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Se Israele, per evitare la catastrofe, trascina l’Occidente nella guerra totale con l’Iran

Vincere a Gaza per avere un futuro: così, ieri, la redazione del Foglio festeggiava entusiasta i 400 cadaveri che il regime suprematista di Tel Aviv si è lasciato alle spalle dopo aver esercitato il suo diritto alla difesa dell’apartheid nell’ospedale di Al Shifa e il weekend di fuoco contro le casematte iraniane in Siria e Libano, nel tentativo disperato di allargare il conflitto; chissà il giubilo quando, poi, è arrivata anche la notizia dell’assassinio mirato di 7 operatori della ONG World Central Kitchen a bordo di un convoglio umanitario perfettamente riconoscibile e che aveva coordinato i suoi spostamenti con le forze armate israeliane (per farsi colpire meglio): d’altronde, è così che dimostrano la forza i liberali che non si fanno distrarre dalla retorica dei buoni sentimenti. L’entusiasmo trionfante del Foglio, però, anche a questo giro non è condiviso proprio da tutti, nemmeno nel cuore dell’impero: a sollevare qualche perplessità su Asia Times, ad esempio, ci pensa Michael Brenner che, grazie a decine di pubblicazioni tra Cambridge University Press – il centro per gli affari internazionali dell’università di Harvard – e il Brooking Institute, rischia di poter vantare un po’ di autorevolezza in più rispetto a dei sedicenti fautori del mercato e dello Stato minimo, che senza i contributi pubblici dello Stato massimo sarebbero agli angoli delle strade a chiedere l’elemosina ; e il giudizio di Brenner è leggermente meno apologetico. “Ecco come l’Occidente si avvia alla sua fine”; “In Ucraina”, scrive, “abbiamo commesso un terribile errore geostrategico. E in Palestina” abbiamo dato un colpo mortale a “l’influenza dell’Occidente a livello globale”: il risultato è che “Due terzi dell’umanità” provano oggi “un totale disgusto di fronte alla nostra sfacciata dimostrazione di ipocrisia” che ha dimostrato come “gli atteggiamenti razzisti non si sono mai completamente estinti: dopo un periodo di letargo, la loro recrudescenza è evidente”.
Dopo essersi arrampicati sugli specchi per due anni nel tentativo di spacciare la debacle ucraina come una prova della superiorità morale dell’Occidente e la stagnazione economica, accompagnata dal crollo del potere d’acquisto delle famiglie occidentali, come una prova della resilienza dell’incubo distopico neoliberista, il nuovo cavallo di battaglia della propaganda suprematista più spregiudicata è la prova di forza di Israele che non solo non si fa intimorire dal perbenismo di chi si ostina a considerare anche popoli inferiori – come quello palestinese – esseri umani e procede nel suo sterminio di massa, ma rilancia senza indugi e riesce di nuovo a colpire dritto al cuore il cosiddetto asse della resistenza.
