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Tag: accordi di abramo

Il regime feudale saudita prova a salvarsi abbonando agli USA lo sterminio dei palestinesi

Dopo settimane e settimane di pipponi pieni di speranza sulle magnifiche sorti e progressive del nuovo ordine multipolare, l’implosione dell’imperialismo – e, già che ci siamo, pure del lato più feroce e distopico del capitalismo che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni – oggi, invece, è una giornata di lutto; nonostante tutto il nostro wishful thinking e gli sforzi disumani messi in campo dalle diplomazie russe e cinesi, alla fine sembra proprio avesse ragione Matteo Renzi: nei regimi monarchici assolutisti del Golfo spira un vento di rinascimento. E quando un sicario del volto più feroce del capitalismo monopolista finanziario come Renzi parla di rinascimento, per noi e per il 99% può significare una cosa sola: enormi, giganteschi, smisurati cazzi volanti che si insinuano dal buco del culo, risalgono su su lungo tutto l’intestino fino all’esofago e ci sventrano in due.
A conclusione della sessione speciale del World Economic Forum che si è tenuta a Riad nei giorni scorsi, infatti, il segretario di stato USA Anthony Blinken e quello Saudita Faisal bin Farhan hanno annunciato all’unisono che i negoziati per un accordo di sicurezza tra i due paesi sarebbero quasi completati e anche se in cosa consisterebbe questo accordo nel dettaglio nessuno ancora lo sa, i pilastri principali sembrano essere piuttosto chiari e non lasciano presagire nulla di buono: in soldoni, riporta la testata della sinistra antimperialista libanese Al Akhbar, si tratterebbe di un obbligo di difesa del regime assolutista dei Saud da parte di Washington, sulla falsariga di quelli in essere con Corea del Sud e Giappone; un primo passo per arrivare in futuro, magari, a un vero e proprio vincolo di mutuo soccorso come quello in vigore tra i paesi che aderiscono alla NATO, ma non solo. L’accordo prevederebbe, infatti, anche la rinuncia da parte saudita di proseguire sulla strada della cooperazione tecnologica con i nemici degli USA e dell’imperialismo, a partire – ovviamente – dalla Cina. I più schierati, come la testata filo iraniana Al Mayadeen, cercano a tutti i costi di vedere il bicchiere mezzo pieno e sottolineano come si tratti in realtà di un “piano B, che esclude Israele”, ma pur con tutta la buona volontà e con tutti i distinguo dal trionfalismo becero della propaganda suprematista al servizio dell’impero, a questo giro a noi sembra ci sia veramente molto poco da festeggiare. Ma prima di provare a capire per bene perché, vi ricordo di mettere un like a questo video perché, che si vinca o che si perda, ora e sempre algoritmo merda e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche (soprattutto oggi, che non abbiamo molto altro da festeggiare).
Prima che il 7 ottobre scorso l’operazione diluvio di al aqsa riaprisse la partita, molti analisti occidentali davano per quasi fatta l’adesione definitiva della monarchia assoluta saudita agli accordi di Abramo, il piano architettato dall’amministrazione criptofascista di parrucchino The Donald e, dopo alcuni tentennamenti, fatto proprio dal compagno Rimbambiden che cercava di garantirsi l’egemonia imperialista sul Medio Oriente permettendo, allo stesso tempo, agli USA di disimpegnarsi dalla gestione diretta della sicurezza dell’area: l’idea era quella di consolidare l’alleanza strategica tra l’avamposto sionista dell’imperialismo USA e le fazioni più retrograde e reazionarie dell’area, incarnate dai regimi assolutisti premoderni delle petromonarchie del Golfo, in modo da creare un blocco sufficientemente potente da poter contrastare la lotta sovranista e popolare per la decolonizzazione del Medio Oriente – guidata dall’Iran e dall’asse della resistenza – senza dover necessariamente continuare a ricorrere direttamente a Washington. Grazie alla rivoluzione avviata dal compagno Obama che, a costo di devastare completamente gli Stati Uniti manco fossero la Cina dei primi anni ‘80, ha regalato al suo paese l’autosufficienza energetica a suon di fracking, l’interesse concreto diretto degli USA per le ricchezze del sottosuolo mediorientale, ovviamente, è diminuito sensibilmente; quello che ancora non è diminuito – anzi, semmai è aumentato – è l’obiettivo di impedire che altre aree del mondo escano dalla sfera d’influenza dell’imperialismo e vadano a rafforzare le fila di chi cerca spazi di autonomia strategica e contribuisce alla creazione di un nuovo ordine multipolare, soprattutto se, appunto, si tratta di aree che per la ricchezza di materie prime indispensabili per continuare ad alimentare la crescita (in particolare cinese) hanno un valore strategico così rilevante.
Il piano USA, però, era stato ostacolato a più riprese da una lunga serie di avversità: la debacle di USA e alleati che, tramite i loro proxies fondamentalisti, avevano causato la guerra mondiale per procura in Siria, aveva sollevato più di qualche dubbio sulla reale capacità della superpotenza militare a stelle e strisce di garantire la sicurezza agli alleati dell’area, un dubbio che era diventato sempre più concreto mano a mano che si manifestava l’incapacità di arrestare la lotta di liberazione dello Yemen guidata da Ansar Allah. Cosa che, nel tempo, aveva spinto Riad a cercare una qualche forma di distensione, perlomeno temporanea, con l’Iran; una distensione che poi si era evoluta in una vera e propria riapertura ufficiale dei rapporti diplomatici grazie all’intermediazione della Cina che, nel frattempo, è diventata di gran lunga il primo partner commerciale dell’Arabia Saudita, della quale assorbe il grosso del petrolio che agli USA non serve più. Ma non solo; con lo scoppio della fase 2 della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’imperialismo ha dato un’ulteriore prova di debolezza: ha intaccato ancora di più il mito dell’invincibilità della macchina bellica USA e ha spinto i sauditi a intensificare le relazioni con i partner impegnati nella costruzione di un nuovo ordine multipolare, fino addirittura ad aderire ufficialmente ai BRICS+.

