Il golpe di Macron: come la Francia dà il la alla fine delle democrazie liberali in Occidente
Decine e decine di manifestanti feriti e centinaia tratti in arresto, riforme epocali invise alla stragrande maggioranza della popolazione approvate d’imperio senza passare dal Parlamento, proprietari di media dissidenti imprigionati con accuse farlocche e, infine, il rifiuto di accettare (accampando scuse risibili) il risultato delle urne: se fosse accaduto in un Paese inviso all’Occidente vedremmo già gli F35 in volo; e invece non è altro che il bilancio, tra l’altro parziale, di 7 anni di presidenza del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, il Renzi d’oltralpe che ce l’ha fatta (o meglio, che si illudeva d’avercela fatta). A partire dalla repressione cilena del movimento dei Gilet Gialli prima, nel 2018, e di quello – sostenuto dalla stragrande maggioranza della popolazione – contro la riforma delle pensioni l’anno scorso poi, passando per l’arresto rocambolesco del fondatore di Telegram Pavel Durov, Macron, quando si parla di superamento dei vecchi paletti dei regimi liberal-democratici, non s’è fatto mai fatto mancare niente, senza che la stampa guerrafondaia occidentale – che invoca continuamente bombe e razzi in nome della libertà e della democrazia – ci trovasse mai niente da ridire. Ma ora, forse, potrebbe davvero aver superato ogni limite: a ormai oltre 50 giorni dalla vittoria alle elezioni del Nuovo Fronte Popolare guidato dalla France Insoumise di Jean Luc Melenchon, Macron infatti, con sprezzo sfacciato di ogni etichetta istituzionale, si ostina a non riconoscere il responso delle urne e nega la possibilità di formare un nuovo governo mentre continua a emanare decreti su decreti che vanno clamorosamente oltre la gestione ordinaria.
Che l’era dell’ipocrisia delle liberal-democrazie stesse volgendo rapidamente al termine lo sosteniamo ormai da tempo, ma non pensavamo così rapidamente e in maniera così spudorata; ma prima di ricostruire nel dettaglio l’incredibile svolta eversiva ed autoritaria della Francia di Macron, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci anche a oggi a combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi (almeno quelli dei social che Macron non ha nessuna intenzione di chiudere) e, se ancora non lo avete fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali e ad attivare tutte le notifiche: a voi costa solo qualche secondo di tempo, ma per noi fa davvero la differenza e ci aiuta a costruire quel vero e proprio media per il 99% del quale abbiamo sempre più bisogno, mano a mano che nel nostro Occidente in declino i Macron diventano sempre più frequenti.
Choc Le Pen, Macron scioglie il parlamento (Il Manifesto, 10 giugno 2024): quando la sera stessa delle passate elezioni europee il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, di fronte alla debacle della sua formazione politica e al trionfo della destra lepenista, ha annunciato in conferenza stampa lo scioglimento immediato dell’organo legislativo francese, siamo rimasti tutti un po’ spiazzati; a che gioco stava giocando? Secondo gli analfoliberali più fondamentalisti si trattava, ovviamente, di una straordinaria prova di coraggio e di leadership: “Quella di Macron è una scelta radicale” scriveva l’immancabile Foglio, “una scommessa sulla Francia e sul suo popolo”; a 50 giorni di distanza, di tutta questa fiducia e questo rispetto di Macron per il popolo francese, però, non è che ci siano tante tracce, anzi. D’altronde, le premesse non erano delle migliori: stando a quanto sottolineava il costituzionalista italiano Mauro Volpi sul Manifesto di ieri, infatti, la Costituzione francese prevede che prima di decidere sullo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, il presidente si dovrebbe consultare con il primo ministro e i presidenti delle camere; Macron invece, a quanto pare, non avrebbe consultato una beata minchia di nessuno. D’altronde – anche qui – non è certo una novità: in 7 anni di presidenza, ogniqualvolta Macron s’è ritrovato di fronte a qualche decisione difficile, invece della strada del dialogo e del rispetto dei ruoli istituzionali ha sempre optato per la via più autoritaria a disposizione, anche quando a contrastare le sue proposte era la stragrande maggioranza della popolazione francese come è successo – ad esempio – in occasione della riforma delle pensioni l’anno scorso, contro la quale s’è mobilitato per settimane l’intero Paese. Secondo alcuni sondaggi, i contrari alla legge sfioravano il 75% dei francesi; ciononostante, il sempre pimpantissimo Manuelino prima li ha fatti prendere a sprangate da una macchina repressiva da America latina anni ‘70 e poi la riforma se l’è approvata da solo, senza passare dal Parlamento, ricorrendo al famigerato terzo comma dell’articolo 49 della Costituzione, una delle tante leggi in giro per le ridenti democrazie liberali che permette all’esecutivo di bypassare il potere legislativo (con buona pace del buon vecchio Montesquieu) e che, con il secondo mandato di Macron, è diventato praticamente il metodo normale di governo. “Con ventitré ricorsi in diciotto mesi, il governo Borne” e cioè il primo governo della seconda presidenza Macron “banalizza l’articolo 49.3” era costretto a denunciare nel novembre scorso anche Le Monde, nonostante il suo sostegno incondizionato alla politica pro ricchi di Manuelino.
