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Tag: melenchon

Da Draghi a Blair a Barnier: se l’Europa in declino prova a salvarsi resuscitando gli zombie

L’Europa sull’orlo del collasso decide di accelerare il declino e di consegnarsi mani e piedi a dei morti viventi riesumati ad hoc dalla cripta. Mercoledì a Bruxelles è successo o’ miracolo; dall’oltretomba è riapparso lui, il superuomo che aveva scosso le coscienze di mezza Europa mettendoci di fronte al grande enigma esistenziale: volete la pace o il condizionatore? Anche grazie a lui, abbiamo dovuto rinunciare ad entrambi; eppure rieccolo, accolto ancora una volta (inspiegabilmente) come un messia: SanMarioPio da Goldman Sachs anche a ‘sto giro ha rifatto il miracolo. Come sempre, è riuscito a fare esultare tutti i media mainstream del continente senza dire sostanzialmente una seganiente: “Senza riforme l’Ue non ha futuro” citava entusiasta addirittura Libero che, in passato, a lungo ha fatto finta di fargli l’opposizione; per domani mi aspetto un titolone tipo Draghi choc: non esistono più le mezze stagioni o Draghi illumina la platea: senza lilleri non si lallera. Mentre SanMarioPio pronunciava le sue solite 4 cazzate in croce per far finta che questo nuovo mandato della Von der Leyen possa ambire a qualcosa, dall’altra parte dello stretto della Manica andava in scena un altro sconvolgente rito liturgico; Aldo encefalogramma piatto Cazzullo ricorreva a tutti i poteri ultraterreni conferitigli dalla sua penna insopportabilmente melensa per resuscitare uno dei peggiori incubi della storia politica europea: Tony antrace Blair che, sottolinea Cazzullo, “ha meno capelli, ma è più magro”. D’altronde, i crimini di guerra e centinaia di migliaia di bambini iracheni sulla coscienza, anche a distanza di 20 anni, si fanno sentire (anche se non sui nostri media mainstream); il Corriere dedica a Blair due paginate intere per un’intervista apologetica con un quantità di luoghi comuni che, in confronto, il Caffè di Gramellini o le interviste di Fabio Fazio sono avvincenti thriller ricchi di colpi di scena, e che serve esclusivamente a lanciare il suo nuovo libro: On leadership. L’arte di governare, con il quale ieri ha deciso di debuttare la Nuova Silvio Berlusconi Editore “pensata e voluta dalla figlia Marina”, sottolinea Cazzullo.
Ma per assistere al vero miracolo della resurrezione, ieri è stato necessario attendere l’ora di pranzo; dopo ormai quasi due mesi che Macron fa di tutto per non dare l’incarico di formare il governo al Nuovo Fronte Popolare, vincitore delle elezioni, ecco che arriva la bomba: l’incarico è stato affidato a Michel Barnier, il Gasparri d’oltralpe, una vera e propria cariatide che non è mai riuscito a farsi votare nemmeno dai parenti, ma che dal 1978 ad oggi ha ricoperto ogni incarico possibile immaginabile. Nel 2021 Barnier si era presentato alle primarie del Partito Repubblicano; era arrivato terzo e quella che è arrivata prima alle elezioni ha preso il 5%: da allora il suo partito ha dimezzato di nuovo i seggi in parlamento. Insomma: se c’era uno che i francesi hanno detto chiaramente che non volevano nemmeno come inserviente alla bouvette del Parlamento era lui, fino a quando Macron e i superpoteri che solo l’investitura ufficiale delle oligarchie ti possono conferire, hanno fatto il miracolo. Ma prima di approfondire com’è che, non senza coerenza, un continente moribondo sta decidendo di affidarsi interamente a una classe dirigente di zombie che pensavamo e speravamo stramorti e sepolti, vi ricordo di mettere un like a questo video per consentirci di combattere anche oggi la nostra guerra quotidiana contro chi quegli zombie gli difende (anche a suon di algoritmi) e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto impieghi Cazzullo per accusare di complottismo chiunque non abbia subito una lobotomia frontale, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a contrastare il declino dando voce al 99%.

