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Alessandro Volpi: perchè oggi la fine del Mercato Tutelato per Luce e Gas è una Follia

Intervist8lina: benvenuti a questo nuovo appuntamento con le interviste di OttolinaTV. Il nostro ospite oggi è Alessandro Volpi, professore all’università di Pisa e attento osservatore di tutti quei processi che mirano alla finanziarizzazione della nostra disastrata economia e comportano sia un attacco sempre più feroce alle condizioni di vita della stragrande maggioranza del popolo italiano, sia a una devastazione totale del suo tessuto produttivo. La fine del mercato tutelato delle bollette energetiche delle famiglie italiane è un obiettivo che il partito unico degli affari e della guerra persegue orami da anni. Per compiere il passo definitivo però, evidentemente, serviva proprio il Governo di quelli che con sprezzo del pericolo si autodefiniscono patrioti e sovranisti, e che hanno deciso di fare il salto definitivo della staccionata nel peggiore dei momenti possibili, con  tutti i dati sull’economia nazionale in caduta libera, e sopratutto con le famiglie che non riescono più a risparmiare un euro e ricorrono sempre di più all’indebitamento selvaggio, come se fossimo ormai degli americani qualsiasi.

Alessandro Volpi – come le banche ci hanno fregato tutto e hanno registrato profitti mai visti

Il punto di partenza è rappresentato dagli straordinari risultati che stanno avendo le banche poi realtà non soltanto le banche. In realtà numerose società sono stanno registrando profitti che sono di natura veramente stellare e per usare questo senso Stella Antiseri è una e una di queste. Ma mi concentrerei sul fenomeno intanto delle banche perché secondo me è rilevante per capire alcuni aspetti della situazione nella quale ci troviamo. I dati sono oggettivamente impressionanti. Partiamo dal caso degli Stati Uniti. Ci sono appunto grosso modo sei banche che in maniera diversa nelle sei principali banche hanno fatto in nove mesi profitti per quasi 100 miliardi di dollari. Tenuto conto del fatto che escono da un anno precedente altrettanto significativo, quindi stiamo parlando veramente di un boom che queste banche hanno avuto in termini di risultato. Le banche Sappiamo quali sono gli episodi, anche la più importanti, la più significativa. Ormai banca di questo pianeta Wells Fargo, Citigroup, Morgan Stanley, Goldman Sachs e Bank of America, quindi queste banche, sia pure ripeto con risultati tra loro un po diversi, ma alla fine hanno partorito in sei per nove mesi profitti per 100 miliardi è una cifra di assoluto rilievo se vogliamo considerare il caso italiano come elemento di confronto, per cui non si tratta di fare i confronti, ma di conferma di questo quadro generale e anche della sostanziale globalizzazione finanziaria che ormai si è venuta a determinare. Nel caso italiano abbiamo profitti per 15 16 a seconda di come si calcolano le banche più importanti del Paese per una quarantina di miliardi 43 miliardi, tra l’altro con un dato anche qui secondo me interessante, che vediamo. Cioè ricordiamoci che alcuni di queste banche avevano perso una decina di miliardi dopo l’annuncio di capitalizzazione dopo l’annuncio dell’imposta sugli extraprofitti.

Beh, quei 10 miliardi sono ampiamente recuperati. Anzi, dalla seduta. Se noi facciamo un confronto fra ieri, l’altro ieri e la seduta successiva al tracollo hanno riguadagnato 7 miliardi. Quindi evidentemente ormai imposero gli extraprofitti, è stata ampiamente digerita. Io resto dell’idea che quell’operazione fosse stata un’operazione di tipo speculativo, di serie trading di tipo speculativo. E però le banche viaggiano con degli dei profitti che sono assolutamente straordinari negli Stati Uniti, come come da noi. Quindi un dato chiaro ora. La prima domanda che si farebbe chiunque, diciamo così, con un minimo di ragionevolezza. Ma le banche crescono così tanto? Ma l’economia reale che tipo di riflesso ha? Perché noi, almeno per quelli che hanno un minimo di conoscenza di storia economica in genere le banche si sono quantomeno correlate. Non dico sempre perché poi sono stati i finanziamenti, soprattutto a partire dagli anni 80. Però una relazione con l’andamento reale dell’economia c’è sempre stato. Ecco noi, per esempio, nel caso italiano sappiamo che abbiamo 43 miliardi di utili nelle banche, con una crescita complessiva del Paese che se ci togliamo l’inflazione è pari allo zero. Quindi è evidente che non esiste un rapporto diretto fra i profitti delle banche e la crescita del Paese. È evidente che le ragioni dei profitti delle banche non sono riconducibili alla crescita del Paese. Ma questo vale anche per gli Stati Uniti, sia pure in maniera diversa. Gli Stati Uniti hanno attraversato una fase decisamente meno sfavorevole di quella europea. Però ugualmente la natura dei profitti delle banche non si giustifica con la crescita dell’economia reale. Quindi sgombriamo il campo dal dire che le banche crescono perché l’economia cresce e che le banche danno un contributo reale alla crescita dell’economia reale. Ecco, questo mi sembra che questi numeri siano tangibilmente e forse mai come oggi chi ha chiaramente espliciti del fatto che non esiste una correlazione diretta fra l’aumento dei profitti e quello che è invece l’andamento dell’economia? E allora vengo al secondo punto, al di là del dato numerico. Ma allora da cosa dipende questa forte crescita dei profitti delle banche negli Stati Uniti? E ripeto, non voglio fare troppe differenze con l’Europa, dove certamente il fenomeno è meno polarizzato, ma è altrettanto altrettanto marcate e di cui l’Italia rappresenta uno dei pochi, uno dei possibili elementi di esemplificazione da cosa dipende, ma intanto dipende certamente dalle politiche delle banche centrali. Questo ormai lo scrivono in tutte le salse i rapporti, lo scriveva con grande chiarezza persino il Giornale di Confindustria, Il Sole 24 Ore di domenica, perché alla fine questo sta diventando un dato eclatante. E cioè gli alti tassi praticati dalla banca centrale determinano appunto il fatto che si genera un divario fra quanto le banche fanno, chiedono di remunerazione, cioè quindi quanto i tassi di interesse chiedono quando fanno un prestito e quale è invece il tasso di interesse che utilizzano per remunerare i loro risparmiatori? C’è il famoso differenziale, quello che avrebbe dovuto essere considerato della famosa imposta profitti. I tassi sono molto alti nel momento in cui faccio un prestito io banca e quando io invece io banca devo remunerare i miei clienti. Il tasso è decisamente molto più basso e quindi c’è un differenziale decisamente decisamente forte e quindi anche questa è una fonte, è una fonte molto, rilevante. Una delle considerazioni che spesso si fa è rappresentata dal fatto che sia aumentata nel momento in cui aumentano i tassi, aumenta certamente il margine. Per quanto riguarda le banche, in termini di prestiti, però, si svalutano i titoli di cui sono in possesso e il prezzo dei titoli di cui sono in possesso, magari in questo caso anche delle loro stesse azioni. Beh, ciò che abbiamo visto nel corso degli ultimi mesi in maniera sempre più crescente. Vedremo nei prossimi mesi, proprio in virtù di questa enorme liquidità determinata dai profitti maturati e che le banche riescono a fare operazioni di buy back, cioè si comprano buona parte dei titoli che rischiavano di essere svalutati in maniera tale che danno immediatamente un segnale agli operatori finanziari che quei titoli sono titoli protetti e quindi con quel tipo di operazione impedisce che, come si può dire, il dato negativo dell’aumento dei tassi? Voglio essere ancora più chiaro aumentano i tassi, hanno dei margini che sono significativi rispetto a quanto pagano ai loro clienti, quindi hanno un utile, come si diceva, di un centinaio di miliardi. Destina una parte di quello utile, quello che non viene destinato direttamente al dividendo lo destinano a ricomprare una parte dei titoli che rischierebbero di perdere valore, a cominciare dai loro. Questo gonfia ulteriormente il valore del titolo e ovviamente fa sì che la forza di quella banca diventi in termini finanziari ancora più marcata. Ma aggiungerei ancora altri due elementi dentro questo ragionamento perché fanno molti, fanno molti, molti soldi. E intanto certamente è evidente, come dicevo prima, che questo tipo di profitti vengono tradotti in dividendi, quindi diventano una remunerazione finanziaria. Non vengono investiti se non in misura molto limitata nelle attività delle imprese e comunque certamente non nella remunerazione dei dipendenti di queste imprese che anzi di queste imprese bancarie. Perché poi a tutti gli effetti stiamo parlando nel caso dei sei big degli Stati Uniti di banche con numero di dipendenti molto significativo le banche italiane sono oggi di strutture Usa questo termine produttive in termini di industria finanziaria che hanno un maggior numero di dipendenti. Cioè qui non è che in Italia noi abbiamo più le grandi industrie manifatturiere con migliaia di dipendenti oggi in Italia. Se andate a vedere che la grande occupazione si lega ad Eni ed Enel e poi si lega appunto ai dipendenti dei colossi bancari, beh che cosa stanno facendo? Stanno licenziando, stanno drasticamente riducendo il numero dei loro dipendenti, stanno utilizzando i prepensionamenti in maniera massiccia, stanno utilizzando tutte le forme di digitalizzazione di informatizzazione e di riduzione dei servizi territoriali.

