l’intenzione di tornare a sottoscrivere il patto sul nucleare che però, appunto, rimane solo un’intenzione, e forse manco quella. In compenso Biden si è astenuto scientificamente dal provare a ostacolare in qualche modo la deriva ultra-reazionaria del governo israeliano, ormai esplicitamente clerico-fascista e impegnato a sostenere la ferocia estremista di coloni criminali che hanno spinto a un ulteriore radicalizzazione la maggioranza della popolazione palestinese. Intanto l’amministrazione Biden, nonostante la riapertura dei rapporti diplomatici tra sauditi e iraniani raggiunta grazie alla mediazione cinese, puntava tutto sul geniale Patto di Abramo del geniale Jared Kushner ma questa opzione, sottolinea Walt, “aveva poco a che fare con la pace tra israeliani e palestinesi, ed era piuttosto finalizzata esclusivamente a impedire un ulteriore avvicinamento dei sauditi alla Cina”. Insomma, la questione palestinese è completamente uscita dai radar: “Come il primo ministro Netanyau e il suo gabinetto” sottolinea Walt “i massimi funzionari statunitensi sembrano aver dato per scontato che non ci fosse nulla che un gruppo palestinese potesse fare per far deragliare o rallentare questo processo o attirare nuovamente l’attenzione sulla loro difficile situazione. Sfortunatamente” continua Walt “questo presunto accordo, invece, ha rappresentato per Hamas un potente incentivo a dimostrare quanto fosse sbagliata questa ipotesi”. Secondo Walt, quindi, il tipo di azione e la sua tempistica non sono stati altro che una risposta di Hamas – da questo punto di vista perfettamente razionale – “a sviluppi regionali che sono stati guidati in misura considerevole da preoccupazioni di tutt’altro genere”. Insomma, sottolinea Walt, “dagli accordi di Oslo Washington ha monopolizzato la gestione del processo di pace, ma i suoi sforzi alla fine non hanno portato assolutamente a nulla, e nel corso degli anni la soluzione dei due stati non ha fatto che allontanarsi sempre di più fino a diventare oggi probabilmente impossibile”. Un fallimento totale che offre un assist preziosissimo alle potenze che più coerentemente si battono per l’emergere di un nuovo ordine multipolare che, da questo punto di vista, risulterebbe semplicemente necessario, di fronte all’unipolarismo USA che, molto banalmente, non riesce a garantire la sicurezza per nessuno: “Gli Stati Uniti gestiscono da soli la regione da più di 3 decenni, e con quali risultati?” si chiede Walt: “assistiamo a guerre devastanti in Iraq, Siria, Sudan e Yemen” elenca Walt. “Il Libano è in fin di vita, in Libia c’è l’anarchia, l’Egitto sta barcollando verso il collasso. I gruppi terroristici si sono trasformati, e continuano a seminare terrore in tutti gli angoli del pianeta, mentre l’Iran si avvicina sempre di più alla bomba. Non c’è né sicurezza per Israele, né giustizia per la Palestina. Ecco cosa ottieni quando lasci che a gestire tutto sia Washington. A prescindere dall’idea che ognuno di noi ha su quali siano le reali intenzioni di Washington, il dato è che i leader USA ci hanno ripetutamente dimostrato che non hanno la saggezza e l’obiettività necessarie per ottenere risultati positivi. Nemmeno per se stessi”.

