Trappola o opportunità? Perché Hamas ha deciso di agire proprio adesso
“Quando entrò per la prima volta a Gaza con l’esercito inviato da Netanyahu per smantellare la fitta rete di tunnel che Hamas aveva scavato per nascondere i suoi combattenti e intrufolarsi nel territorio israelino”, racconta il Financial Times, “Eyal aveva 26 anni. Nove anni dopo, sta aspettando che Netanyahu ce lo rimandi di nuovo, sempre a combattere contro lo stesso nemico. Ma questa volta Eyal sa esattamente cosa sta aspettando lui e i suoi compagni”.
“Un incubo, tranne che è reale”, avrebbe affermato il soldato israeliano: “tutto ciò che tocchi potrebbe essere una bomba, chiunque vedi potrebbe essere un terrorista. Ogni passo potrebbe essere l’ultimo”.
Non prova a indorare la pillola neanche l’ex primo ministro Ehud Olmert che a suo tempo, nel 2008, fu il primo a inviare l’esercito via terra dentro Gaza, e secondo il quale oggi ad attendere i soldati israeliani ci sarebbe “tutto quello che si può immaginare, e anche peggio”. Visto il flop colossale della tanto decantata intelligence israeliana infatti, è difficile escludere che gli israeliani possano imbattersi in “nuovi razzi ben più grandi e potenti, e nuove armi anticarro con cui non abbiamo familiarità”. Il problema poi, sottolinea il Financial Times, è che a differenza che nell’operazione Piombo Fuso – che aveva come unico obiettivo la distruzione dei tunnel scavati dai miliziani in alcuni punti strategici – ora l’obiettivo sarebbe nientepopodimeno che estirpare Hamas in toto, “una missione così complessa e impegnativa che non è chiaro quanto tempo impiegherà e quante vite, sia israeliane che palestinesi, potrebbe costare”.
Da quando i soldati israeliani sono entrati a Gaza via terra l’ultima volta nel 2014, continua il Times, “Hamas ha accumulato un formidabile arsenale di razzi e ha costruito quella che ha ribattezzato la “metropolitana di Gaza”, un reticolo inestricabile di tunnel e depositi sotterranei che si estende per centinaia di chilometri e che permette a miliziani che, nel frattempo, si sono addestrati al meglio per i combattimenti urbani, di spostare armi e uomini senza essere scoperti”.
Secondo quanto riportato dal Washington Post, l’operazione di sabato è stata preparata nell’arco di poco meno di due anni, e così anche le trappole che attendono gli israeliani qualora si avventurassero in un’invasione via terra.
“Prima che le forze israeliane possano raggiungere le roccaforti urbane di Hamas”, specifica il Times, “dovranno violare una serie di linee difensive che includeranno mine, luoghi di imboscate e bersagli di mortaio; mortai pesanti, mitragliatrici, armi anticarro, cecchini e attentatori suicidi sono pronti ad accoglierli alla periferia delle città di Gaza”.
“La questione si riduce a una cosa” avrebbe dichiarato Olmert. “Siamo pronti a intraprendere un’azione che comporterà un grande rischio per i soldati israeliani? O sceglieremo una strategia che causerà la tragica morte di un numero maggiore di persone non coinvolte? Da quello che so dell’opinione pubblica israeliana in questo momento, la spinta sarà quella di correre meno rischi”. Il riferimento ovviamente è ai bombardamenti aerei, che difficilmente però possono cogliere l’obiettivo dichiarato di decapitare una volta per tutte Hamas; per farlo, dovrebbero radere al suolo letteralmente tutto. Gli altri paesi arabi permetteranno che avvenga senza muovere foglia?
“La pianificazione dell’operazione ha richiesto fino a due anni, secondo diversi resoconti dei leader di Hamas”, scrive Al Jazeera, “e la profondità e la portata dell’attacco non hanno precedenti e hanno colto Israele di sorpresa. La domanda è “perché proprio adesso”?”.
Ovviamente ce lo siamo chiesti un po’ tutti; secondo Al Jazeera, “la mossa di Hamas è stata innescata da tre fattori”.