Quindi alla fine, sul piano dei costi hanno un contenimento radicale dei costi che passa attraverso quello che ormai viene dato anche per scontato e forse persino dai sindacati, cioè di una riduzione di un dimagrimento del numero del personale e degli occupati del settore del settore bancario, del settore bancario, come poi abbiamo visto nel caso anche di altri, di altri settori dove appunto l’aumento dei profitti non significa più un tentativo di mantenere in vita la manodopera o di remunerare maggiormente. Per cui si può dire paradossale. Io ho provato anche a scriverlo che i salari sono diventati una variabile indipendente al contrario. Cioè una volta c’era la grande battaglia per dire che il salario va difeso, anche perché ha a che fare con il potere d’acquisto dei lavoratori, anche in condizioni di criticità. Qui si penserà ai dipendenti. Perché anche quando le cose vanno benissimo, i salari si riducono e sono indipendenti dall’andamento complessivo dei profitti dell’azienda e si determina un forte, direi fortissimo, processo di dimagrimento organico di questi grandi gruppi vari. Negli Stati Uniti vale per le banche, vale per le big tech, vale nell’automotive. Vale per i caso, per caso europeo e italiano. Poi c’è un altro aspetto ancora che è di cui abbiamo accennato anche nei nostri colloqui, che è rappresentato dal fatto che una parte significativa, se andate a vedere i bilanci di queste banche, una parte significativa di questi, diciamo profitti, deriva da attività che non sono l’attività di prestito in senso stretto, ma sono l’attività di gestione del risparmio che viene indirizzato alle banche attraverso società di cui le banche sono sostanzialmente proprietarie e che è il risparmio di coloro che si affidano alla previdenza complementare e alla sanità complementare.

È cresciuto in maniera esponenziale nel corso degli ultimi cinque anni, il volume di risorse destinate alle società che si occupano di risparmio gestito. Le società di risparmio gestito sono per il 90% dei casi in Italia, ma con percentuali analoghe in giro per il mondo un pochino più basse, legate o di proprietà delle banche. Le banche ricevono quindi la liquidità che sono i risparmi di coloro che ovviamente non riescono più ad avere una pensione soddisfacente o si immaginano di non avere più una pensione soddisfacente. Sanno che il sistema contributivo è certamente molto punitivo, sanno che il sistema sanitario si sta progressivamente riducendo e quindi destina una parte del loro salario, della loro retribuzione a forme di risparmio gestito. Le forme di risparmio gestito finiscono inevitabilmente attraverso queste società, appunto, che sono di risparmio gestito nelle mani delle banche, le quali utilizzano questa enorme liquidità per fare scelte di natura finanziaria. Comprano titoli, vendono titoli, comprano se serve titoli di Stato con questa liquidità e beneficiano del fatto che il rendimento sui titoli di Stato è più alto di quanto non lo fosse qualche anno fa. Per chi poi alla fine è la quota parte di debito, nel caso italiano, per esempio, nelle mani delle banche è ancora altissimo. Quindi è evidente che se le banche hanno comprato il debito e ora non lo comprano più con le risorse della Bce ma con il risparmio gestito degli italiani, maturano comunque interessi significativi su cui vengono riscosse commissioni. Quindi, alla fine della fiera questa trasformazione profonda che sta subendo il sistema bancario per cui non è più un erogatore di credito per il sistema produttivo o lo è sempre meno o se lo è lo è, ha costi che sono significativamente alti e quindi che escludono parti importantissime del sistema micro produttivi, cioè delle imprese più piccole e per certi versi anche delle famiglie che non hanno garanzie di tipo immobiliare sufficientemente adeguate. Qui le banche, invece che fare questo mestiere che storicamente hanno svolto, diventano soggetti che si ricordano i propri titoli che operano sul margine dei tassi di interesse e che si affidano, affidano molti dei loro destini. In questo caso direi decisamente positivo all’attività di bancassicurazione, quella che si chiama la bancassicurazione, cioè io mi Lego con grandi assicurazioni che raccolgono risparmio gestito e risparmio gestito, è cresciuto perché è tutta una serie di servizi non sono più garantiti dallo Stato, quindi bisogna auto prodursi e per autoprodursi e bisogna affidare i propri magri o grandi risparmi a soggetti finanziari che appunto poi hanno come terminale le banche, le quali su questi di questo tipo di con questo tipo di liquidità fanno dei margini che sono dei margini significativi. Quindi, paradossalmente, la banca si sgancia dal sistema produttivo e quindi perde il rapporto con l’andamento del Paese, diventa una sorta di sostituzione di uno stato sociale che è però estremamente oneroso per i risparmiatori, perché ovviamente se lo devono pagare e contestualmente favorisce dei margini per le banche stesse che prima le banche non avevano, Dal momento che quel tipo di attività, dalla sanità alla previdenza erano affidate, erano affidati allo Stato.

Questo negli Stati Uniti è un fenomeno colossale, è un fenomeno gigantesco nel nostro Paese sta progressivamente rapidamente crescendo con dei numeri che ormai riguardano più di una decina di milioni di italiani. Vorrei aggiungere poi due ulteriori considerazioni. La prima mettiamo insieme gli Stati Uniti con l’Europa. C’è sicuramente il fenomeno della crescita dei tassi di interesse praticati dalla Federal Reserve negli Stati Uniti, la Banca centrale europea, sono all’origine della crescita del sistema dei sistema bancario e dei profitti del sistema bancario. C’è però una differenza importante e che serve a spiegare anche perché i numeri sono chiari alla fine l’economia americana cresca anche in queste condizioni. Se è vero, come dicevo prima, che la mole dei profitti è talmente grande che non può essere giustificata dalla crescita dell’economia americana. Però è altrettanto vero che l’economia americana non ha un andamento stagnante come l’economia europea. Ma allora perché Qui ecco, qui c’è un altro elemento che secondo me vale la pena di fare, su cui vale la pena riflettere e ragionare. Il che è sostanziale. Questo negli Stati Uniti, appunto. Gli alti tassi di interesse praticati dalla Banca centrale americana producono, come del resto in Europa, e spero di essere chiaro in questa esplicitazione producono un aumento dei tassi di interesse a cui viene con cui viene retribuito il debito pubblico. Cioè la Federal riserva aumenta il tasso di interesse e lo porta sostanzialmente intorno al 5%. È evidente che i titoli di Stato americani si devono allineare al tasso, come avviene in economia. Si devono allineare al tasso di interesse tradotto e determinato dalla banca centrale, cioè se la banca centrale applica un tasso di interesse che è appunto vicino al 5%, bisogna che anche i tassi del debito pubblico americano, cioè quanto il governo degli Stati Uniti, il governo federale li paga per in indebitarsi sia in linea con il tasso di interesse praticato dalla banca centrale. Ora per gli Stati Uniti, però, questo problema non esiste. Nel senso che lo sappiamo ormai dalla regola mix che questo maggiore quantitativo di interessi che sono pagati sul debito non sono pagati come in Europa attraverso l’aumento del carico fiscale attraverso la spending review sono pagati producendo nuovi dollari, cioè sono sostanzialmente quindi si alzano i tassi di interesse. Questo determinerebbe una criticità per gli Stati Uniti, che sarebbe quella di dover pagare i tassi di interesse più alti sul proprio debito.