in foto: Joe Biden

Dall’altra parte c’è la Cina che può vantare il fatto di aver costruito relazioni costruttive con tutti gli attori regionali senza eccezione, al punto da riuscire a far tornare a dialogare anche due acerrimi nemici storici come Arabia Saudita e Iran: “non è ovvio che il mondo trarrebbe beneficio se il ruolo degli Stati Uniti diminuisse e quello dei cinesi aumentasse?”. Ovviamente quella di Walt, che come Mearsheimer è un conservatore e non ha nessuna simpatia per l’ascesa cinese e del sud globale in generale, è una provocazione e un campanello d’allarme: “se anche tu pensi che affrontare la sfida di una Cina in ascesa sia una priorità assoluta” scrive infatti “potresti voler riflettere su come le azioni passate degli USA hanno contribuito alla crisi attuale”. Walt infine, al contrario di quanto sosteniamo noi da giorni, riconosce all’amministrazione Biden lo sforzo in queste ore di provare a contenere l’escalation del conflitto, “ma” sottolinea “il team di politica estera dell’amministrazione assomiglia più a una squadra di meccanici che non di architetti” e potrebbe non essere minimamente attrezzato ad affrontare un’epoca in cui “l’architettura istituzionale della politica mondiale è sempre più un problema e sono necessari nuovi progetti. E’ ovvio” insiste Walt “che hanno interpretato male la direzione in cui era diretto il Medio Oriente, e l’applicazione dei cerotti oggi – anche se viene fatta con energia e abilità – lascerà comunque le ferite sottostanti non curate. Se il risultato finale delle attuali amministrazioni di Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken fosse semplicemente un ritorno allo status quo pre 7 ottobre” conclude Walt “temo che il resto del mondo starà a guardare, scuoterà la testa con sgomento e disapprovazione, e concluderà che è arrivato il tempo per un approccio diverso”.
Se anche tu, quando vedi rimbambiden e i suoi vassalli in giro per il mondo, scuoti la testa e pensi che sarebbe arrivato il momento per un approccio leggermente diverso, aiutaci a costruire il primo media che guarda al mondo nuovo che avanza senza le lenti annebbiate dei vecchi babbioni suprematisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Trappola o opportunità? Perché Hamas ha deciso di agire proprio adesso

Quando entrò per la prima volta a Gaza con l’esercito inviato da Netanyahu per smantellare la fitta rete di tunnel che Hamas aveva scavato per nascondere i suoi combattenti e intrufolarsi nel territorio israelino”, racconta il Financial Times, “Eyal aveva 26 anni. Nove anni dopo, sta aspettando che Netanyahu ce lo rimandi di nuovo, sempre a combattere contro lo stesso nemico. Ma questa volta Eyal sa esattamente cosa sta aspettando lui e i suoi compagni”.

in foto: Ehud Olmert | Government Press Office (Israel)

Un incubo, tranne che è reale”, avrebbe affermato il soldato israeliano: “tutto ciò che tocchi potrebbe essere una bomba, chiunque vedi potrebbe essere un terrorista. Ogni passo potrebbe essere l’ultimo”.
Non prova a indorare la pillola neanche l’ex primo ministro Ehud Olmert che a suo tempo, nel 2008, fu il primo a inviare l’esercito via terra dentro Gaza, e secondo il quale oggi ad attendere i soldati israeliani ci sarebbe “tutto quello che si può immaginare, e anche peggio”. Visto il flop colossale della tanto decantata intelligence israeliana infatti, è difficile escludere che gli israeliani possano imbattersi in “nuovi razzi ben più grandi e potenti, e nuove armi anticarro con cui non abbiamo familiarità”. Il problema poi, sottolinea il Financial Times, è che a differenza che nell’operazione Piombo Fuso – che aveva come unico obiettivo la distruzione dei tunnel scavati dai miliziani in alcuni punti strategici – ora l’obiettivo sarebbe nientepopodimeno che estirpare Hamas in toto, “una missione così complessa e impegnativa che non è chiaro quanto tempo impiegherà e quante vite, sia israeliane che palestinesi, potrebbe costare”.
Da quando i soldati israeliani sono entrati a Gaza via terra l’ultima volta nel 2014, continua il Times, “Hamas ha accumulato un formidabile arsenale di razzi e ha costruito quella che ha ribattezzato la “metropolitana di Gaza”, un reticolo inestricabile di tunnel e depositi sotterranei che si estende per centinaia di chilometri e che permette a miliziani che, nel frattempo, si sono addestrati al meglio per i combattimenti urbani, di spostare armi e uomini senza essere scoperti”.
Secondo quanto riportato dal Washington Post, l’operazione di sabato è stata preparata nell’arco di poco meno di due anni, e così anche le trappole che attendono gli israeliani qualora si avventurassero in un’invasione via terra.
Prima che le forze israeliane possano raggiungere le roccaforti urbane di Hamas”, specifica il Times, “dovranno violare una serie di linee difensive che includeranno mine, luoghi di imboscate e bersagli di mortaio; mortai pesanti, mitragliatrici, armi anticarro, cecchini e attentatori suicidi sono pronti ad accoglierli alla periferia delle città di Gaza”.
La questione si riduce a una cosa” avrebbe dichiarato Olmert. Siamo pronti a intraprendere un’azione che comporterà un grande rischio per i soldati israeliani? O sceglieremo una strategia che causerà la tragica morte di un numero maggiore di persone non coinvolte? Da quello che so dell’opinione pubblica israeliana in questo momento, la spinta sarà quella di correre meno rischi”. Il riferimento ovviamente è ai bombardamenti aerei, che difficilmente però possono cogliere l’obiettivo dichiarato di decapitare una volta per tutte Hamas; per farlo, dovrebbero radere al suolo letteralmente tutto. Gli altri paesi arabi permetteranno che avvenga senza muovere foglia?
La pianificazione dell’operazione ha richiesto fino a due anni, secondo diversi resoconti dei leader di Hamas”, scrive Al Jazeera, “e la profondità e la portata dell’attacco non hanno precedenti e hanno colto Israele di sorpresa. La domanda è “perché proprio adesso”?”.
Ovviamente ce lo siamo chiesti un po’ tutti; secondo Al Jazeera, “la mossa di Hamas è stata innescata da tre fattori”.
Il primo, sarebbero le politiche del governo israeliano nei confronti dei coloni in Cisgiordania. Il governo Netanyahu ha optato in modo esplicito e plateale per la copertura totale di qualsiasi genere di crimine commesso dai suoi coloni, scatenando l’ira della popolazione palestinese che è alla disperata ricerca di una rappresentanza politica che – al contrario dell’Autorità Nazionale Palestinese, considerata, e non certo a torto, totalmente connivente – trovi la forza di reagire.
Inoltre, come abbiamo già anticipato in alcuni video precedenti, l’ondata di rabbia scatenata da questa escalation di prepotenza suprematista e coloniale, “ha reso necessario lo spostamento delle forze israeliane dal sud al nord per proteggere gli insediamenti”, offrendo ad Hamas un’opportunità enorme.
In secondo luogo”, continua Al Jazeera, “la leadership di Hamas si è sentita obbligata ad agire a causa dell’accelerazione della normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e israeliani. Negli ultimi anni, questo processo”, infatti, avrebbe “ulteriormente diminuito l’importanza della questione palestinese per i leader arabi, che sono diventati meno propensi a fare pressioni su Israele su questo piano”.