SanMarioPio da Goldman Sachs

“Per crescere e ambire a un ruolo di rilievo globale, l’Europa ha bisogno di riforme immediate senza precedenti, che devono coinvolgere tutti gli attori europei. Questo, in estrema sintesi, il nuovo, ennesimo, grido d’allarme lanciato nelle scorse ore dall’ex presidente BCE Mario Draghi”: dal tono apologetico, uno potrebbe pensare si tratti di uno di quei corsivi imbarazzanti di Antonio Scurati che tanto ci avevano fatto ridere durante il regno di SanMarioPio e, invece, è nientepopodimeno che Libero; d’altronde, di fronte alla luce che emana il santo banchiere non c’è pregiudizio ideologico che tenga. Il tono, infatti, cambia poco se si va dall’altra parte dello spettro politico: In Ue riforme rapide e senza precedenti, titola Domani; la Von der Leyen si aggrappa all’agenda Draghi. Ma cos’avrà fatto, a questo giro, il nostro messia per scatenare così tanto entusiasmo? Come al solito, una beneamata seganiente; la santità, d’altronde, è così che funziona: sta negli occhi di chi vede o nelle orecchie di chi sente, e che ha trovato la fede. La fede incrollabile e ingiustificata nel mito di SanMarioPio, a questo giro, è stata riaccesa dall’incontro che si è tenuto mercoledì a Bruxelles tra il santo banchiere e gli ambasciatori, prima, e i leader politici poi dei paesi aderenti: “Una presentazione formale dove non si è detto granché” ha osato dichiarare l’infedele Manon Aubry della France Insoumise; “La tanto attesa presentazione” avrebbe addirittura dichiarato un’altra fonte a Euractiv “non era all’altezza delle aspettative. Anzi, era decisamente deludente”. Ad essere presentato, rigorosamente a porte chiuse, doveva essere il tanto atteso report sulla competitività che la Von der Leyen aveva commissionato al santo banchiere ormai un anno fa. A che titolo? E da quando in qua ai santi serve un titolo? “Qual è la legittimità democratica di Mario Draghi per scrivere un rapporto del genere?” si chiede di nuovo Aubry la sacrilega: “Siete stati voi, o qualcun altro, ad eleggerlo?”; quello che sappiamo è che il rapporto doveva essere pronto per giugno. E invece siamo a settembre e non si è ancora visto; sarà consegnato ufficialmente lunedì prossimo, promettono: vedremo.
Nel frattempo, nonostante la pompa magna, sempre secondo Euractiv SanMarioPio “ha trascorso molto tempo a parlare dei numerosi problemi che ha identificato in termini di competitività dell’Europa e ha sostenuto che l’UE e i suoi Stati membri devono riformarsi per affrontare la sfida del futuro. Ma non ha approfondito le soluzioni che presenterà (presumibilmente) nel suo rapporto. Niente sui prestiti comuni, niente sulla difesa. Alcuni leader hanno posto anche alcune domande, ma lui non ha risposto”. D’altronde, tutto sommato, è anche giusto così: l’Unione europea ha rinunciato a quel poco di sovranità che le rimaneva quando ha deciso di sacrificare l’economia europea per sostenere la guerra per procura degli USA contro la Russia in Ucraina; e quindi, ora, se si parla di politiche economiche è giusto pour parler (e pour parler c’è sempre tempo). Nel frattempo, la cosa importante era dare un segnale chiaro alla propaganda mainstream, che fa sempre più fatica a trovare una narrazione in grado di farci ingoiare il secondo mandato di quell’essere inutile che è la Von der Leyen; il compito di SanMarioPio, quindi, non era altro che investire un po’ della luce che, inspiegabilmente, ancora oggi emana agli occhi dei salotti buoni della colonia Europa il commissario più grigio e delegittimato di sempre. E, alla fine, va anche riconosciuto che per quanto la sua presentazione sia risultata del tutto insipida e deludente, c’è sempre chi è in grado di fare di peggio, molto di peggio.