Il primo, sarebbero le politiche del governo israeliano nei confronti dei coloni in Cisgiordania. Il governo Netanyahu ha optato in modo esplicito e plateale per la copertura totale di qualsiasi genere di crimine commesso dai suoi coloni, scatenando l’ira della popolazione palestinese che è alla disperata ricerca di una rappresentanza politica che – al contrario dell’Autorità Nazionale Palestinese, considerata, e non certo a torto, totalmente connivente – trovi la forza di reagire.
Inoltre, come abbiamo già anticipato in alcuni video precedenti, l’ondata di rabbia scatenata da questa escalation di prepotenza suprematista e coloniale, “ha reso necessario lo spostamento delle forze israeliane dal sud al nord per proteggere gli insediamenti”, offrendo ad Hamas un’opportunità enorme.
“In secondo luogo”, continua Al Jazeera, “la leadership di Hamas si è sentita obbligata ad agire a causa dell’accelerazione della normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e israeliani. Negli ultimi anni, questo processo”, infatti, avrebbe “ulteriormente diminuito l’importanza della questione palestinese per i leader arabi, che sono diventati meno propensi a fare pressioni su Israele su questo piano”.
Il riferimento ovviamente, in particolare, è agli accordi di Abramo e all’avvicinamento tra israeliani e sauditi, che – sottolinea Al Jazeera, avrebbe rappresentato “un punto di svolta nel conflitto arabo-israeliano, che avrebbe allontanato ancora di più le già flebili possibilità di approdare un giorno sul serio alla soluzione dei due Stati”.
Il terzo e ultimo punto del mini-catalogo di Al Jazeera infine, avrebbe a che fare con i rapporti con l’Iran che sono meno lineari di quanto spesso si supponga. Intanto – come saprete – Hamas è un’organizzazione sunnita; ciò nonostante a partire dal 2006, quando Hamas vince regolarmente le elezioni prima e comincia ad amministrare la striscia di Gaza poi, il sostegno del regime di Teheran diventa essenziale. Gli aiuti internazionali, infatti, nel frattempo svaniscono come neve al sole: non sia mai che a Gaza si abituino troppo bene e diventino dei fannulloni come tutti i percettori del reddito di cittadinanza.
L’autorità nazionale palestinese a Gaza si ritrova così sull’orlo della bancarotta, e a metterci una pezza sono gli iraniani che però non sempre vengono ricambiati; ad esempio quando, 5 anni dopo, scoppia la guerra mondiale per procura in Siria e Hamas e Iran si piazzano sui lati opposti della barricata: dalla parte di Assad gli iraniani, da quella delle organizzazioni jihadiste sunnite che puntano al cambio di regime Hamas, nonostante Assad stesso li ospitasse da anni a Damasco.
Forse speravano di venire anche loro candidati al nobel per la pace come gli amici di Al Nusra e invece, macché: rimangono fregati.
Agli occhi degli occidentali, inspiegabilmente, continuano comunque ad essere sempre e solo un’organizzazione terroristica, e anche a quelli iraniani – da lì in avanti – proprio proprio simpaticissimi non devono essere sembrati. Ed ecco così che gli aiuti vengono sospesi. Hamas allora trova un altro sponsor ufficiale nel Qatar, dove trasferisce il suo quartier generale; poco dopo però perde un altro dei suoi alleati fondamentali, l’Egitto dei Fratelli Musulmani. Grazie ai rapporti con Mubarak prima e Morsi dopo, infatti, Hamas gestiva un traffico fiorente con l’Egitto attraverso il valico di Rafah. Una valvola di sfogo fondamentale che però viene a mancare quando, nel luglio del 2013, Morsi viene deposto attraverso il colpo di stato perpetrato dal suo stesso ministro della difesa, il generale Al Sisi. Gli uomini di Hamas allora tornano col cappello in mano a Tehran – che prima fanno un po’ i preziosi, ma alla fine cedono: da allora l’Iran è tornato ad essere lo sponsor principale del movimento palestinese e, dopo l’Iran, Hamas ha ricucito i rapporti anche con la seconda milizia di Gaza, la Jihad Islamica palestinese legata a doppio filo appunto a Teheran, poi con Hezbollah e infine addirittura con Damasco, dove nell’ottobre del 2022 si è recata in pompa magna con una nutrita delegazione.
