Non ascoltate Pontypool in cuffia, di notte, da soli in casa. Quando l’ho fatto qualche giorno fa per voi, vedendolo per l’ennesima volta, mi si sono addrizzati anche i peli del cane del vicino; ho dovuto voltarmi ogni due minuti per controllare che non ci fosse qualcuno nella stanza che volesse aggredirmi. D’altro canto Pontypool è perfetto da ascoltare in cuffia perché è un film sulla parola, il linguaggio, il suono: di parola, di linguaggio e di suono. E sulla cosa più potente che puoi mettere davanti alla macchina da presa: quello che metti fuori, che non si vede; che c’è fuori dal campo, dal frame, dall’inquadratura. Il fuori campo può essere molto più efficace dell’in campo: quello che viene solo evocato può essere molto più capace di raccontare di quello che viene messo in scena; ciò che vive oltre i bordi dell’inquadratura brulica con maggiore intensità di ciò che spesso dentro l’inquadratura ci muore. Il cinema non è la televisione: in un film non si deve vedere tutto, ogni cosa non deve essere illuminata. Hitchcock diceva che quando stai riprendendo un uomo armato di coltello che insegue una donna in un corridoio per ucciderla, quando la donna entra in una stanza per salvarsi, quando l’assassino entra anche lui nella stanza, tu regista non devi entrare in quella porta con la macchina da presa; devi rimanerne fuori: si devono ascoltare solo i rumori e le grida di ciò che accade lì dentro, così ogni spettatore può proiettarvi le proprie personali, più profonde paure piuttosto che subire quella singola – probabilmente banale e inevitabilmente limitata – del regista. Così si riesce a spaventare di più, e più gente; per questo, almeno il 90% del cinema tratto dai racconti di Lovecraft non funziona: perché sceneggiatori, produttori e registi vogliono sempre mettere i mostri in scena, davanti la macchina da presa, invece di lasciarli dove li ha messi Lovecraft – nella mente dei folli protagonisti delle sue storie. Per questo io e Roberto Leggio abbiamo scelto il mockumentary, il falso documentario, per fare un film su Lovecraft: perché il mockumentary ci imponeva di non far vedere il mostro, di tenerlo costantemente fuori campo; ci permetteva di far chiedere allo spettatore se DAVVERO ci fosse un mostro fuori campo, di non fargli sapere neppure che mostro fosse.
Mostrare un mostro significa, appunto, illuminarlo e, così, non fa più paura. Il mostro vive, striscia e spaventa nell’oscurità, cioè fuori campo, lontano dall’inquadratura, a meno che non sei Stanley Kubrick e fai un horror ambientato in un hotel con le luci sempre accese e riesci lo stesso a trasmettere un’angoscia quasi insopportabile. Ma anche qui: come ci riesce? Invitandoti a entrare nella mente, oscura, di Jack Torrance: è lì che è davvero ambientato il film, dove i mostri sono immersi nel buio. Non li vedi: per questo fanno così paura. Ma quali sono i mostri, in Shining? Appunto, quali mostri? Fa ancora più paura, se non sai neppure come è fatto, il mostro, chi è, cos’è: basta sapere che c’è. Anzi, se sai solo che c’è ma non sai cos’è o chi è fa ancora più paura: è l’ignoto a fare paura, diceva Lovecraft. Il mostro di Shining non è Jack Torrance, ma la presenza occulta che pare aleggiare nell’hotel: infatti quando Jack muore congelato… non muore; rivive nell’eternità, come mostra la foto finale del film. Se il mostro lo illumini – lo metti davanti invece che di lato, invece che fuori dal campo, se lo nomini – non fa più paura.
Una famosa junghiana, hillmaniana e campbelliana, Carol Pearson, diceva che per sconfiggere il drago interiore, i propri mostri, la prima e più importante cosa da fare è nominarlo; non combatterlo, ma dargli un nome e poi chiamarlo a voce alta: da lì in poi la strada è in discesa. Se gli dai un nome ce l’hai in pugno; se invece non sai neppure chi o cosa sia il drago – e quindi non puoi (o non vuoi) nominarlo – è lui a controllare te, perciò se fai un horror devi nominare, mostrare il mostro il meno possibile (vedi Lo squalo o il primo Alien). E come fai a mostrare il mostro senza mostrarlo? Per esempio percependolo solo con l’udito: uno stesso ruggito può appartenere a un alieno sanguinario con otto braccia e dita ungulate lunghe un metro, ma anche al rumore di uno sciacquone rotto. Se lo vedi, può essere solo quello che vedi; se lo senti, può essere tutto. Sei in un teatro immenso, ma completamente buio, di notte, da solo; a un certo punto senti un neonato piangere. Ti arrivano due segnali contrastanti: il pianto di un neonato appunto, un evento normalmente normale, ma è dentro un contesto in cui non può stare, anormale. Il terrore è assicurato: quel pianto può appartenere a un bambino vero o a un fantasma, o a una creatura orribile che finge di essere un bambino. Lo stai sentendo davvero oppure viene dalla tua testa? Ma soprattutto: c’è qualcun altro con lui? O qualcos’altro? Perché pensate che il dramma radiofonico della CBS La guerra dei mondi dell’allora 23enne Orson Welles, del 1938 (un anno prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale) abbia gettato nel panico milioni di persone negli Stati Uniti? Perché gli alieni non si vedevano, erano solo parole lanciate nell’etere da Welles e ognuno proiettava su di loro le proprie più inconfessabili paure. Magari è stato per questo che i trenta cosiddetti discorsi dal caminetto di Roosevelt, che il popolo statunitense ascoltava alla radio negli anni ’30 e ‘40, hanno avuto tutto quell’impatto. Certo, anche perché i contenuti oggi ci appaiono per come davvero erano e, all’epoca, era impossibile comprendere: archetipi di comunicazione politica; ma nel suo significato originale, un archetipo è un primo modello, una prima forma, la matrice di un concetto, di un testo o di un’icona. Al principio, dice la Bibbia, non era un’immagine. Al principio era il Verbo (il Logos) e il verbo era Dio: il Verbo era la parola di Dio, che crea la realtà.
Il suono quindi è vibrazione, costruttore di forme. Eppure il radiodramma di Welles fu annunciato in quanto tale, una finzione; non fu spacciato per vero. Solo a un certo punto Welles fa finta di interrompere la musica per lanciare una notizia in diretta, un flash: “Signore e signori, vogliate scusarci per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle 7:40, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute ad intervalli regolari sul pianeta Marte. Le indagini spettroscopiche hanno stabilito che il gas in questione è idrogeno e si sta muovendo verso la Terra ad enorme velocità”. In Pontypool questo accade continuamente, in modo molto simile: sei in una piccola stazione radio canadese immersa nella bufera di neve; dal telefono ti arrivano notizie di una strana epidemia, ma non la puoi vedere. I mostri generati dall’epidemia non li puoi vedere, sai solo che sono intorno a te, lì fuori; non sai cosa siano e perché: non puoi nominarli, catalogarli, controllarli.
C’è un neonato che piange in un enorme teatro vuoto e buio. Puoi solo sentirlo. Magari è il bambino di Rosemary. Appunto, Pontypool.