Con tutta la buona volontà possibile immaginabile, infatti, trovare una sola riflessione degna di nota all’interno delle interminabili due paginate che Aldo encefalogramma piatto Cazzullo ha voluto dedicare alla santificazione post mortem di Tony Blair è veramente un’impresa titanica; se – come giustamente ripete sempre il nostro Tommaso Nencioni – l’egemonia neoliberale consiste fondamentalmente nella politicizzazione delle puttanate e nella spoliticizzazione di tutto quello che davvero è motivo di contesa, il nostro Tony, anche a questo giro, si riconferma il suo sacerdote più ortodosso: con estrema lucidità, infatti, Blair delimita sin da subito l’ambito del conflitto fuffa tra le due fazioni del partito unico e denuncia come quella che (insieme a Cazzullo) definisce la deriva populista dei conservatori sia in realtà responsabilità dei centristi come lui, che “sembrano incapaci di prendere posizioni forti”. Si riferirà alla politica economica? Alla guerra? Alla crisi climatica? Macché: “Le guerre culturali”, ragazzi. Giuro. Lo dice proprio lui: il problema è che non prendiamo posizioni forti “sull’immigrazione e le guerre culturali”, ma non è una svista. E’ proprio una strategia: Cazzullo, infatti, ricorda a Blair come abbia più volte sostenuto che “un leader ha il dovere di essere ottimista”; “Nessuno sale volentieri a bordo di un aereo pilotato da un pessimista” conferma Blair. “Guardi la parabola del nostro tempo. Le cose stanno migliorando. La storia progredisce. Il ventunesimo secolo sarà straordinario. È solo questione di ritrovare la fiducia”. E Tony la fiducia la trova ovunque ponga lo sguardo: l’intelligenza artificiale rischia di indebolire ancora di più il mondo del lavoro? Ma no! “L’intelligenza artificiale non distruggerà mai il lavoro umano” rassicura Tony: “lo affiancherà. Se un lavoro può essere fatto meglio con l’intelligenza artificiale, sarà fatto con l’intelligenza artificiale: questa è la realtà”. Di questo passo non riusciremo mai ad affrontare la crisi climatica? Ma no! “Troveremo tecnologie green per lottare contro il cambio climatico senza danneggiare l’economia” (ovviamente, sempre a condizione che a pensarci sia il mercato); “Resiste l’ideologia per cui più è grande lo Stato, più è giusta la società” sottolinea Blair, “ma non funziona così”. In Medio Oriente Israele sta compiendo uno sterminio? Ma quando mai! Il problema è che i palestinesi sono divisi. Basta unificarli. E per unificarli basta che “a governare a Gaza non sia Hamas. Senza Hamas, Israele ha tutto l’interesse a cercare la pace”.