Sono i movimenti tellurici che da un po’ di tempo a questa parte stanno attraversando tutti i paesi musulmani dell’area e a tratti sembrano far intravedere la possibilità di un lento e faticoso percorso di riconciliazione, movimenti tellurici che, sostiene Al Jazeera, avrebbero rafforzato Hamas più di quanto previsto, permettendole di arrivare attrezzata a questo ultimo appuntamento.
A nostro avviso però al tricalogo di Al Jazeera manca un punto essenziale: il contesto generale, proprio generale generale, intendo, quello che vi raccontiamo un giorno si e l’altro pure; il declino del nord globale e lo spostamento graduale, e a volte manco più di tanto, dei rapporti di forza verso un nuovo ordine, dove quella delle potenze ex o ancora attualmente coloniali non sia più l’unica a contare davvero.
Il punto è che Hamas sapeva, ovviamente, benissimo che Israele non avrebbe potuto che reagire con fermezza all’operazione scattata sabato scorso, e però sapeva benissimo anche che Israele a quel punto si sarebbe trovata di fronte al grande dilemma: incursione via terra da un lato – che è paradossalmente relativamente meno devastante in termini di perdite civili ma sottopone le forze armate israeliane a enormi rischi – o una bella campagna aerea di bombe democratiche per salvare i valori occidentali dall’altro, che è a rischio quasi zero ma implica un massacro di dimensioni inaudite. Come ha detto Olmert, ovviamente la seconda opzione sarebbe quella più naturale e quella che trasformerebbe una vittoria della resistenza in una sorta di carneficina autoindotta. Un’opzione che però un costo politico per Israele ce l’ha comunque, perché imporrebbe ai vicini arabi (dove, ricordiamo, l’opinione pubblica è per la stragrande maggioranza ultra – solidale con la causa palestinese) di condannare il regime sionista, e molto probabilmente pure di non limitarsi a farlo soltanto a chiacchiere.
E’ proprio in chiave di deterrenza contro questa reazione che gli USA si sono affrettati a mostrare i muscoli nel sostegno incondizionato all’alleato, in particolare grazie all’invio di due gruppi di portaerei nel Mediterraneo orientale “come parte di uno sforzo”, sottolinea il Wall Street Journal, “per dissuadere l’Iran e il suo protetto libanese, Hezbollah, dall’unirsi al conflitto e dallo scatenare potenzialmente una guerra regionale che potrebbe coinvolgere oltre all’Iran anche le altre nazioni del Golfo Persico”. E qui però arriviamo finalmente al punto: perché siamo proprio sicuri che gli USA, anche col sostegno dei suoi alleati, volendo, sia ancora oggi in grado di esercitarla fino in fondo tutta questa deterrenza? Insomma, come si chiede William Van Wagenen su The Cradle: “Ucraina vs Israele: può l’Occidente armare entrambi? Israele avrà bisogno del sostegno degli Stati Uniti per sopravvivere allo scontro con la resistenza palestinese e i suoi alleati regionali, già collaudati in battaglia. Ma competerà direttamente con l’Ucraina, alleata degli Stati Uniti, per le armi e i fondi occidentali in continua diminuzione”. Van Wagenen ricorda come, già nel 2006, fronteggiarsi con la sola Hezbollah per Israele non fu esattamente una passeggiata di piacere: “Secondo Matt Matthews del Combat Studies Institute dell’esercito americano”, riporta Van Wagenen, “Israele si rivelò in realtà tristemente impreparato a combattere una “vera guerra” di quel tipo”. E “il capo del Mossad Meir Degan e il capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, dissero apertamente all’allora primo ministro Ehud Olmert che “la guerra è stata una catastrofe nazionale e Israele ha subito un duro colpo””. Per combattere quella guerra, Israele fu costretto a chiedere di poter accedere alle scorte del War Reserves Stock Allies, le scorte che gli USA immagazzinano in Israele just in case, ma “nel giro di soli 10 giorni di combattimenti”, ricorda Van Wagenen, “Israele arrivò ad utilizzarne la gran parte”. Otto anni dopo, Israele si ritrova muso a muso con Hamas e di nuovo, nonostante la sproporzione in ballo, per portare a casa la pagnotta eccola costretta a ridare fondo sempre a quelle scorte. E oggi, sostiene Van Wagenen, se l’Asse della Resisitenza deciderà e riuscirà davvero a compiere un’”unificazione dei fronti”, le guerre del 2006 e del 2014 appariranno passeggiate di piacere.