Gli Stati Uniti che cosa fanno? Gli Stati Uniti producono una maggiore quantità di dollari per pagare quei tassi di interesse e questo alla fine ha due benefici. Il primo beneficio è che appunto non sentono l’effetto dell’aumento dei tassi, perché coprono quell’aumento dei tassi. Non ripeto con maggiori pressioni fiscali per avere le risorse per pagare il debito o con contrazioni e tagli di spesa, ma sostanzialmente stampando. Quindi non c’è un effetto recessivo e non solo e garantiscono tassi di interesse più alti a cui gli altri Paesi del mondo si devono adeguare. Perché è chiaro che se i tassi di interesse americani pagano i Treasury bond, pagano il 5%, il quattro e 90%, bisogna che anche gli altri Paesi, anche i titoli di Stato dei paesi europei, si adeguino. Allora è evidente che torno a dire che gli alti tassi di interesse sono lo strumento attraverso cui le banche traggono un chiaro beneficio nelle loro operatività e quindi hanno profitti significativi. Sono uno degli elementi. È chiaro che quegli alti tassi di interesse negli Stati Uniti praticati dalla Federal Reserve vengono coperti con i dollari e quindi non partoriscono l’effetto negativo della necessità di finanziare quella maggior spesa per gli interessi che nel caso di Stati Uniti sono quasi 1 miliardi di dollari, con tagli di spesa o con tasse e in più con quei tassi di interesse attraggono il capitale estero. Ora tutto questo in Europa non succede. Tutto questo in Europa non succede perché noi abbiamo una banca centrale che quando alza i tassi di interesse e quindi di fatto impone ai Paesi come nel caso italiano, di pagare interessi più alti sul proprio debito. Beh, quegli interessi che lo Stato italiano deve pagare, che sono 100 miliardi ormai già nel 2023 noi non li non li produciamo con nuovo euro ma producendo nuovi euro. Ma li paghiamo sostanzialmente facendo manovre finanziarie che taglino la spesa perché li dobbiamo pagare noi. Nel nostro bilancio dello Stato italiano ci scriviamo come voce di spesa, cioè di spesa corrente, 100 miliardi di euro. Quei 100 miliardi vanno coperti come la spesa sanitaria, come la spesa per le pensioni. Non possiamo ricorrere alla solarizzazione, appunto all’autorizzazione alla monetizzazione del debito. Cioè questo mi sembra un dato che dobbiamo avere chiaro nel confronto con il contesto. Il contesto americano è qui. Vengo all’ultimo punto perché l’ultimo punto, la famosa appunto differenza fra Stati Uniti ed Europa, la polarizzazione che consente agli Stati Uniti la monetizza del debito, quindi la copertura dei debito attraverso la produzione di cartamoneta di dollari americani. Ecco, è possibile negli Stati Uniti perché si è realizzata. E qui, lo abbiamo detto più volte, è la più formidabile concentrazione di ricchezza e di reddito finanziario. Mai conosciuta nella storia contemporanea. Perché se ancora una volta andiamo a vedere ma chi sono i proprietari delle sei banche che hanno fatto il botto di cui si parlava prima che hanno partorito 100 miliardi di profitti nel giro di nove mesi e che quindi i benefici erano in larga misura dei dividendi partoriti da questi 100 miliardi. La risposta è molto semplice noi troviamo in queste sei banche che la presidenza di tre fondi che sono i soliti mangia BlackRock ed è mediamente oscilla fra il 15 e il 20%. Cioè sono gli azionisti di riferimento. Per intenderci c’è un microchip per quanto riguarda Morgan Stanley. Perché Morgan Stanley per avere questo blocco dei soliti tre Big Three appunto, ha anche una presenza di Mitsubishi, che è intorno al 20%, e Bank of America che aggiunge ai tre principali fondi il fondo Berkshire Hathaway di Warren Buffett. Quindi alla fine noi abbiamo che queste grandi banche sono di proprietà di un numero limitatissimo di fondi, i quali fondi sono, come abbiamo detto più volte, i destinatari del risparmio di milioni di americani e sempre più diventeranno destinatarie di risparmi anche di milioni di europei e di altre parti del mondo, che peraltro sono gli stessi fondi che sono proprietari di gran parte del sistema produttivo e comunque, soprattutto del sistema societario delle principali società del mondo. Quindi questi signori hanno una infinita liquidità. Ora questa infinita liquidità, questi signori lo vorrei dire con chiarezza. Questi tre fondi hanno deciso che la tengono in dollari e la polarizzazione in sta nella misura in cui i fondi che hanno in mano qualcosa come 22 23.000 miliardi di dollari di liquidità che stanno cominciando in maniera sempre più pervasiva a comprare titoli di Stato americani che sono i soggetti che sono presenti in tutte le multiutility del nostro Paese, francesi e inglesi, che sono azioni bene, quindi hanno deciso che le transazioni del mondo si fanno in dollari e non ce ne sono le leggi internazionali che hanno deciso che la liquidità finanziaria va veicolata in dollari. Emettono titoli in dollari di derivati, fanno scommesse in dollari. Cioè questo vuol dire una montagna complessiva che peraltro è molto superiore all’economia reale. Cioè è dieci 23. Non sappiamo più neanche quale sia l’apporto reale, quindi una montagna di carta che può essere accresciuta a dismisura con l’effetto delle speculazioni che però ha un fine. Ha il fine che tutta questa roba continua a girare in dollari. Ma se gira in dollari vale il ragionamento di cui si parlava prima Vale il fatto che la Banca centrale europea, la Federal Reserve, a differenza della Banca centrale europea, può alzare i tassi di interesse. Il debito pubblico americano costa di più, ma alla fine se lo pagano stampando dollari perché essi lo possono pagare stampando dollari. Perché evidentemente i grandi player che ormai hanno nelle mani che è così, Perché se andate a vedere di chi sono le principali assicurazioni che fanno la raccolta del risparmio gestito, beh andate a vedere. Ci trovate dietro che ci sono i tre grandi fondi mondiali, le banche, così le imprese. Così Quindi questi signori hanno deciso che la liquidità è il dollaro. A questo punto, al pari di alti tassi e in qualche modo, appunto, un debito che costa di più negli Stati Uniti ma finanziato con il appunto con l’utilizzo di nuova produzione di dollari, è un volano formidabile di cui il resto del mondo non dispone.

E questo è il punto per cui gli Stati Uniti alla fine si possono permettere delle manovre monetarie, come dire studiando la storia. Noi siamo passati dal mondo di Bretton Woods, dove le grandi potenze si mettono intorno a un tavolo e prova a definire qual è lo strumento monetario col quale fare i pagamenti internazionali. Avendo piena consapevolezza di quanto fosse rilevante. Basti pensare alle posizioni che aveva maturato John Maynard Keynes in quella. In quella circostanza a un mondo nel quale oggi e Bretton Woods non serve, oggi serve che in qualche stanza di qualche mega lussuosissimo albergo degli Stati Uniti si riuniscano i come i difficili e difficilmente identificabili proprietari di questi. Di questi fondi, che sappiamo essere legati da partecipazioni incrociate e per partorire le strategie che sono le strategie, diciamo di natura, Prima di tutto torna a dire valutaria e di definizione delle transazioni per capire dove va, dove va, dove va il mondo.

CIA e Fondi Speculativi: l’assalto degli USA alle telecomunicazioni globali (a partire dall’Italia)

L’accelerazione della svendita degli asset strategici italiani ai padroni dell’impero è diventata la priorità assoluta del governo dei fintosovranisti che procedono a suon di blitz, e quello di lunedì scorso è stato letteralmente inquietante: senza passare dall’assemblea dei soci, con la piena collaborazione del governo, il Cda di TIM ha deciso di accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR per la vendita della sua rete fissa.

Sarah Bartlett

Probabilmente l’asset più strategico di tutti gli asset strategici e, probabilmente, il peggior acquirente possibile immaginabile: “The money machine”, la macchina da soldi, come aveva ribattezzato KKR Sarah Bartlett nel suo leggendario libro nell’ormai lontano 1991, aprendo gli occhi al mondo di fronte alle pratiche predatorie dei fondi che compravano a debito le aziende per spolparle e intascare plusvalenze stratosferiche. Ma non solo: KKR, infatti, è diventato un vero e proprio braccio armato delle mire egemoniche dell’impero e si sta ritagliando, acquisizione dopo acquisizione, un posto al sole nel mondo delle infrastrutture delle telecomunicazioni dall’India all’Olanda, passando per il Cile, Singapore, la Colombia. Roba che grande fratello scansate, soprattutto per la biografia di chi è al posto di regia: nientepopodimeno che un ex direttore generale della CIA. E’ il famigerato generale USA David Petraeus, già noto per il ruolo disastroso ricoperto nella carneficina irachena prima e in quella afghana poi; nel 2012, in seguito a uno scandalo a sfondo sessuale, lascia di punto in bianco la guida dell’intelligence USA ed eccolo approdare magicamente nella stanza dei bottoni di KKR che gli crea una nuova divisione ad hoc – il KKR Global Institute – specializzata nell’analisi macroeconomica e geopolitica. “Petraeus” sottolineava Il Sole 24 Ore nel 2013 “potrà aiutare KKR anzitutto ricorrendo alla sua rete di contatti con governi e autorità internazionali”. Direi che ha soddisfatto tutte le aspettative: consegnare infrastrutture strategiche – come le reti di telecomunicazioni – a un fondo speculativo che sa di CIA da mille miglia di distanza ovviamente è un’operazione che non ha niente a che vedere con il mercato, la concorrenza e l’interesse economico in genere. E’ una scelta politica di totale e palese sottomissione, è la ciliegina sulla torta della totale abdicazione a ogni minimo tentativo di ritagliarsi uno spazio, se pur minimo, di indipendenza e di sovranità e completare il processo che in 30 anni ha trasformato l’Italia nel 51esimo stato guidato da Washington.
La domanda è: ma perché? Perché una classe dirigente che è salita al governo grazie alla retorica della patria e del sovranismo sta facendo di tutto per passare alla storia come l’artefice più spregiudicata della morte definitiva dell’Italia come paese sovrano?
Quella che vi racconteremo oggi, con il prezioso contributo del mitico prof. Alessandro Volpi, è la grande storia di come le oligarchie finanziarie USA hanno trasformato, con la complicità delle oligarchie locali, tutti i paesi che definivano alleati in appendici dell’impero a stelle e strisce. E lo faremo a partire dall’ultimo sconcertante capitolo di questa lunga saga, l’incredibile blitz che lunedì ha portato il consiglio di amministrazione di TIM, col benestare del governo e senza manco passare da un’assemblea degli azionisti, ad accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR – che annovera nel suo top management nientepopodimeno che l’ex direttore della CIA David Petraeus -per l’acquisto di quello che è probabilmente in assoluto l’asset più strategico della compagnia e, in generale, del nostro paese: la rete fissa delle telecomunicazioni.