Ma torniamo alla nostra cronologia. Siamo al 7 luglio: le elezioni in Francia si sono svolte in maniera regolare, smentendo i timori iniziali; e dai risultati del primo turno – che si era tenuto la settimana precedente – il rischio di una vittoria del Rassemblement National della Le Pen è stato sventato. Ancora una volta la vecchia strategia del barrage républicain (e cioè l’accordo tra tutte le forze che si autodefiniscono democratiche per sbarrare la strada alla cosiddetta estrema destra) ha funzionato, ma forse non esattamente come aveva sperato Macron: a conquistare la maggioranza relativa dei seggi in parlamento, infatti, non è la sua coalizione centrista e ultra-liberista (che si chiama Ensemble), ma l’NFP, il Nuovo Fronte Popolare, la coalizione dei partiti della sinistra francese. E all’interno di questa, il gradino più alto del podio tocca al partito considerato più radicale, la France Insoumise di Jean Luc Mélenchon. A regola – a questo punto – il da farsi sarebbe dovuto essere piuttosto semplice: la France Insoumise propone un nome al Nuovo Fronte Popolare, che lo propone a Macron, che lo nomina primo ministro – se solo le buone vecchie maniere delle democrazie liberali fossero ancora in vigore. Il primo diversivo si chiama Olimpiadi: in vista dell’evento sportivo che dal 26 luglio doveva prendere il via a Parigi, Macron propone una vera e propria tregua olimpica con la scusa di mettere le istituzioni nelle condizioni di fronteggiarlo al meglio; d’altronde, ne va del prestigio della Francia nel mondo. Nel frattempo, nei confronti della France Insoumise monta una macchina del fango di dimensioni epiche che mette insieme la macchina propagandistica delle oligarchie che sostengono Macron e la destra reazionaria; come nella tristemente nota campagna che l’attuale premier britannico Keir Starmer ha ordito a suo tempo contro Jeremy Corbyn (col sostegno dei servizi inglesi e statunitensi e tutto il circo mediatico che fa da ripetitore alle loro veline), al centro c’è la solita vecchia accusa di antisemitismo, che è ormai diventata la carta preferita che ogni politico anti-popolare dell’Occidente collettivo tira sempre fuori alla bisogna.