Il riferimento ovviamente, in particolare, è agli accordi di Abramo e all’avvicinamento tra israeliani e sauditi, che – sottolinea Al Jazeera, avrebbe rappresentato “un punto di svolta nel conflitto arabo-israeliano, che avrebbe allontanato ancora di più le già flebili possibilità di approdare un giorno sul serio alla soluzione dei due Stati”.
Il terzo e ultimo punto del mini-catalogo di Al Jazeera infine, avrebbe a che fare con i rapporti con l’Iran che sono meno lineari di quanto spesso si supponga. Intanto – come saprete – Hamas è un’organizzazione sunnita; ciò nonostante a partire dal 2006, quando Hamas vince regolarmente le elezioni prima e comincia ad amministrare la striscia di Gaza poi, il sostegno del regime di Teheran diventa essenziale. Gli aiuti internazionali, infatti, nel frattempo svaniscono come neve al sole: non sia mai che a Gaza si abituino troppo bene e diventino dei fannulloni come tutti i percettori del reddito di cittadinanza.
L’autorità nazionale palestinese a Gaza si ritrova così sull’orlo della bancarotta, e a metterci una pezza sono gli iraniani che però non sempre vengono ricambiati; ad esempio quando, 5 anni dopo, scoppia la guerra mondiale per procura in Siria e Hamas e Iran si piazzano sui lati opposti della barricata: dalla parte di Assad gli iraniani, da quella delle organizzazioni jihadiste sunnite che puntano al cambio di regime Hamas, nonostante Assad stesso li ospitasse da anni a Damasco.