Prof. Alessandro Volpi: ““Perché l’operazione consiste, appunto, nella cessione di operazione della rete. Quindi, secondo me, c’è un primo elemento singolare in questa vicenda, che è la decisione del consiglio d’amministrazione che non passa all’assemblea dei soci, ritiene che il socio pubblico sia sostanzialmente irrilevante e affida a KKR la proprietà della rete. Ora, è vero che TIM aveva già una quota significativa di azionisti internazionali, il 44%, però è altrettanto vero che qui si passa dal 44%, più o meno frammentato di azionisti internazionali ad un unico soggetto che è KKR che diventa il riferimento. Perché, appunto, il fatto che il consiglio d’amministrazione abbia deliberato soltanto a vantaggio di KKR, accettando l’offerta di KKR, considerandola un’offerta che non ha parti correlate, vuol dire che c’è un unico compratore che si chiama KKR.”[…]E poi aggiungerei a questo il fatto che comprerà Sparkle, quindi le reti sottomarine. Quindi in Italia avremo un unico proprietario dei sistemi delle infrastrutture strategiche.”

Alessandro Volpi

Lo shopping, in realtà, era già iniziato oltre due anni fa, nell’aprile del 2021, quando KKR entra a gamba tesa nell’azionariato di Fibercop – la nuova società fondata da TIM – e alla quale ha consegnato le chiavi della rete in fibra ottica sviluppata dalla controllata Flash fiber. Un assaggino, diciamo; Fibercop, infatti, non è certo il monopolista dei nuovi cavi in fibra ottica che attraversano il paese. Anzi, il pezzo grosso di questo fondamentale asset strategico del paese in realtà è un’altra società: Openfiber, dove KKR non c’è. C’è Macquarie, il fondo speculativo protagonista assoluto del banchetto che gli svendipatria britannici hanno apparecchiato a favore delle oligarchie finanziarie cedendogli il controllo dell’acqua pubblica con gestori che, dopo le privatizzazioni, sono diventati enormemente più indebitati senza aver mai investito il becco di un quattrino, ma avendo distribuito dividendi in quantità. L’ultimo scampolo di concorrenza tutta giocata tra fondi speculativi della stessa identica natura e che a breve avrà finalmente fine: una volta conclusa l’acquisizione della rete TIM da parte di KKR, infatti, l’obiettivo è quello di fondere Openfiber con Fibercop creando, anche nel mondo della connessione in fibra, l’ennesimo monopolio privato. Ma non solo: al banchetto, infatti, al momento manca ancora una portata. Si chiama Sparkle ed è la controllata di TIM che gestisce i cavi sottomarini che collegano la rete italiana al resto del mondo: un altro asset strategico fondamentale, e non solo per l’Italia. Attraverso il nodo di Palermo, infatti, Sparkle è la porta d’ingresso in Europa via Mediterraneo sia per il sud-est asiatico che per il Medio Oriente; anche lei è in svendita e KKR aveva fatto la sua offerta. Fortunatamente, al momento è stata respinta: anche il governo dei fintisovranisti ha qualche limite? Macché. E’ solo un problema di quattrini: Sparkle è a disposizione. Basterà aggiungere qualche spicciolo in più ai miseri 600 milioni offerti in prima istanza.

Prof. Alessandro Volpi: “Perché il dato vero è che non è episodica questa cosa, non è che arriva KKR, vede un’opportunità in Italia e dice “mi butto su quella” secondo la logica dei fondi hedge. Qui non è così: qui c’è, probabilmente, un disegno per cui i grandi fondi si impossessano delle infrastrutture e delle telecomunicazioni e quindi anche in quell’ambito, che è un ambito fondamentale, fanno il monopolio. Cioè, la sostanza è la ricerca del monopolio e, in nome della favoletta del mercato, si giustifica la costruzione dei monopoli. Questo è ciò che veramente è inammissibile: se uno legge una dichiarazione dei ministri di fronte a questa vicenda, tratta anche con un certo silenzio, devo dire, di buona parte della sinistra perché – insomma – non mi sembra ci sia stata una sollevazione di scudi nei confronti di questo tipo di operazione. Alla fine, in nome della necessità – appunto – di garantire il mercato, poi alla fine si costruiscono dei monopoli che sono sempre più pesanti, sono sempre più pesanti e significativi.”[…] “Senza nessuna capacità – torno a dire – del potere politico, della politica, di interagire. Io ho letto le dichiarazioni del governo italiano rispetto all’acquisizione di KKR e sono sostanzialmente entusiaste. All’obiezione che gli ha fatto Vivendi, cioè la Francia, dicendogli “ma scusate, vi comprano la rete e fate decidere il Consiglio di amministrazione senza nessuna interlocuzione” loro hanno detto “vabbè, ma questa è un’operazione” usando questo termine, questa favoletta di mercato, e quindi bisogna lasciarla andare. In realtà, qui di mercato mi sembra che ci sia veramente poco: c’è ormai un monopolio di fatto che è evidentissimo nel meccanismo delle telecomunicazioni.”

Dopo aver abbandonato i monopoli pubblici in nome della concorrenza ecco così che, con la complicità della politica, l’industria delle telecomunicazioni torna più monopolistica di prima solo che, a questo giro, è tutto in mano ai privati e neanche ai gruppi industriali, ma ai fondi speculativi che puntano direttamente al dominio globale. Anche se l’Italia ha voluto conquistare il primo gradino del podio dei paesi in svendita, infatti, la campagna acquisti di KKR nel mondo delle telecomunicazioni non si limita certo a noi: nel giugno del 2020 KKR, insieme a un altro fondo USA e a uno britannico, annuncia l’acquisizione di Masmovil, il quarto operatore delle telecomunicazioni spagnolo; nel febbraio del 2021 KKR annuncia un accordo con Telefonica per l’acquisto al costo di 1 miliardo di dollari delle quote di maggioranza della controllata che si occupa di fibra ottica in Cile; 3 mesi dopo è stato il turno degli olandesi con un accordo tra KKR e T-Mobile per fondare insieme una nuova società dal nome Open Dutch Fiber, sempre appunto per la gestione della rete in fibra ottica; ancora, 3 mesi dopo, un altro accordo con Telefonica, questa volta per l’acquisizione della maggioranza della società che gestisce la fibra ottica in Colombia. E così via, acquisizione dopo acquisizione, per arrivare nel 2022 alla partnership con Vodafone per l’acquisizione di Vantage Towers, il colosso tedesco delle telecomunicazioni wireless, e finire giusto questo autunno con un’altra ondata di acquisizioni che va da Singapore alle Filippine, passando per i cavi sottomarini della Malesia. E KKR è solo la punta dell’iceberg.

Prof. Alessandro Volpi: Lo sta facendo in alcuni paesi dell’est europeo, cioè sta specializzandosi nell’acquisizione dei sistemi di telecomunicazione. Metterei questo fenomeno dentro un fenomeno più grande perché il fenomeno più grande è il fatto che gli azionisti, come sappiamo, di KKR sono i grandi fondi: Vanguard, Black rock, State street e una serie di altri quattro o cinque soggetti, che sono i proprietari della rete infrastrutturale e delle infrastrutture delle telecomunicazioni, a partire dagli Stati Uniti in giro per il mondo. Perché se noi prendiamo le principali società di telecomunicazioni – nel caso degli Stati Uniti la più importante di tutti che è T-Mobile, ma prendiamo poi Verizon, poi prendiamo Comcast e prendiamo AT&T, che sono i cinque colossi mondiali se ci togli casi cinesi (se ci togli China Mobile), questi sono i cinque più grandi possessori di telecomunicazioni, non negli Stati Uniti ma in giro per il mondo. Cioè, in queste società, Black rock, Vanguard, State street e 3 o 4 fondi minori che, in genere, vanno a strascico dei primi tre, hanno il 25%. Quindi noi stiamo assistendo a un processo di cui il caso Telecom, il caso TIM, è soltanto un pezzetto, cioè il processo di ri-articolazione del controllo delle telecomunicazioni in giro per il mondo nelle mani dei fondi finanziari. Ora questa non è la vicenda della vecchia privatizzazione; l’Italia ha scelto questa sciagurata strada della privatizzazione nel ‘97, con il governo Prodi.”