Con disappunto di Cazzullo, Blair è anche abbastanza ottimista su Trump: ricorda infatti come, tutto sommato, il suo istituto “ha lavorato in Medio Oriente durante l’amministrazione Trump, e abbiamo assistito a un grande accordo tra Israele e paesi arabi”; e anche nei confronti di Elon Musk – che Cazzullo definisce il vero capo dell’estrema destra globale – Blair spende comunque parole di encomio . “Se oggi in Africa anche le più remote aree rurali sono connesse, così come le settantamila isole che compongono l’Indonesia” sottolinea “lo si deve al suo sistema satellitare Starlink”; d’altronde, tra filantropi ci s’intende e, per mandare avanti il suo istituto, Blair di filantropi ne ha parecchio bisogno: meglio non essere troppo aggressivi con chi c’ha la grana. Anche sulla sua immagine pubblica Blair è ottimista: “Lei riconosce però anche di essere diventato impopolare” gli dice Cazzullo; un assist perfetto: “È il destino di ogni leader” risponde Blair in un eccesso di narcisismo che sembra eccessivo anche per i suoi standard. “All’inizio sei meno capace e più popolare. Con il tempo diventi molto più capace, e molto più impopolare. È accaduto anche a me”. L’unica cosa sulla quale non è poi così ottimista è sul conflitto con la Cina: “Ci sarà un conflitto militare tra America e Cina?” chiede Cazzullo. “Credo di no. Ma potrei sbagliarmi. Per questo dobbiamo prepararci a qualsiasi possibilità” – a partire dall’Ucraina, dove ovviamente le armi che forniamo devono poter essere utilizzate per colpire la Russia in profondità. Ça va sans dire. Alla fine, comunque, anche qui non c’è da preoccuparsi poi troppo perché quella che Cazzullo definisce la guerra politica tra le democrazie occidentali e le autocrazie, alla fine, la vinceremo perché “La stragrande maggioranza dei Paesi in cui si vive meglio sono democrazie” e “Le persone che vivono nelle autocrazie vorrebbero venire nei Paesi democratici”. Come in Francia, da dove arriva il terzo e ultimo zombie di questa carrellata in stile l’alba dei morti dementi.
Il contesto lo conoscete: come abbiamo descritto in dettaglio in questo video giusto qualche giorno fa, da mesi Macron si arrabatta per trovare il modo di ribaltare il responso delle urne e impedire che l’incarico di Primo Ministro finisca nelle mani di qualcuno che – come la stragrande maggioranza dei francesi – voglia annullare la riforma delle pensioni e, magari, anche qualche altra vaccata antipopolare passata negli ultimi mesi bypassando il parlamento e ricorrendo in modo totalmente incostituzionale al famigerato articolo 49,3 che permette, appunto, di governare a suon di decreti. La responsabilità di portare a termine questo piccolo golpe democratico è stata affidata ieri a Michel Barnier; deputato dal lontano 1978, nel tempo Barnier è stato ministro di tutto lo scibile umano: ambiente, affari europei, esteri, agricoltura e alimentazione, oltre che due volte commissario europeo, prima alle politiche regionali e poi al mercato interno e i servizi finanziari. Ed è sempre stato così scarso che, dopo 45 anni passati a occupare ogni poltrona possibile immaginabile, non è mai stato in grado di guadagnare mezzo voto; per il piano di Macron, l’uomo ideale: difficile temere si faccia qualche scrupolo a mettere la faccia in questa palese violazione della volontà democratica degli elettori francesi. D’altronde, come ha ricordato Melenchon ieri in un’incandescente conferenza stampa durante la quale ha invocato una massiccia mobilitazione popolare per domani, non è la prima volta: “Dopo che gli elettori francesi hanno respinto in massa l’approvazione della Costituzione europea nel 2005” ricorda infatti Melenchon, Barnier ha guidato il gruppo di politici che “ha presentato lo stesso identico testo all’Assemblea nazionale” che, a sua volta, ha immediatamente ribaltato la volontà popolare. Ma Barnier è l’uomo perfetto anche per un altro motivo: anche se non lo può ammettere pubblicamente, piace alla Le Pen, che ora viene chiamata a condividere le responsabilità di governo e che apre al dialogo; “Michel Barnier” ha dichiarato alla stampa “sembra soddisfare almeno uno dei criteri che avevamo richiesto, ovvero avere qualcuno che rispettasse le diverse forze politiche e fosse in grado di parlare con il Rassemblement National”.