Forse speravano di venire anche loro candidati al nobel per la pace come gli amici di Al Nusra e invece, macché: rimangono fregati.
Agli occhi degli occidentali, inspiegabilmente, continuano comunque ad essere sempre e solo un’organizzazione terroristica, e anche a quelli iraniani – da lì in avanti – proprio proprio simpaticissimi non devono essere sembrati. Ed ecco così che gli aiuti vengono sospesi. Hamas allora trova un altro sponsor ufficiale nel Qatar, dove trasferisce il suo quartier generale; poco dopo però perde un altro dei suoi alleati fondamentali, l’Egitto dei Fratelli Musulmani. Grazie ai rapporti con Mubarak prima e Morsi dopo, infatti, Hamas gestiva un traffico fiorente con l’Egitto attraverso il valico di Rafah. Una valvola di sfogo fondamentale che però viene a mancare quando, nel luglio del 2013, Morsi viene deposto attraverso il colpo di stato perpetrato dal suo stesso ministro della difesa, il generale Al Sisi. Gli uomini di Hamas allora tornano col cappello in mano a Tehran – che prima fanno un po’ i preziosi, ma alla fine cedono: da allora l’Iran è tornato ad essere lo sponsor principale del movimento palestinese e, dopo l’Iran, Hamas ha ricucito i rapporti anche con la seconda milizia di Gaza, la Jihad Islamica palestinese legata a doppio filo appunto a Teheran, poi con Hezbollah e infine addirittura con Damasco, dove nell’ottobre del 2022 si è recata in pompa magna con una nutrita delegazione.
Sono i movimenti tellurici che da un po’ di tempo a questa parte stanno attraversando tutti i paesi musulmani dell’area e a tratti sembrano far intravedere la possibilità di un lento e faticoso percorso di riconciliazione, movimenti tellurici che, sostiene Al Jazeera, avrebbero rafforzato Hamas più di quanto previsto, permettendole di arrivare attrezzata a questo ultimo appuntamento.