La prima conseguenza, palese e tangibile, di questo processo di appropriazione dell’industria delle telecomunicazioni nelle mani di un manipolo di fondi speculativi è la riduzione dei posti di lavoro e il trasferimento di una quota consistente di ricchezza dai salari ai profitti.

Prof. Alessandro Volpi: Infatti, l’altro dato interessante – e io mi sono andato a vedere questi numeri- è che, nel corso degli ultimi dieci anni, tutte le grandi compagnie di telecomunicazioni hanno ridotto il numero dei loro occupati dal 20 al 35%. Cioè da dove arrivano, ovviamente, i fondi, l’operazione diventa quella di garantire un rendimento azionario. Naturalmente tutte queste realtà che vengono comprate dai fondi sono quotate in Borsa, perché hanno interesse a seguire il dividendo azionario e, contestualmente a questo – come sta accadendo del resto nel settore tecnologico e hi tech – a fronte di dividendi significativi, di fatturati molto alti e di ricavi molto alti, si assiste a un licenziamento più o meno sistematico. Perché, appunto, anche nel caso delle telecomunicazioni come nel caso dell’hi tech, c’è stata una perdita del 20, 25, in alcuni casi del 30% della forza lavoro. Quindi la finanziarizzazione porta a una concentrazione che riduce gli spazi della sovranità – mi sembra abbastanza evidente – di natura strategica e, al tempo stesso, determina una distruzione del lavoro. Cioè, c’è evidentemente un meccanismo “finanza versus occupazione” che è marcatissimo.”

Nel caso delle telecomunicazioni, però, rispetto alla solita storia infinita di quotidiana ingordigia c’è un aggravante piuttosto consistente, grossa come una casa.

Prof. Alessandro Volpi: Mah, io penso che il sistema delle telecomunicazioni sia, evidentemente, un sistema di natura politica e anche di natura militare. Allora, io non sono un esperto di questi risvolti e quindi non mi voglio cimentare con analisi che non sono cose che conosco profondamente, però è chiaro che il controllo delle reti sottomarine, il controllo – appunto – delle strutture fisse attraverso cui passano i segnali telefonici, i segnali delle telecomunicazioni, la rete, sia quanto di più strategico – anche in termini di difesa o aggressione militare – sia possibile. Tra l’altro, si diceva prima, se uno prende le prime dieci compagnie di telecomunicazioni al mondo, le uniche che sono ancora di proprietà dello Stato sono quelle cinesi; cioè – appunto – China Mobile ha come azionista di riferimento lo Stato cinese ed è proprietario delle infrastrutture cinesi. Evidentemente in India l’assalto alle telecomunicazioni da parte delle grandi compagnie – e da parte dei fondi che sono dietro le grandi compagnie – è già partito, perché è evidente che in un modo nel quale il sistema delle telecomunicazioni è controllato – per quanto riguarda le strutture fisse e per quanto riguarda i cavi, per intenderci – da soggetti che sono soggetti di natura privata e finanziaria, vogliamo immaginare che questo non sia un elemento di pressione, di condizionamento delle politiche monetarie, delle scelte – anche strategiche – rispetto all’innalzamento dei prezzi dei prodotti? Cioè io voglio dire – sarà perché a frequentare Giuliano Marucci divento un po’ complottista – che però mi sembra abbastanza evidente che se io possiedo le telecomunicazioni, possiedo le agenzie di rating e possiedo i sistemi informativi, beh, alla fine poi posso anche veicolare le impennate di prezzo che scateno attraverso la vendita degli strumenti derivati. Cioè, è evidente che qui c’è un legame, e questo poi produce una conseguenza – come tu dicevi – geopolitica, perché se ci sono determinate aree di tensione in giro per il mondo, probabilmente questo sistema funziona decisamente meglio e avere il controllo strategico delle reti vuol dire anche, in qualche modo, condizionare gli equilibri di forza tra i vari paesi e quindi far immaginare determinati scenari. Io penso che anche qui – è quello che dicevo in apertura – cioè, si sottovaluti la delicatezza della concentrazione della proprietà, cioè qui non è che stiamo parlando di un mercato dove ci sono dei soggetti che si fanno concorrenza: in Italia, torno a dire, la rete – forse non è chiaro – non è nelle mani dei 44% di investitori che prima componevano, insieme al 20% di Vivendi, il grosso dell’azionariato di TIM; ora ce n’è uno solo che si chiama KKR il quale – torno a dire – è un pezzo di un sistema globale di controllo delle telecomunicazioni attraverso i fondi finanziari. Cioè questa roba mi sembra che abbia molto a che fare con la democrazia, con la sicurezza degli Stati, con le dinamiche conflittuali; cioè, in altri tempi, io faccio fatica a immaginare uno Stato che cedesse le proprie infrastrutture strategiche come la rete fissa o i cablaggi o i controlli di sottomarini a un soggetto finanziario che, peraltro, risponde a logiche di altri paesi e in particolar modo, ovviamente, ha a che fare con il governo degli Stati Uniti. Cioè mi sembra che siamo di fronte a un processo di finanziarizzazione esasperato che partorisce una concentrazione che toglie spazio evidentissimo alla politica, che toglie spazio alla sovranità, ma direi anche la stessa democrazia.”

E quindi qua si ritorna alla domanda di partenza: ma perché mai la nostra classe dirigente, sia politica che economica, si mette a disposizione di questo processo distopico di concentrazione del potere economico e politico nelle mani di una ristrettissima oligarchia che li considera, nella migliore delle ipotesi, camerieri servizievoli? Ovviamente una risposta sta nello strapotere militare e a livello di intelligence di Washington, in grado ancora di tenere sotto scacco mezzo pianeta, ma una risposta fondata solo sui bruti rapporti di forza rischia di essere solo parziale. Una macchina così ben funzionante non si può fondare esclusivamente sul puro dominio e sul monopolio della forza fisica; perché funzioni a dovere, qualche contropartita ci deve essere. Insomma: come al solito, tocca seguire i soldi.
Come fanno oggi le élite economiche a fare profitto? Concretamente, intendo. Passo numero 1: come sempre devi avere un’azienda che produce qualcosa e che, quando la rivende, ci ripaga i costi e ci fa un piccolo margine. A questo punto già c’è la prima biforcazione perché, nel capitalismo tradizionale, una buona fetta di quel profitto lo reinvesti per allargare la tua produzione e fare ancora più profitto; quindi, quando in un anno le aziende hanno registrato tanti profitti, dovresti vedere anche tanti investimenti. E però c’è qualcosa che non torna perché l’anno scorso, ad esempio, le aziende italiane i profitti li hanno fatti eccome, eppure tutta questa ondata di investimenti sinceramente io non l’ho vista (e non solo io).

Prof. Alessandro Volpi: […] perché, ovviamente, i grandi fondi non avrebbero subito grandi difetti, grandi danni da quella riduzione di liquidità, perché ce l’hanno. Quindi, per effetto di questo percorso per cui mettere i soldi nella finanza era vincente, ebbene questo meccanismo ha partorito una progressiva riduzione degli investimenti perché – e i numeri lo dicono con chiarezza anche pensando al nostro Paese – il volume complessivo degli investimenti, a cominciare dagli investimenti lordi fissi – parlando degli investimenti privati – si è significativamente ridotto, quindi perché, quando ci sono i margini favorevoli e ci sono gli utili, si decide di destinarli subito alla remunerazione del capitale, e magari si fanno dei ri-acquisti di titoli azionari, quindi senza nessun effetto sull’andamento reale dell’economia, per far salire il valore di quei titoli. Quindi, praticamente, è come se si comprasse carta su carta, per citare un’espressione sommaria dei grandi economisti.”[…] “Quindi vuol dire, evidentemente, che anche la partecipazione, là dove c’era un capitale pubblico disponibile, dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale – non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale – pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto diversificare, come si dice, il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce certamente.”