D’altronde, anche da questo punto di vista la scelta di Barnier potrebbe non essere stata casuale; durante l’ultima campagna elettorale, aveva provato in ogni modo a raccattare qualche voto spingendo al massimo sull’autostrada più sicura: un po’ di retorica anti-migranti un tot al chilo. Certo, lui poi è talmente scarso che non ci ha cavato un ragno dal buco, ma sicuramente lo ha trasformato in un volto presentabile di fronte all’elettorato lepenista. La speranza è che, come i meloniani de noantri, alla fine nessuno chieda il conto per aver contribuito, con un gioco di palazzo palesemente antidemocratico, a tenere in piedi la riforma delle pensioni che – a chiacchiere – anche la Le Pen, come tutti i suoi elettori, dicono di avversare; basterà dire le solite tre puttanate sui migranti e lo zoccolo duro terrà botta, e sarà sufficiente per farla vincere alle prossime elezioni – alle quali, finalmente, si potrà presentare senza la sfiducia da parte delle oligarchie che l’ha ostacolata fino ad oggi. Proprio come la Meloni a sua tempo, anche Marine, infatti, negli ultimi mesi ha fatto di tutto per dimostrare di essere senza se e senza ma dalla parte dell’Occidente collettivo e dei poteri forti che lo governano, ma – visti i trascorsi – le perplessità non sono state del tutto superate; ed ecco così che quando a luglio i francesi sono tornati alle urne, ha prevalso la solita vecchia logica del barrage republicain, che prevede che tutti si alleino per evitare il pericolo più grande e, cioè, l’ascesa di una destra che guarda con sospetto a Washington e alle multinazionali: un po’ di tempo passato a fare la gavetta e sostenere un governo antipopolare è il modo giusto per superare definitivamente queste perplessità. Intanto, dopo l’annuncio dell’incarico a Barnier , i mercati francesi si sono parzialmente ripresi da una giornata partita malissimo: a guadagnare, in particolare, sono stati i titoli bancari, con Societe Generale che è salita del 3.6% e BNP Paribas SA del 2.7%.
Al contrario degli elettori della Le Pen e della Meloni, gli oligarchi sanno esattamente chi difende i loro interessi: resuscitano gli zombie, stravolgono i risultati elettorali e continuano a farneticare di guerra tra democrazie e autocrazie. Andrebbero mandati tutti rapidamente a casina; per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un media che, invece che alle loro vaccate, dia voce ai bisogni concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

Il golpe di Macron: come la Francia dà il la alla fine delle democrazie liberali in Occidente

Decine e decine di manifestanti feriti e centinaia tratti in arresto, riforme epocali invise alla stragrande maggioranza della popolazione approvate d’imperio senza passare dal Parlamento, proprietari di media dissidenti imprigionati con accuse farlocche e, infine, il rifiuto di accettare (accampando scuse risibili) il risultato delle urne: se fosse accaduto in un Paese inviso all’Occidente vedremmo già gli F35 in volo; e invece non è altro che il bilancio, tra l’altro parziale, di 7 anni di presidenza del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, il Renzi d’oltralpe che ce l’ha fatta (o meglio, che si illudeva d’avercela fatta). A partire dalla repressione cilena del movimento dei Gilet Gialli prima, nel 2018, e di quello – sostenuto dalla stragrande maggioranza della popolazione – contro la riforma delle pensioni l’anno scorso poi, passando per l’arresto rocambolesco del fondatore di Telegram Pavel Durov, Macron, quando si parla di superamento dei vecchi paletti dei regimi liberal-democratici, non s’è fatto mai fatto mancare niente, senza che la stampa guerrafondaia occidentale – che invoca continuamente bombe e razzi in nome della libertà e della democrazia – ci trovasse mai niente da ridire. Ma ora, forse, potrebbe davvero aver superato ogni limite: a ormai oltre 50 giorni dalla vittoria alle elezioni del Nuovo Fronte Popolare guidato dalla France Insoumise di Jean Luc Melenchon, Macron infatti, con sprezzo sfacciato di ogni etichetta istituzionale, si ostina a non riconoscere il responso delle urne e nega la possibilità di formare un nuovo governo mentre continua a emanare decreti su decreti che vanno clamorosamente oltre la gestione ordinaria.