Jamal Ahmad Khashoggi

Inoltre, c’è anche un aspetto sovrastrutturale che ha spinto Riad sempre più verso est; e la sovrastruttura, quando hai a che fare con un paese premoderno che, quindi, assomiglia davvero alla caricatura che fanno gli analfoliberali alla Rampini di paesi complessi come la Cina o la Russia – dove, secondo loro, c’è uno che si sveglia la mattina e prende decisioni a caso a seconda dell’umore – conta parecchio. L’aspetto in questione è la reazione di Biden all’assassinio (con tanto di spezzettamento in pieno stile pulp) del povero Jamal Khashoggi, che ha visto sleepy Joe impegnato nel tentativo di fare contenta la sua base di ipocriti fintoprogressisti e bombaroli dirittumanisti accusando apertamente gli alleati sauditi e raffreddando platealmente i rapporti; ciononostante, l’ombra dell’accordo di Abramo e, quindi, di un ritorno all’ovile del sostegno al progetto neocoloniale dell’impero continuava a incombere: d’altronde, il regime saudita è un regime premoderno e antistorico che può sperare in una sua sopravvivenza nella sua forma attuale soltanto ancorandosi a un progetto più complessivo di repressione generalizzata delle istanze popolari nel Medio Oriente. Inoltre le oligarchie saudite, come quelle dei fratelli coltelli emiratini, anche se ora si stanno un po’ divertendo a giocare con un po’ di investimenti produttivi per differenziare l’economia ed emanciparla gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili, sono totalmente integrate nel grande schema Ponzi della speculazione finanziaria globale e, quindi, vedono nella sopravvivenza dell’imperialismo finanziario un loro interesse vitale.
C’è anche un altro aspetto, poi, da tenere in considerazione, che è di nuovo frutto della guerra per procura in Ucraina, ma che spinge in direzione opposta e, cioè, il fatto che la graduale scomparsa del petrolio russo dall’Europa come conseguenza delle sanzioni apriva un’opportunità straordinaria per Riad per emanciparsi dalla dipendenza da Pechino come principale acquirente, variabile di non poco conto soprattutto dal momento che mentre Pechino la transizione ecologica la sta facendo davvero, l’Europa la fa solo a chiacchiere e, fra pochino, manco più con quelle. Poi, però, è arrivato il 7 ottobre e, soprattutto, il genocidio dei palestinesi del quale, ovviamente, a Bin Salman e alla sua cricca di oligarchi non gliene può fregare di meno; ai popoli del Medio Oriente, però, sì e quindi, per non regalare l’egemonia su tutta l’area all’Iran e all’asse della resistenza, Riad ha dovuto far finta di essere indignata. Certo, non che abbia mosso mezzo dito per contrastare la pulizia etnica, ma, per lo meno, ha dovuto rimandare ogni possibile trattativa con Israele a sterminio completato.
Ed ecco che, finalmente, siamo arrivati a oggi: Stati Uniti e Arabia Saudita si avvicinano al patto di difesa inteso a rimodellare il Medio Oriente titolava ieri entusiasta Bloomberg; “Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita” commenta l’articolo “si stanno avvicinando a un patto storico che offrirebbe garanzie di sicurezza al regno e traccerebbe un possibile percorso verso legami diplomatici con Israele”. “L’accordo” concede Bloomberg “deve affrontare numerosi ostacoli, ma equivarrebbe a una nuova versione del piano che è stato affondato quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele ha innescato il conflitto a Gaza. I negoziati tra Washington e Riad infatti hanno subito un’accelerazione nelle ultime settimane, e molti funzionari sono ottimisti sul fatto che potrebbero raggiungere un accordo entro poche settimane”; “Un simile accordo” continua l’articolo “rimodellerebbe potenzialmente il Medio Oriente e oltre a rafforzare la sicurezza di Israele e dell’Arabia Saudita, rafforzerebbe la posizione degli Stati Uniti nella regione a scapito dell’Iran e persino della Cina”. Secondo Bloomberg l’accordo garantirebbe ai sauditi l’accesso a sistemi d’arma USA prima preclusi, in cambio del quale il principe Bin Salman sarebbe disposto a limitare l’ingresso di tecnologia cinese a patto che gli USA aiutino il regno a sviluppare tecnologia nei campi dell’intelligenza artificiale, del quantum computing e dell’energia nucleare, un aut aut che ha già portato a un successo USA negli Emirati dove g42, l’azienda leader dell’intelligenza artificiale, ha accettato di porre fine alla cooperazione con la Cina in cambio di un investimento da parte di Microsoft; “Una volta raggiunto l’accordo” continua Bloomberg, l’ipotesi è che venga presentato a Netanyahu che, a quel punto, potrà decidere “se aderire, e quindi stabilire per la prima volta legami diplomatici con l’Arabia Saudita, e approfittare di maggiori investimenti e di maggiore integrazione economica regionale, o essere messo da parte”.
“Le condizioni poste a Netanyahu però non sarebbero roba da poco” e cioè “porre fine alla guerra di Gaza e accettare un percorso verso uno Stato palestinese”: “Si tratta di un atto strategico tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che ha lo scopo di proteggere e consolidare la posizione dell’America in Medio Oriente in un momento in cui il regno stava diversificando le sue opzioni di politica estera e allontanandosi da Washington” ha affermato Firas Maksad del Middle East Institute; le condizioni che i sauditi imporrebbero a Netanyahu sono sicuramente complicate per Israele, soprattutto se considerato che fino a pochi mesi fa “se non fossero stati attaccati con il diluvio di al aqsa” come sottolinea Al Akhbar “erano quasi riusciti a farla franca con un accordo simile del tutto gratuitamente” e, cioè, senza nessuna richiesta aggiuntiva. A ben vedere, però, il problema del cessate il fuoco, molto banalmente, non fa che rimandare l’estensione dell’accordo a Israele a quando avrà completato la sua opera di sterminio e di pulizia etnica e quello di “accettare un percorso verso uno stato palestinese” non sarebbe altro che una riproposizione ancora più farsesca della gigantesca presa per il culo che è stata Oslo, con in più la Palestina ormai sostanzialmente ridotta a due grandi campi profughi che non hanno nessunissima possibilità concreta di formare uno Stato minimamente autonomo; in sostanza, sottolinea Al Akhbar, USA e Israele sembrano considerare il regno una sorta di “moglie che cerca di migliorare le sue condizioni di vita nella sua casa coniugale, ma non ha alternative al marito anche se non le dà ciò che chiede, il che potrebbe significare che l’Arabia Saudita alla fine potrebbe scegliere di accettare la normalizzazione accontentandosi delle garanzie americane, ma senza ottenere alcuna concessione da parte del nemico israeliano”.
Alla fine, il sanguinario regime distopico sionista e quello feudale saudita sembrano essere uniti da un’esigenza comune che sovrasta tutte le altre: che gli USA non abbandonino l’area, per garantire con la sua superpotenza militare che i loro regimi contrari agli interessi del 99% non vengano travolti dalle lotte popolari e anticoloniali – che è l’unico aspetto a cui, a questo giro, ci possiamo attaccare per vedere comunque le difficoltà che gli USA incontrano per perpetrare il loro sistema imperialistico nonostante il declino; dall’Ucraina al Medio Oriente, il loro impero, per rimanere in piedi, non si può affidare interamente ai proxies, ma richiede il loro impegno diretto. E l’impegno diretto su tutti i fronti caldi della guerra dell’imperialismo contro il resto del mondo è un compito che, comunque, va oltre le loro possibilità. Per chi, proprio a causa della ferocia imperialista, è costretto a fare lo slalom tra le bombe o a rischiare di essere fucilato mentre è in fila nella speranza di ricevere un tozzo di pane, potrebbe non essere una consolazione sufficiente; la grande battaglia di liberazione globale per mettere fine all’imperialismo e costruire un nuovo ordine multipolare più equo e democratico è un’esigenza storica inaggirabile. Pensare che sia un percorso lineare che porta verso il sol dell’avvenire sarebbe puerile: la battaglia è appena cominciata e, forse, l’unica nota veramente positiva di oggi è che sappiamo che a combatterla ormai siamo in parecchi.
A partire dalle migliaia di manifestanti che nelle università americane, nonostante una morsa repressiva che se fosse avvenuta in Russia, in Cina o in Iran sarebbe bastata agli analfoliberali per chiedere di raderle al suolo, continuano a occupare strade e piazze in nome di un sogno concreto che non ci faremo rovinare dai capricci di un principe multimiliardario. Prepariamoci a una lunga battaglia e armiamoci adeguatamente per vincerla, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Renzi

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Se Israele, per evitare la catastrofe, trascina l’Occidente nella guerra totale con l’Iran