Capito eh, i furbacchioni… Ci raccontano che i profitti sono importanti, sennò poi come si fa a investire in innovazione, in ricerca, in marketing e chi più ne ha più ne metta, ma poi – in realtà – quando quei profitti arrivano, invece di reinvestirli li usano per speculare. Però, però, tendenzialmente qui c’è un problemino, perché investire in azioni o in prodotti finanziari – a regola – potrebbe essere abbastanza rischioso: e come faccio, allora, a convincere i miei cari imprenditori ad avventurarsi nel casino delle scommesse finanziarie invece che continuare a investire nel caro vecchio business di famiglia, che tanta fortuna gli ha portato fino ad oggi? Semplice: devo eliminare i rischi. Oddio, semplice… tanto semplice non è, però ecco, l’obiettivo è quello: eliminare i rischi, che – in termini finanziari – si dice anche ridurre la volatilità. E come si fa a ridurre questa benedetta volatilità? Bisogna trovare un modo affinché le bolle speculative non si sgonfino mai; si devono continuare a gonfiare gradualmente, sempre di più. Per farlo, c’è bisogno di una quantità di quattrini sostanzialmente illimitata, una quantità tale che permetta continuamente di iniettare nuovi soldi nelle vecchie bolle. E dove si trovano tutti questi soldi? Semplice: concentrando tutti i soldi che ci sono sempre di più nelle mani di pochi soggetti, che è esattamente quello che è successo.

Logo di BlackRock

Quei soggetti si chiamano asset manager e, in particolare, i tre giganti dell’industria della gestione patrimoniale: Blackrock, Vanguard e State street: la massima concentrazione di ricchezza mai vista nella storia dell’umanità. Con un patrimonio gestito che supera di diverse volte i prodotti interni lordi di interi paesi avanzati, i giganti dell’asset management garantiscono che le bolle continuino a gonfiarsi all’infinito a prescindere da cosa succede all’economia reale, ed ecco allora fatto il giochino: grazie ai monopolisti dei mercati finanziari, i camerieri servizievoli, quando ricevono i profitti delle loro aziende che ancora producono e vendono qualcosa, invece di rischiare reinvestendoli nell’economia reale non devono fare altro che buttarli nelle bolle speculative, sostenute dai monopolisti stessi, e fare soldi dai soldi. Da questo punto di vista non è difficile capire perché a questi camerieri ben remunerati, della sovranità che sarebbe necessaria per far ripartire l’economia non gliene può fregare di meno e sono ben felici di svenderla ai monopolisti della finanza, che soli gli possono garantire delle belle mance cospicue.

Prof. Alessandro Volpi: […] la produttività non cresce, non cresce certamente. Il problema è che l’attrattività e, paradossalmente, la riduzione del rischio che il monopolio finanziario sta generando, produce come effetto inevitabile la contrazione dei processi produttivi; cioè una volta, fino a 10-15 anni fa – ma del resto è, come dire, la crisi del 2008 avrebbe dovuto insegnare qualcosa – in realtà la percezione che si è maturata dopo il 2008 è che la concentrazione vera della ricchezza finanziaria nelle mani di pochissimi – che diventano anche i proprietari di un vastissimo spettro di attività – è lo strumento per ridurre la volatilità dei mercati, perché la volatilità la si affida totalmente alle decisioni di questi gruppi che, alla fine, la regolano come una sorta di rubinetto per comunque provare a garantire rendimenti finanziari a tutte quelle società che sono da loro partecipate. E quindi è ovvio che le imprese cercano di entrare dentro quel sistema di partecipazioni e di investimento, e il sistema produttivo e il modello industriale e manifatturiero di servizi – come noi ce lo immaginavamo in passato – viene meno, perché la differenza di rischio fra affidarsi al sistema finanziario e fare impresa è enorme. E quindi noi avremo sempre meno attività manifatturiera e sempre meno attività di impresa nei paesi dove prevale la struttura di natura finanziarizzata e questo mi sembra che i numeri ormai ce lo dicano con grande evidenza, ma perché è tornata la riduzione del rischio. E non è solo la riduzione del rischio perché, per una certa fase, le banche centrali hanno fornito talmente tanta liquidità che – alla fine – la finanza viaggiava agevolmente perché era facilmente liquida, ma anche e soprattutto perché c’è una regia di un monopolio che è in grado di determinare la volatilità e di farla più o meno oscillare […]”.

L’aspetto geniale di tutto questo meccanismo – più distopico della peggiore distopia hollywoodiana e che permette di guadagnarsi la collaborazione delle élite economiche dei paesi che vengono depredati – è che a fornire ai giganti della gestione patrimoniale una potenza di fuoco sufficiente per portare avanti il loro progetto di dominio globale sono, in buona parte, anche le vittime stesse di questo meccanismo che, alla fine, a volte ringraziano pure; buona parte dei quattrini gestiti da questi asset manager, infatti, sono proprio nostri, della gente comune come noi che campa sempre peggio del suo lavoro.
E’ il frutto delle scelte politiche del partito unico della guerra e degli affari che governa i paesi dell’Occidente collettivo da almeno 30 anni a questa parte, 30 anni durante i quali è stato smantellato sistematicamente lo stato sociale universalista che costituiva la spina dorsale delle democrazie moderne e che ci ha costretto a buttare sempre più quattrini in fondi previdenziali integrativi e assicurazioni mediche di ogni genere. Tutti quattrini che diventano armi di distruzione di massa che le oligarchie usano per devastare scientificamente l’economia reale che ci permette di sopravvivere, dandoci in cambio un contentino perché, se le bolle speculative continuano ad auto-alimentarsi e i quattrini della nostra pensione sono stati investiti in quelle bolle, qualche spicciolo in cambio ci torna pure a noi. Che culo. E’ un po’ lo stesso contentino che ci hanno garantito con le delocalizzazioni e le liberalizzazioni: hanno devastato la nostra qualità della vita a suon di precarietà e stagnazione dei salari, però ci hanno permesso di comprare a due lire un sacco di orrende t-shirt di plastica che prendono fuoco solo a vederle e, addirittura, di far finta di andarci a divertire nel weekend in qualche capitale europea grazie a un viaggio a due lire in un carro bestiame low cost e al soggiorno in qualche aribnb quasi esentasse grazie alla cedolare secca. Grazie, davvero. Non ce n’era bisogno. Stavo bene anche a casina mia col maglione fatto a mano da mia nonna, ma con qualche ora di tempo libero da dedicare alle cose che mi interessano e senza il patema di non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena dall’oggi al domani.

Carlo Bonomi

Ma come in tutte le storie distopiche, al danno – alla fine – si deve aggiungere sempre anche qualche beffa: l’ultima ce l’ha regalata il buon vecchio Carlo Bonomi, patron di Confindustria. Lo spunto gli è arrivato dai dati sull’inflazione della scorsa settimana: 1,8%, sotto il target della BCE. Un dato che ha fatto immediatamente gridare tutta la stampa di regime al miracolo. Una gigantesca presa per il culo: il dato, infatti, si riferisce all’inflazione di ottobre anno su anno, e cioè a quanto sono aumentati nell’ottobre 2023 i prezzi rispetto all’ottobre precedente; peccato, però, che nell’ottobre 2022 – causa la speculazione criminale sui prezzi dell’energia – i prezzi fossero letteralmente esplosi. E’ quello che, in gergo tecnico, viene definito un outlier – un valore anomalo – ma tanto è bastato a Bonomi per lanciare la sua ultima crociata; secondo Bonomi, infatti, di fronte a questi dati sull’inflazione bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno: i salari dei lavoratori italiani sono cresciuti troppo, soprattutto perché – nel frattempo – non è cresciuta la produttività. Ricchi e sfaticati: ecco come Bonomi vede i lavoratori italiani.

Prof. Alessandro Volpi: […] “quindi quel modello ha funzionato, si sono ridotti gli investimenti. Io trovo particolarmente singolare che il presidente di Confindustria dica “va beh, ma allora, visto che siamo in queste condizioni e, quindi, la produttività italiana è bassa, bisogna ridurre i salari” perché – appunto – il buon Bonomi sembra dimenticarsi che la produttività dipende in primo luogo dagli investimenti e dalla qualità degli investimenti; cioè senza che ci sia un investimento reale nel processo produttivo, senza che ci sia uno sforzo di migliorare la qualità del processo produttivo, è difficile che la produttività cresca. Se io destino gli utili che ho accumulato tramite operazioni finanziarie ad altre operazioni finanziarie e riduco il volume degli investimenti, poi non è che mi devo stupire che la produttività non cresca perché, evidentemente, la produttività avrebbe avuto bisogno – in determinati settori in particolare – di una maggiore mole di investimenti privati e una minore attenzione al rendimento finanziario: magari destinare gli utiliqualche anno al 70 – 80% al reinvestimento produttivo. In realtà questo non è avvenuto; è stato finanziarizzato, e la narrazione di Bonomi che veramente, da questo punto di vista, è un personaggio anche abbastanza singolare, è quella di dire “siccome non c’è produttività, i salari sono cresciuti troppo e ora li dobbiamo contrarre ulteriormente, e magari riduciamo ulteriormente il numero degli occupati” a meno che, dice Bonomi, “lo Stato non ci dia dei soldi” lamentandosi del fatto che c’èsolo 8% della legge di bilancio che è destinata agli incentivi alle imprese, senza appunto poi andare a verificare che nel nostro Paese – pur in presenzadelle tranches dei Pnr e quindi di un incentivo pubblico – gli investimenti privati si sono ridotti. Quindi vuol dire, evidentemente, che anche là dove c’era un capitale pubblico disponibile la partecipazione dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale (non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale) pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari, o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto, diversificare – come si dice – il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce”.