Il sempre pimpantissimo Manuelino

Che l’era dell’ipocrisia delle liberal-democrazie stesse volgendo rapidamente al termine lo sosteniamo ormai da tempo, ma non pensavamo così rapidamente e in maniera così spudorata; ma prima di ricostruire nel dettaglio l’incredibile svolta eversiva ed autoritaria della Francia di Macron, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci anche a oggi a combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi (almeno quelli dei social che Macron non ha nessuna intenzione di chiudere) e, se ancora non lo avete fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali e ad attivare tutte le notifiche: a voi costa solo qualche secondo di tempo, ma per noi fa davvero la differenza e ci aiuta a costruire quel vero e proprio media per il 99% del quale abbiamo sempre più bisogno, mano a mano che nel nostro Occidente in declino i Macron diventano sempre più frequenti.
Choc Le Pen, Macron scioglie il parlamento (Il Manifesto, 10 giugno 2024): quando la sera stessa delle passate elezioni europee il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, di fronte alla debacle della sua formazione politica e al trionfo della destra lepenista, ha annunciato in conferenza stampa lo scioglimento immediato dell’organo legislativo francese, siamo rimasti tutti un po’ spiazzati; a che gioco stava giocando? Secondo gli analfoliberali più fondamentalisti si trattava, ovviamente, di una straordinaria prova di coraggio e di leadership: “Quella di Macron è una scelta radicale” scriveva l’immancabile Foglio, “una scommessa sulla Francia e sul suo popolo”; a 50 giorni di distanza, di tutta questa fiducia e questo rispetto di Macron per il popolo francese, però, non è che ci siano tante tracce, anzi. D’altronde, le premesse non erano delle migliori: stando a quanto sottolineava il costituzionalista italiano Mauro Volpi sul Manifesto di ieri, infatti, la Costituzione francese prevede che prima di decidere sullo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, il presidente si dovrebbe consultare con il primo ministro e i presidenti delle camere; Macron invece, a quanto pare, non avrebbe consultato una beata minchia di nessuno. D’altronde – anche qui – non è certo una novità: in 7 anni di presidenza, ogniqualvolta Macron s’è ritrovato di fronte a qualche decisione difficile, invece della strada del dialogo e del rispetto dei ruoli istituzionali ha sempre optato per la via più autoritaria a disposizione, anche quando a contrastare le sue proposte era la stragrande maggioranza della popolazione francese come è successo – ad esempio – in occasione della riforma delle pensioni l’anno scorso, contro la quale s’è mobilitato per settimane l’intero Paese. Secondo alcuni sondaggi, i contrari alla legge sfioravano il 75% dei francesi; ciononostante, il sempre pimpantissimo Manuelino prima li ha fatti prendere a sprangate da una macchina repressiva da America latina anni ‘70 e poi la riforma se l’è approvata da solo, senza passare dal Parlamento, ricorrendo al famigerato terzo comma dell’articolo 49 della Costituzione, una delle tante leggi in giro per le ridenti democrazie liberali che permette all’esecutivo di bypassare il potere legislativo (con buona pace del buon vecchio Montesquieu) e che, con il secondo mandato di Macron, è diventato praticamente il metodo normale di governo. “Con ventitré ricorsi in diciotto mesi, il governo Borne” e cioè il primo governo della seconda presidenza Macron “banalizza l’articolo 49.3” era costretto a denunciare nel novembre scorso anche Le Monde, nonostante il suo sostegno incondizionato alla politica pro ricchi di Manuelino.