Vincere a Gaza per avere un futuro: così, ieri, la redazione del Foglio festeggiava entusiasta i 400 cadaveri che il regime suprematista di Tel Aviv si è lasciato alle spalle dopo aver esercitato il suo diritto alla difesa dell’apartheid nell’ospedale di Al Shifa e il weekend di fuoco contro le casematte iraniane in Siria e Libano, nel tentativo disperato di allargare il conflitto; chissà il giubilo quando, poi, è arrivata anche la notizia dell’assassinio mirato di 7 operatori della ONG World Central Kitchen a bordo di un convoglio umanitario perfettamente riconoscibile e che aveva coordinato i suoi spostamenti con le forze armate israeliane (per farsi colpire meglio): d’altronde, è così che dimostrano la forza i liberali che non si fanno distrarre dalla retorica dei buoni sentimenti. L’entusiasmo trionfante del Foglio, però, anche a questo giro non è condiviso proprio da tutti, nemmeno nel cuore dell’impero: a sollevare qualche perplessità su Asia Times, ad esempio, ci pensa Michael Brenner che, grazie a decine di pubblicazioni tra Cambridge University Press – il centro per gli affari internazionali dell’università di Harvard – e il Brooking Institute, rischia di poter vantare un po’ di autorevolezza in più rispetto a dei sedicenti fautori del mercato e dello Stato minimo, che senza i contributi pubblici dello Stato massimo sarebbero agli angoli delle strade a chiedere l’elemosina ; e il giudizio di Brenner è leggermente meno apologetico. “Ecco come l’Occidente si avvia alla sua fine”; “In Ucraina”, scrive, “abbiamo commesso un terribile errore geostrategico. E in Palestina” abbiamo dato un colpo mortale a “l’influenza dell’Occidente a livello globale”: il risultato è che “Due terzi dell’umanità” provano oggi “un totale disgusto di fronte alla nostra sfacciata dimostrazione di ipocrisia” che ha dimostrato come “gli atteggiamenti razzisti non si sono mai completamente estinti: dopo un periodo di letargo, la loro recrudescenza è evidente”.
Dopo essersi arrampicati sugli specchi per due anni nel tentativo di spacciare la debacle ucraina come una prova della superiorità morale dell’Occidente e la stagnazione economica, accompagnata dal crollo del potere d’acquisto delle famiglie occidentali, come una prova della resilienza dell’incubo distopico neoliberista, il nuovo cavallo di battaglia della propaganda suprematista più spregiudicata è la prova di forza di Israele che non solo non si fa intimorire dal perbenismo di chi si ostina a considerare anche popoli inferiori – come quello palestinese – esseri umani e procede nel suo sterminio di massa, ma rilancia senza indugi e riesce di nuovo a colpire dritto al cuore il cosiddetto asse della resistenza.
Ma siamo proprio sicuri che ostentare ferocia e spingere per l’allargamento del conflitto sia davvero una prova di forza? La pensa diversamente, ad esempio, il sempre ottimo magazine israelo-palestinese 972 che, nel titolo del suo ultimo editoriale, si chiede Perché Israele è terrorizzato dal cessate il fuoco?; l’articolo ricorda come, al contrario delle strampalate tesi dei democratici per il genocidio di casa nostra, “Nonostante ci siano state critiche diffuse sulla gestione del conflitto da parte di Netanyahu” e nonostante “molti israeliani condividano l’affermazione secondo la quale Netanyahu sta continuando la guerra per promuovere i suoi interessi politici e personali”, in realtà “anche i suoi oppositori, sia nel campo liberale che nella destra moderata” condividono l’idea che “la guerra non deve finire”. Il punto è che, ormai, “Anche all’interno dell’establishment della sicurezza israeliano, sempre più persone affermano apertamente che eliminare Hamas, in realtà, molto semplicemente non è un obiettivo raggiungibile”; accettare l’ipotesi di un cessate il fuoco a queste condizioni “equivarrebbe ad ammettere che gli obiettivi dell’operazione erano semplicemente irrealistici” e che, quindi, lo sterminio è stato del tutto gratuito ed insensato, una mera ritorsione del padrone indispettito dallo schiavo che ha osato alzare la testa e che, per punirlo, ha deciso di sterminargli tutta la prole. Ma non solo: “Un cessate il fuoco” sottolinea ancora 972 “costringerebbe l’opinione pubblica ebraica ad affrontare un nodo fondamentale. Se infatti lo status quo non funziona, e una guerra costante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata, allora l’unica opzione che resta è finalmente prendere coscienza della realtà: l’unico modo che gli ebrei hanno per poter vivere in sicurezza, è un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi”. Insomma: come sanno anche i bambini – a parte quelli che scrivono sul Foglio – anche in questo caso la spregiudicatezza e la ferocia, più che di forza e di sicurezza, potrebbero essere sintomi di panico e di disperazione che potrebbero non riguardare esclusivamente il governo criminale di Netanyahu e neanche solo Israele. Ma prima di addentrarci in questo ennesimo mercoledì da leoni dell’Occidente collettivo in declino, ricordatevi di mettere un mi piace a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare le notifiche; un piccolo gesto che, però, è indispensabile per aiutarci a costruire il primo vero e proprio media che dà voce al 99%.