Ci pisciano addosso e i media mainstream all’unisono ci dicono che piove.
Mi sa che abbiamo bisogno di un media tutto nostro che, invece che alle barzellette di questi svendipatria, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Bonomi

L’Italia è fallita? La resa dei conti finale dopo 30 anni di devastazione dell’economia italiana

Bentornato 2011

Vi ricordate? L’anno della crisi del debito sovrano. Trending topic su ogni genere di piattaforma e nei titoli di ogni media possibile immaginabile un solo termine: SPREAD.

l’Italia era sull’orlo del baratro al punto che la trojka ha architettato un vero e proprio colpo di stato, e noi gli abbiamo pure detto bravi.

A 12 anni di distanza, spiace dirlo, abbiamo la prova provata: non solo non è servito, ma non ha fatto che aggravare la situazione; ora siamo di nuovo di fronte allo stesso identico baratro, solo che a questo giro è ancora più profondo e le vie di fuga sono enormemente più ristrette, troppo per permettere a questo governo di cialtroni e svendipatria di riuscire a percorrerle, tant’è, che manco ci provano. Preferiscono rifugiarsi nella più cringe delle propagande: “governo-gufi 4 a 0” titolava martedì entusiasta il Giornale, elencando 4 goal totalmente immaginari.

Il primo il governo l’avrebbe segnato riuscendo a vendere ai risparmiatori italiani il Btp Valore, per la bellezza di – sottolineano enfaticamente – 4,6 miliardi. Evidentemente, hanno qualche problemino con i numeri e con le virgole: quei 4,6 miliardi al debito italiano, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie. Niente. Zero. Nemmeno un friccicorino. A breve di miliardi, infatti, ce ne serviranno pochi meno di 150, e per piazzarli ci dovremo letteralmente disssanguare.

Il secondo goal il governo l’avrebbe segnato grazie allo spread, che invece della cifra astronomica di 500 punti abbondanti raggiunta nel 2011, ora sarebbe sotto quota 200.

Che culo eh? Peccato che non significhi assolutamente niente.

Prof. Alessandro Volpi: “Ma io […] la smetterei di parlare di spread, perché lo spread è un indicatore che ha un senso nella misura in cui i titoli tedeschi, che sono i titoli di riferimento, paga rendimenti bassi. In questo momento la Germania sta pagando rendimenti che sono significativamente alti, vicini al 3%. Quindi è chiaro che se la Germania invece che pagare lo zero o poco più come accadeva nel 2011, paga il 3%, lo spread rimane a 200. […] Quello che conta non è il differenziale con la Germania, è quanto paghiamo ad oggi. […] Cioè noi stiamo pagando il decennale sopra il 5%. […] Alla fine tutta questa roba qui vuol dire che il conto interessi dello Stato italiano è passato dai 57 miliardi del 2020 a una stima che dice che nel 2025 saranno 132 miliardi ed è molto probabile che sia una stima per difetto.”

Non so se è chiaro: la propaganda filogovernativa stappa lo champagne, mentre nei prossimi 2 anni dobbiamo trovare 80 miliardi l’anno in più solo per pagare gli interessi sul debito.

80 miliardi sono 5,6 manovre finanziarie e 4 volte i 20 miliardi che il governo si appresta già quest’anno a recuperare privatizzando i gioielli di famiglia. Ogni anno,forever and ever. Non volevamo fare la fine della Grecia e ci hanno accontentati: sarà molto, ma molto peggio.

l’Italia è nel bel mezzo di una nuova gigantesca crisi del debito; non forse, chissà, magari, nel futuro. No, no, proprio adesso. Qui. Ora.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] C’è una regoletta del debito che è molto semplice, che consiste in questo, cioè: quando i rendimenti dei titoli a breve termine è vicino al rendimento dei titoli a lungo termine, vuol dire che quello che, un po’ pomposamente si chiama mercato e che io chiamerei il luogo delle speculazioni, è sostanzialmente convinto che per quel Paese ci sia delle serissime difficoltà nel corso dei prossimi mesi. Cosa sta succedendo in Italia in questo momento? […] i buoni del Tesoro emessi a sei mesi pagano il 4%, i Btp pagano il cinque, quindi vuol dire che chi presta i soldi allo Stato italiano e sa che lo Stato ieri restituirà fra sei mesi, chiede il quattro e passa per cento. Chi glielo presta per dieci anni, il cinque. Ora questo è un differenziale assolutamente anomalo, perché se io presto i soldi a dieci anni è chiaro che chiedo maggiori garanzie perché vincolo quel titolo per dieci anni. Quindi normalmente il differenziale fra il breve e il lungo termine è molto ampio. Ora questo fenomeno si sta riducendo. Nel 2011, nel famigerato novembre 2011, i tassi a breve superarono i tassi a lungo termine. Questo vuol dire che in quel momento c’era chi scommetteva su una crisi dello Stato italiano e chi era che scommetteva che lo Stato italiano? Tutti quelli che possedevano le scommesse sul debito, i famosi credit default swap che sono ripartiti nonostante la normativa europea, dice che non è possibile che si rimettano scommesse titoli derivati su titoli di Stato senza possederli… Ecco, nonostante tutto questo, […] è ripartita anche la scommessa contro il debito italiano. […] È nell’aria una grande e sempre più marcata aggressione nei confronti del debito italiano. In primis, io direi dai grandi fondi che intervengono in questo tipo di mercato.

Chi si sveglia oggi, o è completamente suonato, o è in malafede.

Il punto, come abbiamo ripetuto ormai milioni di volte, è che le cause che hanno portato alla crisi finanziaria globale del 2008, e poi a quella dei debiti sovrani del 2011, non solo non sono state minimamente risolte, ma sono state enormemente aggravate.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Noi abbiamo affrontato anche la crisi del 2011, come se fosse una deroga alla normalità. […] La stessa Whatever it takes (pronunciata da Mario Draghi, ndr) aveva la implicita affermazione secondo cui era una situazione di emergenza. Si affrontava una situazione di emergenza con una deroga, si produceva l’acquisto del debito perché quella era una situazione particolarmente critica, eccetera eccetera eccetera. […] Poi c’è stato il covid che ha prorogato la deroga e ora siamo arrivati alla fine della deroga. […] Ora le cose più o meno sono tornate come erano, ritorniamo alle vecchie regole: è lì errore cioè fino a che noi non capiamo che non è una questione di deroga.”

Durante questa deroga, molto banalmente, la Banca Centrale Europea è tornata a fare quello che le banche centrali hanno sempre fatto fino a quando l’obiettivo del capitalismo era la crescita economica, e non la sua distruzione sistematica: il prestatore di ultima istanza, che in soldoni significa che a comprare il debito, e a stabilire quanto si deve pagare di interessi, non sono i mercati, che non esistono, ma lei.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Nella storia il prestatore di ultima istanza esiste dalla nascita della Banca d’Inghilterra alla fine del Seicento, e fattelo dire da uno che queste cose ci ha perso tempo a studiare. È sempre esistito un prestatore di ultima istanza. […] Lo faceva la Banca di Francia al tempo di Napoleone; lo ha fatto la Banca di Francia al tempo del Secondo Impero di Napoleone terzo e Zola lo ha scritto con grande chiarezza; l’ha fatto storicamente la Banca d’Inghilterra; l’ha fatto storicamente la Federal Reserve, che è nata dopo le altre banche. […] Lo ha fatto la Banca d’Italia quando era una società per azioni privata nel 1893; L’ha fatto durante il fascismo con la legge 36, lo ha fatto nel dopoguerra. Ma perché ci dobbiamo inventare una roba che non è mai esistita? Perché noi consideriamo la normalità quello che nella storia non è mai esistito e andiamo in deroga perché riteniamo che la normalità sia quella roba lì per cui la banca centrale non ha senso di essere.”