Ma torniamo alla nostra cronologia. Siamo al 7 luglio: le elezioni in Francia si sono svolte in maniera regolare, smentendo i timori iniziali; e dai risultati del primo turno – che si era tenuto la settimana precedente – il rischio di una vittoria del Rassemblement National della Le Pen è stato sventato. Ancora una volta la vecchia strategia del barrage républicain (e cioè l’accordo tra tutte le forze che si autodefiniscono democratiche per sbarrare la strada alla cosiddetta estrema destra) ha funzionato, ma forse non esattamente come aveva sperato Macron: a conquistare la maggioranza relativa dei seggi in parlamento, infatti, non è la sua coalizione centrista e ultra-liberista (che si chiama Ensemble), ma l’NFP, il Nuovo Fronte Popolare, la coalizione dei partiti della sinistra francese. E all’interno di questa, il gradino più alto del podio tocca al partito considerato più radicale, la France Insoumise di Jean Luc Mélenchon. A regola – a questo punto – il da farsi sarebbe dovuto essere piuttosto semplice: la France Insoumise propone un nome al Nuovo Fronte Popolare, che lo propone a Macron, che lo nomina primo ministro – se solo le buone vecchie maniere delle democrazie liberali fossero ancora in vigore. Il primo diversivo si chiama Olimpiadi: in vista dell’evento sportivo che dal 26 luglio doveva prendere il via a Parigi, Macron propone una vera e propria tregua olimpica con la scusa di mettere le istituzioni nelle condizioni di fronteggiarlo al meglio; d’altronde, ne va del prestigio della Francia nel mondo. Nel frattempo, nei confronti della France Insoumise monta una macchina del fango di dimensioni epiche che mette insieme la macchina propagandistica delle oligarchie che sostengono Macron e la destra reazionaria; come nella tristemente nota campagna che l’attuale premier britannico Keir Starmer ha ordito a suo tempo contro Jeremy Corbyn (col sostegno dei servizi inglesi e statunitensi e tutto il circo mediatico che fa da ripetitore alle loro veline), al centro c’è la solita vecchia accusa di antisemitismo, che è ormai diventata la carta preferita che ogni politico anti-popolare dell’Occidente collettivo tira sempre fuori alla bisogna.
D’altronde, effettivamente, la France Insoumise e Mélenchon hanno nei giovani di etnia araba delle banlieu uno dei loro zoccoli duri; e quindi contro lo sterminio dei bambini palestinesi hanno sempre adottato una linea coerente che, nel linguaggio della propaganda legata alla lobby sionista, diventa appunto magicamente antisemitismo. Ed ecco così che quando – finalmente – le Olimpiadi l’11 agosto volgono al termine, siamo punto e a capo; il Nuovo Fronte Popolare e la France Insoumise, per non dare adito alle scuse di Macron, hanno optato per un nome di compromesso decisamente lontano dalle frange considerate più estreme e impresentabili dai conservatori: si chiama Lucie Castets, si è formata nelle migliori scuole di Londra e Parigi, ha un passato alla Direzione generale del Tesoro e all’Agenzia francese per l’intelligence finanziaria e anche un passato tra le fila del moderatissimo partito socialista, proprio negli anni durante i quali – tra le fila dello stesso partito -militava, con incarichi ben più rilevanti, il nostro Manuelino stesso. Che però non si accontenta e rilancia: il punto – sostiene – è che per il bene della Francia, viste in particolare, appunto, le accuse di antisemitismo, nel governo non ci possono essere ministri della France Insoumise. Ed ecco così che la faccenda torna incredibilmente a impantanarsi fino a quando Mélenchon non tira fuori una delle sue soluzioni dal cappello; è il 24 agosto: a Valence è in corso un grande evento della France Insoumise per festeggiare il rientro dalle vacanze, quando ai microfoni di Tf1 Jean Luc spiazza tutti e dichiara “Non saremo mai parte del problema, saremo sempre e solo parte della soluzione”. “Chiedo ai dirigenti macronisti: mettereste un veto su un governo Castets, che applicherà il programma nel Nuovo fronte Popolare, ma senza ministri della France Insoumise? Se la risposta è no, ovviamente significa che il rifiuto di vedere ministri della France Insoumise nel governo è solo un pretesto per continuare a negare il risultato delle elezioni”. E indovinate un po’? La risposta di Macron è no; e quindi torna il quesito: a che gioco sta giocando?