Ma siamo proprio sicuri che ostentare ferocia e spingere per l’allargamento del conflitto sia davvero una prova di forza? La pensa diversamente, ad esempio, il sempre ottimo magazine israelo-palestinese 972 che, nel titolo del suo ultimo editoriale, si chiede Perché Israele è terrorizzato dal cessate il fuoco?; l’articolo ricorda come, al contrario delle strampalate tesi dei democratici per il genocidio di casa nostra, “Nonostante ci siano state critiche diffuse sulla gestione del conflitto da parte di Netanyahu” e nonostante “molti israeliani condividano l’affermazione secondo la quale Netanyahu sta continuando la guerra per promuovere i suoi interessi politici e personali”, in realtà “anche i suoi oppositori, sia nel campo liberale che nella destra moderata” condividono l’idea che “la guerra non deve finire”. Il punto è che, ormai, “Anche all’interno dell’establishment della sicurezza israeliano, sempre più persone affermano apertamente che eliminare Hamas, in realtà, molto semplicemente non è un obiettivo raggiungibile”; accettare l’ipotesi di un cessate il fuoco a queste condizioni “equivarrebbe ad ammettere che gli obiettivi dell’operazione erano semplicemente irrealistici” e che, quindi, lo sterminio è stato del tutto gratuito ed insensato, una mera ritorsione del padrone indispettito dallo schiavo che ha osato alzare la testa e che, per punirlo, ha deciso di sterminargli tutta la prole. Ma non solo: “Un cessate il fuoco” sottolinea ancora 972 “costringerebbe l’opinione pubblica ebraica ad affrontare un nodo fondamentale. Se infatti lo status quo non funziona, e una guerra costante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata, allora l’unica opzione che resta è finalmente prendere coscienza della realtà: l’unico modo che gli ebrei hanno per poter vivere in sicurezza, è un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi”. Insomma: come sanno anche i bambini – a parte quelli che scrivono sul Foglio – anche in questo caso la spregiudicatezza e la ferocia, più che di forza e di sicurezza, potrebbero essere sintomi di panico e di disperazione che potrebbero non riguardare esclusivamente il governo criminale di Netanyahu e neanche solo Israele. Ma prima di addentrarci in questo ennesimo mercoledì da leoni dell’Occidente collettivo in declino, ricordatevi di mettere un mi piace a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare le notifiche; un piccolo gesto che, però, è indispensabile per aiutarci a costruire il primo vero e proprio media che dà voce al 99%.

Bret Stephens

L’editorialone a sostegno del genocidio de Il Foglio di ieri è una vera e propria perla di post-verità suprematista da incorniciare; a ispirarli, oltre agli ultimi episodi di efferata ferocia che non fanno mai male, anche un paio di editoriali sul giornale mainstream che, più di ogni altro, in questi mesi si è speso per diffondere fake news di ogni genere per giustificare il genocidio: il New York Times. A firmarli, il brillante Bret Stephens, già premio Pulitzer e incarnazione della fazione più guerrafondaia della grande famiglia neocon che, ormai, include l’intera classe politica USA, ad eccezione dei trumpiani più esagitati; Stephens, rampollo di una famiglia di ricchi dirigenti d’azienda ebrei, dal 2002 al 2004 è stato anche caporedattore del Jerusalem Post prima di portare la propaganda sionista su scala globale dalle pagine del Wall Street Journal e della NBC e l’ha fatto sempre senza troppi giri di parole: nel 2016 scatenò una polverone quando scrisse espressamente che l’antisemitismo è “la malattia della mente araba” aggiungendosi, così, alla lunga lista di negazionisti che vogliono cancellare le responsabilità storiche di cristianesimo e cattolicesimo inventandosi un primato antiebraico dell’Islam palesemente contrario alla realtà storica. Ma il meglio, in realtà, lo ha dato quando – in modo molto razionale e scientifico – ha sostenuto che gli ebrei askenaziti sono dotati di un’intelligenza superiore (anche se, a leggere i suoi editoriali, qualche dubbio rimane, diciamo): suprematista, islamofobo, di buona famiglia, guerrafondaio, sostenitore della guerra in Iraq e della leggenda delle armi di distruzione di massa, Stephens non poteva che conquistare il cuore dei troll del Foglio che, alle sue minchiate, ci aggiungono del loro. La teoria di Stephens che tanto ha fatto innamorare Il Foglio è quella di un mandato arabo per la Palestina: “L’ambizione a lunghissimo termine” scrivono le bimbe di Giuliano Ferrara “sarebbe quella di trasformare Gaza in una versione mediterranea di Dubai, grazie all’aiuto dei paesi arabi moderati”; e quali sarebbero questi paesi arabi moderati? Ovviamente, in primo luogo, Emirati e Sauditi, cioè due monarchie assolute fondate sulla lapidazione e che il Foglio definisce “allergici all’estremismo e aperti al mondo” – in particolare, al mondo delle centinaia di migliaia di lavoratori migranti ridotti in regime di schiavitù, come da sempre denunciato dalle stesse ONG che Il Foglio riporta con enfasi ogni volta le accuse riguardano paesi che non accettano il dominio dell’Impero, ma sulle quali, in questo caso, evidentemente è meglio stendere un velo pietoso; secondo Il Foglio, questi paesi potrebbero accettare di trasformare Gaza in un loro protettorato perché, se non si trova una soluzione, Gaza rischia di “dividere il mondo arabo, rafforzare l’Iran e minare il percorso di modernizzazione intrapreso dai migliori leader arabi”.