Oggi infatti la deroga è finita e il debito bisogna tornare a piazzarlo sul mercato, che in concreto, in realtà, significa semplicemente che dobbiamo convincere a comprarlo i fondi speculativi, e per convincerli gli dobbiamo riconoscere interessi che, molto banalmente, non sono sostenibili; oggi più che mai perchè il problema del whatever it takes di Draghi non è soltanto che era solo una deroga, e poi il conto si sarebbe comunque ripresentato, ma – forse ancora più grave – è che durante quella deroga si è fatto di tutto per aggravare il problema. Invece che andare in investimenti nell’economia reale, e quindi permettere all’economia nel suo insieme di tornare a creare ricchezza, quella montagna di quattrini sono andati a gonfiare le bolle speculative, e il debito prima non si è ridotto per qualche anno manco di un centesimo, e poi, col covid, è letteralmente esploso.

Prof. Alessandro Volpi: “Qui il problema del debito è diventato essenziale. D’altra parte noi siamo stati in piedi, come Paese nel corso degli ultimi anni, almeno dal 2020, e abbiamo fatto una spesa pubblica complessivamente intorno ai 100-112 miliardi di euro. Più della metà, quasi il 70%, l’abbiamo finanziata emettendo debito, che però era debito, pagando lo 0,5%, addirittura con la Bce che comprava o prestava i soldi alla Banca d’Italia, che comprava i titoli di Stato italiano e su quei titoli riceveva un interesse che girava al Tesoro italiano. Ecco, questa partita è finita. Questa partita è completamente esaurita. […] Cioè qui non non esiste modo per finanziare perché ormai la spesa pubblica è strutturalmente finanziata a debito. […] Quando gli interessi non costavano cinquanta miliardi, tu potevi fare la spesa pubblica. Se la spesa da cinquanta arriva a centocinquanta, cosa che non è impossibile perché non c’è più una banca centrale che compra i titoli e fa anche un’azione di calmiere. […] Perché è chiaro che se io so che una parte di titoli se li compra la Bce alla fine è solo che il tasso lo fa la Bce. Il whatever it takes di Draghi, in quel momento era servito anche a frenare i meccanismi speculativi, perché le scommesse sul debito ci sono. E se si sa che a un certo punto la Bce inonda il mercato di liquidità alla fine, qualche speculatore rischia di rimanere scottato. Tutta questa roba qui non c’è più. Gli speculatori giocano a senso unico, la Bce, questa fenomenale Madame Lagarde ha detto e continua a dire “noi finché non arriva il 2% terremo i tassi alti”. Non compriamo più niente. Ma come la sostituiamo questa roba qui? Che io voglio capire come la sostituiamo. […] Perché la Bce ha detto chiaramente noi non compriamo più niente fino a che l’inflazione arriva al 2%, che è una roba veramente lunare, lunare.”

Ad aggravare la situazione, 10 anni dopo la crisi del debito sovrano del 2011, è che ormai nella corsia del pronto soccorso delle economie in stato comatoso non ci sono più soltanto i paesi più deboli della periferia europea, ma letteralmente tutto il nord globale, alla disperata ricerca di capitali per tenere in piedi un debito pubblico che nel frattempo è letteralmente esploso, scatenando una guerra al rialzo dei tassi della quale non si vede la fine.

Come abbiamo già detto, i titoli tedeschi, che nel 2011 fruttavano lo 0,2% di interessi, ora si avvicinano alla soglia del 3; ma la situazione è ancora più estrema oltreoceano, a Washington, dove il rendimento dei titoli di stato si sta avvicinando al 5%.

Non so se è chiaro: i titoli in assoluto più liquidi e sicuri sul mercato globale, pagano oggi il 5% di interessi.

Prof. Alessandro Volpi: “E questo vuol dire che in giro per il mondo c’è un competitor fortissimo che sono gli Stati Uniti. I quali appunto emettono debito a tassi di interesse così alti che sono il target con cui fare riferimento. In questo ricorda molto la politica di Paul Volcker e del primo Reagan, cioè quando Reagan arriva porta i tassi della Federal Reserve, attraverso Paul Volcker, da cinque, sei per cento al 14%. E il nostro debito si è scassato lì […]. Non è che il debito pubblico italiano è cresciuto perché abbiamo fatto la riforma delle pensioni, perché abbiamo fatto una riforma sanitaria… è cresciuto perché a un certo punto abbiamo dovuto pagare interessi altissimi per fare concorrenza al debito degli Stati Uniti e non ce l’abbiamo più fatta. […] Ma ancora nel ’90 il debito italiano era il 70% del Pil. È esploso per effetto non delle politiche Craxiane e tutta sta roba, ma perché per ogni titolo di Stato emesso si pagava il 14%. Cioè 1994 c’erano i buoni del Tesoro [così come] nel ’93 e nel ’92, pagavano undici, dodici perché c’era la concorrenza internazionale, non c’era la banca centrale.”

Perchè il punto, ovviamente, è che questi rendimenti faranno sì che tutti i soldi che ci sono in circolazione eviteranno come la peste di impelagarsi in mezzo a tutti i rischi che comportano gli investimenti nell’economia reale. Chi te lo fa fare di produrre qualcosa se semplicemente comprando titoli del tesoro hai un rendimento di oltre il 5%?

Questo significa una cosa sola, semplicissima: recessione. E con l’economia che entra in una lunga e dolorosa recessione, da dove li tiri fuori i 120/130 miliardi l’anno che ti servono per pagare gli interessi sul debito?

La risposta purtroppo la conoscete fin troppo bene: privatizzazioni, che a noi che siamo un po’ complottisti, più che l’unica soluzione possibile, sembra molto sinceramente la vera ragione ultima che ha determinato queste scellerate scelte di politica economica.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] In questo momento la politica della Bce è una politica irresponsabile . […] Una politica che ha come fine evidente la privatizzazione. […] È partita una concorrenza internazionale sui titoli del debito che provocherà un aumento dei tassi di interesse che vorrà dire per gli Stati più deboli: privatizzare obbligatoriamente. Perché quando la seconda voce di spesa del bilancio sono centocinquanta miliardi di interessi su mille miliardi di spesa pubblica di cui ce ne sono una parte significativa vincolata fra pensioni e cose di questo tipo… ma di cosa stiamo parlando? È evidente che andremo verso la privatizzazione. I fondi costruiranno le pensioni integrative, la sanità integrativa e andiamo avanti così.”

In realtà un’alternativa ci sarebbe anche: far pagare chi in questi anni di devastazione sistematica dell’economia, casualmente, si è arricchito come non mai prima ma il vento politico, sempre casualmente – ci mancherebbe – sembra spirare in una direzione leggermente diversa.

Prof. Alessandro Volpi: “Non so se hai notato, è un inciso, ma l’eredità del vecchio uno dei temi per cui, come dire, gli eredi del Vecchio cercano di pagare l’imposta di successione in Italia e non in Francia è perché in Francia pagherebbero il 70%. […] A differenza di quella percentuale poco distante del dieci che pagherebbero in Italia. Quindi è evidente che noi dobbiamo riformulare il sistema fiscale: riformulare il sistema fiscale in forma equa, progressiva, colpendo le rendite, eliminando questa bega delle cedolari secche che sono gli affitti per coloro che hanno fasce di reddito di un certo tipo, recuperando certamente l’imposizione fiscale sul tema dei dividendi, cioè noi non possiamo continuare ad avere un’imposizione fiscale per cui i profitti sono penalizzati molto di più dei dividendi e quindi tutto si sposta in questo modo sui dividendi. [..] Cioè se noi non teniamo insieme debito e riforma fiscale, una delle due non è sufficiente. […] Se anche mettessimo la patrimoniale più esasperata, pesantissima modello governo Parri del maggio dei 45, non riusciremo ad avere in queste condizioni il gettito sufficiente. Creeremo certamente dei meccanismi di riduzione delle disuguaglianze, creeremo finalmente dei meccanismi di incentivazione a una economia che non è un’economia di finanza e di rapina, però abbiamo bisogno di una banca centrale che ci finanzi il debito, che è una parte essenziale della finanza pubblica. Se non facciamo questo. […] non ce la faremo, quindi ci vuole una riforma fiscale, ma contestualmente ci vuole una politica monetaria, come diresti tu (riferito a Giuliano Marrucci, ndr) di natura sovrana, ma nel senso che sia in grado di rispondere alle esigenze di un’economia che è un’economia produttiva, di una collettività.”

Ed ecco così che si ritorna a bomba. Ormai vi uscirà dalle orecchie, ma noi continueremo a ripeterlo a oltranza fino a quando quello che diciamo non si trasformerà in un progetto politico serio, in grado di mandare definitivamente a casa tutti i portaborse delle oligarchie finanziarie che si sono avvicendati negli ultimi 30 e passa anni: è in corso una guerra totale dell’1% contro il resto del mondo, combattuta a colpi di finanziarizzazione e distruzione degli assi portanti dello stato e della democrazia moderna, una guerra che l’1% combatte ferocemente con tutte le armi a disposizione, a partire dal monopolio totale della cultura e dei mezzi di produzione del consenso.

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