Così, a naso, mi pare evidente che qui in ballo non ci sia il suo futuro politico; quello infatti è ormai definitivamente compromesso: in tutto l’Occidente – dove i leader politici che, in termini di consenso, non se la passano proprio benissimo non mancano – non esiste capo di Stato più inviso al suo stesso popolo di lui e difficilmente con questo comportamento può pensare di aumentare la sua popolarità. Piuttosto (esattamente come il nostro Matteo Renzi, che Manuelino ricorda sempre più da vicino), per garantirsi un futuro brillante dopo la fine della presidenza ha bisogno di tutelare con ogni mezzo necessario gli interessi delle oligarchie delle quali è sempre stato un fedele servitore: come sottolinea candidamente Le Monde “Il veto di Macron al Nuovo Fronte Popolare va ovviamente ben al di là della mera presenza di ministri della France Insoumise. Per Macron e i suoi è molto semplicemente inconcepibile nominare un governo che potrebbe rimettere in discussione le sue riforme principali, a partire da quella delle pensioni, e che possa aumentare le tasse, la spesa pubblica, o il salario minimo”. Nel frattempo – come proprio dal palco di Valence ha ricordato la presidente del gruppo parlamentare della France Insoumise Mathilde Panot – dall’accettazione delle dimissioni del governo Attal ad oggi ci sono stati 1160 decreti e altri atti ufficiali pubblicati in Gazzetta Ufficiale: “Com’è possibile definirla gestione degli affari correnti?”.
Insomma; le democrazie liberali 2.0, in soldoni, funzionano così: un presidente eletto da una minoranza propone delle riforme antipopolari, reprime con la violenza le proteste e, alla fine, le fa passare bypassando l’organo legislativo; a quel punto la sua popolarità crolla ancora di più, ma quando si va a votare viola la prassi costituzionale per evitare che si crei un governo rispettoso del voto che potrebbe stravolgere le sue stesse riforme impopolari e, nel frattempo, continua a governare da solo a suon di decreti (compresi magari quelli per garantire la fornitura di armi per una guerra contro qualche sanguinario dittatore in nome della difesa della democrazia). E in tutto il mondo questo paradosso lo vedono benissimo, eh? Non è che passa inosservato; gli unici che non lo vedono sono quelli a libro paga della nostra macchina propagandistica. Sarebbe arrivata l’ora di mandarli tutti a casina; per farlo, abbiamo bisogno di costruire da zero un vero e proprio media che, invece che infiocchettare con mille fregnacce la deriva autoritaria e antipopolare delle nostre democrazie liberali, dia voce ai bisogni concreti del 99% e ponga le condizioni per una vera Riscossa Multipopolare. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuliano Ferrara

Francia a un passo dall’esplosione? – ft. Vittorio Caligiuri

Dopo le elezioni di domenica la Francia risulta divisa in tre parti eguali: l’estrema destra, la sinistra e il centro liberista dell’attuale presidente in carica Macron. A vincere le elezioni è stato, inaspettatamente, il Fronte Popolare, forte di una grande mobilitazione popolare a suo favore da parte di vasti segmenti dell’opinione pubblica. Il rischio è ora che una pattuglia di “responsabili” decida di staccarsi dalla lista di sinistra in cui è stata eletta per andare a sostenere un nuovo governo centrista assieme alla lista di Macron e ai Repubblicani. Il dubbio aleggia sopra i Verdi e in particolare il Partito Socialista; si teme che una mossa simile consegnerebbe, nelle elezioni presidenziali del 2027, il paese a Marine Le Pen. Buona visione!

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