Io, però, sarà perché non ho studiato abbastanza il pensiero di Giuliano Ferrara e di Claudio Cerasa, ma la questione della modernizzazione l’avevo capita un po’ diversamente: ad esempio, avevo capito che un aspetto fondamentale della modernità era il passaggio dai sistemi feudali, dove il ruolo nel mondo era determinato dal sangue, all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e allo Stato; in questo senso, è assolutamente vero che nel Medio Oriente è in corso – e da parecchio – una lunga guerra per la modernità dove le repubbliche, anche quelle di ispirazione islamica, rappresentano l’uscita dal medioevo e le monarchie assolute la conservazione (che è, in fondo, anche il motivo profondo del dissidio tra l’asse della resistenza e le petromonarchie). L’affermazione delle forze nazionaliste e repubblicane nell’area rappresenta un rischio esistenziale per i regimi feudali del golfo che hanno come interesse principale quello di conservare un sistema di potere arcaico che esclude il popolo da ogni forma di potere; l’incoerenza con la quale le petromonarchie solidarizzano con la popolazione palestinese a chiacchiere, mentre continuano a collaborare con l’impero coloniale, sta tutta – appunto – in questa convergenza tra impero e monarchie regionali nel combattere l’avvento della modernità e, cioè, della sovranità popolare, un asse che, nell’era dell’unipolarismo a stelle e strisce, ha retto benissimo e che, nelle intenzioni di Washington, si doveva finalmente formalizzare con gli accordi di Abramo. Paradossalmente, però, nel tempo – e non senza contraddizioni – le petromonarchie si sono rivelate meno intransigenti degli alleati occidentali: nonostante l’interesse comune a perpetrare un sistema premoderno, dove la divisione tra chi comanda e chi viene comandato (tra schiavi e uomini liberi) è naturalizzata e istituzionalizzata, le petromonarchie hanno capito – prima dell’impero e delle sue propaggini regionali – che il mondo stava cambiando e che, per salvare il salvabile, era necessario scendere a qualche compromesso; ed ecco così che, di fronte al tentativo di escalation israeliano contro l’Iran rappresentato dall’attacco al consolato di Damasco, i sauditi hanno reagito tempestivamente con questo comunicato ufficiale che condanna l’accaduto. Nel frattempo, The Cradle parla di una visita di Wafiq Safa, capo dell’Unità di collegamento e coordinamento di Hezbollah negli Emirati Arabi Uniti, che “nonostante tutte le congetture”, sottolinea l’articolo, rappresenta “uno sviluppo innegabile: il tentativo di cominciare a sciogliere le ostilità di lunga data tra Hezbollah e un importante alleato arabo sia degli Stati Uniti che di Israele come gli Emirati Arabi Uniti” : per capire l’entità, basti ricordare che Safa è sulla lista delle sanzioni USA e la stessa Hezbollah è, a tutt’oggi, designata come organizzazione terroristica dagli Emirati. Al cuore di queste trattative, formalmente c’è una questione piuttosto circoscritta: il destino di alcuni prigionieri libanesi detenuti nell’emirato, ma quello che fa pensare è che “questo incontro insolito avrebbe potuto svolgersi a Damasco, in segreto. Gli Emirati invece hanno optato per una messa in onda pubblica, e hanno persino organizzato il trasporto di Safa via aereo negli Emirati”.