Bret Stephens

L’editorialone a sostegno del genocidio de Il Foglio di ieri è una vera e propria perla di post-verità suprematista da incorniciare; a ispirarli, oltre agli ultimi episodi di efferata ferocia che non fanno mai male, anche un paio di editoriali sul giornale mainstream che, più di ogni altro, in questi mesi si è speso per diffondere fake news di ogni genere per giustificare il genocidio: il New York Times. A firmarli, il brillante Bret Stephens, già premio Pulitzer e incarnazione della fazione più guerrafondaia della grande famiglia neocon che, ormai, include l’intera classe politica USA, ad eccezione dei trumpiani più esagitati; Stephens, rampollo di una famiglia di ricchi dirigenti d’azienda ebrei, dal 2002 al 2004 è stato anche caporedattore del Jerusalem Post prima di portare la propaganda sionista su scala globale dalle pagine del Wall Street Journal e della NBC e l’ha fatto sempre senza troppi giri di parole: nel 2016 scatenò una polverone quando scrisse espressamente che l’antisemitismo è “la malattia della mente araba” aggiungendosi, così, alla lunga lista di negazionisti che vogliono cancellare le responsabilità storiche di cristianesimo e cattolicesimo inventandosi un primato antiebraico dell’Islam palesemente contrario alla realtà storica. Ma il meglio, in realtà, lo ha dato quando – in modo molto razionale e scientifico – ha sostenuto che gli ebrei askenaziti sono dotati di un’intelligenza superiore (anche se, a leggere i suoi editoriali, qualche dubbio rimane, diciamo): suprematista, islamofobo, di buona famiglia, guerrafondaio, sostenitore della guerra in Iraq e della leggenda delle armi di distruzione di massa, Stephens non poteva che conquistare il cuore dei troll del Foglio che, alle sue minchiate, ci aggiungono del loro. La teoria di Stephens che tanto ha fatto innamorare Il Foglio è quella di un mandato arabo per la Palestina: “L’ambizione a lunghissimo termine” scrivono le bimbe di Giuliano Ferrara “sarebbe quella di trasformare Gaza in una versione mediterranea di Dubai, grazie all’aiuto dei paesi arabi moderati”; e quali sarebbero questi paesi arabi moderati? Ovviamente, in primo luogo, Emirati e Sauditi, cioè due monarchie assolute fondate sulla lapidazione e che il Foglio definisce “allergici all’estremismo e aperti al mondo” – in particolare, al mondo delle centinaia di migliaia di lavoratori migranti ridotti in regime di schiavitù, come da sempre denunciato dalle stesse ONG che Il Foglio riporta con enfasi ogni volta le accuse riguardano paesi che non accettano il dominio dell’Impero, ma sulle quali, in questo caso, evidentemente è meglio stendere un velo pietoso; secondo Il Foglio, questi paesi potrebbero accettare di trasformare Gaza in un loro protettorato perché, se non si trova una soluzione, Gaza rischia di “dividere il mondo arabo, rafforzare l’Iran e minare il percorso di modernizzazione intrapreso dai migliori leader arabi”.
Io, però, sarà perché non ho studiato abbastanza il pensiero di Giuliano Ferrara e di Claudio Cerasa, ma la questione della modernizzazione l’avevo capita un po’ diversamente: ad esempio, avevo capito che un aspetto fondamentale della modernità era il passaggio dai sistemi feudali, dove il ruolo nel mondo era determinato dal sangue, all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e allo Stato; in questo senso, è assolutamente vero che nel Medio Oriente è in corso – e da parecchio – una lunga guerra per la modernità dove le repubbliche, anche quelle di ispirazione islamica, rappresentano l’uscita dal medioevo e le monarchie assolute la conservazione (che è, in fondo, anche il motivo profondo del dissidio tra l’asse della resistenza e le petromonarchie). L’affermazione delle forze nazionaliste e repubblicane nell’area rappresenta un rischio esistenziale per i regimi feudali del golfo che hanno come interesse principale quello di conservare un sistema di potere arcaico che esclude il popolo da ogni forma di potere; l’incoerenza con la quale le petromonarchie solidarizzano con la popolazione palestinese a chiacchiere, mentre continuano a collaborare con l’impero coloniale, sta tutta – appunto – in questa convergenza tra impero e monarchie regionali nel combattere l’avvento della modernità e, cioè, della sovranità popolare, un asse che, nell’era dell’unipolarismo a stelle e strisce, ha retto benissimo e che, nelle intenzioni di Washington, si doveva finalmente formalizzare con gli accordi di Abramo. Paradossalmente, però, nel tempo – e non senza contraddizioni – le petromonarchie si sono rivelate meno intransigenti degli alleati occidentali: nonostante l’interesse comune a perpetrare un sistema premoderno, dove la divisione tra chi comanda e chi viene comandato (tra schiavi e uomini liberi) è naturalizzata e istituzionalizzata, le petromonarchie hanno capito – prima dell’impero e delle sue propaggini regionali – che il mondo stava cambiando e che, per salvare il salvabile, era necessario scendere a qualche compromesso; ed ecco così che, di fronte al tentativo di escalation israeliano contro l’Iran rappresentato dall’attacco al consolato di Damasco, i sauditi hanno reagito tempestivamente con questo comunicato ufficiale che condanna l’accaduto. Nel frattempo, The Cradle parla di una visita di Wafiq Safa, capo dell’Unità di collegamento e coordinamento di Hezbollah negli Emirati Arabi Uniti, che “nonostante tutte le congetture”, sottolinea l’articolo, rappresenta “uno sviluppo innegabile: il tentativo di cominciare a sciogliere le ostilità di lunga data tra Hezbollah e un importante alleato arabo sia degli Stati Uniti che di Israele come gli Emirati Arabi Uniti” : per capire l’entità, basti ricordare che Safa è sulla lista delle sanzioni USA e la stessa Hezbollah è, a tutt’oggi, designata come organizzazione terroristica dagli Emirati. Al cuore di queste trattative, formalmente c’è una questione piuttosto circoscritta: il destino di alcuni prigionieri libanesi detenuti nell’emirato, ma quello che fa pensare è che “questo incontro insolito avrebbe potuto svolgersi a Damasco, in segreto. Gli Emirati invece hanno optato per una messa in onda pubblica, e hanno persino organizzato il trasporto di Safa via aereo negli Emirati”.
A voler essere ottimisti, sembrano tutti segnali di un sempre maggior isolamento di Israele che però, appunto, non si scoraggia e rilancia: la campagna israeliana volta a prendere di mira i massimi comandanti iraniani e i leader dei gruppi militanti dell’asse della resistenza va avanti da tempo, ma quello che è accaduto negli ultimi giorni potrebbe rappresentare un importante salto di qualità: prima ci sono stati gli attacchi aerei israeliani sulla provincia settentrionale siriana di Aleppo dove sarebbero rimasti uccisi, secondo un osservatore interpellato dal Financial Times, “42 persone” tra i quali “cinque combattenti del gruppo militante libanese” Hezbollah. “Se i numeri fossero esatti” sottolinea il Financial Times “sarebbe l’attacco israeliano più mortale in Siria dal 7 ottobre”; l’obiettivo sarebbero stati, in particolare, carichi di armi diretti proprio in Libano, ed era solo l’inizio: l’attacco al consolato, infatti, rappresenterebbe un’escalation ancora più vistosa, dal momento che “Le strutture diplomatiche” come ha ricordato, sempre al Financial Times, Dalia Dassa Kaye dell’Università di Los Angeles “sono viste come spazi nazionali protetti e sovrani. Un attacco a una struttura diplomatica è come un attacco al paese stesso”. A cadere nell’agguato, Mohamad Zahedi che, secondo Charles Lister del Middle East Institute, sarebbe stato nientepopodimeno che “l’uomo di riferimento per tutto ciò che il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica sta facendo in Siria e Libano”: secondo quanto riportato dalla testata libanese Al Mayadeen, il responsabile delle relazioni nel mondo arabo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina avrebbe dichiarato che Zahedi si stava “coordinando con le parti interessate per consegnare armi a Gaza”; in sostanza, secondo queste poche informazioni tutte da verificare, l’asse della resistenza sta cercando di alzare un po’ l’asticella e Israele, però, è ancora in grado di rovinargli i piani prima di ottenere risultati concreti, ma in molti sospettano che il cambio di strategia sia molto più profondo.
Quello che non torna, infatti, è che proprio mentre l’asse della resistenza alza l’asticella, gli alleati storici di Israele intensificano i canali di dialogo; Israele, quindi, comincerebbe a temere sempre di più l’isolamento e, non avendo una exit strategy ragionevole, avrebbe deciso di puntare tutto sull’allargamento del conflitto: l’allargamento del conflitto, infatti, imporrebbe un intervento ancora più massiccio da parte di Washington e, forse, anche un cambio di rotta da parte dei paesi arabi. Nessuno infatti, per motivi diversi, potrebbe in nessun caso permettere una vittoria sul campo dell’asse della resistenza: le petromonarchie perché, sotto la spinta del nazionalismo popolare, vedrebbero minacciata la tenuta dei loro regimi feudali; gli USA perché vedrebbero tutta l’area spostarsi definitivamente nella sfera d’influenza di Russia, Cina e, in generale, tutto quello che si oppone all’unipolarismo a stelle e strisce. Un collo di bottiglia strategico che giustificherebbe anche il fatto che mentre, ormai, tutti sostengono che le divergenze tra l’amministrazione Biden e il governo Netanyahu non siano esclusivamente di facciata, il sostegno concreto degli USA al genocidio non viene comunque meno, anzi: come riportava la CNN lunedì scorso, infatti, l’amministrazione Biden sarebbe a un passo da approvare la vendita di 50 nuovi F-15 a Israele per la cifra di 18 miliardi di dollari, nella “più grande vendita di armi americane a Israele dall’inizio del conflitto il 7 ottobre scorso”.
Le priorità USA appaiono quindi piuttosto chiare: 1) impedire che Israele smetta di essere la principale potenza regionale e il guardiano degli interessi dell’impero in Medio Oriente e 2) convincere Tel Aviv, gli arabi e l’asse della resistenza a non trasformare il genocidio e lo sterminio in una guerra generale che le impedisca di concentrarsi sul Pacifico per la vera grande guerra contro il nemico cinese. Le parti in causa, quindi, sarebbero sostanzialmente 4: la prima è Tel Aviv, che non può vincere la sua guerra e che potrebbe vedere nell’escalation regionale l’unica soluzione possibile; la seconda è Washington, che non può permettere a Tel Aviv di perdere, ma che non può nemmeno permettersi di impantanarsi in prima persona in una grande guerra regionale. Da questo punto di vista, l’interesse della terza parte e, cioè, del Sud globale – che è un’astrazione e non esiste – coinciderebbe paradossalmente con quello israeliano, dal momento che un’escalation, per Washington, sarebbe una tragedia che accelererebbe vertiginosamente la fine dell’unipolarismo e l’avanzata di un nuovo ordine multipolare; e, infine, c’è l’asse della resistenza che, ovviamente, condivide il grande piano di indebolire l’unipolarismo USA, ma – giustamente – deve fare i conti con il livello di distruzione che una guerra regionale comporterebbe e sulle conseguenze che potrebbe avere per la sopravvivenza stessa di alcuni Stati, dall’Iran alla Siria, e anche di potenze non statuali come Hezbollah. Quello che sappiamo è che, nel frattempo, Israele ha deciso di reagire all’impasse strategica in cui s’è infilata mettendo finalmente fine alla barzelletta dell’unica democrazia del Medio Oriente; come riporta sempre il Financial Times, da un po’ di tempo a questa parte la morsa della repressione sul dissenso interno è aumentata a dismisura: “Nurit Peled-Elhanan, una docente universitaria, si è azzardata a scrivere in un gruppo WhatsApp di insegnanti che confrontare Hamas al nazismo non era accurato, poiché il nazismo era l’ideologia di uno stato che si proponeva di sterminare le minoranze indifese sotto il suo dominio”. “Nel giro di poche ore è stata sospesa; “Era la prima volta che attaccavano un ebreo di sinistra” ha detto Peled-Elhanan”. Stessa sorte, poco dopo, è toccata a Meir Baruchin, insegnante di storia ed educazione civica; a questo giro, galeotto fu un post su Facebook con foto di abitanti di Gaza uccisi durante l’offensiva israeliana: “Intere famiglie vengono spazzate via” ha avuto l’ardire di commentare. “Nel giro di poche settimane, il comune locale l’ha licenziata e ha presentato denuncia alla polizia. Il ministero dell’Istruzione gli ha sospeso la licenza di insegnante. E infine è stato arrestato con l’accusa di tradimento, e detenuto per quattro giorni”. Lunedì sera il parlamento ha approvato una legge che dà al governo il potere di vietare le trasmissioni di Al Jazeera nel paese e di sequestrare tutti i suoi beni: Dopo le fake news sugli stupri, titolava entusiasta ieri Libero, Israele proibisce al Jazeera, l’emittente dell’odio palestinese; più che con le presunte fake news sugli stupri – che, mal che vada, non sono certo in grado di controbilanciare le fake news sui bambini decapitati, le donne squartate per estrargli il feto e altra paccottiglia che Israele impone quotidianamente alla propaganda domestica e internazionale – la stretta, in realtà, sembra collegata alla necessità di dissimulare l’esito piuttosto drammatico dell’operazione militare, da Gaza al confine col Libano. Secondo la propaganda di regime, infatti, al confine nord si sarebbero registrati 258 combattenti di Hezbollah uccisi, contro appena 10 appartenenti alle forze armate israeliane, ma “Secondo i dati sul campo ottenuti da The Cradle”, in realtà “i combattenti uccisi da Hezbollah in operazioni transfrontaliere contro lo stato occupante sarebbero oltre 230”; il trucchetto, denuncia The Cradle, consisterebbe in buona parte nell’assoldare combattenti tra le comunità beduine e druse che poi non vengono riportati, e si chiude la faccenda con un generoso assegno alle famiglie: “Ad esempio” riporta l’articolo “il 70% del 299esimo battaglione, di stanza nella zona di Hurfaish – a quattro chilometri dal confine libanese – sono membri della comunità drusa. Il battaglione ha subito numerose vittime, ma Israele ha segnalato solo una perdita fino ad oggi”.
L’impero deve fare ogni giorno i conti con i suoi limiti e con le reazioni che scatena in chi non ha nessuna intenzione di chinare la testa e le uniche armi che gli rimangono, giorno dopo giorno, sono lo sterminio indiscriminato dei più indifesi e la propaganda; impediamogli di averla vinta: continuiamo a opporci a questo genocidio con ogni mezzo necessario, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Piero Fassino















I’m just a lonely boy: come il sostegno al genocidio di Gaza sta isolando Biden e gli USA.