A nostro avviso però al tricalogo di Al Jazeera manca un punto essenziale: il contesto generale, proprio generale generale, intendo, quello che vi raccontiamo un giorno si e l’altro pure; il declino del nord globale e lo spostamento graduale, e a volte manco più di tanto, dei rapporti di forza verso un nuovo ordine, dove quella delle potenze ex o ancora attualmente coloniali non sia più l’unica a contare davvero.
Il punto è che Hamas sapeva, ovviamente, benissimo che Israele non avrebbe potuto che reagire con fermezza all’operazione scattata sabato scorso, e però sapeva benissimo anche che Israele a quel punto si sarebbe trovata di fronte al grande dilemma: incursione via terra da un lato – che è paradossalmente relativamente meno devastante in termini di perdite civili ma sottopone le forze armate israeliane a enormi rischi – o una bella campagna aerea di bombe democratiche per salvare i valori occidentali dall’altro, che è a rischio quasi zero ma implica un massacro di dimensioni inaudite. Come ha detto Olmert, ovviamente la seconda opzione sarebbe quella più naturale e quella che trasformerebbe una vittoria della resistenza in una sorta di carneficina autoindotta. Un’opzione che però un costo politico per Israele ce l’ha comunque, perché imporrebbe ai vicini arabi (dove, ricordiamo, l’opinione pubblica è per la stragrande maggioranza ultra – solidale con la causa palestinese) di condannare il regime sionista, e molto probabilmente pure di non limitarsi a farlo soltanto a chiacchiere.
E’ proprio in chiave di deterrenza contro questa reazione che gli USA si sono affrettati a mostrare i muscoli nel sostegno incondizionato all’alleato, in particolare grazie all’invio di due gruppi di portaerei nel Mediterraneo orientale “come parte di uno sforzo”, sottolinea il Wall Street Journal, “per dissuadere l’Iran e il suo protetto libanese, Hezbollah, dall’unirsi al conflitto e dallo scatenare potenzialmente una guerra regionale che potrebbe coinvolgere oltre all’Iran anche le altre nazioni del Golfo Persico”. E qui però arriviamo finalmente al punto: perché siamo proprio sicuri che gli USA, anche col sostegno dei suoi alleati, volendo, sia ancora oggi in grado di esercitarla fino in fondo tutta questa deterrenza? Insomma, come si chiede William Van Wagenen su The Cradle: “Ucraina vs Israele: può l’Occidente armare entrambi? Israele avrà bisogno del sostegno degli Stati Uniti per sopravvivere allo scontro con la resistenza palestinese e i suoi alleati regionali, già collaudati in battaglia. Ma competerà direttamente con l’Ucraina, alleata degli Stati Uniti, per le armi e i fondi occidentali in continua diminuzione”. Van Wagenen ricorda come, già nel 2006, fronteggiarsi con la sola Hezbollah per Israele non fu esattamente una passeggiata di piacere: “Secondo Matt Matthews del Combat Studies Institute dell’esercito americano”, riporta Van Wagenen, “Israele si rivelò in realtà tristemente impreparato a combattere una “vera guerra” di quel tipo”. E “il capo del Mossad Meir Degan e il capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, dissero apertamente all’allora primo ministro Ehud Olmert che “la guerra è stata una catastrofe nazionale e Israele ha subito un duro colpo””. Per combattere quella guerra, Israele fu costretto a chiedere di poter accedere alle scorte del War Reserves Stock Allies, le scorte che gli USA immagazzinano in Israele just in case, ma “nel giro di soli 10 giorni di combattimenti”, ricorda Van Wagenen, “Israele arrivò ad utilizzarne la gran parte”. Otto anni dopo, Israele si ritrova muso a muso con Hamas e di nuovo, nonostante la sproporzione in ballo, per portare a casa la pagnotta eccola costretta a ridare fondo sempre a quelle scorte. E oggi, sostiene Van Wagenen, se l’Asse della Resisitenza deciderà e riuscirà davvero a compiere un’”unificazione dei fronti”, le guerre del 2006 e del 2014 appariranno passeggiate di piacere.
Come ha dichiarato un paio di giorni fa al Wall Street Journal David Wurmer, consigliere per il Medio Oriente dell’ex vicepresidente Dick Cheney, “Lo scenario da incubo per gli israeliani è che per una settimana o due abbattano dai 6.000 ai 10.000 missili di Hamas, e poi non gli rimanga più nulla per fermare i missili Hezbollah”. Ma non solo, perché se anche l’Iran – a un certo punto – dovesse decidere di unirsi al conflitto, allora si che sarebbero dolori: come ricorda sempre Van Wagenen infatti, Stati Uniti e Israele parlano continuamente della minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano “ma raramente menzionano la minaccia ben più immediata e concreta rappresentata dal suo fiorente programma missilistico convenzionale”.
Insomma, nonostante le portaerei giganti e i fantomatici imbattibili caccia americani, in realtà ce n’è a sufficienza per impegnare gli USA in una potenziale guerra lunga e costosissima prima ancora di essersi ripresi dalle scoppole che, ormai da un po’, non fanno che raccogliere sul fronte della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. Come scrive sempre Van Wagenen, mentre “la pila dei recenti fallimenti da parte degli stati uniti continua a crescere”, la sua capacità deterrente potrebbe non essere esattamente in grado di mantenere un po’ di ordine con un po’ di paura. La morale, conclude Van Wagenen, è che “dichiarando guerra totale alla popolazione civile di Gaza,  Israele ha già iniziato una lotta che potrebbe non essere in grado di terminare. Per Tel Aviv, Gaza è sempre stata un frutto a portata di mano: il sacco da boxe che cerca quando ha bisogno di sembrare dura. Ma oggi, un passo falso, un missile mal puntato, o un passo troppo lontano, e Israele si potrebbe trovare ad affrontare una guerra regionale alla quale potrebbe non essere in grado di resistere per un periodo di tempo significativo”.
Qualche settimana fa, con un pronostico degno del migliore Piero Fassino, avevamo espresso la speranza che di fronte ai nuovi equilibri che si stanno consolidando in Medio Oriente dopo la storica riapertura del dialogo tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla Cina, e di fronte all’impossibilità per gli USA di garantire a chicchessia la sicurezza nell’area, anche Israele – magari grazie alla mediazione proprio della Russia che considera a ragione un interlocutore affidabile – sarebbe potuto un giorno scendere a più miti consigli e si sarebbe potuto lasciar tentare dal cominciare a trovare una soluzione ai suoi problemi di sicurezza attraverso il dialogo con gli ex nemici regionali, da ribrandizzare come partner. Da quell’equazione, come dei Jake Sullivan qualsiasi, avevamo tenuto fuori colpevolmente la questione palestinese; l’azione di Hamas e del resto della resistenza palestinese ci ha ricordato drammaticamente che a farsi cancellare definitivamente dalla storia per ora non si sono ancora rassegnati.
L’unica via realistica per uscire da tutta questa faccenda senza imbarcarsi in altri 20 anni di destabilizzazione totale dell’area potrebbe essere proprio ripartire da quel ragionamento, ma con in più una soluzione finalmente ragionevole e dignitosa per la questione palestinese, come d’altronde – molto più saggiamente di noi – non si sono mai stancati di dire i cinesi:ogni crisi è anche un’opportunità. Non rinunciamo a coglierla, e restiamo umani.

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