A voler essere ottimisti, sembrano tutti segnali di un sempre maggior isolamento di Israele che però, appunto, non si scoraggia e rilancia: la campagna israeliana volta a prendere di mira i massimi comandanti iraniani e i leader dei gruppi militanti dell’asse della resistenza va avanti da tempo, ma quello che è accaduto negli ultimi giorni potrebbe rappresentare un importante salto di qualità: prima ci sono stati gli attacchi aerei israeliani sulla provincia settentrionale siriana di Aleppo dove sarebbero rimasti uccisi, secondo un osservatore interpellato dal Financial Times, “42 persone” tra i quali “cinque combattenti del gruppo militante libanese” Hezbollah. “Se i numeri fossero esatti” sottolinea il Financial Times “sarebbe l’attacco israeliano più mortale in Siria dal 7 ottobre”; l’obiettivo sarebbero stati, in particolare, carichi di armi diretti proprio in Libano, ed era solo l’inizio: l’attacco al consolato, infatti, rappresenterebbe un’escalation ancora più vistosa, dal momento che “Le strutture diplomatiche” come ha ricordato, sempre al Financial Times, Dalia Dassa Kaye dell’Università di Los Angeles “sono viste come spazi nazionali protetti e sovrani. Un attacco a una struttura diplomatica è come un attacco al paese stesso”. A cadere nell’agguato, Mohamad Zahedi che, secondo Charles Lister del Middle East Institute, sarebbe stato nientepopodimeno che “l’uomo di riferimento per tutto ciò che il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica sta facendo in Siria e Libano”: secondo quanto riportato dalla testata libanese Al Mayadeen, il responsabile delle relazioni nel mondo arabo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina avrebbe dichiarato che Zahedi si stava “coordinando con le parti interessate per consegnare armi a Gaza”; in sostanza, secondo queste poche informazioni tutte da verificare, l’asse della resistenza sta cercando di alzare un po’ l’asticella e Israele, però, è ancora in grado di rovinargli i piani prima di ottenere risultati concreti, ma in molti sospettano che il cambio di strategia sia molto più profondo.
Quello che non torna, infatti, è che proprio mentre l’asse della resistenza alza l’asticella, gli alleati storici di Israele intensificano i canali di dialogo; Israele, quindi, comincerebbe a temere sempre di più l’isolamento e, non avendo una exit strategy ragionevole, avrebbe deciso di puntare tutto sull’allargamento del conflitto: l’allargamento del conflitto, infatti, imporrebbe un intervento ancora più massiccio da parte di Washington e, forse, anche un cambio di rotta da parte dei paesi arabi. Nessuno infatti, per motivi diversi, potrebbe in nessun caso permettere una vittoria sul campo dell’asse della resistenza: le petromonarchie perché, sotto la spinta del nazionalismo popolare, vedrebbero minacciata la tenuta dei loro regimi feudali; gli USA perché vedrebbero tutta l’area spostarsi definitivamente nella sfera d’influenza di Russia, Cina e, in generale, tutto quello che si oppone all’unipolarismo a stelle e strisce. Un collo di bottiglia strategico che giustificherebbe anche il fatto che mentre, ormai, tutti sostengono che le divergenze tra l’amministrazione Biden e il governo Netanyahu non siano esclusivamente di facciata, il sostegno concreto degli USA al genocidio non viene comunque meno, anzi: come riportava la CNN lunedì scorso, infatti, l’amministrazione Biden sarebbe a un passo da approvare la vendita di 50 nuovi F-15 a Israele per la cifra di 18 miliardi di dollari, nella “più grande vendita di armi americane a Israele dall’inizio del conflitto il 7 ottobre scorso”.