D’altronde, effettivamente, la France Insoumise e Mélenchon hanno nei giovani di etnia araba delle banlieu uno dei loro zoccoli duri; e quindi contro lo sterminio dei bambini palestinesi hanno sempre adottato una linea coerente che, nel linguaggio della propaganda legata alla lobby sionista, diventa appunto magicamente antisemitismo. Ed ecco così che quando – finalmente – le Olimpiadi l’11 agosto volgono al termine, siamo punto e a capo; il Nuovo Fronte Popolare e la France Insoumise, per non dare adito alle scuse di Macron, hanno optato per un nome di compromesso decisamente lontano dalle frange considerate più estreme e impresentabili dai conservatori: si chiama Lucie Castets, si è formata nelle migliori scuole di Londra e Parigi, ha un passato alla Direzione generale del Tesoro e all’Agenzia francese per l’intelligence finanziaria e anche un passato tra le fila del moderatissimo partito socialista, proprio negli anni durante i quali – tra le fila dello stesso partito -militava, con incarichi ben più rilevanti, il nostro Manuelino stesso. Che però non si accontenta e rilancia: il punto – sostiene – è che per il bene della Francia, viste in particolare, appunto, le accuse di antisemitismo, nel governo non ci possono essere ministri della France Insoumise. Ed ecco così che la faccenda torna incredibilmente a impantanarsi fino a quando Mélenchon non tira fuori una delle sue soluzioni dal cappello; è il 24 agosto: a Valence è in corso un grande evento della France Insoumise per festeggiare il rientro dalle vacanze, quando ai microfoni di Tf1 Jean Luc spiazza tutti e dichiara “Non saremo mai parte del problema, saremo sempre e solo parte della soluzione”. “Chiedo ai dirigenti macronisti: mettereste un veto su un governo Castets, che applicherà il programma nel Nuovo fronte Popolare, ma senza ministri della France Insoumise? Se la risposta è no, ovviamente significa che il rifiuto di vedere ministri della France Insoumise nel governo è solo un pretesto per continuare a negare il risultato delle elezioni”. E indovinate un po’? La risposta di Macron è no; e quindi torna il quesito: a che gioco sta giocando?
Così, a naso, mi pare evidente che qui in ballo non ci sia il suo futuro politico; quello infatti è ormai definitivamente compromesso: in tutto l’Occidente – dove i leader politici che, in termini di consenso, non se la passano proprio benissimo non mancano – non esiste capo di Stato più inviso al suo stesso popolo di lui e difficilmente con questo comportamento può pensare di aumentare la sua popolarità. Piuttosto (esattamente come il nostro Matteo Renzi, che Manuelino ricorda sempre più da vicino), per garantirsi un futuro brillante dopo la fine della presidenza ha bisogno di tutelare con ogni mezzo necessario gli interessi delle oligarchie delle quali è sempre stato un fedele servitore: come sottolinea candidamente Le Monde “Il veto di Macron al Nuovo Fronte Popolare va ovviamente ben al di là della mera presenza di ministri della France Insoumise. Per Macron e i suoi è molto semplicemente inconcepibile nominare un governo che potrebbe rimettere in discussione le sue riforme principali, a partire da quella delle pensioni, e che possa aumentare le tasse, la spesa pubblica, o il salario minimo”. Nel frattempo – come proprio dal palco di Valence ha ricordato la presidente del gruppo parlamentare della France Insoumise Mathilde Panot – dall’accettazione delle dimissioni del governo Attal ad oggi ci sono stati 1160 decreti e altri atti ufficiali pubblicati in Gazzetta Ufficiale: “Com’è possibile definirla gestione degli affari correnti?”.
Insomma; le democrazie liberali 2.0, in soldoni, funzionano così: un presidente eletto da una minoranza propone delle riforme antipopolari, reprime con la violenza le proteste e, alla fine, le fa passare bypassando l’organo legislativo; a quel punto la sua popolarità crolla ancora di più, ma quando si va a votare viola la prassi costituzionale per evitare che si crei un governo rispettoso del voto che potrebbe stravolgere le sue stesse riforme impopolari e, nel frattempo, continua a governare da solo a suon di decreti (compresi magari quelli per garantire la fornitura di armi per una guerra contro qualche sanguinario dittatore in nome della difesa della democrazia). E in tutto il mondo questo paradosso lo vedono benissimo, eh? Non è che passa inosservato; gli unici che non lo vedono sono quelli a libro paga della nostra macchina propagandistica. Sarebbe arrivata l’ora di mandarli tutti a casina; per farlo, abbiamo bisogno di costruire da zero un vero e proprio media che, invece che infiocchettare con mille fregnacce la deriva autoritaria e antipopolare delle nostre democrazie liberali, dia voce ai bisogni concreti del 99% e ponga le condizioni per una vera Riscossa Multipopolare. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Giuliano Ferrara
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