Come ha dichiarato un paio di giorni fa al Wall Street Journal David Wurmer, consigliere per il Medio Oriente dell’ex vicepresidente Dick Cheney, “Lo scenario da incubo per gli israeliani è che per una settimana o due abbattano dai 6.000 ai 10.000 missili di Hamas, e poi non gli rimanga più nulla per fermare i missili Hezbollah”. Ma non solo, perché se anche l’Iran – a un certo punto – dovesse decidere di unirsi al conflitto, allora si che sarebbero dolori: come ricorda sempre Van Wagenen infatti, Stati Uniti e Israele parlano continuamente della minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano “ma raramente menzionano la minaccia ben più immediata e concreta rappresentata dal suo fiorente programma missilistico convenzionale”.
Insomma, nonostante le portaerei giganti e i fantomatici imbattibili caccia americani, in realtà ce n’è a sufficienza per impegnare gli USA in una potenziale guerra lunga e costosissima prima ancora di essersi ripresi dalle scoppole che, ormai da un po’, non fanno che raccogliere sul fronte della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina. Come scrive sempre Van Wagenen, mentre “la pila dei recenti fallimenti da parte degli stati uniti continua a crescere”, la sua capacità deterrente potrebbe non essere esattamente in grado di mantenere un po’ di ordine con un po’ di paura. La morale, conclude Van Wagenen, è che “dichiarando guerra totale alla popolazione civile di Gaza, Israele ha già iniziato una lotta che potrebbe non essere in grado di terminare. Per Tel Aviv, Gaza è sempre stata un frutto a portata di mano: il sacco da boxe che cerca quando ha bisogno di sembrare dura. Ma oggi, un passo falso, un missile mal puntato, o un passo troppo lontano, e Israele si potrebbe trovare ad affrontare una guerra regionale alla quale potrebbe non essere in grado di resistere per un periodo di tempo significativo”.
Qualche settimana fa, con un pronostico degno del migliore Piero Fassino, avevamo espresso la speranza che di fronte ai nuovi equilibri che si stanno consolidando in Medio Oriente dopo la storica riapertura del dialogo tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla Cina, e di fronte all’impossibilità per gli USA di garantire a chicchessia la sicurezza nell’area, anche Israele – magari grazie alla mediazione proprio della Russia che considera a ragione un interlocutore affidabile – sarebbe potuto un giorno scendere a più miti consigli e si sarebbe potuto lasciar tentare dal cominciare a trovare una soluzione ai suoi problemi di sicurezza attraverso il dialogo con gli ex nemici regionali, da ribrandizzare come partner. Da quell’equazione, come dei Jake Sullivan qualsiasi, avevamo tenuto fuori colpevolmente la questione palestinese; l’azione di Hamas e del resto della resistenza palestinese ci ha ricordato drammaticamente che a farsi cancellare definitivamente dalla storia per ora non si sono ancora rassegnati.
L’unica via realistica per uscire da tutta questa faccenda senza imbarcarsi in altri 20 anni di destabilizzazione totale dell’area potrebbe essere proprio ripartire da quel ragionamento, ma con in più una soluzione finalmente ragionevole e dignitosa per la questione palestinese, come d’altronde – molto più saggiamente di noi – non si sono mai stancati di dire i cinesi:ogni crisi è anche un’opportunità. Non rinunciamo a coglierla, e restiamo umani.
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E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu.
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