A gestire le decine e decine di miliardi di aiuti militari che gli USA hanno inviato all’Ucraina negli ultimi ormai poco meno di due anni, c’è un piccolissimo ufficio con appena una decina di dipendenti che negli ambienti militari statunitensi ormai sono diventati leggendari; dal giorno alla notte hanno gestito, senza battere ciglio, un aumento del carico di lavoro del 15 mila % imparando a “svolgere in poche ore quello che prima richiedeva mesi”, come riportava enfaticamente Defenseone. Tra quei 10 eroi della patria, con ruolo apicale, c’è anche lui: Josh Paul.

“Sono entrato a far parte dell’Ufficio per gli affari politico-militari (PM) più di 11 anni fa” ha scritto Josh “e l’ho trovato immediatamente un lavoro affascinante e coinvolgente, fatto di compiti e obiettivi estremamente impegnativi sia intellettualmente che moralmente. Sono molto orgoglioso” continua Josh “di aver fatto molte volte la differenza, sia visibilmente che dietro le quinte, dalla difesa dei rifugiati afghani, all’aver influenzato le decisioni dell’amministrazione sul trasferimento di armi letali in paesi accusati di mancato rispetto dei diritti umani. Quando sono arrivato in questo ufficio, che è l’ente governativo degli Stati Uniti maggiormente responsabile del trasferimento e della fornitura di armi a partner e alleati, sapevo benissimo che il mio compito era tutt’altro che privo di complessità morale e di compromessi delicati, e mi sono ripromesso che sarei rimasto finché i danni che ero costretto a fare fossero stati controbilanciati da sufficienti contributi positivi. E in questi 11 anni ho fatto più compromessi morali di quanti riesco a ricordare, ma senza mai venir meno a quel patto con me stesso”. Ma dopo 11 anni, conclude Josh, “oggi finalmente sento il dovere di andarmene”. E questa è la sua lettera di dimissioni.
A convincere Josh che ormai quel patto si era rotto, infatti, sarebbe “la fornitura continuata, anzi, ampliata, e accelerata, di armi letali a Israele” che lo ha posto di fronte a una contraddizione insanabile: “non possiamo essere una volta contrari alle occupazioni, e un’altra volta a favore. Non possiamo essere una volta a favore della libertà, e un’altra contro. E non possiamo dirci a favore di un mondo migliore, mentre contribuiamo concretamente a crearne uno peggiore”. Josh condanna senza appello l’azione di Hamas “ma sono profondamente convinto” sottolinea “che la risposta che Israele sta dando, e il sostegno americano a quella risposta, non possa che portare inevitabilmente a sempre maggiore sofferenza sia per il popolo israeliano che per quello palestinese. E alla lunga, danneggiare anche gli interessi del nostro paese”. Secondo Josh, infatti, “la risposta di questa Amministrazione – e anche di gran parte del Congresso – non è altro che una reazione impulsiva basata solo su bias cognitivi, mera convenienza politica, e una tragica bancarotta intellettuale”. Josh si dichiara enormemente deluso, ma non sorpreso: “Il fatto” sottolinea Josh “è che il sostegno cieco a una parte a lungo termine è distruttivo per gli interessi dei cittadini di entrambe”. Il timore di Josh, insomma, è che “si stiano ripetendo gli stessi errori commessi negli ultimi decenni. E io mi rifiuto di farne ancora parte”. Secondo Josh, infatti, in questo genere di conflitti “non dovremmo schierarci con uno dei combattenti, ma con le persone prese in mezzo, e quelle delle generazioni future. La nostra responsabilità” continua “dovrebbe essere aiutare le parti in conflitto a trovare una soluzione, mettendo sempre al centro i diritti umani, invece di cercare di eluderli. E, quando accadono, denunciarne le violazioni, indipendentemente da chi le commette, sia quando sono avversari, il che è facile, ma ancora di più quando sono nostri partner”. Ed è proprio per questi motivi, conclude Josh, “che mi sono dimesso dal governo degli Stati Uniti: perché se posso lavorare, e ho lavorato duramente per migliorare le politiche in materia di sicurezza, non posso lavorare a sostegno di una serie di decisioni politiche che ritengo miopi, distruttive, ingiuste e in palese contraddizione con i valori che sosteniamo pubblicamente e che sostengo con tutto il cuore: un ordine internazionale fondato sulle regole, e che promuova l’uguaglianza e l’equità”.
Abituati a esercitare un’egemonia totale in campo militare grazie all’esercito più grande e dispendioso della storia umana, in campo economico grazie allo strapotere del dollaro, e in campo ideologico grazie alla proprietà di tutti i mezzi di produzione del consenso, gli USA si sono illusi di poter applicare spudoratamente doppi standard a tutto quello che li riguarda senza mai dover pagare pegno, ma da Josh Paul ai vecchi alleati in Medio Oriente che a Biden, ormai, manco gli rispondono più al telefono perché hanno paura di essere linciati dalle loro opinioni pubbliche, il fascino indiscreto e totalizzante dell’impero sembra perdere continuamente smalto. E se a far crollare definitivamente l’impero non fosse qualche nemico esterno, ma semplicemente la sua ormai insostenibile tracotanza?