Le priorità USA appaiono quindi piuttosto chiare: 1) impedire che Israele smetta di essere la principale potenza regionale e il guardiano degli interessi dell’impero in Medio Oriente e 2) convincere Tel Aviv, gli arabi e l’asse della resistenza a non trasformare il genocidio e lo sterminio in una guerra generale che le impedisca di concentrarsi sul Pacifico per la vera grande guerra contro il nemico cinese. Le parti in causa, quindi, sarebbero sostanzialmente 4: la prima è Tel Aviv, che non può vincere la sua guerra e che potrebbe vedere nell’escalation regionale l’unica soluzione possibile; la seconda è Washington, che non può permettere a Tel Aviv di perdere, ma che non può nemmeno permettersi di impantanarsi in prima persona in una grande guerra regionale. Da questo punto di vista, l’interesse della terza parte e, cioè, del Sud globale – che è un’astrazione e non esiste – coinciderebbe paradossalmente con quello israeliano, dal momento che un’escalation, per Washington, sarebbe una tragedia che accelererebbe vertiginosamente la fine dell’unipolarismo e l’avanzata di un nuovo ordine multipolare; e, infine, c’è l’asse della resistenza che, ovviamente, condivide il grande piano di indebolire l’unipolarismo USA, ma – giustamente – deve fare i conti con il livello di distruzione che una guerra regionale comporterebbe e sulle conseguenze che potrebbe avere per la sopravvivenza stessa di alcuni Stati, dall’Iran alla Siria, e anche di potenze non statuali come Hezbollah. Quello che sappiamo è che, nel frattempo, Israele ha deciso di reagire all’impasse strategica in cui s’è infilata mettendo finalmente fine alla barzelletta dell’unica democrazia del Medio Oriente; come riporta sempre il Financial Times, da un po’ di tempo a questa parte la morsa della repressione sul dissenso interno è aumentata a dismisura: “Nurit Peled-Elhanan, una docente universitaria, si è azzardata a scrivere in un gruppo WhatsApp di insegnanti che confrontare Hamas al nazismo non era accurato, poiché il nazismo era l’ideologia di uno stato che si proponeva di sterminare le minoranze indifese sotto il suo dominio”. “Nel giro di poche ore è stata sospesa; “Era la prima volta che attaccavano un ebreo di sinistra” ha detto Peled-Elhanan”. Stessa sorte, poco dopo, è toccata a Meir Baruchin, insegnante di storia ed educazione civica; a questo giro, galeotto fu un post su Facebook con foto di abitanti di Gaza uccisi durante l’offensiva israeliana: “Intere famiglie vengono spazzate via” ha avuto l’ardire di commentare. “Nel giro di poche settimane, il comune locale l’ha licenziata e ha presentato denuncia alla polizia. Il ministero dell’Istruzione gli ha sospeso la licenza di insegnante. E infine è stato arrestato con l’accusa di tradimento, e detenuto per quattro giorni”. Lunedì sera il parlamento ha approvato una legge che dà al governo il potere di vietare le trasmissioni di Al Jazeera nel paese e di sequestrare tutti i suoi beni: Dopo le fake news sugli stupri, titolava entusiasta ieri Libero, Israele proibisce al Jazeera, l’emittente dell’odio palestinese; più che con le presunte fake news sugli stupri – che, mal che vada, non sono certo in grado di controbilanciare le fake news sui bambini decapitati, le donne squartate per estrargli il feto e altra paccottiglia che Israele impone quotidianamente alla propaganda domestica e internazionale – la stretta, in realtà, sembra collegata alla necessità di dissimulare l’esito piuttosto drammatico dell’operazione militare, da Gaza al confine col Libano. Secondo la propaganda di regime, infatti, al confine nord si sarebbero registrati 258 combattenti di Hezbollah uccisi, contro appena 10 appartenenti alle forze armate israeliane, ma “Secondo i dati sul campo ottenuti da The Cradle”, in realtà “i combattenti uccisi da Hezbollah in operazioni transfrontaliere contro lo stato occupante sarebbero oltre 230”; il trucchetto, denuncia The Cradle, consisterebbe in buona parte nell’assoldare combattenti tra le comunità beduine e druse che poi non vengono riportati, e si chiude la faccenda con un generoso assegno alle famiglie: “Ad esempio” riporta l’articolo “il 70% del 299esimo battaglione, di stanza nella zona di Hurfaish – a quattro chilometri dal confine libanese – sono membri della comunità drusa. Il battaglione ha subito numerose vittime, ma Israele ha segnalato solo una perdita fino ad oggi”.
L’impero deve fare ogni giorno i conti con i suoi limiti e con le reazioni che scatena in chi non ha nessuna intenzione di chinare la testa e le uniche armi che gli rimangono, giorno dopo giorno, sono lo sterminio indiscriminato dei più indifesi e la propaganda; impediamogli di averla vinta: continuiamo a opporci a questo genocidio con ogni mezzo necessario, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Piero Fassino















OttolinaTV

3 Aprile 2024

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