“L’America è la causa principale dell’ultima guerra tra Israele e Palestina”; nell’ultimo lungo articolo per Foreign Policy, il buon vecchio Stephen Walt, come gli capita spesso, ha deciso di toccarla pianissimo. Blasonato professorone di politica internazionale all’Università di Harvard, 15 anni fa divenne il bersaglio preferito della potente lobby israeliana dopo averne descritto, senza tanti fronzoli, la gigantesca influenza in un celebre libro scritto a 4 mani insieme al leggendario John Mearsheimer e pubblicato in Italia con il titolo “La Israel lobby e la politica estera americana”. Walt non può fare a meno di notare come “mentre israeliani e palestinesi piangono ognuno i loro morti, sembra impossibile riuscire a resistere alla tentazione di cercare qualcuno in particolare da incolpare. Gli israeliani e i loro sostenitori” continua Walt “vogliono attribuire tutta la colpa ad Hamas. Mentre coloro che sono solidali con la causa palestinese, vedono la tragedia come il risultato inevitabile di decenni di occupazione”. Walt, invece, propone un filone un po’ diverso e si propone di ricostruire a grandi linee “come 30 anni di politica estera americana si sono conclusi con un disastro”. La ricostruzione di Walt, infatti, parte dal 1991, l’anno della prima guerra del Golfo: “una straordinaria dimostrazione della potenza militare e dell’abilità diplomatica degli USA” sottolinea Walt “che sono stati in grado di eliminare la minaccia posta da Saddam Hussein agli equilibri regionali”. Walt ricorda come, all’epoca, l’Unione Sovietica fosse ormai sull’orlo del collasso, come gli USA utilizzarono questa schiacciante vittoria per consolidare la loro posizione di unica potenza globale “saldamente al posto di guida”, e anche come decisero di sfruttare questa posizione di dominio incontrastato per imporre,nell’ottobre del 1991, una conferenza di pace in grado di mettere attorno a un tavolo Israele, Siria, Libano, Egitto, Comunità Economica Europea, Unione Sovietica e una delegazione giordano-palestinese: è la famosa Conferenza di pace di Madrid che, secondo Walt, “sebbene non abbia prodotto risultati tangibili, aveva gettato le basi per un serio sforzo per costruire un ordine regionale pacifico”. Eppure, riconosce Walt, “Madrid conteneva anche un fatidico difetto, che avrebbe generato innumerevoli problemi nei decenni successivi”: a Madrid, infatti, mancava l’Iran. Non la presero proprio benissimo, diciamo; come osservava Trita Parsi nel suo Treacherous Alliance, infatti, “l’Iran vedeva in Madrid non solo una conferenza sul conflitto israelo-palestinese, ma come il momento decisivo nella formazione del nuovo ordine in Medio Oriente” e ovviamente, da grande potenza regionale quale indubbiamente era e continua ad essere, “si aspettava un posto a tavola”. E visto che quel posto a tavola non c’era, decise di prenotare un tavolo tutto suo in un ristorante diverso. Ospiti d’onore: Hamas e la Jihad islamica, due gruppi della resistenza palestinese in odor di fondamentalismo,che fino ad allora non s’era cacata di pezza. “Una risposta principalmente strategica, piuttosto che ideologica”, sottolinea Walt, per “dimostrare agli Stati Uniti e agli altri che se i suoi interessi non fossero stati presi in considerazione, era in grado di far fallire i loro piani”. Che, fa notare Walt, è esattamente quello che è successo poco dopo, “quando gli attentati suicidi e altri atti di violenza estremista hanno interrotto il processo di negoziazione degli accordi di Oslo e minato il sostegno israeliano a una soluzione negoziata”.
Per arrivare al secondo capitolo della ricostruzione di Walt, invece, bisognerà aspettare un’altra decina di anni; il riferimento, ovviamente, è all’11 settembre prima e all’invasione dell’Iraq del 2003 poi, che oltre ad essere stata una carneficina di dimensioni inaudite, in grado di trasformare in sanguinarie terroriste anche le suore Orsoline, alla fine è stata pure un altro regalo all’Iran. Come ricordava ieri il Financial Times, infatti, con quella specie di piccolo genocidio democratico “Washington non aveva fatto altro che rimuovere la minaccia più imminente ed esistenziale per la teocrazia, per poi lasciarle in eredità uno stato iracheno de debole infestato di quinte colonne iraniane”; un’evoluzione, sottolinea Walt, che “ha allarmato l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo”. Da lì in poi, prosegue Walt, “la percezione di una minaccia condivisa da parte dell’Iran ha cominciato a rimodellare le relazioni regionali in modo significativo, alterando anche le relazioni di alcuni stati arabi con Israele”.
Il terzo atto di questa lenta e inesorabile tragedia, poi, arriverà nel 2015, quando l’amministrazione Trump deciderà di abbandonare unilateralmente il patto per il nucleare iraniano. Una decisione scellerata che ha indotto l’Iran a “riavviare il suo programma nucleare e avvicinarsi molto a possedere finalmente la bomba” e, di conseguenza, ha indotto anche l’Arabia a ritenere indispensabile lo sviluppo di un nucleare suo, magari con l’aiutino di Tel Aviv.
Il quarto atto, infine, sarebbero gli Accordi di Abramo che, secondo Walt, sono un’estensione logica del ritiro unilaterale dal patto sul nucleare: “Nati da un’idea dello stratega dilettante, nonché genero di Trump, Jared Kishner” sottolinea Walt “hanno fatto relativamente poco per promuovere la causa della pace perché nessuno dei governi arabi partecipanti era attivamente ostile a Israele o capace di danneggiarlo”.

Che il piano di Trump per il Medio Oriente fosse totalmente fallimentare l’aveva capito addirittura un pezzo di classe dirigente USA e così tra le promesse elettorali di Biden, ecco che fa capolino l’intenzione di tornare a sottoscrivere il patto sul nucleare che però, appunto, rimane solo un’intenzione, e forse manco quella. In compenso Biden si è astenuto scientificamente dal provare a ostacolare in qualche modo la deriva ultra-reazionaria del governo israeliano, ormai esplicitamente clerico-fascista e impegnato a sostenere la ferocia estremista di coloni criminali che hanno spinto a un ulteriore radicalizzazione la maggioranza della popolazione palestinese. Intanto l’amministrazione Biden, nonostante la riapertura dei rapporti diplomatici tra sauditi e iraniani raggiunta grazie alla mediazione cinese, puntava tutto sul geniale Patto di Abramo del geniale Jared Kushner ma questa opzione, sottolinea Walt, “aveva poco a che fare con la pace tra israeliani e palestinesi, ed era piuttosto finalizzata esclusivamente a impedire un ulteriore avvicinamento dei sauditi alla Cina”. Insomma, la questione palestinese è completamente uscita dai radar: “Come il primo ministro Netanyau e il suo gabinetto” sottolinea Walt “i massimi funzionari statunitensi sembrano aver dato per scontato che non ci fosse nulla che un gruppo palestinese potesse fare per far deragliare o rallentare questo processo o attirare nuovamente l’attenzione sulla loro difficile situazione. Sfortunatamente” continua Walt “questo presunto accordo, invece, ha rappresentato per Hamas un potente incentivo a dimostrare quanto fosse sbagliata questa ipotesi”. Secondo Walt, quindi, il tipo di azione e la sua tempistica non sono stati altro che una risposta di Hamas – da questo punto di vista perfettamente razionale – “a sviluppi regionali che sono stati guidati in misura considerevole da preoccupazioni di tutt’altro genere”. Insomma, sottolinea Walt, “dagli accordi di Oslo Washington ha monopolizzato la gestione del processo di pace, ma i suoi sforzi alla fine non hanno portato assolutamente a nulla, e nel corso degli anni la soluzione dei due stati non ha fatto che allontanarsi sempre di più fino a diventare oggi probabilmente impossibile”. Un fallimento totale che offre un assist preziosissimo alle potenze che più coerentemente si battono per l’emergere di un nuovo ordine multipolare che, da questo punto di vista, risulterebbe semplicemente necessario, di fronte all’unipolarismo USA che, molto banalmente, non riesce a garantire la sicurezza per nessuno: “Gli Stati Uniti gestiscono da soli la regione da più di 3 decenni, e con quali risultati?” si chiede Walt: “assistiamo a guerre devastanti in Iraq, Siria, Sudan e Yemen” elenca Walt. “Il Libano è in fin di vita, in Libia c’è l’anarchia, l’Egitto sta barcollando verso il collasso. I gruppi terroristici si sono trasformati, e continuano a seminare terrore in tutti gli angoli del pianeta, mentre l’Iran si avvicina sempre di più alla bomba. Non c’è né sicurezza per Israele, né giustizia per la Palestina. Ecco cosa ottieni quando lasci che a gestire tutto sia Washington. A prescindere dall’idea che ognuno di noi ha su quali siano le reali intenzioni di Washington, il dato è che i leader USA ci hanno ripetutamente dimostrato che non hanno la saggezza e l’obiettività necessarie per ottenere risultati positivi. Nemmeno per se stessi”.

in foto: Joe Biden

Dall’altra parte c’è la Cina che può vantare il fatto di aver costruito relazioni costruttive con tutti gli attori regionali senza eccezione, al punto da riuscire a far tornare a dialogare anche due acerrimi nemici storici come Arabia Saudita e Iran: “non è ovvio che il mondo trarrebbe beneficio se il ruolo degli Stati Uniti diminuisse e quello dei cinesi aumentasse?”. Ovviamente quella di Walt, che come Mearsheimer è un conservatore e non ha nessuna simpatia per l’ascesa cinese e del sud globale in generale, è una provocazione e un campanello d’allarme: “se anche tu pensi che affrontare la sfida di una Cina in ascesa sia una priorità assoluta” scrive infatti “potresti voler riflettere su come le azioni passate degli USA hanno contribuito alla crisi attuale”. Walt infine, al contrario di quanto sosteniamo noi da giorni, riconosce all’amministrazione Biden lo sforzo in queste ore di provare a contenere l’escalation del conflitto, “ma” sottolinea “il team di politica estera dell’amministrazione assomiglia più a una squadra di meccanici che non di architetti” e potrebbe non essere minimamente attrezzato ad affrontare un’epoca in cui “l’architettura istituzionale della politica mondiale è sempre più un problema e sono necessari nuovi progetti. E’ ovvio” insiste Walt “che hanno interpretato male la direzione in cui era diretto il Medio Oriente, e l’applicazione dei cerotti oggi – anche se viene fatta con energia e abilità – lascerà comunque le ferite sottostanti non curate. Se il risultato finale delle attuali amministrazioni di Biden e del Segretario di Stato Antony Blinken fosse semplicemente un ritorno allo status quo pre 7 ottobre” conclude Walt “temo che il resto del mondo starà a guardare, scuoterà la testa con sgomento e disapprovazione, e concluderà che è arrivato il tempo per un approccio diverso”.
Se anche tu, quando vedi rimbambiden e i suoi vassalli in giro per il mondo, scuoti la testa e pensi che sarebbe arrivato il momento per un approccio leggermente diverso, aiutaci a costruire il primo media che guarda al mondo nuovo che avanza senza le lenti annebbiate dei vecchi babbioni suprematisti: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Chicco Mentana

Trappola o opportunità? Perché Hamas ha deciso di agire proprio adesso

Quando entrò per la prima volta a Gaza con l’esercito inviato da Netanyahu per smantellare la fitta rete di tunnel che Hamas aveva scavato per nascondere i suoi combattenti e intrufolarsi nel territorio israelino”, racconta il Financial Times, “Eyal aveva 26 anni. Nove anni dopo, sta aspettando che Netanyahu ce lo rimandi di nuovo, sempre a combattere contro lo stesso nemico. Ma questa volta Eyal sa esattamente cosa sta aspettando lui e i suoi compagni”.

in foto: Ehud Olmert | Government Press Office (Israel)

Un incubo, tranne che è reale”, avrebbe affermato il soldato israeliano: “tutto ciò che tocchi potrebbe essere una bomba, chiunque vedi potrebbe essere un terrorista. Ogni passo potrebbe essere l’ultimo”.
Non prova a indorare la pillola neanche l’ex primo ministro Ehud Olmert che a suo tempo, nel 2008, fu il primo a inviare l’esercito via terra dentro Gaza, e secondo il quale oggi ad attendere i soldati israeliani ci sarebbe “tutto quello che si può immaginare, e anche peggio”. Visto il flop colossale della tanto decantata intelligence israeliana infatti, è difficile escludere che gli israeliani possano imbattersi in “nuovi razzi ben più grandi e potenti, e nuove armi anticarro con cui non abbiamo familiarità”. Il problema poi, sottolinea il Financial Times, è che a differenza che nell’operazione Piombo Fuso – che aveva come unico obiettivo la distruzione dei tunnel scavati dai miliziani in alcuni punti strategici – ora l’obiettivo sarebbe nientepopodimeno che estirpare Hamas in toto, “una missione così complessa e impegnativa che non è chiaro quanto tempo impiegherà e quante vite, sia israeliane che palestinesi, potrebbe costare”.
Da quando i soldati israeliani sono entrati a Gaza via terra l’ultima volta nel 2014, continua il Times, “Hamas ha accumulato un formidabile arsenale di razzi e ha costruito quella che ha ribattezzato la “metropolitana di Gaza”, un reticolo inestricabile di tunnel e depositi sotterranei che si estende per centinaia di chilometri e che permette a miliziani che, nel frattempo, si sono addestrati al meglio per i combattimenti urbani, di spostare armi e uomini senza essere scoperti”.
Secondo quanto riportato dal Washington Post, l’operazione di sabato è stata preparata nell’arco di poco meno di due anni, e così anche le trappole che attendono gli israeliani qualora si avventurassero in un’invasione via terra.
Prima che le forze israeliane possano raggiungere le roccaforti urbane di Hamas”, specifica il Times, “dovranno violare una serie di linee difensive che includeranno mine, luoghi di imboscate e bersagli di mortaio; mortai pesanti, mitragliatrici, armi anticarro, cecchini e attentatori suicidi sono pronti ad accoglierli alla periferia delle città di Gaza”.
La questione si riduce a una cosa” avrebbe dichiarato Olmert. Siamo pronti a intraprendere un’azione che comporterà un grande rischio per i soldati israeliani? O sceglieremo una strategia che causerà la tragica morte di un numero maggiore di persone non coinvolte? Da quello che so dell’opinione pubblica israeliana in questo momento, la spinta sarà quella di correre meno rischi”. Il riferimento ovviamente è ai bombardamenti aerei, che difficilmente però possono cogliere l’obiettivo dichiarato di decapitare una volta per tutte Hamas; per farlo, dovrebbero radere al suolo letteralmente tutto. Gli altri paesi arabi permetteranno che avvenga senza muovere foglia?
La pianificazione dell’operazione ha richiesto fino a due anni, secondo diversi resoconti dei leader di Hamas”, scrive Al Jazeera, “e la profondità e la portata dell’attacco non hanno precedenti e hanno colto Israele di sorpresa. La domanda è “perché proprio adesso”?”.
Ovviamente ce lo siamo chiesti un po’ tutti; secondo Al Jazeera, “la mossa di Hamas è stata innescata da tre fattori”.
Il primo, sarebbero le politiche del governo israeliano nei confronti dei coloni in Cisgiordania. Il governo Netanyahu ha optato in modo esplicito e plateale per la copertura totale di qualsiasi genere di crimine commesso dai suoi coloni, scatenando l’ira della popolazione palestinese che è alla disperata ricerca di una rappresentanza politica che – al contrario dell’Autorità Nazionale Palestinese, considerata, e non certo a torto, totalmente connivente – trovi la forza di reagire.
Inoltre, come abbiamo già anticipato in alcuni video precedenti, l’ondata di rabbia scatenata da questa escalation di prepotenza suprematista e coloniale, “ha reso necessario lo spostamento delle forze israeliane dal sud al nord per proteggere gli insediamenti”, offrendo ad Hamas un’opportunità enorme.
In secondo luogo”, continua Al Jazeera, “la leadership di Hamas si è sentita obbligata ad agire a causa dell’accelerazione della normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e israeliani. Negli ultimi anni, questo processo”, infatti, avrebbe “ulteriormente diminuito l’importanza della questione palestinese per i leader arabi, che sono diventati meno propensi a fare pressioni su Israele su questo piano”.

Il riferimento ovviamente, in particolare, è agli accordi di Abramo e all’avvicinamento tra israeliani e sauditi, che – sottolinea Al Jazeera, avrebbe rappresentato “un punto di svolta nel conflitto arabo-israeliano, che avrebbe allontanato ancora di più le già flebili possibilità di approdare un giorno sul serio alla soluzione dei due Stati”.
Il terzo e ultimo punto del mini-catalogo di Al Jazeera infine, avrebbe a che fare con i rapporti con l’Iran che sono meno lineari di quanto spesso si supponga. Intanto – come saprete – Hamas è un’organizzazione sunnita; ciò nonostante a partire dal 2006, quando Hamas vince regolarmente le elezioni prima e comincia ad amministrare la striscia di Gaza poi, il sostegno del regime di Teheran diventa essenziale. Gli aiuti internazionali, infatti, nel frattempo svaniscono come neve al sole: non sia mai che a Gaza si abituino troppo bene e diventino dei fannulloni come tutti i percettori del reddito di cittadinanza.
L’autorità nazionale palestinese a Gaza si ritrova così sull’orlo della bancarotta, e a metterci una pezza sono gli iraniani che però non sempre vengono ricambiati; ad esempio quando, 5 anni dopo, scoppia la guerra mondiale per procura in Siria e Hamas e Iran si piazzano sui lati opposti della barricata: dalla parte di Assad gli iraniani, da quella delle organizzazioni jihadiste sunnite che puntano al cambio di regime Hamas, nonostante Assad stesso li ospitasse da anni a Damasco.

Forse speravano di venire anche loro candidati al nobel per la pace come gli amici di Al Nusra e invece, macché: rimangono fregati.
Agli occhi degli occidentali, inspiegabilmente, continuano comunque ad essere sempre e solo un’organizzazione terroristica, e anche a quelli iraniani – da lì in avanti – proprio proprio simpaticissimi non devono essere sembrati. Ed ecco così che gli aiuti vengono sospesi. Hamas allora trova un altro sponsor ufficiale nel Qatar, dove trasferisce il suo quartier generale; poco dopo però perde un altro dei suoi alleati fondamentali, l’Egitto dei Fratelli Musulmani. Grazie ai rapporti con Mubarak prima e Morsi dopo, infatti, Hamas gestiva un traffico fiorente con l’Egitto attraverso il valico di Rafah. Una valvola di sfogo fondamentale che però viene a mancare quando, nel luglio del 2013, Morsi viene deposto attraverso il colpo di stato perpetrato dal suo stesso ministro della difesa, il generale Al Sisi. Gli uomini di Hamas allora tornano col cappello in mano a Tehran – che prima fanno un po’ i preziosi, ma alla fine cedono: da allora l’Iran è tornato ad essere lo sponsor principale del movimento palestinese e, dopo l’Iran, Hamas ha ricucito i rapporti anche con la seconda milizia di Gaza, la Jihad Islamica palestinese legata a doppio filo appunto a Teheran, poi con Hezbollah e infine addirittura con Damasco, dove nell’ottobre del 2022 si è recata in pompa magna con una nutrita delegazione.
Sono i movimenti tellurici che da un po’ di tempo a questa parte stanno attraversando tutti i paesi musulmani dell’area e a tratti sembrano far intravedere la possibilità di un lento e faticoso percorso di riconciliazione, movimenti tellurici che, sostiene Al Jazeera, avrebbero rafforzato Hamas più di quanto previsto, permettendole di arrivare attrezzata a questo ultimo appuntamento.

A nostro avviso però al tricalogo di Al Jazeera manca un punto essenziale: il contesto generale, proprio generale generale, intendo, quello che vi raccontiamo un giorno si e l’altro pure; il declino del nord globale e lo spostamento graduale, e a volte manco più di tanto, dei rapporti di forza verso un nuovo ordine, dove quella delle potenze ex o ancora attualmente coloniali non sia più l’unica a contare davvero.
Il punto è che Hamas sapeva, ovviamente, benissimo che Israele non avrebbe potuto che reagire con fermezza all’operazione scattata sabato scorso, e però sapeva benissimo anche che Israele a quel punto si sarebbe trovata di fronte al grande dilemma: incursione via terra da un lato – che è paradossalmente relativamente meno devastante in termini di perdite civili ma sottopone le forze armate israeliane a enormi rischi – o una bella campagna aerea di bombe democratiche per salvare i valori occidentali dall’altro, che è a rischio quasi zero ma implica un massacro di dimensioni inaudite. Come ha detto Olmert, ovviamente la seconda opzione sarebbe quella più naturale e quella che trasformerebbe una vittoria della resistenza in una sorta di carneficina autoindotta. Un’opzione che però un costo politico per Israele ce l’ha comunque, perché imporrebbe ai vicini arabi (dove, ricordiamo, l’opinione pubblica è per la stragrande maggioranza ultra – solidale con la causa palestinese) di condannare il regime sionista, e molto probabilmente pure di non limitarsi a farlo soltanto a chiacchiere.
E’ proprio in chiave di deterrenza contro questa reazione che gli USA si sono affrettati a mostrare i muscoli nel sostegno incondizionato all’alleato, in particolare grazie all’invio di due gruppi di portaerei nel Mediterraneo orientale “come parte di uno sforzo”, sottolinea il Wall Street Journal, “per dissuadere l’Iran e il suo protetto libanese, Hezbollah, dall’unirsi al conflitto e dallo scatenare potenzialmente una guerra regionale che potrebbe coinvolgere oltre all’Iran anche le altre nazioni del Golfo Persico”. E qui però arriviamo finalmente al punto: perché siamo proprio sicuri che gli USA, anche col sostegno dei suoi alleati, volendo, sia ancora oggi in grado di esercitarla fino in fondo tutta questa deterrenza? Insomma, come si chiede William Van Wagenen su The Cradle: “Ucraina vs Israele: può l’Occidente armare entrambi? Israele avrà bisogno del sostegno degli Stati Uniti per sopravvivere allo scontro con la resistenza palestinese e i suoi alleati regionali, già collaudati in battaglia. Ma competerà direttamente con l’Ucraina, alleata degli Stati Uniti, per le armi e i fondi occidentali in continua diminuzione”. Van Wagenen ricorda come, già nel 2006, fronteggiarsi con la sola Hezbollah per Israele non fu esattamente una passeggiata di piacere: “Secondo Matt Matthews del Combat Studies Institute dell’esercito americano”, riporta Van Wagenen, “Israele si rivelò in realtà tristemente impreparato a combattere una “vera guerra” di quel tipo”. E “il capo del Mossad Meir Degan e il capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, dissero apertamente all’allora primo ministro Ehud Olmert che “la guerra è stata una catastrofe nazionale e Israele ha subito un duro colpo””. Per combattere quella guerra, Israele fu costretto a chiedere di poter accedere alle scorte del War Reserves Stock Allies, le scorte che gli USA immagazzinano in Israele just in case, ma “nel giro di soli 10 giorni di combattimenti”, ricorda Van Wagenen, “Israele arrivò ad utilizzarne la gran parte”. Otto anni dopo, Israele si ritrova muso a muso con Hamas e di nuovo, nonostante la sproporzione in ballo, per portare a casa la pagnotta eccola costretta a ridare fondo sempre a quelle scorte. E oggi, sostiene Van Wagenen, se l’Asse della Resisitenza deciderà e riuscirà davvero a compiere un’”unificazione dei fronti”, le guerre del 2006 e del 2014 appariranno passeggiate di piacere.
Come ha dichiarato un paio di giorni fa al Wall Street Journal David Wurmer, consigliere per il Medio Oriente dell’ex vicepresidente Dick Cheney, “Lo scenario da incubo per gli israeliani è che per una settimana o due abbattano dai 6.000 ai 10.000 missili di Hamas, e poi non gli rimanga più nulla per fermare i missili Hezbollah”. Ma non solo, perché se anche l’Iran – a un certo punto – dovesse decidere di unirsi al conflitto, allora si che sarebbero dolori: come ricorda sempre Van Wagenen infatti, Stati Uniti e Israele parlano continuamente della minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano “ma raramente menzionano la minaccia ben più immediata e concreta rappresentata dal suo fiorente programma missilistico convenzionale”.
Insomma, nonostante le portaerei giganti e i fantomatici imbattibili caccia americani, in realtà ce n’è a sufficienza per impegnare gli USA in una potenziale guerra lunga e costosissima prima ancora di essersi ripresi dalle scoppole che, ormai da un po’, non fanno che raccogliere sul fronte della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. Come scrive sempre Van Wagenen, mentre “la pila dei recenti fallimenti da parte degli stati uniti continua a crescere”, la sua capacità deterrente potrebbe non essere esattamente in grado di mantenere un po’ di ordine con un po’ di paura. La morale, conclude Van Wagenen, è che “dichiarando guerra totale alla popolazione civile di Gaza,  Israele ha già iniziato una lotta che potrebbe non essere in grado di terminare. Per Tel Aviv, Gaza è sempre stata un frutto a portata di mano: il sacco da boxe che cerca quando ha bisogno di sembrare dura. Ma oggi, un passo falso, un missile mal puntato, o un passo troppo lontano, e Israele si potrebbe trovare ad affrontare una guerra regionale alla quale potrebbe non essere in grado di resistere per un periodo di tempo significativo”.
Qualche settimana fa, con un pronostico degno del migliore Piero Fassino, avevamo espresso la speranza che di fronte ai nuovi equilibri che si stanno consolidando in Medio Oriente dopo la storica riapertura del dialogo tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla Cina, e di fronte all’impossibilità per gli USA di garantire a chicchessia la sicurezza nell’area, anche Israele – magari grazie alla mediazione proprio della Russia che considera a ragione un interlocutore affidabile – sarebbe potuto un giorno scendere a più miti consigli e si sarebbe potuto lasciar tentare dal cominciare a trovare una soluzione ai suoi problemi di sicurezza attraverso il dialogo con gli ex nemici regionali, da ribrandizzare come partner. Da quell’equazione, come dei Jake Sullivan qualsiasi, avevamo tenuto fuori colpevolmente la questione palestinese; l’azione di Hamas e del resto della resistenza palestinese ci ha ricordato drammaticamente che a farsi cancellare definitivamente dalla storia per ora non si sono ancora rassegnati.
L’unica via realistica per uscire da tutta questa faccenda senza imbarcarsi in altri 20 anni di destabilizzazione totale dell’area potrebbe essere proprio ripartire da quel ragionamento, ma con in più una soluzione finalmente ragionevole e dignitosa per la questione palestinese, come d’altronde – molto più saggiamente di noi – non si sono mai stancati di dire i cinesi:ogni crisi è anche un’opportunità. Non rinunciamo a coglierla, e restiamo umani.

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